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Rivista
Il piede
e
eBook Bestie
Il piede e l’orma eBook contaminazioni meridiane
Semestrale Anno V, n. 9, gennaio-giugno 2014 e-book n. 3
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SOMMARIO Anno V, n. 9, gennaio-giugno 2014 e-book n. 3 bestie
VELARE/DIS-VELARE Ugo Fracassa - Velare/dis-velare: sulla poesia bilingue di Flaviano Pisanelli 3 ALFABETIERI Renzo Scasseddu - La bestia e la bella 15 Marcello Carlino - Alfabetiere degli animali di arti e lettere. Dalla A alla G, la prima sequenza di tre 34 RESTITUZIONI Alfonso Cardamone - Versi per Enkidu e Asterione 48 BESTIALITÀQUALE Franco Araniti - ´U russettu du dercu (Il sangue del maiale) 53 Severo Lutrario - Parashat di Bereshit – ovvero - Genesi 3 56 Carmen De Stasio - L’indeterminante emozionale dalla ragione alla bestializzazione 61 Monica Caroselli - Dal rospo alla scimmia: appunti sul bestiario landolfiano 89 Amedeo di Sora - Quel rospo di Tristano 99 Loredana Rea - Do not leave me alone, please 104 Francesca Medaglia - Le formiche e l’apparato di produzione della letteratura: il caso di Sveva Casati Modignani 116 BESTIE NARRATE Michela Cardamone - Cuore di vetro 132 Luca Carbonara - Il circo degli uomini 133 Mario Amato - 4 racconti 135 Immagini di Angelo e Enzo d’Onorio Autori Redattori del Fascicolo 141 2
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Velare/Dis-velare
Ugo Fracassa
Velare/dis-velare: sulla poesia bilingue di Flaviano Pisanelli
1 Erranza e dintorni / Errances et alentours (Oxybìa éditions, Vence, 2013) è l’ultima raccolta di Flaviano Pisanelli e raccoglie poesie datate tra il 1998 ed il 2009. Ciò che conviene fare innanzitutto di fronte ad un libro simile è esitare sulle “soglie” (secondo l’insegnamento di Gerard Genette), circuirlo piuttosto che squadernarlo coram populo per irrompere, senza indugio, nel tessuto dei versi che lo compongono. Si provi cioè a seguire l’indicazione che campeggia in copertina, quella che rimanda all’errare (corretto sarebbe affrontare il testo e delibarlo, errore attardarsi nelle sue periferie) e ai dintorni – titoli, dediche, epigrafi, indici (ciò che nell’impoetico linguaggio della critica si suole - o soleva - definire paratesto). L’ambizione, vale la pena di dichiararlo fin da subito, è quella di sedurre il testo col circuirlo, stanarlo, condurlo a sé in una sorta di aggiramento ermeneutico. A proposito di errore, nel 1950 André Pézard dedicava uno studio eruditissimo1 al XV canto dell’Inferno di Dante. Oltre 300 pagine per avvalorare la tesi dell’ “erreur sentimental” di Brunetto Latini, che di quel canto è il protagonista assoluto. In due capitoli centrali dedicati alla questione della lingua, sotto l’aspetto teologico-filosofico e sotto quello dottrinale, sentimentale e pratico, il dantista normalien individuava la colpa mondana del maestro dell’Alighieri, punito tra i sodomiti, nella pratica contro natura della lingua d’oil nel suo Trésor (“la parleure est plus delitable et plus comune a touz languaiges”). Ed è innegabile: un elemento di interesse immediato della raccolta di Flaviano Pisanelli consiste proprio nella pratica del bilinguismo, un bilinguismo creativo che assume connotati caratteristici e 1 A. Pézard, Dante sous la pluie de feu : Enfer, chant 15, Librairie philosophique J. Vrin, Paris, 1950.
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specifici in ambito poetico fino a sovvertire la tradizionale scansione del “testo a fronte” attraverso inversioni, commistioni ed altri stratagemmi. Ciascun componimento è voltato nella seconda lingua, che meglio qui si direbbe “lingua seconda” perché favorisce l’espressione in un andirivieni tra italiano e francese. E infatti, se più numerose sono le pagine con testo a fronte tradotto in francese, se ne danno pure di voltate in italiano (a contarle, con qualche brivido numerologico, sono 7 su 77). Per alcune, però, la versione non si dà poiché il testo nasce commisto delle due lingue e allora compito del traduttore sarà la mera inversione delle strofe nella pagina di destra. Insomma, può ancora essere considerato un “erreur” per lo scrittore, in epoca di globalizzazione e di flussi migratori planetari, la pratica translinguistica, l’abbandono della lingua madre per codici acquisiti accidentalmente nelle traversie di una diaspora intellettuale?2 In ogni caso, al lettore che voglia perseverare nell’errore e masochisticamente si attardi sulla soglia oltre il consentito, un fatto non privo di interesse parrà, nell’indice, la titolazione ambigua di almeno cinque elementi della raccolta; i testi cui si allude non denunciano immediatamente la loro appartenenza linguistica che resta indecidibile per chi si limiti a scorrere l’indice : Alain, Impasse, Montmartre, Via Zamboni, Le Mont Saint Michel, infatti, per varie ragioni – in quanto nomi propri di persona, toponimi, prestiti non integrati - risultano intraducibili e perciò immuni alla deriva bilingue. Morale: la lingua di chi erra è una in molte e nessun nome è straniero alla persona o al luogo che designa. Del resto, la nozione stessa di lingua materna è revocata in dubbio se, nella poesia che alla madre è dedicata, il Salut maternel (questo il titolo della poesia nella traduzione di Pascal Gabellone) compare eccezionalmente in francese nell’originale italiano: “tu reviendras bientôt, n’est-ce pas?”. 2 Per proporre un solo esempio di quanto la simbiosi tra le lingue risulti inestricabile, anche laddove una delle due risulti dormiente o momentaneamente silenziata, è utile recarsi al testo a fronte di pagina 208, in altre parole ad Avignone 2008 (giusta la datazione di Entre deux lunes), laddove Pisanelli insegna in una Università francese dai primi anni Duemila.
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– siamo alle prese con una delle sette composizioni in francese – “Ogni parola si perde: / il mare / i nostri passi nel deserto…”. Troppo spesso il traduttore di poesia deve abdicare alla lettera per riprodurre il suono o viceversa, ma non è questo il caso poiché nell’originale a sinistra leggiamo: “Tout mot s’egare: / la mer…”, ciò che non crea grandi grattacapi a chi deve produrre la versione. Ma il mare, appunto, è parola cruciale nel sistema poetico di Pisanelli e per questa ragione increspa la superficie fonica del verso ad ogni epifania; ne abbiamo un esempio, tra gli altri forse il più perspicuo, nell’anagrammatico ultimo verso di Metamorfosi (“Quando il mare è solo rame!”) per il quale, invece, il traduttore deve annotare a piè di pagina la resa incondizionata: “Il était impossibile de conserver ici l’assonance du texte original mare / rame , qui est également une anagramme. J’ai donc choisi de traduire d’après le sens” (pag. 99). Come mai, allora, “la mer” compariva nel verso precedentemente citato priva di orpelli retorici pur trovandosi esposta in fondo al verso, dove conviene fare rima? Nemmeno nella versione italiana risuona la potenza significante del “mare” anticipato da un dissonante-fuorviante “si perde”. Il fatto è, forse, che l’equorea apparizione produce sì i consueti effetti sonori ma la rima “égare” / “mare” va letta tra francese ed italiano, entre deux pages oltre che entre deux langues, appunto. In virtù di una coerenza testuale, che risulta essere il miglior tonico per il critico impegnato nel fatidico atto dell’interpretare, la poesia dalla quale citiamo, poi, svolge un ruolo particolarissimo nella silloge, rappresenta cioè una chiave di volta, una sorta di manifesto di poetica, didascalico fino ad esiti metalinguistici. Fin dal titolo Entre deux lunes la poesia si incarica di declinare un motivo centrale della raccolta, quella in-betweeness che accomuna la scrittura di Pisanelli a quella di certi poeti migranti in Italia (e non è il solo tratto: il motivo dei piedi, incapaci qui di radicarsi, ne costituisce infatti un topos). Entre-deux si scrive col trattino e la formazione di simili binomi è un tratto troppo palesemente iterato per non essere consapevole in questi versi. Ebbene, nella seconda strofa il poeta si fa carico di chiarire la funzione di queste formazioni doppie svelandoci che “un trait d’union qui sépare” è al tempo stesso “une suspension qui unit”. Si dà un luogo di sosta in questo bilico perenne – “bilico parlabile” annota il poeta (pag.230) – dove arrivi e partenze stanno in un rapporto sinonimico? Difficile pronosticarlo ma certamente, quasi a conclusione dell’opera, siamo investiti da una chiarità meridiana –“ce bain de lumière” dal sapore incontrovertibilmente camusiano – e leggiamo versi tra i più felici della raccolta: “S’enlacer terriblement à cette terre / l’aimer sans raison Il piede e l’orma
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/ irraisonablement l’habiter”. Le Altre rive (D’autres rivages) che fanno da sfondo a queste parole sono quelle di Monastir – e tra il midi e il Maghreb si estende la geografia poetica del nostro. L’utopia mediterranea sembra seguire qui percorsi già tracciati dall’ultimo Pasolini panmeridionalista, impegnato a ricollocare continuamente più a sud il proprio altrove – da Bologna, a Roma, a Napoli, all’Africa, allo Yemen. 3 Ma proprio di fronte a Pasolini, nei versi dedicati de L’Acquedotto Felice, un’analoga sosta dell’errare non aveva prodotto un esito altrettanto pacificante, poiché se è vero che: “Qui tutto rimane come prima / […] / Qui c’è qualcosa di sacro/ […] / Pier Paolo siede accanto e tace”, finalmente il lettore fronteggia il vuoto e assiste allo scacco: “è difficile qui rimanere degni del moderno / con gli occhi fissi all’urna che di Gramsci non ha più le ceneri”. E nel nome di Pasolini pare lecito leggere anche quei versi raggrumati intorno ad un plesso corporale – Corporale fa titolo a pagina 114 – dove ricorrono accanto a seme, sudore e saliva le parole preghiera, vergogna, colpa e desiderio. Ciononostante si intravvede pure, a tratti, il profilo anodino di Penna, in certe situazioni clandestine o deliziosamente furtive (Miracolo - pag. 88 - e Metamorfosi - pag. 98). “Puisque tout mot crée ll’illusion / d’une écoute génereuse”: chiudiamo il breve periplo su questi versi, tratti ancora dalla cruciale Entre deux lunes, perché tocca ai lettori, ormai, rompere gli indugi, aprire il libro e conferire sostanza alle illusioni del poeta. Saluto materno Un ago fitto di nostalgia dentro una vita da dimenticare. Così appari e scompari come l’acqua in un riflusso ultimo secretum. L’assedio del mare è una ricreazione occhi spenti nell’aria fredda del mattino cenci rigonfi di sonno e fatica 6
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a vestire l’ombra sfrangiata in mille e mille fili e movimenti. Un abbraccio e sarebbe ancora dire: una sillaba-pietra un braccio di mare il parlare dialettale erranti intorno al centro il saluto-francobollo come viatico dietro le tende tu reviendras bientôt, n’est-ce pas? e una notte s’aggiunge alla notte del tuo corpo rotto dentro la vestaglia. Entre deux lunes Être entre deux espaces que je pourrais nommer mondes-frontières nations ou langues l’Entre-deux deux lunes inhabitables un trait d’union qui sépare une suspension qui unit : entre deux lunes rattachant la nuit entre deux mondes deux temps sans réponse cherchant la question tardive l’attente inexplicable l’aube où le soleil se couche où toute arrivée n’est qu’un départ solitaire et nu Il piede e l’orma
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un billet sans valeur le son fossile d’un hautbois une source entre deux rivières écoute-moi (et surtout ne parle pas) rien ne nous habite ces deux lunes non plus ces voix monotones penchées à la fenêtre de nos espaces-temps. Écoute-moi (et surtout ne parle pas) puisque tout mot crée l’illusion d’une écoute généreuse. Tout mot s’égare : la mer non pas dans le désert le bavardage qui pèse sur le pavé d’un café se condensant autour de la lune telle une auréole épaisse et grasse entre deux jours entre deux nuits deux rêves. Ne m’écoute plus parle parle parle de ce corps entre deux lunes de cette lune qui glisse sur l’orée de mes paroles. Metamorfosi Nel fumo si distende a serpente il respiro. 8
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Quando il verbo assottiglia la parola! Il desiderio resta stretto in una mano chiusa a trattenere il seme. Tesse Penelope il suo velo di macchie istoriate e di non-passione. Quando il mare è solo rame! D’autres rivages De ce côté de la Méditerranée le temps s’écoule au rythme de percussions lentes et je retrouve lentement mon souffle et le sourire ancien. S’enlacer terriblement à cette terre l’aimer sans raison irraisonnablement l’habiter. ça va aujourd’hui ? entre un passage et une attente respirer la soie-fumée se répandant dans les poumons comme l’aile de l’hyrondelle effleurant l’écume de l’eau oui, oui, ça va, merci ! dans ce bain de lumière tragiquement intense vivre l’essentiel (le hasard) sur la ligne poreuse de la frontière. Il piede e l’orma
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L’Acquedotto Felice a Pier Paolo Pasolini Seguivo come un cane la Passione. Al passo nel vento sotto cieli plumbei e pesanti di memoria. Il treno rilascia un sibilo e trasporta il polverone d’un gregge mai stanco e il fischio gagliardo del pastore malandrino. Due tempi s’accomunano sulle trame del vento. Di lì la cupola e le (r)-assicurazioni di qui i ruderi-impostori. Il volo basso del corvo sapiente è ancora testimone di corpi e linguaggi. Qui tutto rimane come prima tutto resiste e torna al corpo massacrato. Distese vaghe secoli e secoli di tronchi e chiome di pino la preghiera di un ferro arrugginito che batte sulle foglie odorose di fico. Qui c’è qualcosa che sa di sacro: ogni miseria ha il suo nome e la sua composizione come ogni gloria. Pier Paolo siede accanto e tace lo sguardo vòlto ai ruderi sconci e sensuali. Torna prepotente un sipario di corpi e voci dialettali come ombre. 10
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È difficile qui rimanere degni del moderno con gli occhi fissi all’urna che di Gramsci non ha più le ceneri. Corporale Un uncinetto di silenzio trattiene il corpo-tempio sudario di memorie e di domani. La pelle sfrangia e aggrotta il mito di una nascita acerba della pronuncia. In questo non vedere a barlume mi ravvedo il sudore come una preghiera. Miracolo Sembrava che ci fosse molto da dire cosa dobbiamo fare - diceva solo ciò che abbiamo fatto - rispondevo mentre l’orgasmo affilava lo sguardo fiero della notte. [Flaviano Pisanelli (Roma, 1973) insegna lingua e letteratura italiana all’Università Paul Valéry - Montpellier 3. Poeta e traduttore, vive in Francia da 15 anni. Ha pubblicato le raccolte: A peso d’aria (Gazebo, Firenze, 2000), Perla e argilla (Gazebo, Firenze, 2006). Alcuni suoi componimenti sono stati pubblicati in riviste.] Il piede e l’orma
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Alfabetieri
ARPIE Arpie, in greco significa “quelle che rapiscono, che saccheggiano”. In principio furono divinità del vento, come i Maruts dei Veda, che brandiscono armi d’oro (i raggi) e che mungono le nuvole. (da J. L. Borges, Zoologia fantastica, XX sec.)
CENTAURI Plinio dice di aver visto un ippocentauro, conservato nel miele, spedito a Roma dall’Egitto. [….] Nel V libro del suo poema, Lucrezio afferma l’impossibilità del centauro: poiché –la specie equina giungendo a maturità prima dell’umanità- il centauro, a tre anni, sarebbe un fantolino balbettante e un cavallo adulto; questo cavallo morirebbe cinquant’anni prima dell’uomo. (da J. L. Borges, cit.)
CERBERO Se l’inferno è una casa, la casa di Ade, è naturale che un cane vi stia di guardia; anche è naturale, questo cane, immaginarselo atroce. La Teogonia di Esiodo gli attribuisce cinquanta teste; per maggiore comodità delle arti plastiche questo numero è stato ridotto, e le tre teste di Cerbero sono di dominio pubblico. (da J. L. Borges, cit.)
CHIMERA Era troppo eterogenea; il leone, la capra e il serpente (in certi testi il drago) sopportavano male di trovarsi riuniti in una sola bestia. Col tempo, la Chimera tende a diventare “il chimerico”. [….} L’incoerente forma scompare e la parola resta, per significare l’impossibile. Idea falsa, vana immaginazione, è la definizione di chimera che dà oggi il dizionario (da J. L. Borges, cit.)
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Alfabetieri
GIGANTI Adirata per la sorte subita dai Titani, Gea partorisce a Urano i Giganti; insuperabili per statura, invincibili per la forza, erano, a vedersi, spaventosi, coperti da un fitto pelame che scendeva dalla testa e dalle guance, con gli arti inferiori rivestiti da squame di serpenti. (da Apollodoro, Biblioteca, I-II sec.)
HIDRA DI LERNA Questo serpente sembrava destinato all’eternità. Il suo covo era nei pantani di Lerna. Ercole e Iolao la cercarono; il primo le tagliò le teste, mentre l’altro andava bruciando con una torcia le ferite sanguinanti. L’ultima testa, che era immortale, Ercole la sotterrò sotto una gran pietra; e dove la sotterrarono starà ancora adesso, odiando e sognando. (da J. L. Borges, cit.)
SFINGE Etiopi e Indiani posseggono uccelli estremamente variopnti e indescrivibili e, più famosa di tutti, la fenice d’Arabia (non so se si tratti di una leggenda), un solo esemplare in tutto il mondo e visto non molto spesso. Si narra che abbia le dimensioni di un’aquila, con un bagliore d’oro intorno al collo, di porpora nel resto del corpo, con penne rosa che spiccano sulla coda azzurra, la gola ornata di creste ed un ciuffo di piume sulla testa. (da Plinio, Naturalis Historia, I sec.)
SIRENE … ci sono nel mare degli animali detti sirene, che simili a muse cantano armoniosamente con le loro voci e i naviganti che passano di là quando odono il loro canto si gettano nel mare e periscono. Per metà del loro corpo, fino all’ombelico, hanno forma umana, per la restante metà, d’oca. (da Plinio, cit.)
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Alfabetieri
TIFONE Quando gli dèi ebbero vinto i Giganti, Gea, ancora più adirata, si unisce al Tartaro e, in Cilicia, partorisce Tifone che aveva natura mista, di uomo e di bestia. Per la statura e la forza, Tifone era superiore a tutti i figli di Gea; fino alle cosce la sua forma era di uomo, ma di tale altezza da superare tutte le montagne; con la testa sfiorava spesso le stelle; se stendeva le braccia. Con uno toccava l’Occidente, con l’altro l’Oriente; dalle braccia stesse emergevano le teste di cento serpenti, dalle cosce si dipartivano le spire di vipere enormi che si estendevano fino alla testa, emettendo sibili acuti. Aveva ali su tutto il corpo, dei capelli sudici ondeggiavano sulla testa e sulle guance, gli occhi lanciavano fiamme. Così spaventoso e così enorme era Tifone quando sferrò il suo attacco contro lo stesso cielo gridando e sibilando e scagliando pietre incandescenti; dalla bocca esalava grandi vampe di fuoco. (da Apollodoro, cit.)
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Renzo Scasseddu
La bestia e la bella
La figura retorica che più mi intriga è l’ossimòro (ὀξύιμωρον, oxymōrum), quella che accosta termini antitetici: alla lettera acutottuso, classicamente e scolasticamente significato dall’esempio ricorrente lente festina (lentamente affréttati). Tale “contraddizione in termini” rende più efficace, incisiva, icasitca l’espressione poetica ma anche quella in prosa. Siccome faccio il parolaio, mi diverto con qualche esempio, in stretto ordine alfabetico, pur se il ‘conio’ risulta variabile: accostamento, unione, crasi di due termini; oppure singoli. Un gioco… e chi più ne ha più ne metta. Agrodolce, Altus, a, um = profondo, Athlon = fatica/premio, Bianconero/a, Chiaroscuro/a, Demone, Dolceamaro/a, Famoso/a, Farmaco, Fermobile, Formidabile, Fortènero, Ghiaccio bollente, Lucifero, Magrasso/a, Merito (timè = merito/punizione, Morbido/a (Morbo), Morbiduro/a, Prezzo, Sapone, Stortritto/a, Velento/a… Tutto ciò per introdurre l’argomento specifico, proposto per il n. 9 della nostra Rivista Il piede e l’orma, un sintagma, molto significativo, che mi spinge a citare, come sempre, per quanto possibile, le fonti, le orme, appunto, dal titolo BESTIE. E allora sono andato a fare una passeggiata nel mio territorio preferito, il mito greco, classico, comunque, alla ricerca di alcune tra le «bestie» più famose ma con l’intento – non sempre logico, facile, lo so, ma almeno plausibile e ‘simpatico’ – di… redimerle. Bestie, in quanto tali nel comune sentire – che è negativo –, emarginate, reiette, combattute, uccise… simbolo del male, in genere. Mostri, ben sì… ma, tanto per cominciare (e provocare): monstrum, in latino vuol dire «prodigio», cosa meravigliosa… Entriamo così in un territorio positivo, abbandonando quello negativo. Ancora, il termine animale, che ‘razzola’ quasi sempre in spazi brutti, in ambiti cattivi… viene da anima, e questa è sinonimo di spirito (da ἄνεμος, ànemos = vento, soffio vitale), come dire la ‘parte nobile’ dell’uomo, quelIl piede e l’orma
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la che filosofi e teologi, in genere, contrappongono al corpo, e che io, laico (ed anche “loico”), considero invece, ‘complementare’, ‘convivente’… E dove mettiamo ‘demone’ che da socratica “coscienza interiore”, da… angelo custode è diventato demonio? Insomma, l’han tramutato in bestia e ha fatto la stessa fine di Lucifero! A non dire poi del servizio da loro (le bestie, dico) reso alla Letteratura, all’Arte, alla Filosofia, Teologia, Psicanalisi etc. etc., dall’Antichità ad oggi. Un servizio reso addirittura a Zeus, la figura più alta della mitologia classica (l’ambito qui trattato): quante volte, diciamo per i suoi divini disegni ma diciamo pure per capriccio, per… delirio di potere, si è trasformato in bestia: in toro e aquila per sedurre Europa, in cigno con Leda, e con Alcmena, cornificando Anfitrione, non si è certo comportato da gentleman, quella bella-bestia d’uno Zeus! Insomma, la bestia diventa bella. Eccole, allora, le Belle e le Bestie (se si vuol continuare, le Bestielle/ Bellestie), in semplice ordine alfabetico, senza particolari ‘gerarchie’: ANTEO Un nome parlante («avverso», «ostile»): era il gigante libico, violento, che assaliva i viandanti. Eracle, a margine delle sue Fatiche, lo affrontò ma ogni volta che lo atterrava, il gigante riprendeva forze maggiori, sicché l’eroe per averne definitiva ragione lo soffocò tenendolo sollevato in aria. In effetti, Anteo essendo figlio della Terra, proprio da questa, toccandola, riprendeva vigore. Figlio di Gea (εὐρύστερνος, eurysternos «dall’ampio seno») e Posidone, dea della Terra e dio del Mare quindi, da cui proviene la Vita per tutti gli esseri viventi, animali e vegetali: eccolo, allora, l’aspetto positivo della ‘bestiumana’ Anteo: la madre e il padre! ARPIE Nell’Odissea (XX, 77 ss.), Omero le accosta alle Erinni; secondo Esiodo (Theogonia, 265 ss.) son figlie di Thaumante e della Oceanina Elettra, ne nomina due, Aello e Ocìpete (nomi parlanti = Turbine e Veloce/ala: infatti « andavano veloci come raffiche di vento e come gli uccelli dalle ali veloci») ed avevano «belle chiome» (ἠυκόμους); Apollonio Rodio (Argonautiche II, 188 ss, 223 ss., insistendo sulla loro rapacità e voracità col verbo ἁρπάζω (harpazo), tale e quale al lat. rapio). ne sottolinea l’aspetto scatologico. Note bestiali insieme ad altre, belle… Questo è Virgilio, (Eneide, III, 214-218, dove aggiunge Celeno, ad in16
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sozzar le mense degli sventurati Troiani, peregrinanti alle isole Strofadi). tristius haud illis monstrum, nec saevior ulla pestis et ira deum Stygiis sese extulit undis. virginei volucrum vultus, foedissima ventris proluvies uncaeque manus et pallida semper ora fame.
Non mostro più tristo di quelle, né alcuna più crudele peste e l’ira degli dei sprigionò dalle Stigie onde. Virginei volti di volatili, schifosissimo di ventre profluvio, adunche mani e pallide sempre le facce per la fame
Ecco l’ossimòro (efficacemente enfatizzato da una bella allitterazione): la parte anteriore, petto e volto, di fanciulla, quella posterinferiore mostruosa: la bella e la bestia in un unico corpo. CACO Un mostro il cui nome già dice, grecamente, della sua bruttezza, è variamente descritto, ad esempio, dal corpo scimmiesco, tricefalo e, in particolare, sputafuoco. (Virgilio, Eneide, VIII, 194, 198 s.) Del semiuomo Caco la faccia funesta… semihominis Caci facies … dira… huic monstro Volcanus erat pater: Di questo mostro il padre era Vulcano: di quello atri illius atros dalla bocca vomitando fuochi con ore vomens ignis magna grande mole si moveva se mole ferebat.
Si narra della sua pericolosità per i furti di bestiame, nella zona dell’Aventino a Roma, diventato poi un famoso… abigeatario per una sua vittima importante di passaggio da quelle parti proveniente dalla penisola iberica e diretto in Grecia a Tirinto: Ercole. L’eroe conduceva la grossa mandria rapita a Gerìone (infra)… reo di abigeato, lui pure, quindi, e Caco non voleva rivali in questo agone e cercò di ‘fregarlo’, tirando per la coda nella propria grotta i capi rubati, in modo da confonderne le tracce. Purtroppo per lui, ebbe di fronte niente meno che il più amato e il più forte mortale dei figli di Zeus, il quale, avvertito da un muggito di richiamo, uscito da quella grotta, vi entrò e, nonostante fuoco e fumo, lo soffocò, neutralizIl piede e l’orma
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zando così l’unica ma terribile arma che quel mostro aveva nelle proprie ‘vulcaniche’ fauci. Caco, nome brutto, bestia brutta, fuor di dubbio; l’unica cosa appena ‘bella’ è forse quella di aver sfidato, alla pari, sul campo… boario, e a… viso aperto, l’Atleta più forte e più famoso di ogni tempo e spazio! CAVALLE di DIOMEDE Questo gigante, re della Tracia, sulle sponde dell’attuale Mar Nero (da non confondersi con l’omerico e dantesco Diomede, sempre in coppia con Odìsseo/Ulisse) possedeva quattro splendide giumente, tanto belle quanto bestie: divoravano carne umana; e quando il re non aveva, nei periodi di pace, soldati morti in guerra da offrirgli, organizzava banchetti alla fine dei quali uccideva i convitati per darli in pasto alle bestie feroci. Troppo immediata, qui, la considerazione se la bestia fosse Diomede o le sue belle cavalle: Nella sua ottava Fatica, Eracle, affatto inconsapevole della loro bestiale pericolosità, dopo averle catturate, le affidò al suo amato Abdèro, che fu ferocemente divorato da quelle belle bestie; sicché l’eroe, per vendicarlo, diede in pasto alle sue stesse cavalle quella bestia di Diomede. Per inciso, mi piace ricordare che in quella circostanza Eracle, in onore del suo amasio, fondò Abdèra, patria di bella gente, tra cui Protagora, il filosofo dell’Uomo-misura-della-realtà, nato, ahinoi, molto dopo… quel re-bestia, cui non piaceva la pace né, tanto meno, l’Uomo). CENTAURI Esseri emblematicamente oximorici, amphibologici, nella loro struttura metà umana e metà equina, con una natura bestiale, violenta, selvaggia, rozza e brutale, caratterizzata, tra l’altro, dal lancio di urla terrificanti…. non tutti, però. Infatti in tali bestie si possono ritrovare, iperbolici, pregi e difetti della razza umana, dalla saggezza alla crudeltà: malvagi, scellerati, facili all’ubriachezza, come ad esempio durante le nozze di Piritoo e Ippodamia (significativamente, «domatrice di cavalli»), dove, infrangendo le regole dell’ospitalità,seguendo l’empio gesto del compagno Euritione, tentano di rapire la sposa, e di molestare le donne e i fanciulli dei Lapiti, scatenando una violenta rissa degenerata poi in una guerra vera e propria (la Centauromachia, ‘raccontata’, in particolare, dal celeberrimo scultore Ateniese Fidia e dai suoi collaboratori nelle metope del Partenone ad Atene e del Tempio di Zeus ad Olimpia, quasi come simbolo della lotta fra civiltà e barbarie – Greci e Persiani. Ancora, Nesso, il quale, per vendicar18
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si di Eracle che lo aveva colpito a morte nel tentativo nefasto di violarne la sposa, aveva convinto, ingannandola, Deianìra a raccogliere il sangue della sua ferita mortale e conservarlo come magico filtro d’amore, che la donna usò intingendone quella tunica (detta, sinteticamente ed erroneamente “tunica di Nesso”) che invece straziò il formidabile corpo dell’eroe. Penso però, viceversa, anche a centauri espressione di sapienza e di virtù, quali Pholos, amico dello stesso Eracle (considerato, per le sue Fatiche, benefattore dell’Umanità), e Chirone, amico di Apollo (dio della Medicina) e dei Dioscùri, nonché (e gioco col nome: chirurgo, manone…), prodigo di consigli e ammaestramenti, esperto, in particolare, di Medicina, tanto da avere tra i suoi allievi gente come Giàsone, nome parlante per “curatore”, “guaritore”, “medico” (Iason < iaomai, iatròs), Achille… Dante, nel suo magistrale e significativo uso del “contrappasso”, colloca i centauri nell’inferno (Inf. XII) proprio come custodi-giustizieri dei violenti contro il prossimo. Bestie ‘comode’ anche a Machiavelli, per il suo famoso modello di Principe (umano e ferino nel suo misto politico di «golpe et lione»). CERBERO Nella mitologia classica risulta esser figlio di Tifone e di Echidna, ‘fratello’ della Chimera, dell’Idra di Lerna, di Ortro (il cane di Gerìone, infra), del Leone nemèo, un mostro guardiano dell’ingresso dell’Ade, il mondo degli Inferi, col compito di impedire ai vivi di entrare ed ai morti di uscire: un terrificante cane, mastino gigantesco, voracissimo e sanguinario a tre teste. Tutto il suo corpo, poi, è ricoperto di velenosissimi serpenti, che ad ogni suo latrato si rizzano, facendo sibilare le orrende lingue, inoltre emette dalle fauci latrati che scoppiano come tuoni. Nell’antichità Cerbero equivale a «nudo suolo» (o «lupo degli dei») poiché tutto quel che vi finisce viene ineludibilmente assorbito, divorato. Ad ammansirlo e a domarlo riescono soltanto in due: Òrfeo (quando scende nell’Ade nel tentativo, vano, ahilui, di riportare in vita l’amata Eurìdice) con la magia della musica e, con la sua forza sovrumana, Eracle. Nell’ultima e più dura delle sue Dodici Fatiche, l’eroe, figlio di Zeus, è costretto a combattere e sconfiggere il feroce cane senza ucciderlo, per portarlo a Micene da Eurìsteo, vivo e dimostrargli di averlo vinto in combattimento, che era stato lungo e violento per tutto il tragitto, e da solo, senza aiuto, per volontà di Ade, il dio degli Inferi. Eccone, icasticamente, alcune descrizioni: Il piede e l’orma
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Cerberus haec ingens latratu regna trifauci personat adverso recubans immanis in antro. cui uates horrere videns iam colla colubris melle soporatam et medicatis frugibus offam obicit. Ille fame rabida tria guttura pandens corripit obiectam, atque immania terga resolvit fusus humi totoque ingens extenditur antro. Virgilio, Eneide VI, 517 ss.
L’enorme Cerbero questi regni con latrato trifauce risuona giacendo immane davanti all’antro. Cui la sibilla, vedendo ormai i colli orridi di serpenti di miele una soporosa focaccia e di erbe drogate gli getta. Quello di fame rabbiosa le tre gole spalancando afferra il bolo e le immani terga spande sdraiato per terra e immenso si stende in tutto l’antro.
Nella fiaba di Amore e Psiche contenuta nelle Metamorfosi (o L’Asino d’oro), VI, 19, 8, di Apuleio, Psiche è costretta a compiere un viaggio agli inferi e deve affrontare, all’entrata e all’uscita, Cerbero, che nel testo non è nominato ma è così descritto: Canis namque praegrandis teriugo et satis amplo capite praeditus immanis et formidabilis tonantibus oblatrans faucibus mortuos, quibus iam nil mali potest facere, frustra territando ante ipsum limen et atra atria Proserpinae semper excubans servat vacuam Ditis domum.
E infatti un cane stragrande, di triplice testa piuttosto grossa dotato, immane e formidabile, che con tonanti fauci latrando contro i morti, cui ormai nessun male può fare, invano terrorizzandoli, davanti alla soglia stessa e agli atri atrii di Proserpina, sempre sdraiato custodisce la vuota dimora di Dite.
Tale bestia non poteva mancare nell’Inferno dantesco (terzo cerchio), dove son condannati i peccatori di gola: una ‘animazione’ a tutto tondo di straordinaria, mirabile efficacia, come tutto in Dante. (Divina Commedia, Inf. VI, 7 ss.) Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra sovra la gente che quivi è sommersa. Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e ‘l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spirti ed iscoia ed isquatra. 20
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… Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, le bocche aperse e mostrocci le sanne; non avea membro che tenesse fermo. E ‘l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gittò dentro a le bramose canne. Qual è quel cane ch’abbaiando agogna, e si racqueta poi che ‘l pasto morde, ché solo a divorarlo intende e pugna, cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che ‘ntrona l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.
Nella rappresentazione poetica la figura di questo mostro mitologico non può prescindere dall’ideologia di quel pianeta fantastico tipicamente medievale, in cui sono non solo intuibili ma risultano ben conclamati molteplici significati simbolici, interpretazioni allegoriche, messaggi teologici, politici… Il nome di tale bestia, ormai nell’uso comune indica, per antonomasia, un guardiano ‘arciarcigno’ e molto molto difficile da superare. Purtroppo, per il nostro percorso, Cerbero permane bestia: risulta irredimibile! Proviamo allora, tra poco, con una bestia della sua famiglia: Chimera. CERVA CERINEA Prima di Chimera, per l’ordine alfabetico… e poi, sì, questa ‘cervinèa’ è decisamente una bestia bella: corna d’oro, zoccoli d’argento e di bronzo. Insomma, una cerva ‘olimpica’, velocissima nella corsa, mai ferma, instancabile, tanto da far perdere le tracce della via del ritorno a chi, incantato dalla sua bellezza la inseguiva da una regione all’altra. Lo stesso Eracle, nella sua quinta Fatica, dopo un anno di duro e vano inseguimento, fu costretto a ferirla per poterla raggiungere e catturare. Ferita che fece adirare, momentaneamente però, la dea cacciatrice Artemide, cui la cerva era sacra, più sacra di tutte le altre cerve. CHIMERA Eccola, la ‘sorella’ di Cerbero, anch’essa mostro della stirpe divina di Tifone ed Echidna, insieme all’Idra di Lerna, al Leone Nemèo, alla Sfinge Il piede e l’orma
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e a Ortro. Per avere un’idea concreta del suo aspetto, ci aiuta mirabilmente la Chimera di Arezzo, una scultura bronzea etrusca del V sec. a. C., di straordinaria, ‘realistica’ fattura: sembra vivente e pronta ad aggredire con ogni parte del suo corpo ‘variegato’: testa e corpo di leone, una testa di capra sulla schiena (ed anche corpo di capra) e la coda di serpente; le sue scorrerie devastavano il territorio della Licia; terribile era il morso velenoso della coda, inoltre sputava fuoco dalle fauci e fu proprio tale sua propria arma a decretarne la morte. Bellerofonte, cavalcando l’alato Pegaso (figlio di Medusa), la uccise grazie alla punta di piombo della sua lancia, che scagliò fra le fauci del mostro. Al calore delle fiamme lanciate dalla Chimera, il piombo si liquefece e uccise la bestia. In senso lato, colto, metaforico, la parola significa “sogno vano”, “illusione”, “utopia”; e chi è che può vivere senza sogni , senza chimere?! ECHIDNA Dal significato emblematico, «vipera», figlia di Forco e Ceto «dalle belle guance» (nipote quindi di Gea e Ponto, dio marino), secondo altri di Crisaore e di Calliroe sorella di Gerìone, Echidna era un mostro dal corpo femminile con una coda di serpente al posto delle gambe. Viveva rinchiusa in una caverna della Cilicia, nell’Asia minore, oppure nel Peloponneso, dove poi sarebbe stata uccisa da Argo, il mandriano guardiano dai Cento Occhi, perché divorava i viandanti. Era mostruosamente iperprolifica: da Tifone ebbe la Sfinge e Ortro (il cane di suo fratello Gerione), poi Cerbero, l’Idra di Lerna e la Chimera. Con Ortro, ebbe Fice, un mostro della Beozia, ed il Leone di Nemea: una bestia, Echidna, davvero con tutti i connotati. Ma ecco a soccorrerci nel nostro assunto, la leggenda da una colonia sul Ponto Eusino (oggi Mar Nero) secondo cui Eracle, ivi cercando i suoi cavalli perduti, si imbatté in Echidna, che gli promise di restituirglieli se si fosse accoppiato con lei. L’eroe, sempre pronto ad ogni tipo di… fatica, acconsentì e da tale unione nacquero tre figli, di cui uno, Scite, fu il capostipite eponimo degli abitanti della Scizia (l’attuale Bulgaria). Insomma, Eracle i mostri non li uccide soltanto ma li rende anche… creativi, e questo mostro era femmina: un monstrum, evidentemente una bella bestia. GERÍONE Gigante tricorpore, Gerìone è nominato, con i suoi genitori, per la prima 22
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volta in Esiodo – trikephalos (Theog., 287-294) – rappresentato poi anche in varie ‘triplici’ sembianze (es. tergeminus, Virg., En, VIII, 205). Risulta figlio di Crisaore (il fratello di Pègaso) e della Oceanina Calliroe, fratello di Echidna, nipote di Medusa. Un fortissimo gigante re dell’isola di Eriteia, presso Cadice, alla foce del Guadalquivir, padrone e custode di mandrie di magnifici buoi, che Eracle, nella sua decima Fatica, gli rapisce, dopo una feroce, violenta lotta nella quale Gerìone viene sconfitto e ucciso. In Dante, Gerione è presente come figura demoniaca, infernale che, come le tante presenti nella Divina Commedia, servono all’allegoria del poema per condannare i vizi umani, in questo caso, la falsità dei fraudolenti (Inf. XVII, 1, 97; Purg. XXVII, 23). Nella sua descrizione il poeta aggiunge altri aspetti bestiali: al volto umano fanno da contraltare zampe di leone, corpo di serpente e coda di scorpione, sulla scia dei versi dell’Apocalisse (9, 7-11), dove Giovanni descrive le locuste con facce di uomini, capelli di donna, denti di leone e code simili a scorpioni. Gerione quindi è l’allegoria della falsità: il volto umano rappresenta l’uomo innocente, onesto e saggio, il resto del corpo bestiale, invece, simboleggia l’altra natura, malvagia, con cui i fraudolenti tramano di nascosto. Ma Dante è Dante… e nella sua immensa titanica divincomica grandezza poetica esprime un messaggio tutto suo, di medievale cristianità… Io, sempre laicamente (e fuor da ogni confronto, per carità!), continuo nell’opera di… laica redenzione e riporto la notizia (bella anche per la nostra bestia), secondo la quale, di ritorno da questa sua fatica, Eracle avrebbe istituito in Sicilia il culto eroico oracolare di Gerìone, portato anche altrove; Svetonio, ad esempio, scrive che Tiberio consultò quest’oracolo a Padova… cum Illyricum petens iuxta Patavium adisset Gerionis oraculum (Vita Tib., III, 14, 3, 5). HYDRA di LERNA L’idra di Lerna ( ῞ Υδρα, Hydra) è un mostro acquatico, come dice il nome. figlia di Echidna e di Tifone, ‘sorella’ di Cerbero, Ortro, del leone nemeo, della sfinge e della chimera, allevata da Era (la gelosissima moglie di Zeus, acerrima nemica di Eracle) nella palude vicina alla città di Lerna, in Argolide (Peloponneso centrale), dove distruggeva pascoli, bestiame, terrorizzando la regione intera. Descritta come un grande serpente a nove teste, di cui quella centrale era immortale; velenosissima, dal respiro, sangue e addirittura orme letali. Uccidere l’idra era la seconda delle Dodici Fatiche imposte ad Eracle, così l’eroe si recò sul posto e stanò la bestia con frecce infocate, per afIl piede e l’orma
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frontarla. Ogni volta che tagliava una testa, dal moncone ne ricrescevano due; Eracle allora si fece aiutare dal nipote Iolao, che, dopo il taglio di ogni testa, cauterizzava col fuoco la radice impedendone la ricrescita; la testa immortale infine venne schiacciata e seppellita sotto un macigno. Sconfitta l’idra, Eracle immerse le proprie frecce in quel sangue velenoso, così da rendere insanabili le ferite provocate: un bel ‘regalo’ all’eroe! Dopo la morte, Era redimette (o redense?… Lo so, per un’idra così descritta non è facile!) la bestia trasformandola in una costellazione. Insomma, l’assunse in cielo, facendola diventare una stella, e le stelle, si sa, son belle! LEONEMEO Il leone di Nèmea o Nemèo era figlio di Ortro ed Echidna oppure, secondo altre versioni, di Echidna e Tifone; di Zeus e Selene (la Luna), e quindi fratellastro ‘paterno’ di Eracle. Era un mostro inviato da Era a Nemea nell’Argolide, insediato in una grotta con due uscite. La sua pelle era tuttaffatto invulnerabile, zanne ed artigli erano quasi metalliche per durezza. La fiera era un vero flagello per il territorio, ridotto alla sterilità, poiché aggrediva e sbranava uomini e greggi. Giunto a Nemea, e seguendo la scia di carcasse che il leone si era lasciato dietro, Eracle riesce a trovare la fiera: ma vedendo che spada e frecce erano inefficaci lo colpì con la clava e poi lo strangolò a mani nude. Eracle riuscì solo con gli artigli stessi della bestia a scucirne la pelle e fare di quella giubba la sua caratteristica ‘divisa’, una vera e propria, efficace, utilissima armatura, inattaccabile, invulnerabile, ben adatta al suo naturale ‘titolare’. Povero leone, povera bestia: ucciso dal fratellastro! Forse per questo il padre Zeus, a compenso e, diciamo, per far dispetto alla moglie Hera, lo pose nel firmamento, dove formò la costellazione del Leone: un bel segno zodiacale! MEDUSA Figura terrifica: sguardo pietrificante, capelli serpificati, zanne al posto dei denti, bronzee le mani, degna sorella, mortale, delle Gorgoni. Racconta il mito che Posidone, invaghitosi di Medusa e trasformatosi in aquila, la rapisce, la porta in un tempio sacro ad Atena dove la possiede. La fanciulla, orgogliosa della sua splendida capigliatura, nasconde il volto dietro lo scudo della dea della sapienza (sic!) che la punisce duramente: trasforma i bei capelli in un groviglio di vipere e i denti in zanne, un mostro orribile il cui sguardo pietrifica chiunque lo incroci. Solo Pèrseo resiste, grazie 24
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all’egida, uno scudo, fatto con la pelle di una capra (aix, aigòs) ma non una capra qualunque, no, la capra Amaltea, la bestia che aveva allattato il dio degli dèi, Zeus. Povera Medusa: bestia per colpa di un dio, anzi due (il fratello di Zeus e la figlia, quella nata dalla di lui testa, sede della… razionalità): delirio di sesso, di potere e di gelosia! MINOTAURO Un mostro con il corpo umano, bipede ma con zoccoli, pelliccia, coda e testa taurina, selvaggio e feroce, dominato dall’istinto animale, avendo cervello di bestia. Minotauro era il frutto dell’unione bestiale di Pasifae, moglie di Minosse, e del toro di Creta. Dalla sua nascita, la bestiumana venne rinchiusa nel Labirinto, la straordinaria, notissima costruzione, a Cnosso, dell’Architetto, diciamo pure più famoso di sempre, Dedalo, ordinata dal re. Povera bestia! Il padre Minosse tradisce il patto stretto con Posidone. Sì, lui è il talassocrate ma è il re del mare, Posidone ne è il dio: uno, mortale, è talassocrate ad interim; l’altro, divino, lo è… per saecula saeculorum, per l’eternità: E Minosse, pezzo di catapezzo, bestia, non lo sapeva? Il caso del contendere fra re e dio: un toro! Un magnifico toro bianco, (quella bestia successivamente catturata da Eracle nella sua settima Fatica), dono di Posidone, che Minosse avrebbe dovuto sacrificargli; ma era troppo bella, quella bestia e lui, il re, gliene sacrifica un’altra. Re, ben sì, ma re-bestia, nel senso di sciocco, senza cervello: fregare un dio, non solo, il dio più ‘esperto’ di tori, il quale, per una specie di contrappasso si vendica, facendo innamorare proprio del toro la moglie del re, Pasifae. La quale, ‘vestitasi’ da vacca, si fa montare dal toro, l’unica bestia, in questa storia, che si comporta bene, come da sua propria natura: fa il montator! Vediamole, però, le vere bestie: Posidone, un dio la cui vendetta è davvero crudele, bestiale! Minosse, la cui regalità è umiliata dalla vendetta di cui sopra, divina, e da una animale il cui nome, oltre al proprio, egli assegna al figlio della moglie! Pasifae, la cui sessualità è stimolata iperbolicamente (diciamo pure ‘diabolicamente’) da un dio, al quale non si può né si deve.. disobbedire. Il dio! Lei, no?! Eccola, la femmina che, alla vista di un toro splendido, che fa? Fa… la bella e la bestia, anzi la bellabestia, insomma, la… vacca. Il piede e l’orma
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D’altra parte, non è, Pasifae, la madre di Arianna e Fedra, due figure che in amore han fatto parlare molto di sé, son diventate molto molto “famose”! A non dire che Arianna, innamorata di Tèseo, venuto a Creta, per pagare il tributo ateniese (con sette fanciulli e sette fanciulle da darsi in pasto al Minotauro), offre all’eroe quel suo famoso filo per farlo uscire dal Labirinto, dopo aver ucciso la bestia che era il suo stesso fratello. Brava la sorellina, la quale, appena vede Dionìso (e soprattutto i satiri) che ti fa? Ti pianta in Nasso il povero Tèseo, che dimentica, tornando ad Atene, dove lo aspettava, ansioso, il padre, di sostituire le vele nere, funeste, con quelle bianche, fauste, causando così il suicidio del padre Ègeo (gettatosi nel Mar Egèo); successivamente l’eroe cade tra le braccia di sua cognata Fedra, morbosamente invaghita (spinta a ciò dalla vendicativa Afrodite) del figliastro Ippolito (avuto da Tèseo con l’Amazzone Ippolita), il quale, restìo, calunniato da lei e maledetto dal padre, finisce dilaniato dai suoi stessi amati cavalli. Che sorelle, che famiglia! E gli dèi, no?! Vogliamo metterci pure l’Architetto Dedalo? Il quale costruisce per la regina quella vacca di legno, al cui interno poi la bella si unisce con la bestia (incertum utri, a chi dei due spetti questa o quella ‘identità’), quello stesso Dedalo che edifica il Labirinto per relegarvi segretamente il frutto di quell’amplesso bestiale; e la vera, reale bestia, il bellissimo toro, è l’unica innocente. Ebbene (si fa per dire)! Che succede in questa ‘bella’ famiglia, in questa ‘bella’ storia? Che l’unica ‘bestia’ risulta essere soltanto il soprannominato, nomen/omen, Minotauro. Il quale fa anche la parte del riscossore dei tributi all’Agenzia delle Entrate, nel periodo della talassocrazia dell’isola più potente del Mediterraneo, il numero uno dell’esattoria di… EquiCreta che spolpa i contribuenti, diventandone il carnefice (supra) – nel senso comune. Stricto sensu, però, alla lettera, i veri carnefici son tutti gli altri attori, quelli cioè che lo hanno messo al mondo, che lo hanno fatto di carne (ed ossa). Interessante, inoltre, per il nostro percorso, notare che, probabilmente, alla figura del Minotauro si ispira la divinizzazione del toro da parte dei Greci; infine, il primo, vero suo nome è Asterione, che vuol dire “stella”, e la stella è bella. Meno male, povera bestia! PRIÀPO Figlio di Afrodite, dea dell’amore, della bellezza e di Dionìso, dio dell’estasi, della irrazionalità, di origine frigia, Pr apoj, (Priāpus) è il protettore dei giardini, che, nonostante i genitori, si presenta decisamente sgraziato: 26
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corpo piccolo, pancia enorme e membro ‘monstruosamente’ smisurato. Proprio tale peculiarità viene interpretata come segno ben augurante per la fertilità dei campi e del bestiame. Man mano il suo numen diventa quello dell’istinto sessuale e della forza generativa maschile e della fertilità delle campagne, tanto che gli agricoltori, nella loro natura semplice, per proteggere i propri prodotti, gli innalzano nei campi spaventapasseri in posizioni oscene e grottesche, probabilmente anche mèta di femmine calde in cerca di anonime e furtive soddisfazioni: una bella bestia che, oltre al dono di un enorme membro sempre eretto, offre altresì, complice, quello del silenzio. Nell’antica Roma Priàpo viene accostato a Mutinus o Tutinus, antica e oscura divinità a carattere fallico, anzi totofallico, rispetto al ‘cugino’ di Làmpsaco antropomorfo, come il fascinum/-us, sul quale, “immane, spudorato e spaventoso”, durante i riti preliminari del matrimonio, le spose romane erano invitate, come auspicio, a cavalcare (Tutunus, cuius immanibus pudendis horrentique fascino vestras inequitare matronas et auspicabile ducitis et optatis - Arnob. Adversus Gentiles, IV, 7) per prepararsi al rapporto. Ancora: «Tutino [qui, non sarebbe opportuno tradurre: «cazzo»], sul cui ‘fusto’ spudorato le future spose siedono in modo che sembri sia il dio per primo a delibare la loro pudicizia» (Lattanzio, Divinarum Institutionum, 1. 20. 36: Tutinus in cuius sinu pudendo nubentes praesident ut illarum pudicitiam prima deus delibasse videatur). Sulla stessa linea Tertulliano – un… antifemminista sfegatato (Ad Nationes, 2.11 e Apologetico, 25.3.), Agostino – prima della conversione, però (De Civitate Dei 4.11 e 6.9). Insomma, tolto l’imbarazzo (?!), lo sdegno, il disgusto, l’ostilità… degli scrittori cristiani (quanta discutibile e inutile censura, a non dire dannosa!), questa del dio totophallo/tuttocazzo sembra un’originale trovata, particolare comunque, per una deflorazione ufficiale, concreta ed anche, ci par di intuire, divertente, piacevole: un’altra familiare bellabestia! Cara Afrodite, dopo aver partorito Priàpo, vedendolo così brutto lo hai rinnegato e abbandonato, per fortuna, però, anche tua, nelle… mani, ed altro, di donne, di femmine che, in ossequio proprio al tuo culto, al tuo numen, lo hanno, sempre, degnamente e a buon… diritto venerato, e quante volte sarà uscito fuori: «Che bella bestia!». Indubbiamente, il nostro Priàpo non è una bestia, nel senso comune o in senso proprio: non lo è ma ce l’ha, eccome ed anche bella! SATIRI ‘Imparentati’ con Priàpo, sono comunemente raffigurati come esseIl piede e l’orma
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ri umani barbuti con corna, coda e zampe di capra; talvolta presentano una vistosa erezione, simbolo di energia generatrice; abitatori di boschi e monti, dediti alle danze con le ninfe, al vino, lascivi ed anche presenti con menadi e sileni nel corteo di Dionìso. Abilissimi suonatori di flauto, caposcuola Marsia, che ebbe la sventura di sfidare il dio della Musica e del Canto, Apollo dal quale venne sconfitto e scorticato. Mirabile esecutore di un altro strumento silvano, un ‘poliflauto’ con canne a scalare, la siringa, era Pan, titolare del panismo, una concezione totalistica, vitalistica della Natura fertile che appartiene ad ogni essere animale e vegetale. Altro famoso satiro era Sileno, maestro di Dionìso, immancabile nel suo corteo, sempre sulla soma di un asino, ben sì ma, ciononostante, sempre prodigo di saggezza… Una bestia, questo satiro, a cui non manca, tutto sommato, qualcosa di bello. SFINGE Mito egiziano e mito greco accompagnano la storia di tale figura: nel primo caso si tratta di un animale che, grazie al significato del suo nome «immagine vivente», simboleggia la vita nell’aldilà, come auspicio di vita serena dopo la morte, rappresentato da statue gigantesche, protettive accanto a piramidi altrettanto famose (Cheope, Chefren, Micerino, Giza); nella lingua greca, invece, il termine σφίγγω (sphingo) significa «soffoco», «strangolo», in quanto strangolatrice e divoratrice dei passanti diretti a Tebe (Beozia), alle pendici del Monte Ficio (nome legato al primo) ed anche «stringo» nel senso della stringatezza espressiva nella formulazione e risposta dei suoi indovinelli. Da Omero in poi è presente nella letteratura (ma molto anche nell’arte figurativa) come figlia di Echidna e Tifone, con tutta quella stirpe di bestie che abbiamo già visto e risulta variamente descritta: da figura maschile a figura femminile, che solo in un secondo tempo prevalse; poteva essere alata e non, con barba, con zampe di vari animali ma, nelle fattezze ‘classiche’, è raffigurata con il corpo e coda di leone, volto di donna e ali d’uccello: una fiera-donna… Una feroce bestia, non v’è dubbio, rovina dell’uomo che non rispondeva al suo indovinello, peste per i Tebani, uno dei quali, però, grazie a lei ha acquistato fama immortale: Edipo. Bestia, dicevamo, ma che diventa bella, come protettrice della vita nell’aldilà. 28
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SIRENE Figlie di Acheloo, divinità fluviale e di Teti, figlia di Oceano, da Omero definito «origine di tutte le cose»; secondo il mitografo Pseudo-Apollodoro, la madre era Melpomene la Musa del canto, come dice il nome, ricordato per inciso da Apollonio Rodio, che però le dice figlie di Tersicore, la Musa della danza (infra). Suggestiva a me pare la versione del mito raccontata da Libanio (Progymnasmata II, 31,1), secondo cui Eracle, innamorato di Deianìra, nella lotta contro Acheloo, gli stacca un corno e dalle gocce di quel sangue divino nascono le Sirene. Donne bellissime, fascinose, incantatrici, dal canto ammaliatore (infra), la parte superiore; quella inferiore del loro corpo era tutto pesci, nella più nota loro raffigurazione; in un primo tempo però erano state donneuccelli, non donnepesci. Erano infatti amiche (in comitum numero) di Persefone, e quando questa venne rapita da Ade, le vergini doctae Sirenes chiesero e ottennero dagli dei di essere trasformate in uccelli (pluma pedesque avium) per poterla cercare meglio, conservando il resto (virginei vultus et vox humana remansit) (Ovidio, Metamorfosi V, 551 ss.). Si diceva della loro voce: era incantevole ma ingannatrice, perché trascinava le navi e i disgraziati marinai contro gli scogli dove esse risiedevano, tra Scilla e Cariddi. Odìsseo riuscì ad evitare gli effetti disastrosi della loro melodia, tappando con la cera le orecchie dei suoi compagni (Omero, Odissea, XII, passim). Anche Òrfeo, grazie alla sua magica cetra, ebbe ragione dell’irresistibile canto (molpesin… melpomenai) delle Sirene, verginiuccelli, coprendolo, intercettandolo col proprio e salvando così l’equipaggio degli Argonauti, di cui faceva parte (Apollonio Rodio. Argonautiche IV, 890-912). Mezze bestie, quindi e mezze donne, le nostre Sirene e che donne, che fascino, che malìa, distruttrice, ben sì, ma chi riesce a non subire il potere del canto di una Sirena?! TIFONE Altro nome parlante, antonomastico, detto pure Tifeo (Τυφῶν o Τυφάων) o Tisifeo, «fumo stupefacente» (τύφειν typhein = fare fumo, come θύειν, thuein, da cui θυμός, thymòs = fumo, soffio, spirito, animo, coraggio…) era figlio (dicono a causa dell’«auera Afrodite») di Gea e Tartaro, la Terra di sopra e il ‘complemento’ sotterraneo; fratello minore dei Giganti e Titani, quelli sconfitti e puniti da Zeus. Punizione mal digerita dalla Terra madre (e nonna di Zeus), la quale, per vendicarsi, ebbe due Il piede e l’orma
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alleati, entrambi molto interessati contro il re dell’Olimpo: la gelosissima moglie Hera e il padre Kronos, da lui spodestato. Quest’ultimo ‘inseminò’ due uova da cui nacque appunto Tifone, così suggestivamente raffigurato dagli antichi scrittori, pittori…: membra smisurate, metà uomo e metà bestia; testa d’asino, ali da pipistrello, più alto dell’…Everest, lungo più del mare Egeo, da Atene a Troia; cento serpenti dalle gole sibilanti, latranti e ruggenti; al posto delle gambe due draghi terrificanti; barba e capelli ondeggianti al vento; dagli occhi lingue di fuoco, fumo e massi incandescenti eruttati dai denti, analogamente, ad es. Eschilo ne I Sette a Tebe parla di πύρπνοον Τυφῶν(α) … πύρπνοον διὰ στόμα λιγνὺν μέλαιναν (pyrpnoon Typhona = fuocospirante … pyrpnoon dia stoma lignyn melainan = fuoco spirante attraverso la bocca denso fumo nero); e lo pone sotto l’Etna… attivo. Descrizioni tutte che fanno di Tifone, concretamente, fuor di metafora, il degno ‘antenato’ dei vari uragani, tornados, tsunami… Con tali caratteristiche decisamente bestiali non aveva paura di nessuno, nemmeno di Zeus, il re degli dèi, che anzi affrontò in più riprese, e inizialmente sovrastò l’Olimpo, la loro sede celeste, incutendo loro tanta paura che essi, trasformatisi in animali, si rifugiarono in Egitto, dove avrebbero dato vita al culto locale degli dèi animali. Tutte interessanti e significative le loro metamorfosi, che riportiamo, in ordine alfabetico, lasciando al numero uno il n. 1: Zeus, trasformatosi in ariete (Z. Ammone), Ade in sciacallo (bestia che vive di… morti), Afrodite in pesce, Apollo in corvo, Ares in cinghiale, Artemide in gatto, Dionìso in capra (tragos, D. dio della tragedia), Era in vacca bianca, Hermes in ibis, Pan la sua parte inferiore in pesce… Gli dèi diventano bestie, per salvare la pelle! Solo dopo vari scontri, con esiti alterni, Zeus ebbe la meglio, con l’aiuto della figlia guerriera Pallade Atena ed anche di Hermes e Pan. Alla fine, mentre la colossale bestia gli scagliava contro l’intera Sicilia, il dio del cielo lo colpì con il fulmine più potente a disposizione, lasciandolo schiacciato proprio sotto la stessa isola, donde di tanto in tanto si sveglia giusto come un bestiale tifone. Secondo altre fonti, Zeus lo rinchiude sotto la rupe occidentale delle Fedriadi, nell’antro di Pan e delle ninfe, (sul Monte Parnaso a Delfi, dall’ingresso, oggi, alto 2 ½ m. ca, con un interno alto 34 m e profondo 70). Certo un mostro così spaventoso, orribile, rovinoso, distruttivo… non può che permanere soltanto fra le bestie, eppure… … eppure, è l’unica bestia che ha avuto il coraggio di affrontare, più 30
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volte, Zeus, il dio del cielo e della terra, il dio degli dèi, quel dio, re phallocrate e pantokrate, vizioso e prepotente, addirittura l’ardire di farlo tremare, ferirlo! Eppure, per finire come abbiamo cominciato (Anteo/Tifone figli di Gea: una casuale Ringkomposition), una bella bestia per una bella battaglia! Eppure, nonostante la sua strettissima parentela con uragani, tornados, tsunami (supra), nessuno di questi fenomeni ‘temporanei’ è così rovinoso come i tanti, tantissimi, troppi che il pianeta Terra (ormai non più eurysternos, «dall’ampio seno» ma dal seno vieppiù devastato, deturpato, violentato: cielo, terra, sottosuolo, mare…) subisce, come ad esempio, esempio estremo, quello provocato dal buco nell’ozono, la cui colpa – perché di colpa si tratta, e gravissima, esiziale, suicida, apocalittica! – è della bestia spesso più bestia di tutte le bestie, cioè l’uomo!
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Alfabetieri
ALBATRO O uccello albatro! Me in alto chiama un impulso eterno! Pensai a te: e lacrime e lacrime presero a scorrermi - sì, io ti amo!
(da F. Nietzsche, Uccello albatro, XIX sec.)
BOVE I buoi si domano quando hanno tre anni … un esemplare giovane si addestra ottimamente insieme ad uno già addomesticato. Noi uomini abbiamo come compagno della fatica nella coltivazione dei campi questo animale … (da Plinio, cit.)
CAVALLO Filarco racconta che uno dei Galati, Centareto, ucciso in battaglia Antioco, si impadronì del suo cavallo e gli salì in groppa trionfante; ma l’animale, preso dallo sdegno, strappate le briglie perché non potesse essere retto, si slanciò al galoppo in un burrone e morì insieme al cavaliere. (da Plinio, cit.)
DROMEDARIO L’Oriente nutre fra il bestiame di grossa taglia i cammelli, le cui specie sono due: quello della Battriana e quello di Arabia; sono diversi perché gli uni hanno due gobbe sul dorso, gli altri una sola sul dorso e la seconda sotto il petto, sulla quale si sdraiano. [….] Tutti poi adempiono col loro dorso la funzione di bestie da soma e servono anche da cavalleria nelle battaglie. [….] Si è trovato il modo di castrare anche le femmine, per prepararle alla guerra: così diventano più forti, se viene negata loro la possibilità dell’accoppiamento. (da Plinio, cit.)
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ELEFANTE Il più grande [tra gli animali terrestri] è l’elefante ed è anche il più vicino alla sensibilità dell’uomo, in quanto questi animali comprendonio il linguaggio del luogo in cui sono nati ed obbediscono ai comandi, sono capaci di ricordare gli esercizi che hanno imparato ad eseguire, provano desiderio di amore e di gloria; inoltre, complesso di virtù rare anche nell’uomo, hanno onestà, prudenza, senso di giustizia, perfino rispetto religioso verso gli astri, e venerano il sole e la luna. (da Plinio, cit.)
La natura dell’elefante è questa: se cade, non è capace di rialzarsi, perché non ha giunture nelle ginocchia. E in che modo cade? Quando vuol dormire si appoggia ad un albero e si addormenta. (da Il Fisiologo, II-IV sec.)
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A
Alla A ci metto l’albatro, questo è sicuro. L’albatro di Baudelaire spanciato sul barcone, deriso dai marinai che gli imbeccano una pipa, così figurandolo da vecchio un po’ babbione, fingendolo ciondolante e come alticcio, goffa caricatura di un navigatore di lungo corso. Lui, l’albatro ormai costretto a terra, è il poeta cacciato in esilio con foglio di via obbligatorio, lo sappiamo. La modernità (solo la modernità? non è vicenda plurisecolare, che comincia da che mondo è mondo, piuttosto?) gli ha tarpato le ali, facendogli diniego del cielo, dove volava alto, sublime. Lo stato scuorante e derelitto del regale uccello dei mari, inarrivabile, straordinario testimonial baudelariano, immagine vicaria del poeta ormai senza aureola e quindi di una poesia con la sua aura inquinata e dispersa ed oscurata, non lo si può, non lo si deve pretermettere mai. Per questo lo poniamo, e sta che è una bellezza, ad apertura dell’alfabetiere. Perché dà spunto alla acuta ironia di una scrittura tenutasi ironicamente in minore, sommessamente quotidiana e ingegnosamente autoriflessiva per pratica di straniamento; o perché riassetta e muta il grottesco della sua posa coatta, storicamente determinata, in una sollecitazione intemperante e in una riapertura proiettiva delle forme del testo; o perché induce l’utopia di una pienezza ritrovata e di un faro riacceso – giusto i phares di cui altrove nelle Fleurs du mal – epperò sapendone l’azzardo e scontando in chiaroveggenza l’aleatorietà del sogno di un altrove, di un enclave libero e di un modo più che umano dell’esserci della storia, atteso irrimediabilmente da un amaro risveglio (e cioè “vivendo” una offerta di sé del poeta coronata da uno “straziante” sacrificio); o perché inquadra a fronte il volo di specie consimili, e cioè di falchi in alto levati, a condizione che la loro distanza appaia abissale e sia fatta vicina, a paragone, tanto da rendersi stringente e soffocante, la panie del male di vivere. Insomma, la più grande poesia del Novecento rivà all’albatro come mo34
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strato nel récit di Baudelaire e si trova a condividerne la sorte o a vedersi specchiata in essa, quando a seguito di un atto estremo di lucida consapevolezza, quando, considerate meteorologia e rotte tracciabili, e affrontate e patite turbolenze e depressurizzazioni, per essersi indirizzata obbligatoriamente lungo la sua scia, battendone di necessità le piste e calcandone le orme lasciate sulla terra, ora che vi è stato fatto cadere, exilé da un paradiso irrimediabilmente perduto. L’animale in A è qui un’allegoria, dunque; durevole allegoria (valevole in questi albori del terzo millennio allo stesso modo e forse più che nello scorcio finale del secondo) straricca di significato e di valore indicativo. Per lo più, invece, hanno la secchezza riducente di una scelta dirigistica e di una arroganza scriteriata senza uno straccio di giustificazione – ed hanno la portata, comunque, di una mistificazione imbonitrice – la cooptazione o la mutuazione dell’aquila quale intoccabile, sacra regina dei cieli e la convivenza con essa more uxorio, tanto che essa si presenti come in un corpo solo con la poesia, tanto che si candidi a suo simbolo. Gadda, con una vaga intonazione blasfema, lui che pure era assai riguardoso, e cerimonioso, nel suo libro delle Favole dice l’aquila «uccello di Dio». E ciò basta, tanto più se siamo persuasi di quale e quanto peso possa misurare l’ombra di un dio, qualunque identità e nome gli siano dati, e dunque come, maschilista e fallocentrica, l’ombra sua gravi e prema da couvercle d’un ciel bas et lourd quando la vogliamo e duriamo a tenerla sospesa su di noi. B
Il bove, solo o in gruppo, è quello che ci vuole per la casella del bestiario destinata alla B. Distinguendo tuttavia, e facendolo con cura, razze e talenti speciali e prerogative e mansioni assegnate. Chi di noi, che abbiamo tarda età, non ricorda di aver mandato a memoria, già nei primi anni della scuola dell’obbligo, quel «T’amo, pio bove» che inaugura una lenta e maestosa schidionata di versi? Lo stile di Carducci è classico, antico per invito fededegno della scuola storica di secondo Ottocento, sostenuto quanto è sostenuta la lezione di un professore dell’accademia d’antan (d’antan, certo; ma a volte, spesso purtroppo, continua ad essere a noi contemporaneo il professore d’accademia impettito e saccente, con la sua lezione infine bolsa); impropriamente, improvvidamente sostenuto anche qui, in un bozzetto agreste, nel vivo di una scena bucolica che ci aspetteremmo, che si vorrebbe semplice nel taglio, nella selezione e nella disposizione degli elementi. E invece, in questo quadretto bucolico che è improvvidamente costruito, buono da fondale Il piede e l’orma
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d’atelier, il nominato animale da lavoro finisce aggiogato, davvero non per caso, al carro di un significato convenuto; ti si mostra cioè addomesticato, acconciato per benino, coi fiocchi e i controfiocchi, ad uso della morale corrente. Il bove è paziente di una pazienza incrollabile, infinita; dolci e sereni, placidi i suoi occhi che contengono e riflettono la natura intera («e del grave occhio glauco entro l’austera / dolcezza si rispecchia ampio e quieto / il divino del pian silenzio verde»), composti e plasticamente cadenzati i suoi movimenti («o che solenne come un monumento»), il bove è una forte, fedele spalla dell’uomo nell’opera dei campi («l’agil opra de l’uom grave secondi»; il calco è leopardiano, ma radicalmente cambiato di intenzione, spostato di indirizzo semantico); il suo è l’afflato di un’atavica saggezza fattasi testimonianza, musica («inno») che si effonde («Da la larga narice umida e nera / fuma il tuo spirto, e come un inno lieto / il mugghio nel sereno aër si perde»). Non è conseguente, allora, e non traspare “de plano”, inferirne e intanto assicurare in premessa, per bocca del poeta che scambia come un segno di pace e invita il lettore a corrispondergli, che lui, il pio bove chiamato col “tu”, procura «un sentimento / di vigore e di pace» e ne è senza alcun dubbio la fonte, l’ispiratore, il donatore: lui-tu che «mite… al cor m’infondi»? Questa di Carducci, nel gruppo delle Rime nuove, è una poesia di genere, non la sola per altro; e in uno spazio aperto che sa impressionisticamente di plein air – in uno spazio in cui la vita naturale si finge riportata allo stato puro, all’essenza originaria, e così ritrovata nella sua idealità – l’atmosfera si colora nitidamente di idillio. Tanto che, a rischio di misinterpretazione, nell’animale pio, che già aveva fatto comparsa e svolto il suo compito pazientemente consolatorio nella divina mangiatoia, qualcuno ha voluto ravvisare ora, su di un tale piancito di rime, un “attore” che recita da solo, sotto le luci della ribalta, la parte della forza universale che promana da una natura che è benefica e generosa, soccorrevole madre. Nondimeno, nel sonetto carducciano in analisi, che sa di genere come un vino può sapere di tappo e che in ossequio a una scrittura di genere non lesina i luoghi comuni, il pio bove, altro che corifeo con nobilissimi quarti simbolici, o personaggio da georgica senza la contaminazione di committenze, piuttosto è un animale alla Esopo. Lo vedi che è tagliato, adattato, truccato lui malgrado come gli animali di Esopo sono tagliati, adattati, truccati ad immagine e somiglianza dei tipi umani, in funzione delle categorie di genere in cui possono essere riassunti gli atti e i comportamenti dell’uomo. Ci vuole la mitezza, la rassegnazione? Ed eccoti pronto il bove 36
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che te la rappresenta: «o che al giogo inchinandoti contento / l’agil opra de l’uom grave secondi: / ei t’esorta e ti punge, e tu co ‘l lento / giro de’ pazienti occhi rispondi» (e si compulsi la sequela dei termini in uso nella seconda quartina: “inchinandoti”, “contento”, “pazienti occhi” – pazienti e davvero stoici se in risposta all’odioso “ti punge” – evidenziano una condizione di sottomissione, di servaggio accettati senza rimostranza alcuna, in un percorso che se non è di santità poco ci manca). Eccoti pronto il bove, che te la rappresenta in Carducci, come, magari compreso in una mandria tirata a lucido, te la rappresenta in Fattori, nei cui quadri la razza la diresti di pregio, di buon sangue italiano, anzi toscano. Di sicuro il bove è innocente; e forse la stessa colpa di Carducci è preterintenzionale. Fatto sta che, su di una cotale quinta da idillio, e proprio perché trattasi del genere dell’idillio, si dà ad intendere che il lavoro dei campi è fatica da grande bellezza, che l’opra con l’aratro e la marra (altro che Leopardi) è da benedire con la mitezza e la pazienza di un bove santo, che come fa un bove santo è giusto accettarne forme e logiche (e stare alla dialettica servo-padrone connessa, dove il bove è sempre servo, come sempre più spesso è servo l’uomo dell’uomo), che la rassegnazione è la virtù massima, che a consigliarla e a richiederla e a certificarla è la buona madre natura, che il tipo dell’uomo soggiogato alla sua sorte, per grama e disumana che essa sia, questo è il tipo da privilegiare, da riservargli il paradiso, da tenere addirittura in odore di santità. Il bove – nel testo che abbiamo mandato a memoria tanti anni fa e che il suo messaggio subliminale l’ha bell’e scodellato fin dal principio, avviando per tempo la sua campagna di persuasione occulta a danno di tante coscienze – si ritrova così impiegato, anzi forzato in un pluslavoro ideologico e politico, che s’aggiunge alle pesanti prestazioni d’opera, di supporto bestiale ai coltivatori diretti, per le quali pure è stato addestrato non senza le punture dolorose e lo strazio dell’assillo. Cornuto e pure mazziato, dunque; mazziato nella realtà e doppiamente mazziato sulle pagine sistemate prosodicamente da Carducci. Lo sfruttamento animale da parte dell’uomo è stato ed è senza freno, senza ritegno. Stavolta succede che lo si adoperi da garante e da motivatore per lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, mentre la letteratura – che lo voglia o meno, che sia premeditato o colposo il suo gesto – viene colta con le mani nel sacco, coinvolta nelle dinamiche del potere e al potere asservita magari da serva sciocca (càpita, càpita; non è detto davvero che quelle dinamiche le siano risparmiate per imprinting e per diritto di famiglia, come qualcuno pure s’industria a sostenere). Il piede e l’orma
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Diceva di amare il Virgilio georgico e, nel Fanciullino, a me pare proprio che sbarelli quando, accennando pressappoco a figure quali i coltivatori diretti, spacciava per reale un mondo di libera imprenditoria agricola liberamente concorrente, nel quale tutto è sano e tutto è bello, tutto in linea con un socialismo umanitario. Eppure, se tra i due qualcuno bisognasse salvare secondo le classiche regole del gioco, non precipiterei giù dalla torre Pascoli. Tra Carducci e Pascoli io preferisco Pascoli. Io dico che sono meglio i bovi di Pascoli: i bovi da stalla non i bovi statuari che svettano su campi aperti nell’impressionismo del plein air; i bovi che se ne stanno in penombra, mentre una luce bianca alla Segantini si posa sulle figure di primo piano; i bovi che quindi non mostrano muscoli potenti tutt’intorno ad occhi placidi ed austeri; i bovi che si riposano dal lavoro e hanno smesso la loro sacra e monumentale gravezza; i bovi ancora miti, ma che di mite hanno soltanto il verso, anzi neppure il verso, il «rimastico mite». I bovi che non impetrano né esigono, qui almeno, una imitatio bovis. Ad apertura dei Canti di Castelvecchio, intitolandosi alla poesia il testo liminare investito così della responsabilità di una declaratoria di poetica, i bovi collaborano alla colonna sonora; e la loro musica d’accompagnamento attenua, copre, cancella la portata ideologica e il valore esemplare, buoni per tirarne una morale, dei ruoli in copione altrove previsti per loro. Finché quel rimastico mite, in sordina, piano piano diviene, sull’onda dei novenari, dominanza di un ritmo sommesso, quasi una nenia, ormai lontana, dissonante dalla asseveratività impettita e saccente (niente più in verità, questa asseveratività, del ruggito di un topo) della scrittura poetica. C
Viva Caravaggio, che ci regala per la lettera C il suo cavallo. Caravaggio, forse edotto e comunque stimolato dal suo non facile rapporto con l’umano consorzio, è ipotesi fondata – l’ipotesi regge per il vero a più di una verifica – ritenerlo interessato ad una filosofia animalista. Che il più delle volte, e non per un di più di integralismo vicino a tracimare, motiva una classifica nella quale l’uomo, come animale ma pervertito, tra i peggiori del regno, perde d’infilata posizioni e si mostra incapace di riguadagnarle. Tanto che non conviene dargli troppo spago o riconoscergli primazie ideali. Ebbene, Caravaggio opera pittoricamente una piena restituzione della dignità animale, a discredito dell’umana compagnia, nella Conversione di San Paolo, terminata quando è appena scoccato il XVII secolo, che si impone allo sguardo, grandiosa, in Santa Maria del Popolo a Roma. E che 38
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non è atto di blasfemia asserire che proceda ad una valutazione comparativa libera, senza pregiudizi, che sembra perfino non pagare lo scotto dei condizionamenti catechistici della Chiesa della Controriforma. Riandando al titolo, tenuto lungamente in caldo e poi accantonato, di un romanzo tra i più grandi del Novecento italiano, la Conversione di San Paolo caravaggesca ha tutto per essere rinominata – ciò che varrebbe a disvelarne il senso profondo – Liberare l’animale. Lo ammetteva, del resto, lo stesso Longhi. Con quella criniera fluente che copre in larga misura il dorso e il manto e che asseconda la discesa della luce salvifica (la luce di Dio?), con le masse e i volumi suoi a campire la metà superiore del quadro, con la testa sculturale e sculturalmente solida di una atavica saggezza tenuta per la cavezza da una sorta di stalliere (lo abbiamo già visto e lo rivedremo tra le comparse arruolate da Caravaggio per i suoi dipinti), con le sue terga che con la testa fanno da stipiti per il boccascena della rappresentazione mentre preannunciano le rotondità sode del ventre e dettano il ritmo delle successive riprese delle sequenze dei corpi, con quello zoccolo sospeso sul corpo di Saulo (il quale Saulo si dichiara in un gesto d’accoglienza – per tanto le sue braccia allargate, utili alla “comprensione” e alla sottolineatura degli arti, zampe o gambe, che s’affollano al centro della scena e le cui linee ora sono ripetute in parallelo, ora sono intrecciate agendo da assi portanti –; e Saulo si offre alla luce, forse di Dio, o allo zoccolo del quadrupede, forse strumento della Provvidenza, come un animale presenta la sua pancia inerme in segno di resa): in forza di questo disporsi e comporsi di segni e di forme, il cavallo non v’è dubbio alcuno che qui sia il protagonista principe. Lui l’eventuale intercessore del miracolo, lui la funzione dominante (con quel suo zoccolo sospeso, che sembra avere l’incarico di condannare o di assolvere, come la mano della giustizia) nel sistema attanziale del narrato. Nella valutazione comparativa promossa dalla tela di Santa Maria del Popolo e lasciata al lettore attento, il cavallo vince, perché, come può accadere quando è data libertà alla meraviglia ideativa e descrittiva di un bambino che è filosofo animalista per antonomasia, Michelangelo Merisi, da strepitoso pittore che mal sopporta convenzioni e generi, destina al cavallo l’inquadratura-chiave sotto l’occhio di bue. E perché al cavallo qui, nella strutturazione delle parti, è delegata insomma la scelta dirimente. Calcherà su corpo di Saulo il suo zoccolo sospeso o redimerà il peccatore frenando l’impeto e limitando alla luce – che viene dall’alto e scende folgorante lungo le membra della sua robusta complessione corporale – il contatto con l’uomo – l’uomo andato per le terre e steso sul suo mantello Il piede e l’orma
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come su un drappo da teatro – così da convertirlo (e così da disperdere il troppo umano che alberga in lui)? Dio o demiurgo, e prim’ancora che le storie sacre ci dicano come è andata a finire (e come si dice che sia andata a finire, quanto all’intentio operis, è irrilevante o quasi), il cavallo di Caravaggio vince a mani basse, vivaddio; e così nel confronto, a disdoro del sacro, gabbato è lo santo. La Conversione di San Paolo, in aggetto sul palcoscenico di un vigoroso, potente dramma barocco, ha molto per essere una laica conversazione. Che Dio ce la conservi. E con il cavallo di Caravaggio ci conservi, per l’arte e altrove, una sana visione anti-antropocentrica. D
Cavallo chiama dromedario. Nella casella della D ci sta il dromedario, infatti. E ci sta di diritto, anche per l’età sua, che in pittura è maggiore, poiché la comparsa di questo esemplare risale all’anno domini 1563 (con la giunta del 1564) e dunque precede quella del cavallo di Caravaggio che fa ombra a Paolo di Tarso. San Marco per i veneziani è un mito, il simbolo massimo. E a Venezia, che è antichissima, storica, antesignana città di commerci, doveva pure accadere che i mercanti venissero immortalati, riscattati da pecche se non beatificati, loro i detentori del potere economico e politico, loro immuni da pubblici decreti di espulsione e invece accreditati di un pieno diritto di domiciliazione nel tempio. Il tema del trafugamento delle spoglie dell’evangelista, e quindi della sua restituzione per il culto al popolo della Serenissima, per quanto detto, non doveva considerarsi secondario. A rendersene attori, vista la predilezione della città lagunare per l’economia del terziario, è quindi credibile che siano stati chiamati due imprenditori di commercio (è un’ipotesi, naturalmente; come resta un’ipotesi che il sacro gesto furtivo il dipinto lo attribuisca ai cristiani di Alessandria, devotissimi al loro vescovo, secondo quel che di recente è stato argomentato). Comunque, in una scatola scenica chiusa da un palazzo porticato e frontalmente da una possibile chiesa (le procuratie, la basilica?), su di una rete di flussi dinamici di anonime comparse segnate da biancori lattescenti, nella dispersione sotto spinte centrifughe di personaggi non meglio specificati che si scorgono abbandonare precipitosamente la partita, mentre profili come fosforescenti – così pure in Tiziano, nello stesso giro di anni – sagomano spigoli di pareti, volute di facciate e affioramenti antropomorfi illuminandosi come fuochi fatui, e mentre il cadavere, sistemato in una sorta 40
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di deposizione secondo canone, sembra che sia oggetto di una contesa, con chi lo tira di qua e chi lo tira di là, Tintoretto si adopera a fissare sulla tela, per la scuola omonima, un episodio cruciale della storia post mortem del santo titolare della città, che beneficerà, rimpatriato e accasato come conviene, del leone e dei bronzei cavalli. Ora, io che amo Tintoretto, amo del Trafugamento del corpo di San Marco soprattutto la sensazione di caos, che giudico incontenibile. Si direbbe che conti soprattutto, per il grande pittore, la forza trascinante dello spettacolo (forse non è senza motivo che proprio sull’estrema destra, in basso, un signore che protende verso di noi il capo arrovesciato si aggrappi ad un telo che potrebbe essere candidato a sipario); e si direbbe che la sorpresa di un evento improvviso (magari di un temporale da diluvio che viene a capo del rogo destinato alle spoglie sante) e le reazioni svariate della folla (la scena è corale, senza dubbio) meritino la massima attenzione e sconvolgano qualsiasi ordine narrativo, con i ruoli connessi. Certo è che non è dato capire – io almeno non sono riuscito mai a capirlo – quali siano i trafugatori e chi invece eventualmente si opponga e resista; né si comprende cosa ci faccia in terra un uomo che ha in mano una fune, se voglia portare dalla sua parte il camelide riottoso o ne sia al contrario portato, scosso per intanto. Anche il corpo del santo, che sembra oggetto di contesa, è preso in questo bailamme, vacillante come appare sopra quello che potrebbe essere il lenzuolo funebre. L’unico a restare imperturbabile è il dromedario; tanto che sfido chiunque a precisare quale ruolo giochi nella rappresentazione e con chi sia fatto schierare. So che sta lì, serafico, come fuori spazio e fuori tempo, lontano dalla mischia, dai gesti simbolici (il più delle volte, inscritti in una simbologia del potere) degli uomini. Mercanti ovvero cristiani di Alessandria, il loro è un concorrere per un miracolo piccolo piccolo ottenuto subornando gli infedeli; il miracolo grande è quello, semmai, mostrato dalle forme multivarie della natura, che incontri inaspettate e insospettate, spaesanti, strabilianti. Insomma, sbalorditivi dovevano riuscire, per Tintoretto e per tanti suoi coetanei, gli animali d’altre terre, spesso mai viste, magari un dromedario, che diventava essenziale, allora, quando capitasse, e sia pure di straforo, meglio se di misure imponenti, fermare nella memoria con le linee i colori, dandogli tutto il risalto possibile, e se possibile anche un risalto maggiore di quello conferito alla storia del santo (per altro, nel quadro, la testa del dromedario è perfettamente in linea, manco a farlo apposta, con la testa di San Marco). Tintoretto il suo bestiario se lo cura; ricorderò di lui i due cavalli riIl piede e l’orma
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finiti con somma perizia che stanno ai lati del luogo della Crocifissione nella Scuola di San Rocco. Ma per il dromedario mostra una predilezione speciale; e il suo dromedario ci rammenta come arti e lettere peschino nel regno animale le figure di quel meraviglioso esotico che è segnale del desiderio, che è “via” di una necessaria ricerca di alterità. Un loro termine a quo, un loro termine ad quem. E
Sotto la E trovano riparo due esemplari di taglia diversa. Uno è l’ermellino, quello così bianco da parere glabro, tenuto in grembo dalla Dama di Leonardo, dipinta presumibilmente tra il 1488 e il 1490. Certo, il mustelide è arruolato dapprincipio per funzioni ancillari; singolare animale da compagnia, gli si attribuisce un mandato simbolico di rinforzo alle virtù di lei, che si vuole sia Cecilia Gallerani, amante ventenne di Ludovico il Moro. E c’e un possibile gioco onomastico, tra il cognome del personaggio femminile e il nome greco dell’ermellino, galé, a suggerire la liason e a farla stretta. L’agile bestiola, sappiamo, i bestiari medievali la raccomandano come depositaria di intelligenza, e pure di equilibrio, e pure di moderazione. Niente di più consono al soggetto, pour cause idealizzato e quasi rivisto agiograficamente, del ritratto cortigiano dipinto a Milano presso gli Sforza. Per giunta, la nuova maniera leonardesca, che dismetteva la consueta location paesistica, in cui la natura per via di sfumato entra in simbiosi con la figura umana, richiedeva una scelta puntualissima delle posture, dei costumi, dei reperti iconografici completivi. Perciò, nella Dama con l’ermellino, la nettezza della linea, tale da “esporre” volto e incarnato sbalzandoli sullo scuro del fondale di una scatola chiusa, di uno spazio d’interno; perciò il provenire della luce da fuori, da un punto imprecisato, e l’orientarsi della giovane nella sua direzione, come in un corrispondersi fatto di cenni di richiamo nel segno della spiritualità o di rapimenti assorti in un mondo di bellezza (e v’è chi ne ha tratto conferma per la poetica dei moti mentali, quali “regolatori” delle immagini vinciane); perciò l’altissima definizione delle vesti indossate, di raso e velluto, e dei fregi della manica, e dei motivi floreali sullo scollo; perciò l’ovale perfezionato dai capelli allisciati e fattisi cuffia; perciò le simmetrie in gran numero, dal doppio filo orizzontale che circonda la fronte (e che pone in evidenza occhi, naso e bocca) al semicerchio di perle nere che sul bianco della pelle fa eco ad una linea d’ombra, dalle parallele della collana al rettangolo dell’abito, dal mento alla mano al dorso del mustelide che si piegano, tutti bianchi, tenuemente ombreggiati, 42
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in un lieve moto curvilineo; perciò l’animaletto da compagnia per completamento della scena e per supplemento simbologico: in questo sistema di equivalenze, di parallelismi, va da sé che l’ermellino si trovi perfettamente a suo agio: epperò non stigma apposto, ma figura interna, coessenziale alla rappresentazione. Proprio per questa sua condizione interiorizzata, tuttavia, le significazioni derivate dai bestiari medievali, e aggiunte per decoro e per omaggio, non sembrano potersi più percepire con la precisione, o spiccare con il rilievo, che una pittura encomiastica richiede. A distanza di secoli, è chiaro che non possediamo più i riferimenti simbolici che si dichiaravano convenienti all’ermellino: l’intelligenza, l’equilibrio, la moderazione. Ma prima ancora che il tempo e la sua scolorina, è proprio il modo dell’arte – e della grande arte di Leonardo – ad aver rifunzionalizzato l’ermellino in grembo alla Dama ritratta, ripassando di più e meglio la spola delle funzioni di senso di cui è latore, liberandolo così dalle semantizzazioni sclerotizzate e arbitrarie, dalle superfetazioni di cui era caduto vittima (lui già e ancora vittima della crudeltà senza freni dell’uomo cacciatore di pellicce per innaturale amore del superfluo). Per questo abbiamo scritto sopra che l’ermellino di Leonardo ci appare glabro; senza i rivestimenti, le pellicce posticce di cui è stato fatto strumentalmente oggetto, lui riprende a vivere di un’altra vita nella contestualità organica dell’opera che lo ospita, e in un quadro fitto di parallelismi, o di principi di equivalenza postisi sull’asse della combinazione, si rende fattore strutturante in convivenza – una convivenza alla pari, vicendevolmente necessitante – con gli altri fattori che insieme collaborano al polisenso del testo. L’intelligenza, l’equilibrio, la moderazione: nella Dama con l’ermellino c’è dell’altro e di più, anche grazie alle interferenze alle quali partecipa da protagonista la bestiola, il cui musetto si è detto che è come se replicasse in piccolo il volto di Cecilia. L’ermellino è, infine, rebus sic stantibus, prova irrefutabile della forza dell’autonomia relativa di arte e letteratura, quando riescono ad essere all’altezza del compito loro. Ma passiamo ora all’altro animale, di specie diversa e di taglia nettamente più grande, che abita la casa della E. Stiamo dicendo dell’elefante, di quello del Pianeta irritabile, 1978, di Paolo Volponi. Lui, nel romanzo distopico dello scrittore urbinate, che pure profila sullo sfondo, in dialettica, una perplessa utopia, con l’oca e con il nano (che è l’unico, della specie umana, ad averla scampata, e giusto per le sua condizione sub-umana, simile a quella degli animali, e giusto per le sue virtù più-che-umane) resta Il piede e l’orma
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un sopravvissuto alla distruzione dell’ambiente provocata dagli uomini, sopravvissuto su di un pianeta magmatico, esploso, bollente, in perenne metamorfosi, senza più coordinate di tempo e di spazio, irritato. Lui, che ha la memoria proverbiale di un elefante, metafora letterale secondo le leggi del fantastico e dantista d’eccezione, è monumento alla memoria che sa selezionare, prescegliere, che fonda i presupposti per ricominciare. E tanto basta. F
Sotto la F, non ho dubbi, ci porto le farfalle e con le farfalle convoco Gozzano e le sue piccole allegorie. Quella che si incontra dapprima, nella Via del rifugio, finisce spillata dalla bambinetta crudele (i bambini sanno esserlo, checché ne dicano alcune poetiche che hanno fatto scuola nel Novecento italiano). Al giovane poeta che dice “io”, resupino sull’erba, il quale disincantato rifiuta con Schopenhauer, per voglia di nolontà, quadrifogli gravidi di speranze e di promesse, il variopinto animaletto alato, trafitto dalla piccola aguzzina e colto negli ultimi spasimi prima della morte, si fa suggeritore del concentrarsi concitato e convulsivo del dolore, del precipitare del tempo – immutabilmente destinato a finire, a concludere i suoi cicli – nel chiuso dello spazio: è immagine, la farfalletta, di un’inquietudine irrigidita: è specchio di una sorte comune per cui la vita universa non cangia stile e motiva, piuttosto, un pessimismo cosmico di cui farsi risolutamente persuasi. In una parte del tutto congruente, quattro anni dopo, nel 1911 che vede il battesimo dei Colloqui, un’altra farfalla, l’Atropo, che ha sulla livrea il “tatuaggio” di un teschio, intona il suo canto luttuoso ronzando nel solaio. Nel solaio ci stanno Felicita e l’avvocato a rimestare le cose sdate. È il luogo ideale, non tanto acconcio ai convegni d’amore (un amore impossibile quello di Felicita e dell’avvocato, che soffre di aridità sentimentale), quanto attrezzato a dare avviso del ruolo della poesia, a rammentarne la condizione. Nella poesia degli oggetti che è la poesia di Gozzano, quanto è caduto in disuso, quanto è smesso – che rammenta la marginalità della poesia, che le raccomanda atti di autocoscienza – e quanto è relegato in disparte come è relegata in disparte la poesia, che nella “casa” della società occupa i vani appartati e marginali quali una cantina o un solaio stipati di cose morte, accatastate e livellate dal tempo: nella poesia degli oggetti, o delle buone cose di pessimo gusto, che stipano i versi ironicamente battuti dal grande 44
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crepuscolare di Piemonte, tutto ciò, che è «ciarpame reietto», che è rifiuto secolare in sonno nel solaio di villa Amarena, non può che essere caro alla musa, materia preferita fra tutte. Esso ripete infatti, in battute fulminanti a futura memoria, il testo della legge della esposizione al tempo, che tutti ci riguarda e non risparmia nemmeno la poesia, una volta ritenuta monumentum aere perennius; e segnala che la gloria passa e scivola via come acqua sul vetro; e avverte che la grandeur declina e presto sfiorisce, incontrando la stessa sorte di una corona d’alloro scambiata in un amen per un ramo di ciliegie; e là in lontananza, sullo schermo illuminato da una piena chiaroveggenza, lascia avvistare un mondo fatto di cosi buffi a due gambe che fanno tanta pena, mentre ci si affatica a inseguire vane chimere, miraggi delusivi, e mentre clangori di buccine si levano stordenti a ottundere le coscienze. Il ciarpame reietto è accumulato in disordine nella penombra del solaio e vi è fatto dormire. A svegliarlo, a farlo parlare perché se ne possa ascoltare quanto ha da dire, è infine il poeta. È il poeta a riprenderne e riaprirne il copione, il poeta, nella Signorina Felicita vestito da avvocato, che ha vissuto per una breve stagione la vita piccolo-borghese di un mondo provinciale e ora la racconta per episodi e per quadri di rappresentazione, con quella coscienza del relativo – una coscienza che fa il paio con la coscienza della finitudine e della morte; qualcuno ha sostenuto che Baudelaire è stato il primo renderci persuasi della mortalità della poesia – che il ciarpame reietto, abilitato a metaforica profferta di senso, è in grado di attestare, di procurare. Procurare e abbigliare d’ironia, nell’idillio di Felicita, sullo spartito del ronzio luttuoso dell’Atropo, con il teschio tatuato sul suo corsaletto, che ha innescato la suoneria, che segna e scandisce il momento del risveglio. La farfalla in Gozzano, nei Colloqui e un po’ in tutte le sue opere, ha un ruolo di primissimo piano. Col suo volo è messaggera di morte, che ottiene una lucida, laica consapevolezza della relatività dell’umana condizione; con il suo sollevarsi per poi finire intrappolata in una inquietudine irrigidita, che è sintomo di un doloroso precipitare del tempo nello spazio, la farfalla gozzaniana è una piccola allegoria che ribadisce e performa da distante e prosegue l’allegoria dell’albatro spanciato. Nella Signorina Felicita, in particolare, è il poeta a volersi responsabile; è il poeta che lo scuote, lo sollecita perché l’Atropo voli a intonare il suo canto e faccia che il ciarpame reietto, caro alla musa, torni a svegliarsi svegliando la poesia, chiamandola ai suoi compiti di lente posata con lucida e ingrandente chiarezza sull’arido vero. Il piede e l’orma
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La farfalla ne ha le funzioni delegate, di sicuro è la compagna del poeta, la sua complice. G
La poesia ha spesso una vocazione da gattara; e dunque, nella casella della G, il posto è riservato. È dei gatti e dei gatti dirò, brevissimamente, due posture diverse. Una inquadratura – la conosciamo tutti – ce la offre Baudelaire, che raccoglie e addensa molteplici significati intorno al felino nostro compagno, sornione e demoniaco, pressoché imprendibile nella sua allure, nella sua souplesse. Un’altra inquadratura la dobbiamo a Govoni e alla sua Armonia in grigio et in silenzio. Govoni ama catalogare, come si enumerano e si catalogano cose, oggetti; e i gatti li vede e li vuole bianchi, fermi tanto da sembrare di maiolica, alle lunghe – a via di enumerare – pietrificati. Govoni limita il dire della poesia ad un mero descrivere; e i gatti, spogliati di tratti che abbiano luogotenenza psicologica, appaiono tutt’affatto de-umanizzati. Da postazioni diverse, per dilatazione semantica o per suo ridimensionamento fino al grado zero, Baudelaire e Govoni presentano il mondo animale come un continente misterioso, sommerso. Irriducibile al sistemauomo, alle sue conoscenze, ai suoi pregiudizi. E i gatti allora ci invitano a riprendere il viaggio, su terre che ci possono venire incontro inesplorate, con altre lettere e altri esemplari, in un’altra puntata.
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Restituzioni
ENKIDU
Così, la dea concepì nella sua mente un’immagine, ed era fatta della sostanza di Anu del firmamento. Nell’acqua immerse le mani, trasse un pizzico di argilla, lo lasciò cadere nella landa deserta e fu creato il nobile Enkidu. C’era in lui la virtù del dio della guerra, di Ninurta stesso. Aspro era il suo corpo, lunghi i suoi capelli come quelli di una donna, ondeggiavano come i capelli di Nisaba, dea del grano. Il suo corpo era coperto di pelo arruffato come quello di Sumuqan, dio del bestiame. Era ignaro dell’umanità, nulla sapeva della terra coltivata. (da L’Epopea di Gilgameš, XX sec. a C.)
MINOTAURO
…Pasifae, figlia del Sole e moglie di Minosse re di Creta, arse d’amore per un toro e, grazie alle arti di Dedalo, chiusa dentro una vacca di legno rivestita con la pelle di una bellissima giovenca, si unì al toro. Di lì nacque il Minotauro che, imprigionato nel Labirinto, si nutriva di carne umana. (da Servio, Commento a Virgilio, Eneide, sec. IV)
Teseo fu poi estratto a sorte fra i giovani che dovevano far parte del tributo a Minosse (era quella la terza volta) … Quando Teseo giunse a Creta, Arianna, figlia di Minosse, si innamorò di lui, e gli promise che lo avrebbe aiutato … diede a Teseo un filo grazie al quale sarebbe potuto uscire: Teseo lo legò alla porta e, tirandoselo dietro, entrò. Scovato il Minotauro proprio nella parte più interna del labirinto, lo uccise a pugni, poi, riavvolgendo il filo, tornò indietro e uscì. (da Apollodoro, Biblioteca, cit.)
… so che … un giorno sarebbe giunto il mio redentore … Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! […] Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue. “Lo crederesti, Arianna?” disse Teseo. “Il Minotauro non s’è quasi difeso.” (da J. L. Borges, La casa d’Asterione)
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Restituzioni
Alfonso Cardamone
Versi per Enkidu e Asterione
dalla parte di enkidu mai sentii pronunciare il nome (che in seguito seppi terribile) di Gilgamesh il possente re di Kullab e di Uruk signore prepotente delle genti di Sumer e toro incontenibile che unico generò la vacca selvatica del recinto Ninsun che conobbe il dio del sole, a cui conferì Enlil regalità e dominio sopra gli uomini, Gìlgamesh dico, fino al giorno del Nuovo Anno, io Enkidu che non nacqui di donna e fui d’incanto sotto il sole dal ventre della steppa gli occhi ferite aperte e lancinanti all’inaudita luce sentii lo stormire delle fronde il passo leggero delle gazzelle in fuga all’abbeveratoio l’afrore della tigre e mi drizzai di undici cubiti l’ombra misurando e non meno sulla sognata foresta rabbrividente dei cedri vello di capro grugno di verro e gambe di cicogna controvento spiavo gli uomini scavare trappole e intramare reti alla posta che strappavo l’une e colmavo l’ altre la notte pei fratelli 48
Il piede e l’orma
Restituzioni
sempre mi visitarono la notte ambigue immagini di bestie ostili doppie nel taurino occhio e nell’umano fianco e correvano pieghevoli a vorticosi ingorghi docili ai giochi della luna le litanìe del sangue la lingua dei cervi la mattina scioglieva i groppi che notturni un dio imperfetto illudeva stringere e le membra disponevo al nuovo giorno ma una notte la corrente si fece rapida del sangue e le figure doppie aprivano fra cosce molli il sesso della donna al risveglio sfidai alla corsa il maschio più veloce del branco e sul sentiero asperrimo all’abbeveratoio mise ali alla mia corsa l’angoscia della notte non la brancai come il leone la gazzella anche se l’odore del suo corpo aveva cacciato le bestie al folto disperdendo il branco guardai catturato il suo corpo bianco e lei si stese traendomi al suo fianco dinanzi a me si stese in un sorriso sei giorni e sette notti luna e sole fecero da scolta al nostri corpi uniti e a me che aravo con vomere implacabile il ventre suo di miele ella parlava parlava suoni che inquietanti immagini accendevano alla mente e fu per fuggire le parole (ancor più che per lo scemare della furia) che risposi al richiamo del lontano Il piede e l’orma
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Alfonso Cardamone: Versi per Emkidu e Asterione
branco di undici cubiti e non meno distendendo l’ombra in corsa alla radura e più non giunsi il bulicame in fuga alle ginocchia accoccolato della donna affidai alla sua bocca il mio destino incominciai a dare un nome alle cose ed alle piante agli animali ai sogni e al di là delle stagioni appresi ciò che è alfa e ciò che è omega conobbi il nome disperante della morte unto d’olio e di vesti rivestito inseguendo i sogni d’Uruk alle porte pervenni accompagnandomi alla donna e tutto accadde ch’era nominato nello stordito correre alla morte sul limitare del tempio della dea Gilgamesh furono e la lotta la mia sconfitta ed il fraterno amore la sfida al mostro poi di settuplici terrori armato le cui fauci erano la morte Humbaba che non dorme mai da Enlil posto a guardia del sacro cedro che Gilgamesh irrequieto cuore volle per immortale fama trappola di Enlil e di Samash insidiosa rete a me che decretai la morte dell’abbattuto mostro s’intrecciarono i nostri sogni ancora poi che al mio disprezzo verso il dio che usa i mostri per adempiere il destino s’aggiunse il tuo a imbestialire l’infoiata dea Ishtar nostra signora dell’amore e della guerra a cui negasti il seme del tuo corpo ed anche il Toro Celeste che condusse giù alla cavezza a distruzione tua io l’afferrai 50
Il piede e l’orma
Restituzioni
per le corna offrendolo alla spada e lei insultai scagliandole i brani sulla faccia volle Enlil che uno di noi due morisse e Samash non lasciò di proteggere il tuo fianco figlio dell’onagro e della gazzella uomo senza dio traviato dalla donna fui io Enkidu il prescelto dagli dei e in sogno già raggiunsi i territori oscuri della morte a te lasciando ancora in sorte, mio fratello, l’inutile ricerca e il miserabile ritorno l’ombra lunga di asterione tutte le città mi sono estranee che io attraverso ad occhi stanchi già sento il passo della gòrgone che s’appressa e apprendo che non c’è spada d’egèo a fare l’stante bello del labirinto rovesciò Borges l’assioma del labirinto rovesciò Borges l’assioma che trappola fosse inconcepibile e mortale ad uno smarrito eroe predisposta dal dio imperfetto e languido Asterione ché l’ateniese non il dio designò vittima predestinata ma carnefice all’opposto lo sognò l’insensato avendo a tedio pantano dell’immortalità e godette il dio imperfetto come mai nell’attesa Il piede e l’orma
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Alfonso Cardamone: Versi per Emkidu e Asterione
percorso da brividi inauditi e fuggevoli sensazioni ma al farsi più pesante il passo di colui che il filo ricevette dalla fulgente Arianna gli si gelò il sangue nelle vene e ancor prima gli venne meno il cuore che nel collo affondasse il filo della spada sì da mostrare ai posteri quanto ingannevole la vita sia da qualsiasi orizzonte la si guardi al centro d’un condiviso al centro d’un condiviso labirinto ogni animale umano è il minotauro (e) sempre uccide e sempre viene ucciso
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Il piede e l’orma
Bestialitàquale
Franco Araniti
*´U russettu du dercu (Il sangue del maiale)
Nonostante le leggi 882 e 883 e succ. modif. sulla macellazione senza sofferenze (sic!), ogni anno, nelle campagne pare che si faccia la festa del (al) maiale previo lento scannamento. Chi vigila sull’applicazione della legge? “Ammazza, come scorre il sangue dai cannarini del grignutu!” L’esclamazione di Santo si confonde con l’interminabile grido del dercu. Lo tengono stretto, la forza di un uomo per ogni arto, per non farlo dimenare. Il grugnu torce il marrazzo lentamente in profondità. Il sangue, sputato dal cuore ancora vivo, fiotta caldo e scivola lungo il manico nel catino, ove viene raccolta l’agonia lunga un anno di vita. “Non voleva proprio morire”, commenta Santo con gli amici sudati. “Le nostre mineche potranno fare un abbondante sanguinaccio”. Sugli usci socchiusi dei bassi casolari raccolti sul pianoro drappeggia l’ombra scura del fadusu dei tasej. Ora in un viavai frenetico di tasejelle, mani insanguinate tagliano la morte per consumarla subito o conservarla. Dalla porcilaia il grugnito dei porcellini si culla sui vapori che la terra rilascia. *ammascante, gergo dei calderai di Dipignano (CS) recuperato dalla memoria orale e donato alla scrittura da John Trumper Cannarini = giugulare; grignutu, dercu = maiale; grugnu, tasejo = contadino; mineche = mogli; fadusu = mantello; tasejella= contadina Con/torcimento Da colle a colle, da valle a valle il dolore del maiale dilava. Grugnito in gorgoglio di sangue fuoricircolo Il piede e l’orma
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Franco Araniti: ’U russettu du dercu (Il sangue del maiale)
sulla lama d’acciaio che con/torce. Il grido a lungo penetra la mente, l’agonia vedo da quel grido lontano, il sangue che il cuore vivo sputa. Oggi non ti amo contadino. Oggi che sei cataratta nell’uscio di casa socchiuso viavai indaffarato di morte crudele.
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Il piede e l’orma
Bestialitàquale
UROBOROS Eraclito aveva detto che nella circonferenza il principio e la fine sono un solo punto. Un amuleto greco del secolo III, conservato nel Museo Britannico, ci dà l’immagine che meglio può illustrare questa infinitezza: il serpente che si morde la coda, o, come dirà acconciamente Martinez Estrada, «che comincia alla fine della coda». Uroboros («che si divora la coda») è il nome tecnico di questo mostro, di cui poi gli alchimisti fecero spreco. (da J. L. Borges, Zoologia fantastica, XX sec.)
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Severo Lutrario
Parashat di Bereshit – ovvero - Genesi 3
Valore incalcolabile sembra assumere il ritrovamento operato sei mesi fa dall’Hamdan Taha, il Dipartimento delle Antichità della Palestina, a Tell Es-Sultan, il sito a due chilometri dal centro dell’attuale Gerico, l’antica Ruha cananea e sede dei ritrovamenti risalenti sino al periodo epipaleolitico (tra il 18.000 e il 12.500 a.C.). Sono due tavolette con incisioni cuneiformi assimilabili alla scrittura sumerica e la loro datazione sulla base dell’esame al Carbonio 14 le colloca intorno al 4.600 a.C. L’integrità e lo stato di conservazione delle tavolette, rimaste per millenni all’interno del loro contenitore di argilla, hanno consentito a Kathleen Watzinger, l’archeologa autrice del ritrovamento, di decifrarne il contenuto. Questo si è rivelato essere una versione del Parashat di Bereshit della Torah, ovvero della parte 3 della Genesi della Bibbia cristiana, precedente di quasi tre millenni la datazione del testo ebraico. Riservandoci l’analisi delle implicazioni del ritrovamento sul prossimo numero della rivista, diamo di seguito la traduzione fedele del testo. 1 Ouroboros della fine nutriva l’inizio e l’eterno presente delle bestie selvagge mutato aveva coll’eterno ritorno. Ed egli chiese alla donna: “Non dovete mangiare d’alcun albero del giardino?” 2 La donna rispose al serpente: “Della frutta degli alberi dell’intero giardino possiamo mangiare. 56
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Bestialitàquale
3 Ma dei frutti dell’albero, ch’è in mezzo del giardino il Verbo ha detto: Vi dico di non mangiarne e non toccarli perché altrimenti conoscerete la morte.” 4 L’ouroboros, che fine e inizio conosceva, disse alla donna: ”Voi non morirete. 5 Ma il Verbo sa che qualora ne mangiaste, i vostri occhi si aprirebbero, e simili ad Egli, diverreste conoscitori e conoscendo, sapreste l’inizio e conoscereste la fine.” 6 La donna vedeva che i frutti dell’albero erano buoni a mangiare e dilettevoli alla vista; che l’albero si mostrava desiderabile al solo contemplarlo. Prese dunque i suoi frutti e ne mangiò. Ne colse e ne diede anche al suo uomo da mangiare con lei ed egli ne mangiò 7 Gli occhi di ambedue s’aprirono e conobbero l’inizio e seppero la fine; ignudi si videro nella terribile durata e con le foglie di fico si fecero cinture. 8 Udirono la voce del Verbo che alitava per il giardino dalla parte che volgeva ad occidente; l’uomo e la donna conobbero il timore, timore per il Verbo, l’Eterno, e si nascosero tra gli alberi del giardino. Il piede e l’orma
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Severo Lutrario: Parashat di Bereshit – ovvero - Genesi 3
9 La voce del Verbo chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?” 10 Quegli disse: “Il tuo alito ad occidente intesi e ignudo dinanzi a te temetti e tra gli alberi del giardino mi nascosi.” 11 Ed il Verbo disse: “Come hai conosciuto d’essere ignudo? Hai dunque mangiato dall’albero, di cui dissi di non mangiare? 12 L’uomo disse: “Ė la donna, che la frutta coglie, dessa me ne diede di quell’albero ed io allora ne mangiai.” 13 Il Verbo disse alla donna: “Cosa mai è avvenuto?” La donna disse: “L’ouroboros mi convinse ed io mangiai” 14 Il Verbo disse all’ouroboros: “Poscia che hai compiuto l’opera tua e l’uomo alla conoscenza hai condannato, sarai tu il più infelice tra i bestiami. Cesserai dalla fine avere inizio, mangerai terra e sulla terra striscerai tutto il tempo della tua vita. 15 Ed ecco che tra la progenie della donna e la tua progenie sarà odio insanabile. Quella ti calpesterà alla testa e la tua la morderà al calcagno.” 58
Il piede e l’orma
Bestialitàquale
16 Alla donna disse: “Ora che sai, grandi saranno le tribolazioni della tua vita. Col dolore della conoscenza partorirai. Tu avrai desiderio del tuo uomo, e in esso egli rinnoverà il tuo dolore.” 17 E ad Adamo disse: “Dopo che hai dato ascolto alle parole della donna, e mangiasti di quell’albero, di cui ti dissi: Non mangiarne!, la terra sarà maledetta per te. Tu la godrai solo con travaglio per tutto il tempo della tua vita. 18 E spine e triboli ti produrrà, e tu mangerai erbaggi agresti. 19 Col sudore del tuo volto mangerai pane, sino a che tornerai alla terra, poiché ora sai che da quella fosti tratto. Sì, terra sei, ed alla terra tornerai. 20 L’uomo chiamò la donna Vita, Poiché essa divenne la madre d’ogni vivente. 21 Il Verbo fece ad Adamo ed alla sua donna tonache di pelle, e li vestì. 22 Il Verbo disse: Ecco, discernendo il principio e la fine, l’uomo è divenuto quasi uno di noi. Ora chiederà d’un albero della vita Il piede e l’orma
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Severo Lutrario: Parashat di Bereshit – ovvero - Genesi 3
cui prendere i frutti e mangiarne sicché vivere in eterno. 23 Il Verbo lo mandò dunque fuori dal giardino dell’Eden a coltivare la terra da cui era tratto. 24 Mandato nel mondo l’uomo, Egli collocò all’oriente di Eden i Cherubini e la fulgida spada roteante, per custodire la via dell’albero della conoscenza.
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Il piede e l’orma
Carmen De Stasio
L’indeterminante emozionale dalla ragione alla bestializzazione
Le Buone Maniere non sono una Virtù, ma aprono la strada alla Virtù. (E. Kant) Vale per tutto una regola: l’esperienza, cui si associa il ragionamento come diritto di dar nome ad una conoscenza. Che sia questa valida per procedere al di qua delle storture è di per sé lodevole. Ma quando l’esperienza si coniuga con l’esclusività dell’azione, si condensa in una parola la grossolanità generica e si prospetta all’orizzonte quanto, invece, è adottato da chiunque per il sol fatto di respirare, di bere e di mangiare e di percorrere il proprio cammino di vita. Come Hobbes potrei addurre questa come sintesi di una primarietà che nulla ha a che spartire con il concetto di conoscenza e, in fondo, si tratterebbe molto più convintamente di fede nei propri propositi, piuttosto che di fiducia nella dimensione di uomo proiettato a mutar se stesso ed i suoi casi, in quanto fonte di esperibilità da cui trarre il succo di una dimostrazione di logica. Egualmente occorre trasmutar dall’eccesso di definizione di conoscenza come virtù in quanto detenzione di abilità emozionali e non già, come bene sarebbe, di virtù in quanto energia che spinge verso l’azione efficace e, talora, dolorosa per ammettere nel proprio circuito quanto è stabilito come proposito. Su questa direttrice spinge la mia riflessione a distinguere il ruolo dell’uomo attratto da conoscenza dall’individuo abbagliato da aspetti utilitaristici che, invero, non si sottraggono a una logica morale primitiva. Che si distanziano enormemente dalla disposizione intelligente a distillare dall’esperienza articolata le minime esposizioni, che protendono come contenitori di ricco alimento da richiamare nel tempo adeguato affinché si addensino di senso. Di significazione. Ciò allontana lo spettro di un’antropofisicizzazione dei casi e converge sulla differenza che rende l’uomo di coscienza e di scienza quale virtuoso e l’uomo (im)bestialito secondo una Il piede e l’orma
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Carmen De Stasio: L’indeterminante emozionale dalla ragione alla bestializzazione
convenzione che vede nella bestia il lato infimo di ciascuno di noi. Peccatori incolpevoli e disturbata prole di nefandezze; facitori di bessi continuativi in processione temporale a confrontarsi con la vacuità di una memoria che, tal a dirsi, mantiene elevato lo zoccolo della soglia dal sé all’altro e che concilia i più, nella specularità delle convenzioni, a ritenersi fuori da perigli oltraggiosi, che finiscano per contaminare del proprio male anche il sé illuminato nel bene. O nel Bene serafico. Troppo spesso la confusione domina la scena del pensiero routinario e si assiste alla defalcazione di un bestiario cui si suol detenere nomenclatura di soggetto a esclusione del nostro. In altre occasioni si evidenzia con pomposo verbo la differenza sussistente tra l’uomo e la bestia, salvo poi ritrovar confezioni letterarie che riportino quanto in realtà non esista, ovvero una sostanziale diffusione (strategica) che allontani l’uomo dall’inquietante figurazione iconica della bestia. O dell’esser bestia. Vero è che nel Medioevo i bestiari fossero immagini verbali a condensare la metafora di taluni comportamenti in determinate condizioni. Tale realtà non è mai venuta meno, se si considera che larga parte dell’arte abbia dedicato all’animale da basto una configurazione mediante la quale si accedesse a una simbologia per spingere l’uomo fino a oltraggiare il suo ruolo di determinante razionale della natura. In tal senso trova terreno fertile l’equa distribuzione degli elementi distintivi che rendono la consequenzialità delle osservazioni e tracciano uno spazio, che va nutrendosi di segmenti legati alla realtà in ordine ad una determinazione resa efficace dal tipo di cultura che investe quella realtà, estesa poi a gesti, a riflessioni che prendono le tonalità e i timbri collocabili in relazione all’ambiente, alla circostanza, alla prospettiva. Questo modo traduce la realtà nell’azione verbale che, tuttavia, non riesce a trattenerne l’interezza dei dettagli. Manca, tra i tanti, un tassello da definire: nella segmentazione culturale si definiscono le materie proprie dell’azione in base all’essere o meno eterotrofo o autotrofo. Ciò dovrebbe intervenire a distinguere l’uomo dalla bestia, ma il confine è labile e la labilità si predispone quale terreno di questo argomentare, là dove a labilità conviene esigere altresì un termine di vulnerabilità, che assottiglia sensibilmente il velo tra l’uomo di consapevolezza dall’uomo delle istintualità. Ciò che appare strano è che, in virtù dell’algoritmo delle causalità detentive dell’azione, si cementa un accordo morfologico tra eterotrofismo e autotrofismo, nella misura in cui le condizioni riescono nella loro congenialità a supportare un’emergenza o l’altra. In quest’ottica l’autotrofismo è acme di una sentenzializzazione che conduce l’uomo, troppo e troppo 62
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spesso intrapreso dalla sua tela di presunta abilità, a sostenersi con l’energia di cui ha bisogno per condurre un’esistenza tale che sia efficace per gestire il proprio spazio di luce. Null’altro che il fenomeno di una rifrazione che, nell’allargare altrove rispetto al sé comunitario, distorce le associazioni fino a trasformarle in aperti conflitti. Questo naturalmente nuoce ai rapporti interpersonali, ma con un fondo di verità appaga le bestiali esigenze di non apparire nel raggio di subalternità. Sebbene non emerga apertamente come volontà, dove esso appare evidente viene a esser confuso con uno stato imbelle, di copertura alla propria debolezza. Sempre là compare la bestia che, soffocando il nulla, sentenzia disinvolta l’appagamento della distorsione comportamentale. Oppure della geometrica armonia degli opposti. Troppo spesso ci si acquieta con una coscienza di convivenza sociale come geometrica simmetria. Va da sé che, spesso, a essere corrispondente è solo l’accoglienza di convenzioni, dalle quali svetta un segno di rassegnazione al non pensiero quale confacente a un gruppo che ambisca alla quiete sotto uno stesso firmamento. È altresì una maniera per evitare di incorrere nel presunto pericolo di solitudine e, allora, l’appagamento di superficie viene a confondersi e a confondere l’interesse con l’interesse pubblico che nel silenzio viene accolto pur a scapito delle emozioni personali. Si tratta di una condizione che di frequente ha dato i natali a stati di sopraffazione non solo nelle grandi realtà storiche. Riguarda il piccolo come il grande gruppo, il clan come la famiglia. Ciascun ambiente può irrigidirsi su torsioni e contraffazioni che spingono gradualmente a considerare come serenità la complessità di legami dai quali l’individuo estromette l’integralità di se stesso. I tempi che viviamo sono più del calcolare che quelli del meditare (Essere il nemico, Flavio Ermini, Mimesis, Milano, 2013, p. 34) Il concetto di corporeità (quale relazione stabilita innanzitutto con se stesso) conduce a un rapporto con le cose delle quali si ha percezione partecipativa. Si tratta di una percezione partecipativa a stadi multipli, poiché è sottoposta a variabili coincidenti con le trame del tempo e dello spazio mentale, oltre che fisico. Questo comporta la duttilità e la liberazione da condizionamenti effimeri e contempla la realizzazione dei rapporti al di fuori d’ogni possibile virtualizzazione o alienazione dagli stessi. Le cose sono nella loro natura e così gli intrecci che si stabiliscono. Quando, tuttavia, al rapporto va a opporsi una sovrapposizione o un’abbondanza specuIl piede e l’orma
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lativa, subentra l’anomalia di una fagocitazione, di un assolutismo e di una monodirezionalità, capaci di scatenare passioni e strette configurazioni di dipendenza. In tal senso la dipendenza si compone di una duplice visibilità: l’una è rivolta alle cose con un annichilimento delle proprie potenzialità; l’altra indugia su un riconoscimento stagnante al punto da creare l’illusione dell’unicità esistenziale del sé in funzione della cosa e la cosa come utile solo al sé. Si tratta di rapporti imbastiti sull’assurdo ed equivoci, ma sono gli stessi che spingono a concepire la realtà circostante e tutti gli elementi che ne fanno parte come sovra-impalcature, come disturbo, come non-appartenenti. Il che nutre il senso di spaesamento e di delocalizzazione. Si potrebbe ricondurre questo mio dire al doublethink che impera in 1984: The primary aim of modern warfare (in accordance with the principles of doublethink, this aim is simultaneously recognized and not recognized by the directing brains of the Inner Party) is to use up the products of the machines without raising the general standard of living. Scopo principale della moderna politica bellica (concorde con i principi del doppio pensiero, scopo che è equamente riconosciuto e non riconosciuto dalla dirigenza – meramente, i cervelli direttivi – del partito Interno) è aumentare la produzione ad opera delle macchine senza aumentare il livello generale di vita (1984, G. Orwell, Penguin Book, 1981, p. 155) Nel doublethink orwelliano si riscontra il passaggio dalla direzione regolare e, al contempo, duale della parola-concetto, con il risultato di una dilagante e devastante confusione degenerativa che comporta sia assuefazione e annichilimento, sia stilizzata stasi. Il luogo in cui il fenomeno si manifesta è persecutorio, giacché è in ogni dove si affermi la potenza della volontà di dominanza sulla volontà gestita nella logica socializzante. A nutrire la macchinazione è l’avidità quale punto di confluenza di un malessere intessuto di noncuranza, brutale inettitudine al riflettere Ah, caro signore, sapesse com’è faticoso pensare. Da come la vedo vivere, mi sa che lei questo tormento non lo conosca. (I fiori blu, R. Queneau, Novecento Ed., Roma, 2003, p. 153) La destabilizzazione è una manovra artificiosa che poggia sull’appa64
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renza e non già sull’appartenenza (a meno che non si consideri questa come esclusività alle cose assoggettate alla propria vanità) e congestiona lo spazio dell’azione possibile con una speculazione delle intervenienze, delle persone e della propria capacità analitico-osservativo-percettiva e di relazione, sacrificate alla gabbia di una stoltezza che, nel suo peregrinare, contamina e imbestialisce finanche il sogno. Fondamentale per dare una linea di contiguità al reale, il sogno s’investe, pertanto, di un carattere di approfondimento informale nella misura in cui si colloca come elemento d’interazione tra la vita in materia e la vita virtuale. In esso avviene la realizzazione intenzionale, sebbene resti appagato in un mondo che sembra lontano, orfico. Forse nell’unicità della realtà del sogno avviene quell’osare osare cui Barbey d’Aurevilly si riferisce a proposito della possibilità della letteratura di manifestare sulla scena le storture (la bestia?) in coincidenza con la quotidianità e che sovente spinge a desiderare una fuga e, nel caso di consapevole incapacità, assorbire se stesso in uno stato di malinconia, di auto-rifiuto. Di auto-condanna. La letteratura non esprime neppure la metà dei misfatti che la società commette misteriosamente e impunemente ogni giorno, con una frequenza e una facilità veramente incantevoli. (Le diaboliche, B. d’Aurevilly, Newton, Roma, 1993, p. 221) Talora, il registro, mediante il quale la letteratura intende autorizzare alle emozioni di emergere, appare in posizione sghemba, pericolante con uno scopo: rendere l’efficacia espressiva come fosse un primo piano cinematografico, soprattutto nella luttuosità dello sguardo. Nella tensione di un cambiamento prospettico: There was the same hearty cheering as before, and the mugs were emptied to the dregs. But as the animals outside gazed at the scene, it seemed to them that some strange thing was happening. What was it that had altered in the faces of the pigs? (C’erano gli stessi calorosi applausi di prima, e i boccali erano stati svuotati. Ma gli animali, che dall’esterno assistevano alla scena, avvertirono che qualcosa di strano stesse avvenendo. Che cosa aveva alterato il muso dei maiali?) (Animal Farm, G. Orwell, Penguin Books, Great Britain, 1981, p. 120) Altre volte è la parola piana, un ritmo di essenziale semplicità a irromIl piede e l’orma
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pere con l’inquietante morsa del meccanismo, così in grado di scatenare contrasto, disorientamento: La pianura si è annerita per la notte che avanza, Gli alberi che fissavano i suoi profili solenni Ora sonnecchiano nell’angoscioso silenzio (Poesie della Crudeltà, A. Artaud, Stampa Alternativa, Viterbo, 2002, p. 45) Altre volte ancora il senso della devastazione emerge dalla brevità delle frasi, dall’ordinarietà dei termini, posizionati in maniera da scardinare e rendere antinomico il passaggio da sequenziale e glabro a sospettoso e funesto: Chance: I didn’t know there was a clock in this room Princess: I guess there’s a clock in every room people live in … (C: Non sapevo ci fosse un orologio in questa stanza. P: Credo che ci sia un orologio in ogni stanza dove abiti qualcuno …) (Sweet bird of youth, T. Williams, Penguin Books, New Tork, 1984, p. 110) Ulteriore situazione letteraria – distaccata o integrata nelle precedenti – è la suspense creata dal silenzio, dalle pause ridondanti o dalle ridondanze parlanti come un pendolo che oscilla e che nell’oscillare muove all’unico pensiero dell’inesorabilità. Di un’inerzia che insegue se stessa fino a traslare in stato di bestia: Dovrebbe essere un libro. Non so far altro. Ma non un libro di storia: la storia parla di ciò che è esistito – un esistente non può mai giustificare un altro esistente. (…) un’altra specie di libro. Non so bene quale – ma bisognerebbe che s’immaginasse, dietro le parole stampate, dietro le pagine, qualche cosa che non esistesse, che fosse al di sopra dell’esistenza. (…) Dovrebbe essere bella e dura come l’acciaio, e che facesse vergognare le persone della propria esistenza. (La Nausea, J. P. Sartre, Novecento Ed., Roma, 2003, p. 220) Non appaia tanto strano e, soprattutto, non si congegni il concetto come una sospensione evanescente che collimi con il semplice tempo temporizzato attuale, giacché (anche) a William Blake faccio risalire la mia osservazione. L’artista-poeta-pensatore, nel circoscrivere le sue attenzioni 66
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tematiche, affrontò il problema di soffusa argomentazione, ma di evidente richiamo sociologico, aspergendo le sue parole come fossero granelli di polvere solerti a dipanare il vetro della non osservanza. Il tempo è spazionutrimento di romanticismo-ribellione, di riflessione sui malesseri e sugli inganni ostruttivi della società del momento, intrapresa – l’uomo convintamente intrapreso, come poc’anzi accennato – a macchinare sulle presumibili condizioni che apportassero giovamento al macro-nucleo sociale, in ciò riuscendo arbitrariamente a dar connotazione miope e tolemaica a una visualizzazione che tendeva a rigurgitare se stessa in una valvola che girasse nello stesso verso, alla stessa ritmicità e producendo lo stesso identico spazio sonoro. A tutto ciò si giustappone la sonorità nuova e polifonica di Blake, nella mescolanza fattuale tra realtà e interferenze sopraggiungenti da visioni, che della realtà nutrono l’aspetto e non tanto per la fisionomia delle forme, quanto nei riflessi simbolici che emergono nelle strutture del reale e che hanno il sapore e la parvenza del contesto in cui hanno luogo. Siffatta versatilità giova da un lato ad adombrare situazioni che si assimilano a vivacità ludiche, di serenità, ma successivamente appaiono nella loro natura tenace, assillante e ossessiva proprio in quella forma di simmetria che non già più appare come sensibilità di ordine e di pragmaticità, ma lascia fluire il torrente abbarbicato tra ciottoli e funestato da distorsioni che l’esperienza da sola, come successione e talora predestinazione, possa congegnare. Dunque, al potenziamento si risponde con il trasalimento di un’evocativa visione, che non sempre confida in una sinuosità visiva. È il caso delle due raccolte Songs of Innocence e Songs of Experience. La prima connotata da relativa quiete, luogo d’infantile innocenza, quasi uno schermo fervido di promesse. Le poesie contenute nella seconda e successiva raccolta esistono in ragione di un contrasto – frutto dell’osservazione dell’azione, dei gesti – e sovente si può pensare alla caducità della bellezza affidata alla tenebrosità dell’appartenenza al mondo fattuale. L’età adulta. Il risveglio. La coscientizzazione. L’emergenza della bestia. Si consideri l’incipit di London: I wander thro’ each chartered street Near where the charter’d Thames does flow, and mark in every face I meet Marks of weakness, marks of woe (Vago per le strade composte / dove il composto Tamigi scorre, / e distinguo in ogni volto che incontro / segni di debolezza, segni d’infelicità) (London in «Songs of Experience», W. Blake, 1794) Il piede e l’orma
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È evidente come non già di spettri o di figure tenebrose egli tratti, ma strutturi l’atmosfera d’immagine esaustiva di significato e di tonalità esattamente a partire da quell’insediamento di rumori che si contrappongono al contemporaneo andare mesto, sfiancato dall’impotenza di affrontare la velocità e la noncuranza della volontà di altri uomini. In fondamentale accordo con la riflessione risuona il verbo wander, difficilmente traducibile se non corrispondendo a un muoversi a rilento assorbendo lo spazio circostante, pregno delle cadenze reiterate e convenzionate degli ambienti che affondano radici in ciascun uomo passi accanto. Con Blake viene a esser assunta una forma che non si esclusivizza all’istinto basso dell’uomo, né fa forza sull’impulsività. Si potrebbe asserire quale tratto iniziatico alla capacità d’intuizione che nel pieno del rigoglio industriale del XIX secolo appare come illuminante generazione di nuovi orizzonti. Il problema sta nei codici, giacché in questa luce l’ideale appare spezzato o talora fulminato da contingenze. Concludo con la poesia The Tyger, tratta da Songs of Experience. Anche in questa poesia la mimesi della rima oscillante sembra provocare un sussulto nella distorsione del movimento. Una sospensione inquietante, che non ferma in conclusione qualsiasi essa sia, ma concita l’animo nell’attesa del nefasto, nell’impossibilità di una seppur minima tregua con l’avvertimento: Tyger! Tyger! burning bright In the forests of the night, What immortal hand or eye Could frame thy fearful simmetry? (Tigre! Tigre! Brillante di fuoco / nelle foreste della notte, / quale occhio o mano immortale / ha concepito per te una siffatta spaventosa simmetria?) Vale tanto nell’aggressività quanto nelle sottigliezze silenziose, che di tal guisa sono promessa di dolore, di malia, e coltivano l’inquietudine fino a sostanzializzare la paura di un’oscurità che trasforma le ombre in bestie costantemente in agguato. Vince la paura della paura, l’olezzo dell’imponderabile che soverchia anche quando ci si sposta dal fuoco visivo. È uno sguardo che da un quadro promette vendetta e nutre sospetto. È altresì il ricatto cui soggiace l’individuo quando, maldestramente, impone nel pubblico lo stallo di un sentire che gorgoglia dentro e che appanna maldestre anticipazioni comunicazionali, diffondendo un acuto di non-azione e nongesto, ma soprattutto di pensiero divergente scavalcato da pensiero diversivo. 68
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Questo comporta la nettezza dei legami tra parlante e ascoltatore basati su unità fondamentali del linguaggio. Non sempre definibili come entità separate, accade che proprio quando il parlante si scinde dal ruolo di ascoltatore subentra quell’obliquità che ridimensiona e riduce a stato di prevaricazione dell’uno sull’altro. Il livello letterario raggiunge così il punto fondamentale di costruzione per una forma cui corrisponde la profondità di strategie adattate a coprire o a scoprire. A velare o a rivelare in relazione al referente contestuale. A esso si legano sia le facoltà emotiva, di ricerca, metalinguistica, sia la determinazione del messaggio che si ambisce rivelare o comprimere; sia, ancora, il canale preferenziale che si sceglie per appannare o per diffondere la propria comunicazione. Fondamentale è il codice opzionato perché il messaggio venga compreso e riutilizzato sensibilmente. Molto spesso i sei elementi (definiti da Jackobson in quanto livelli comunicazionali) non trovano un assemblage discreto e di pertinenza. Il più delle volte sostengono una refrattarietà che motiva e condona imperfezioni e malevolenze, stati di evitamento o di opposizione, di ristagno di parole e di mutazione prospettica. Il motivo è nella tipologia di rapporti ambientali, nella relazione pubblica (formale o informale che sia) con la variazione e le rispondenze rispetto a stati di prevaricazione che, sovente, rasentano l’aggressività o la vaghezza per svalutazione della propria parola o diffidenza a condividere regole. Di tutto quanto resta la fedeltà etica e altrettanto estetica cui ambisce la scrittura e lo stile fuor da congetture acrimoniose o cerimoniose di Henry James. Sta a lui l’aver anticipato sequenzialità simboliche che avrebbero aperto la strada alla scrittura (di pensiero) psicologica di J. Joyce, di V. Woolf, di T. S. Eliot e di tutta quella speme di artisti e narratori, i quali hanno inteso nel tempo successivo cimentarsi con la materia articolata dell’esistenza nelle sue spettanze. La novità di James consiste nella manifestazione dei fenomeni legati alla vicenda umana, con la sottrazione alla figuratività iconico-eroica e magistralmente colta nelle sembianze formali come innesto di rappresentazioni modali. La fredda mano e il presumibile distacco impongono l’inquietudine cui la realtà fa riferimento. Egli ne trae l’azione in quanto fenomeno, destreggiandosi con la creazione di atmosfere provocate da pause chiuse, da frasi limate e spezzate, che convergono ad attirare l’attenzione. In genere si offre esattamente nell’oggettività la chiave per entrare nello specifico e supportare la materia dell’autore, il quale interviene certamente, ma in maniera sempre discreta a rivelare quell’ottusità che comporta l’indagine profonda da parte del lettore. In particolare, la straordinarietà di James sta nell’aver compiutamente adattato alla realtà conosciuta le sue storie. Il punto di vista è di conseIl piede e l’orma
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guenza privato, ma non per questo non convincente, giacché l’autore non evidenzia, né rimarca particolari e proprio la cristallinità piana permette di sostare per assorbire le parole – forme entro le quali si stabiliscono i reali rapporti che l’autore stesso allaccia con l’arte. Arte, dunque, non selettiva, ma inclusiva, basata su rapporti unitari e solo in seguito convergenti nei raffronti. Non è difficile in questa scena irrorata da essenzialità riconoscere come James punti a far vivere d’identità propria la serialità del male, visualizzato come elemento inclusivo della realtà senza maschera. Inoltre, l’evidenza sta nel diluire e sequenziare, se possibile, le parole, i verbi, la punteggiatura. Ciò rende il male non già malevolenza, bensì dato in una sequenza matematica e altresì geometrica che confeziona tutte le formule, ivi comprese la bestia o le forme dell’essere e del trattarsi come tale. Nel suo operare, soprattutto, ciò avviene nella brevità iridescente dei racconti, nei quali scandaglia, disseziona situazioni, dalle quali emerge l’inquieto simbolico dell’azione. I went so far, in the evening, as to make a beginning (M’inoltrai, nella sera, come accingendomi a un nuovo inizio) (The turn of the screw, H. James, Bantam Books, New York, 1981, p. 72) Si tratta di una vera e propria rappresentazione d’arte, nella quale James s’immerge pur restando senza fatica nella sua identità algida a manovrare e a direzionare l’intensità di una jungla che appare calcificata nel retroterra dell’ambiente conosciuto. Jungla è il luogo dove vorticanti liane attraversano il corpo e lo fagocitano lentamente, lo serrano, lo costringono fino allo stordimento del dolore. È il buio nella tensione del colore. I meccanismi che regolamentano l’opera in tal senso acquisiscono la condizione di struttura mentale, che agisce in forza di una serialità di elementi interagenti e comunque rispondenti alle sonorità ambientali. Questo il principio di una materia che non può essere assolta sbrigativamente: in effetti, sebbene si guardi alla novità di scrittura come speculare del tempo, la concezione artistica affidata (oserei dire: generata) da James permette una visualizzazione basata su legami avvertiti o meno, che molto devono alle modalità investigative in ambito medico – non solo scientifico – che in quegli anni ottiene ragguardevoli traguardi. Ipotizzabile in opinione sarebbe affermare che si tentasse di scardinare i punti di solida certezza, entro i quali il bilanciamento dei contrari avesse trasgredito all’ordine particolare della natura con l’imposizione di una categorica simmetria. La scienza medica interviene in tal senso e da essa si risale alle va70
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riabili formali come si sarebbe evinto altresì nella scrittura di E. A. Poe. Nella confusione e negli eccessi della visionarietà di Poe avviene il riconoscimento di una lucidità analitico-descrittiva che trova scaturigine da sé e dalla propria esistenza e divampa a scatto funzionale per squarciare le oscurità del tempo. O di un tempo tra i tanti. Le immagini paradossali, famelicamente fantastiche, ripercorrono una traccia lasciata dalla vulnerabilità dell’uomo urbanizzato nell’intreccio di fatti che, pur pertinenti l’uomo e congegnati dall’uomo, appaiono adesso a lui ostili. Gli effetti sono inevitabili: l’oscurità è a un tempo convenzionale segno per affermare la caduta e un’opportunità per rinsavire: La furia selvaggia di questa raffica si dimostrò, tuttavia, essere in un certo senso la salvezza della nave. (Manoscritto trovato in una bottiglia in «Racconti», E. A. Poe, Rizzoli, Milano, 1982, p. 185) Strano a dirsi: a partire dall’ingovernabilità dei gesti la letteratura affronta problematiche attinenti l’uomo spesso con capolavori che, rasentando (non sempre in immersione totale) l’indagine psicologica, giungono a evidenziare la maledizione che occorre sopportare per essere fustigati costantemente tra coltri di fortuna arida e inaridimento della bellezza, quale impagabile nota che dà sostegno alla brutalità della sopraffazione. Ciò rende il gesto e l’azione una bestialità e distingue l’uomo rispetto all’abbrutimento dell’animale ingabbiato. La gabbia, dunque, è la metastoria che motiva l’invariabilità che dà significazione a quella che, nell’apparente senso di ordine, conduce all’avvizzimento di quei processi bio-chimici che dovrebbero determinare il rinnovamento (non si parla di rimozione, si badi bene) delle fasi creazionali della materia. Ancora, alla gabbia si fa riferimento nel momento in cui dall’essere eterotrofo si affermano situazioni autotrofiche, ovvero le adattative strategie che comportano l’isolamento dei valori e l’annullamento in convenzionalismi che suffragano la paura della paura e l’inquietudine che sostiene l’ignoto. È la natura devastante di una guerra di trincea elevata a simbolo di armi di propagazione silenziosa, atte a sovvertire l’idea stessa di eroe, di alimentatore del mito e icona delle masse. È l’eroe disceso a ruolo di anti rispetto a se stesso, inconfessato infante di un plutocratico sistema teso a vincere per economia sulla dignità e ridurre in briciole la dignità dell’esistere. A questo va incontro molta parte della letteratura fin dalla fine del XIX secolo, con segnali che distinguono i confini dell’edulcorazione già tempo Il piede e l’orma
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prima, quando autori in aperta polemica con le traiettorie intraprese da una società in tensione verso i confini dell’impossibile reso possibile, mascherano le loro ambizioni con una dose che oltraggia concetti di uguaglianza e democrazia. E che suol distinguere quelli che Jonathan Swift ne I Viaggi di Gulliver chiama lillipuziani dai peggiori Yahoos – le scimmie – e dalle lodevoli facoltà di cavalli che, nella storiografia, dovrebbero esser contemplati come bestie e che sono dotati, al contrario, di virtù miranti a realizzare la relazione di volontà Io-Tu come soglia di accesso al noi preferenziale. Non esistendo onde che in un senso o in un altro contaminino, inferiscano o interferiscano in ambito territoriale, il riscontro è solo nell’esclusività e nell’autoesclusione. Illustrissimi signori accademici! Grande è l’onore che mi fate a presentare alla vostra accademia una relazione sulla mia antica esistenza di scimmia. Crudelmente diretto è lo stile secco e altresì inquisitorio con cui si apre Relazione per un’accademia in «La metamorfosi e altri racconti» di F. Kafka (Garzanti, Milano, 1966, p. 161). Una tale immediata rappresentazione dell’intenzione si ramifica nella constatazione in fatti ripuliti da ingannevoli e ridondanti ghirigori parlati. Si tratta di una tematica affrontata nella metafora della scimmia, nella ridondanza del gesto cui non corrisponde se non l’imitazione fine a se stessa. Per il tramite della parola-simbolo Kafka affronta uno schema, al quale risponde con un ardito paradigma che scandaglia l’interezza del fatto, proponendo la creazione immaginaria come se fosse reale e assottigliando la linea di confine tra materia reale-reattiva e fantasia, dietro la quale si cela lo spessore della traccia. Una traccia che, beninteso, non è sempre favorevole. Tutto diviene simbolo e allusione: nella concretezza e nell’essenzialità, come nella visionarietà, l’espressione linguistica e il contenuto svolgono funzioni per snellire l’attenzione e direzionarla al cuore dell’argomento. A parlare è la parola osservativa, che mai si distanzia da contingenze umane. Più avanti, infatti, si ha prova di quanto asserito, sebbene lo stordimento, derivato da una descrizione logica, apporti il suo valore di saggezza dialettica disarmante: Al disopra di tutto, una sensazione costante: non avevo scampo. Quello che allora sentivo come scimmia, oggi non mi è dato riferirlo che in termini umani, e quindi travisarlo; (…) Non avevo scampo, ma dovevo trovarlo, perché non potevo vivere senza. Sempre schiacciato 72
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a quella cassa, sarei immancabilmente morto. Ma poiché nella ditta Hagenbeck una scimmia ha il dovere di stare contro una cassa, io smisi di essere scimmia. (ibi, p. 165, 166) L’ingabbiamento senza opzione è di contrasto alla dialettica, al controllo di un’interazione mobile che, anziché congegnarsi con ispirazione, lascia il passo all’ossessione. Non si tratta di concepimento di esistenza differente, quanto di falsificazione dei dati ambientali (spazio, tempo, ecc.) che conduce alla morte nel primo anelito di vita. Di variabilità. A ciò si giustappone quella tendenza alla metastabilità nella quale configuro la bestia-timore di imminente fatica. La pigrizia. La pigrizia comporta la stabilizzazione dell’agire e trasporta la relazione di volontà a un’asserzione ontologica, da cui emerge la concentrazione dell’io in quanto valore estremo che muove verso l’unicità della volontà di potere. Se nel caso del protagonista kafkiano la volontà dà potere all’uomo di uscire dal suo stato di scimmia, il motivo risiede anche nel territorio della dialettica, della riflessione, il che comporta lo studio e non solo l’osservazione dei fatti, del contesto-luogo e del perché e del come si sia giunti a quello stato. È quanto razionalizza il protagonista, soprattutto quando, in maniera sequenziale, paradigmatica e sistemica, affronta ogni volta un caso dal principio, facendo seguire la diramazione analitica fino a trarre conclusioni dettate dal pensiero divergente. Sopravviene quella situazione che permette di uscire dalla gabbia delle convenzioni e farsi testimone di indagini. Un esempio è traducibile dal concetto di libertà che sovente è un modo di ingannarsi tra gli uomini. Anche per la libertà (oppure – come dirà più avanti l’autore per bocca del suo protagonista – l’illusione di libertà) si lega alla convinzione del momento. O, meglio, della maestria del proprio movimento. Tanto opinabile, dunque, la concordanza con concetti da estrarre da etichettature senzienti, da riportare all’archetipo di un’indolenza quale miglior territorio dove si consuma la metastabilità della pigrizia, equivalente al paradosso del dettaglio, nel quale s’insinua – per indolenza – tutta una cosmogonica valenza di idee ed ideali che fraternizzano con un altro sentimento: il malinteso intenzionale, scaturigine potenziale alla devianza. Esemplare l’intrico della libertà. Non ad essa mira il protagonista-scimmia, quanto all’immediatezza dello scampo: Camminare, camminare, questo volevo: non dovermene sempre stare a braccia in alto, appiccicato alla parete di una cassa. Il piede e l’orma
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Oggi me ne rendo ben conto: senza una gran calma interiore, non sarei riuscito a districarmi. (ibi, p. 167) Dal dettaglio forzato egli si distacca, celebrando la compostezza delle riflessioni e attingendo alla solidità delle braccia, delle gambe, sulle quali poggiare la forza perché diventino luogo della distensione. Questo il modo per alienare l’ossessione che giunge a invadere lo spazio con il concepimento di un reale che tale non è, che pertiene a una macchinosa irrealtà ab-norme, anomala, indecifrabile, che suggestiona e assilla fino a divenire mito consacrato a occupare il luogo reale e spazzar via la vera realtà (quale?) con il conseguente irragionevole rispetto a uno spazio metamorfizzato in spavento, angoscia, patologico divenire ingabbiato. (…) sotto il fuoco divorante dell’esistenza, si abbandonano al pianto i morenti, nell’adattamento al mobile orizzonte che nasconde la loro sconfitta (…) (Il totem che cade e ricade in «Il compito terreno dei mortali», Flavio Ermini, Mimesis, Milano, 2010, p. 36) Eppure, la pigrizia come metastorico imbestialimento, anziché proiettarsi come desertificante azione, può accomunarsi a una vanità come strategia di non-irruzione (nolenza) nell’apparente armonia del mondo, cui giova adeguare la propria armonia. Sovente diluita in termini di quiete, essa sprona al mito ingannevole di un Prometeo incatenato, capace di contraffare l’incauta vanità delle cose acquisite con una parvenza di dignità e pudore. Questo comporta l’esser fuori dal logos, struttura razionale dell’esistenza, che, d’altro canto, rinnova il grido dell’autentica scontentezza di sé e trascina verso un’inerzia come dissimulata sensazione di fallimento. Da qui la simulazione adulatoria dell’inganno prevaricatorio, presentemascherato in coloro i quali sono affaticati dal peso della loro alta dignità ufficiale, (…) costretti a recitare una parte dal pudore più che dalla volontà. Tutti si trovano nella stessa condizione, sia quanti sono tormentati dall’incostanza e dal tedio e dal continuo mutamento dei propositi, ai quali sempre piace di più ciò che hanno lasciato, sia quelli che si lasciano marcire tra gli sbadigli. (…) Aggiungi anche quelli che sono poco 74
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duttili non per colpa della loro fermezza, ma per colpa della loro inerzia, e vivono non come vogliono, ma come hanno cominciato. Di qui innumerevoli sono le caratteristiche, ma uno solo l’effetto del male, l’essere scontenti di sé. (…) Di qui quella noia e quel disgusto di sé, e l’irrequietezza dell’animo che non trova mai un dove, e la triste e penosa sopportazione del proprio ozio (La fermezza del saggio, Seneca, RCS, 2012, p. 127, 129) Seneca anticipa di secoli la nausea e il ribrezzo che l’uomo – pervaso dall’instabilità delle sue azioni tese a un obiettivo – concede a se stesso ed è una volontà carismatica irrefrenabile, che appare più fuoco abbacinante che logica attinente ai fatti e all’armonia dei rapporti sociali. La prevaricazione come dato iniziale può da sola comportare la fase di appetibile ripresa, ma, molto spesso, abbagliata da se stessa, riporta su un binario di deviazione quello che poi si distingue come conflitto con il sé (la scontentezza menzionata da Seneca). Ma non è questo il dato strutturale del mondo: se è vero che si esiste per essere in relazione di reciprocità, a questo fa riscontro una cultura dell’impoverimento organico che, anziché defluire attraverso canali che esplicitano la conduzione dialettica, preferisce la scorciatoia per giungere ad uno stadio di dominanza (mal) interpretata come indipendenza personale e strutturale, che si rivela bestia ingabbiata nel suo veleno di noia. Il passo alla perversione è formulato. Il problema sostanziale si pone, dunque, nella fase organizzativa della partecipazione, dei sistemi, dei criteri e di quegli elementi che, per sostenere il loro impatto nella costruzione dei rapporti sociali (formali o informali che siano), debbano rispondere a un canone perentorio: la stabilità decisionale. Per stabilità decisionale s’intende non già la definitività limitante riportata all’interno di una gerarchia, quanto una pianificazione che sia logicamente condotta con criteri associabili. Si tratta di imperativi dotati di una mobilità relativa al punto di vista mutevole entro una strutturazione che ha valore secondo schemi geometrici di riferimento che, per parte loro, assolvono ad una particolare forma dello spazio nel quale si intende agire. Diversamente sarebbe confusione, disorientamento e, per ciò tanto, prevaricazione. La stessa intenzione sarebbe sintomatica jungla e i vortici della flora e gli occhi delle bestie sarebbero minaccia deviante. Di colpo, privati della fermezza, si avrebbe coscienza di una realtà immaginaria gigantesca (fagocitante e grottesca); l’avvertimento del proprio anonimato risulterebbe la porta alla solitudine provocatrice dell’asfissia razionalizzante, con un ottundimento delle facoltà decisionali, il cui frutto sarebbe la paura e Il piede e l’orma
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la successiva caduta. Un sogno dissociato, in altre parole, percorre due diramazioni che investono lo stesso spazio abitativo, condizionando il vero dall’irreale e lasciando affluire il sogno nel non-sogno che non è, ad ogni modo, la realtà, ma di essa diviene forza prevaricante. È la tematica di Doppio sogno di Arthur Schnitzler Nessun sogno (…) è interamente sogno. (Novecento Ed., Roma, 2002, p. 95). Nulla di armonioso, ma una tenace restrittiva del sogno a un ottenebrato sistema dal quale le impalcature di un procedere fuori dai propri passi sembra condurre nel labirinto, salvo recuperare, come nella scena finale, la logica della propria destrezza (…) senza sognare (…) cominciò il nuovo giorno (ibi, p. 95) Nel non-sogno s’intravvede un’armonia naturale emanata dalle imperfezioni, alle quali la logica non cede con il desiderio di confezionare un quadro perfetto, che solo rispunterebbe come cavezza per congiungersi con la flessibilità delle condizioni che provocano il senso del vivere. Nessuna esattezza, dunque, né la ricerca forzata di contraddizioni che, nel rendere irraggiungibile la realtà medesima, costringono all’attenzione solo su particolarità estrapolate dal proprio habitat dinamico. Siamo nel mondo per reciproco aiuto, (…) in conseguenza è contro natura ogni azione di reciproco contrasto. Ed è contrasto l’ira e la reciproca avversione (Contro le lusinghe del mondo, Marco Aurelio, RCS, 2012, p. 3) L’avversione cui si riferisce Marco Aurelio nel II secolo dopo Cristo è presente in molta parte della letteratura d’opinione e realistica contemporanea, come se da tempo fosse questa la materia di indagine, obnubilata dall’incapacità o non volontà di pianificare la propria esistenza secondo questi ritmi. Si tratta di portare in luce le distinzioni esistenti, senza per questo travalicare la posizione mobile dello sguardo-percezione e, anzi, costituire la fissità visiva come accesso all’immobilità, all’ira, al gesto prevaricatore. Alla bestia costretta. Basti questo a evincere una solidità che contravviene alla regolamenta76
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zione secondo la quale l’uomo progressive dovrebbe sostenere la forza di compiere salti per avanzare nel suo cammino di conoscenza. Straordinaria convergenza è invece l’adattamento che l’uomo concepisce come suo diritto naturale e che lo conduce a rifiutare la categoria con uno slancio di ribellione che, invero, compare come oltraggio all’intersoggettività. Stabilitosi definitivamente borderline, l’uomo anticipa su di sé la catastrofe, irrompendo con brutale maniera a coinvolgere un’intera umanità, salvo distanziarsene nel momento di riconoscimento della colpa. O delle sue colpe, data la nefasta opposizione alle validità dei sensi che dovrebbero gestire la capacità interlocutoria e addensativa sociale. Ciò nonostante permangono condizioni di rilevamento idealistico, sebbene mantenute in uno stato amorfo o astrattivo. Tutti i belligeranti credevano fermamente al tempo stesso che la scienza, la sapienza e il sentimento di autoconservazione avrebbero infine costretto gli uomini a unirsi in una società concorde e ragionevole, e perciò intanto, per affrettare le cose, i sapienti cercavano di sterminare al più presto tutti i non sapienti e quelli che non capivano la loro idea, perché non ne intralciassero il trionfo. (Il sogno di un uomo ridicolo, F. Dostoevskij, Opportunity Book, Milano, 1995, p. 35) A delinearsi è la via di sentimenti dotati di un obiettivo, ma rappresentati con uno spirito degenerativo al quale non si può che non rispondere con un rifiuto. Fuor da ogni logica attuativa, si tratta di un sogno che si poggia su una convinzione strategica, ma è il metodo a risultare disarmonico. È l’eccesso e un eccesso di macchinazione, cui corrisponde nel risultato anche l’azione denigratoria della bestialità. E dunque, se da un lato è l’inerzia a condizionare la bestialità auto-referenziale e desertificante, dall’altro l’avvitamento su se stesso comporta il dirottamento di un metodo che, da scientifico e pragmatico, diviene autorità di utilizzo di qualsiasi mezzo per raggiungere il proprio fine, anche quando il fine è deciso come oggettivamente favorevole. Insomma, come non pensare allo sterminio dell’ortica e dell’erba secca come simile sistema adoperato nello sterminio del pensiero, dei libri, delle genti! È lo stesso luogo della prevaricazione del pensiero costrittivo l’arbitrio d’una razionalizzazione estrema, vicina a un elettrochoc che destabilizza piuttosto che guarire e, anzi, porta indebolimento, perversione. A cromatismo che non ha nulla di umano, né sovrumano. Non attinge nemmeno alle sensazioni o alle emozioni. Ingrigito e imbastardito Il piede e l’orma
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nell’autodistruzione lenta che, nel frattempo, tenta di fagocitare e contagiare il territorio circostante. Il che riporta a ciò che Baudrillard definisce il distacco referenziale dell’uomo socializzante e socializzato dalle cose, in favore di un intrico di metatesi con unico riferimento alla costruzione valoriale dell’impresa. Questa maniera scardina i più elementari meccanismi di difesa del territorio e altresì sono fustigati i modi per costruire logiche sequenze di centri diversi, ma dotati egualmente di stesso impegno e intensità. (…) Ogni vita desidera un linguaggio, con parole e numeri colori linee suoni scongiura la nostra ottusa morte e costruisce del senso un trono sempre più alto (…) (Linguaggi in «Poesie», H. Hesse, Mondadori, Milano, 2002, p. 149) Ovviamente, in tutto questo congegno a orologeria manca il valore della parola comunicativa, la sola a parlare attraverso le manifestazioni delle tonalità possibili e che si muove nel campo di una geografia cosmopolita. La parola diviene unico contenitore di intenzioni piuttosto che di tensioni e nutre un impianto arrugginito che matura per un verso l’effervescente nota della bestialità infuocata; per altro, una sorta di avvilimento o scetticismo che fa apparire logoro lo stesso orizzonte. Appare la traccia dell’uomo iridata da fratture di decomposizione e porta a riesumare false nostalgie di (falsi) tempi andati in un rinnovamento del vecchio, di ripresa di codici che, si crede, in quanto validi un tempo diverso dal proprio, possano esser sufficienti a scardinare la paura di un incontro con la bestia. Nel timore di imminente fatica, là dove la fatica sta nel pensare-pianificare-codificare la strategia contro la (propria) sopraffazione. La coltivazione dell’intelletto sarebbe arma strategica efficace, ma ristagna nel luogo desertificato dell’azione. È ancora Marco Aurelio a parlare: (…) le funzioni dell’organismo sono un fiume; quelle dell’anima, sogno e vanità; ed è guerra la vita, viaggio d’un pellegrino; oblio la voce dei posteri. E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola cosa; a un’unica cosa: la filosofia. E questa cosa ti permetterà di conservare l’interiore dèmone senza violenza o danno; signore dei piaceri; capace di agire senza intraprendere nulla a caso; immune da menzogna e da simulazione; (…) (ibi, p. 9, 11) 78
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L’ideale, trasformato in spettro, risponde a quella tendenza presentata dalla teatralità silenziosa per gesti di T. Mann, capace di dilatare l’intelletto con la mescolanza di tonalità, nelle quali si assolve alla rivelazione delle tessiture dell’inganno quale elemento distintivo di una bestialità che sembra dilagare e occludere al contempo alla vivenza sociale dalle altre temperature di tale vastità. Non bisogna disconoscere agli autori che infrangono l’ambiguo stato di acquiescenza un valore fondamentale. Essi parlano il linguaggio della realtà, sebbene affrontino talora anche argomenti che attingono da una concezione fantasmatica, immaginativa e, soprattutto simbolista. Non v’è nessuna acredine in questi step verso lo smascheramento degli aspetti comunitari e le insidie, che si nascondono dietro un rumore che nulla ha di tribale, nulla hanno del portento di piccole comunità dove sovente vige più la minaccia flebile della lotta, piuttosto che il sottile e sommesso urlo vagabondo di irradiare una cultura ammorbata. In ciò Mann manifesta la sua abilità di gestire tanto la drammaturgia sottile e profonda, quanto la capacità di apportare riempimenti alle manchevolezze di una società sovente distratta e (forse per questo?) in caduta. L’individuo sottoposto alla propria debolezza di frequente si lascia soggiogare da forze negative quali l’inganno, il silenzio, la melanconia, così autopunendosi per una colpa che avverte derivare proprio dalla sua fragilità. È questa colpa, infatti, a nutrire la speme del nuovo trionfante peccato. Abusa la parola della propria emotività e la confonde con emozione, mascherandosi dietro incapacità. In trincea anche da se stesso, l’individuo fatica all’autoregolamentazione e, pertanto, all’auto-accettazione come funzionante alla società. Questo rivela e questo si rivela nelle trame fitte di obliquità di molta parte della letteratura dedicata alla dissacrazione dell’uomo da parte di se stesso. E si badi che non parlo di auto-convinzione, bensì di auto condizionamento che, infine, rende la persona consapevole del proprio viaggio, sebbene sia un viaggio compiuto o in fieri su una strada irta e devastata, sconnessa e al contempo in rotta di velocità alleviata dal senso d’impossibilità. Aveva la testa in fiamme, il corpo bagnato di sudore appiccicoso, un tremito alla nuca, era torturato da una sete intollerabile; cercò lì intorno un qualsiasi ristoro immediato. (…) Tutto era silenzio, l’erba cresceva tra le lastre del selciato, rifiuti erano sparsi all’intorno. (…) folate di vento caldo portavano ogni tanto odore di acido fenico. Eccolo lì il maestro, l’artista dignitoso, (…) che in una forma di esemplare purezza aveva condannatola vita zingaresca e il torbido dei bassifondi, abiurato ogni simpatia per gli abissi, riprovato il riprovevoIl piede e l’orma
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le, (…) eccolo lì seduto a terra, con le palpebre chiuse (…); e le sue labbra flosce ravvivate dal rossetto articolano parole staccate dei discorsi che il suo cervello intorpidito compone con la strana logica del sogno. (La morte a Venezia, T. Mann, Novecento, Roma, 2002, p. 92, 93) Sarà questa la bestia? Ricercare fuori da sé il male potrebbe solleticare la speranza di esser nel giusto, ma così non è. L’uomo adombra la sua potenzialità nell’avvertirsi colpevole e, spesso, colpevole di scelte (giudicate) infauste. In fondo non si tratta che della procrastinazione di un’abilità di riflessione a un poi che viene a mancare per non essere certezza, ma solo decisione di accogliere incertezza. Il modo non fa che insozzare la familiarità con i luoghi, il che non significa una prevaricazione da parte dei codici che definiscono l’habitat. Al contrario, come punti fermi nella possibilità di stabilire relazioni, la familiarità della parola comporta la suscettibilità della differenza come sistema entro il quale agire e dal quale avviare l’azione mediante i legami nella logica dell’autonomia, per evitare di saltellare in preda all’allucinazione dell’irreale e conferire un valore moltiplicativo alla realtà territorializzante. Bisogna togliere l’impalcatura quando la casa è costruita (Opere 1870/1881, F. Nietzsche, Newton, Roma, 1993, p. 881) Non appaia inane quest’affermazione – vera impalcatura alla metafora che distingue l’azione efficace da un’azione che si ammetta quale bestialità. Perché questo saggio alla bestialità è dedicato e alle forme che definisco bestie per economia linguistica e non solo: soprattutto per avvertirne la struttura di monadi depauperate dello spirito critico che sovente dimentica se stesso. L’affermazione di Nietzsche muove da una concezione abbastanza decisa, che riguarda il tempo in cui, all’estetica imperante, faceva da contraltare, pur associandosi, il disamore da parte di una massa provata dall’inconsistenza di prospettive, per le quali un dio folgorante poggiava sul potere economico e sulla devastazione del territorio umano. Di questo si erano fatti testimoni e voce autorevoli personaggi che aderirono alla determinazione del soggetto da una prospettiva (secessionista) che metteva a nudo la realtà anche quando a prospettarsi fossero tematiche di natura immaginativa. Non si trattava di esorcizzare o di mantenere un ordine, giacché era proprio la simmetria a sconvolgere la coscienza della dimensione uomo. Come inizialmente evidenziato in questo saggio, ne aveva avuto contezza W. Blake nella dolente nota di una simmetrica geometria 80
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ordinativa a giustificare la contrapposizione del male al bene e che, in un certo qual modo, veniva a ledere la formulazione convenzionale di un’accoglienza di stampo religioso. Tutto ciò emerge senza fatica da scritti che si distraggono dal pietismo come forma di accoglienza del male imperante. Sono l’oltraggio, l’opposizione e il contrasto affermati come spregiudicata nota sulle pagine della cultura nuova di fine secolo. In essi si ravvisa una certa irriverenza nell’argomentare anche nelle forme private. Stranamente, oserei parlare di continuità tra un Mr B. in Pamela di S. Richardson, stante l’acronimo per beau, ma al contempo una serigrafia di «B» come bestiale atteggiamento, sopruso confezionato sull’onda dell’aridità di valore. Ma siamo ancora in un periodo, quello fine ’700, in cui l’ideale è mantenuto come coscienza collettiva e suol dar forza morale di convincimento che stia alla buona volontà della persona prendere insegnamento o dirittura da tali parole. Ma il tempo corre a una velocità notevole rispetto alla velocità di assorbimento e di assorbimento e trasformazione dell’uomo, la cui accelerazione varia in relazione a condizioni delle quali egli è fautore. La società contemporanea vive una dimensione alterata: all’ideale contemplativo si oppone una manifesta voracità reale che trasmette tutte le cromoatmosfere di una travagliata sequenzialità di affanni, che sollecitano svolte, ma si bloccano confuse in un luogo che ha perso i confini retrostanti e non riesce a calarsi in un’investigazione proficua ad apprendere dal reale la parte complessa. Nel non riconoscere le articolazioni, si stempera la convulsione con fasi di mascheramento. In quest’ambiente grigio la fede sembra l’unica svolta (scampo) per guardare al reale con forzato affetto e cauta benevolenza. Nel direzionarsi diversamente, con lo smascheramento della vacuità si otterrebbe l’avvicendamento sordido di un’oggettiva esclusione dell’uomo dalla sua stessa vita. Si calerebbe nel pozzo della ferocia del destino e si giustificherebbe la bestia in sovrumanizzata dimensione da richiamare per falsamente vivere il ricordo come consolatorio. Come non riconoscere nell’intonazione l’aggravante di una volontà di potenza cui lo stesso Nietzsche fa riferimento in Il crepuscolo degli idoli: In ogni tempo si sono voluti «render migliori» gli uomini: questo portava il nome di morale. Ma sotto una stessa parola stan nascoste le tendenze più diverse. Sia l’addomesticamento della bestia uomo, che l’allevamento di una determinata specie di uomini sono stati chiamati «miglioramento» (…) Definire l’addomesticamento di un animale il suo «miglioramento» ai nostri orecchi suona quasi come uno scherzo. Chi conosce quello che succede nei serragli, dubita che proprio lì la Il piede e l’orma
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bestia venga «migliorata». Essa viene indebolita, resa meno nociva, attraverso il sentimento depressivo della paura, attraverso il dolore, le ferite, la fame, essa diviene una bestia malaticcia. (Il crepuscolo degli idoli, F. Nietzsche, Newton, Roma, 1994, p. 57) La volontà di potenza sembra tradursi lungo due rotte arbitrariamente opposte e paradossalmente confluenti: la fede e la conoscenza. La fede, in quanto elemento distintivo di una fiducia nell’uomo, comporta la frantumazione comportamentale e la visione sociologica dell’ambiente e determina il procedere all’interno di un territorio che non risulta mai distaccato dall’essere-divenire dell’uomo. In quanto sostegno ai mezzi disponibili, tra l’altro, essa dovrebbe accelerare la convergenza verso una pianificazione attuativa che comporti, consapevolmente, la riuscita degli obiettivi. Gli obiettivi di superamento e, altresì, di smascheramento. Al contrario, la volontà, nell’esprimersi come rotta d’invincibilità, comporta l’assuefazione negligente a una concentrazione staticistica di un’energia che, in breve, non cerca sfogo all’esterno con la condivisione, ma sedimenta in un nucleo serrato. Diviene male, colpevolizzazione esteriore. Tende a serrare portali e a offuscare il grigio con un nero bituminoso. Ciò, altresì, comporta la falsificazione prospettica e anche le parole, i toni, i ritmi si allontanano da una presumibile e volenterosa attività per discendere verso un avvizzimento che dispone a un controllo eccessivo, egotistico, pulsante di non-vita. Esemplare è la ricerca condotta sul finire degli anni ’50 del secolo scorso da Walter Miller. L’antropologo studiò atteggiamenti persecutori di alcuni gruppi ai margini della metropoli e desunse che tale comportamento avesse derivazione da un tipo di cultura ambientale e non già da acredine nei confronti del resto della società, particolarmente riferendosi alla middle class. In altri termini, secondo Miller il loro stile replicava una forma d’intorpidimento culturale che, partendo da un livello comportamentale, sarebbe sfociato nella brutalità. Dalla gabbia all’ingabbiamento. Ciò che inquieta, ma non deve stupire, è la visione che la gioventù borghese ne riceveva: un intrico di stordimento e disaffezione, ribellione ai canoni del proprio contesto, arrivando a concepire tali atteggiamenti come manifestazione di libertà da invidiare. In tutto questo il senso reale di rifiuto delle convenzioni viene accantonato e tende a confrontarsi con la bassezza cupa che appartiene alle forme impulsive dell’uomo, che vincono altresì sulla capacità intuitiva di desumere ciò che è bene per sé. L’indagine condotta da Miller ebbe luogo in un decennio in cui, alla rabbia perpetrata come risoluzione a problemi sociali corrispondenti alla decostruzione dell’identi82
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tà, la questione principale ruotava intorno a situazioni molto più pertinenti e profonde riguardo al senso di non-appartenenza e di assenza di lungimirante posizione. In altri termini, si concertava un sillogismo macabro che comportava la colpevolizzazione al di fuori del sé e al di fuori del proprio territorio esistenziale, con l’obnubilamento della visione reale, alla quale si attribuiva la responsabilità di un orientamento alienato e condizionato. Il problema riguarda dunque la deviazione e la devianza. Ne ho trattato con Blake, ma gli esempi sono straordinari e notevoli. In Il Signore delle Mosche, ad esempio, nell’intrecciarsi infervorato e cauto a un tempo, le parole destano uno sbigottimento la cui valenza è sempre molteplice: qui, infatti, parole come gruppo, squadra, assemblea e tribù si mescolano, conferendo un senso elevato d’inquietudine e di sospensione che rende la trepidazione della paura come effetto bestiale che aduna a sé gli spettri dell’angoscia e che equivoca sull’attesa prostrando comportamenti, fagocitando effetti nell’esclusività del dolore assente. Batticuore, stordimento, pulsazioni ritmiche velocizzate ottenebrano la vicenda umana, conferendo a simboli malefici le stesse funzioni delle virtù valoriali. Ma la virtus non riesce a interagire con le sequenze biologiche e metafisicizza temperature che dovrebbero collimare con lo stato di umanità e che invece collidono con una selvatichezza inaudita. Anche in quest’opera, come nelle Songs di Blake, il riferimento è al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, come se si volesse arguire che proprio nelle fasi iniziali si possa intervenire con l’educazione (soggettivazione del portar fuori da sé il bene possibile) oppure con la (contraria) iniziazione a un’attività di sopruso. Ralph piangeva per la fine dell’innocenza, (…) (Il Signore delle Mosche, W. Golding, Mondadori, Milano, 2002, p. 222) Non ha molta importanza che il romanzo sia stato pubblicato nel 1954. Tutte le teorie possibili per decifrare il significato di un’allusione al tempo vissuto lasciano la repulsione di una certa bestializzazione circoscritta, quando, invece, di bestializzazione si addensa la scena della letteratura moderna e contemporanea: atti di una grande e complessa vicenda per decifrare categorie carezzevoli di una solitudine sovente intesa come appoggio spirituale, coniugabile con gli stordimenti provocati da una leggerezza d’animo a non voler confrontarsi con la velocità esteriore, le trasmutazioni sociali e culturali. Ancor più spesso la solitudine che sconfina nel mutismo comporta la traduzione manifestativa di una pigrizia quale stato confusioIl piede e l’orma
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nale diretta a configurarsi in quella sensazione di astenia e di paralizzazione dei confini meditativi, attraverso i quali avviene il filtraggio delle condizioni e l’adeguamento delle (non) riflessioni. Sebbene, infatti, la pigrizia sembra dissociarsi da uno stato dinamico, essa contribuisce a dare solidità a materiche intromissioni del pensiero divergente o diversivo o, ancora, sovversivo. Tende a imbastardire le diramazioni logiche. Non possiede, né prevede un piano d’azione e questo la rende sovrana rispetto all’accreditamento della persona, flettendo l’attenzione su un realismo sconvolto e sconvolgente, che distorce e sbrigativamente contorce, dissipando la volontà rispetto alla volontà di potenza auto-confluente e pervasiva. Ciò converge in quella letteratura della reazione che Thibaudet aveva a suo tempo asserito corrispondere a una vera e propria reazione alla letteratura. Probabilmente si riferiva alla critica edulcorata che la letteratura del suo tempo – o di quella di ogni tempo – non riuscisse a comprendere la vastità tipologica delle possibili azioni convulsive dell’uomo. Incapace, dunque, di risalire tutti i gradini di una scala a ritorni incrociati, per i quali anche il silenzio appare affanno e la fantasia è macchinosità che respinge l’ingegno e trova conforto nella disfunzionalità della fantasia ormeggiata tra sartiame corroso e liquidità ristagnante. È l’effetto visivo di quella pigrizia alla quale pare risalire l’inatteso ambiguo. Il tessuto è lo stesso, se si ha ragione di pensare che si tratti di un dettaglio infinitesimale da cogliere, seppure, tra le ombre che fagocitano il presente, appestato di cose e di giudizi e di opinioni, di descrizioni che infuriano per abbrutire, infine, la natura delle cose. Su questo interviene la vita annebbiata da quell’impigrimento che rasenta la pericolosità di un passo statico, che ostruisce gli interstizi e annerisce di pece quella mescolanza di proiezioni che si dipartono dalle novità e dai pertugi e vanno a confondersi con la varietà dei punti di vista. Che non ostentano rigore, ma di rigore si nutrono nella versatilità di un punto di osservazione che varia e varia al variare delle stagioni, riducendo le confinazioni che tendono a innervosire chi pregiudica a se stesso la facoltà di spostarsi. Che sia questa gioventù o che corrisponda questa alla concezione di poesia non ha luogo di obiettarsi, giacché l’una è la formulazione di simbolica creatività. L’altra è creatività e poesia … (…) un peccato infantile (…) un battere ostinato della parola alle porte di ferro delle cose (…) (della consumazione del rogo, Alfonso Cardamone, Pellegrini Ed., 2009, p. 107) 84
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Nell’ermeneutica della bestialità si riscontra la reazione che avviene mediante una riflessione sulla rapidità di accesso a nuovi codici, che rifiutano l’incancrenirsi su quanto d’indiscusso appare e di facile e agevole, e mirano a eclissare quelle tendenze che assolvono all’indagine sulle esponenze dell’uomo mediante tecniche e approfondimenti antropologici. In atto è lo scoprimento di un’attitudine che sembra abbracciare orizzontalità concesse dalla frantumazione delle visualizzazioni. Proprio la frantumazione esistenziale, infatti, permette di sostenere lo sguardo a una più sapida e concreta concentrazione di dettagli, dai quali trarre (varietà di) nutrimento per confrontarsi con l’estenuante concentrazione di dati, ai quali l’uomo è chiamato a rispondere. L’impigrimento alla concentualizzazione dei dati corrisponde, per parte sua, all’annientamento dell’essere, alla distruzione e all’evitamento di dar la caccia alla vita (…) un cielo di sporco celeste ancòra ti chiama alle segrete scommesse del mare sui libri le mosse componi della scacchiera incomposta dei segni (ibi p. 57) Questo riporta alla duttilità delle idee che, in quanto mobili, non si arrestano in quello che John Locke definiva intelletto finito. Probabilmente la finitezza di Locke può eguagliare la conclusività cui tende la razionalizzazione, al fine di conseguire solutorie attività che non vanifichino a loro volta l’intenzione di agire. Ma, a questo punto, dove e come si colloca la distrazione della bestialità e cosa e come definire la bestia? Ancora una volta riprendo l’idea di pigrizia come capitolazione paradossale a un divenire circoscritto, sul quale apporre il sigillo di presunta conoscenza anche quando questa non è effettiva. Ancora Locke si esprime in questi termini: la falsificazione e la menzogna sono complici di un resistente sforzo d’inerzia che ingrigisce la seppur minima facoltà di addurre posizioni dell’andare, del muoversi, del confrontarsi. È un condizionamento dato dall’ambientazione nella quale si sostiene la parte del vivere, ma che in realtà defluisce fuori dagli schemi di un rigore affidato alla potenzialità del fare, inteso come provare, sentire, percepire. Insomma, dinamicamente al passo. Non voglio che domani tu te ne vada finché non saprai dove vai (Il laureato, C. Webb, Mondadori, Milano, 1968, p. 177) Il piede e l’orma
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Si è ampiamente evidenziato quanto importante sia assorbire le fasi esistenziali con un procedimento a passi stretti, sensibilizzati dall’ambiente generato al fine di comporre un quadro che non speculi la propria immagine iconografica. Raccogliere i dati, a questo punto, significa sostenere la connettibilità di intuizioni che appartengono a un ruolo ben superiore rispetto all’impulso provocato da una scarica elettrica, che lascia intorno a sé solo un campo bistrato dall’abbaglio. Riunire e collegare e, di conseguenza, sistematizzare gli elementi del reale conduce all’assorbimento lento, piano e pianificato dell’agire successivo.
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ROSPO … il rospo, emblema per eccellenza di Saturno, via via pesce-rettileanfibio, con quella pelle verrucosa, quel muco di cui si copre nel terrore, ci guarda con occhio d’oro e contiene l’intero cosmo –dice la cosmogonia arcaica- il Principe, dicono le fiabe (da E. Zolla, Le meraviglie della natura, 1975)
LA VISIONE Quando intento ero al mio libro una certa notte La Visione qui esposta apparve alla mia vista offuscata: Un Rospo tutto rosso vidi bere il succo dell’Uva così svelto, Fino a rimpinzarsi col Brodo, tutto dai visceri al petto: E dopo ciò dall’avvelenato corpo espellere il suo mortale Veleno, Per la cui pena e dolore le sue membra tutte cominciarono a dilatarsi; Con gocce di sudore avvelenato avvicinando così la sua segreta Tana, La sua Caverna con sbuffi di fumosa Aria egli tutta imbiancò, Dalla quale col tempo un Aureo Umore seguì Le cui gocce cadendo dall’alto macchiarono il suolo di rosso. E quando al Corpo la forza del vitale spirito cominciò a mancare, Tal morente Rospo subito come carbone divenne per color nero; Così pervaso nelle sue vene da velenoso flusso Per la durata di ottanta giorni e quattro egli marcendo stette. Per prova allora desiderai espellere questo veleno, Onde affidai la sua carcassa a gentil Fuoco; Il che fatto, mirabile a vedersi ma ancora più a ripetere, Il Rospo con rari colori da ogni lato fu perforato E bianco apparve quando i molti frantumi sparirono: Che, dopo, di rosso tinto per sempre durò. Perciò del Veleno così trattato una Medicina ho fatto Che uccide il Veleno e salva chi il Veleno prenda. Gloria sia a Lui, il Dispensatore di tali segreti mezzi; Dominio e onore a un tempo, rispetto e gloria. Amen. (da G. Ripley, Vision, XV sec.)
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SCIMMIA Anche la scimmia è un’immagine del demonio: essa ha infatti un principio, ma non una fine, cioè una coda, così come il demonio in principio era uno degli arcangeli, ma la sua fine non si è trovata. (da Il Fisiologo, cit.)
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Monica Caroselli
Dal rospo alla scimmia: appunti sul bestiario landolfiano
Privilegiati fruitori di un linguaggio ‘altro’ e al tempo stesso possente metafora di quello umano, gli animali landolfiani, nel loro duplice ruolo di autori inconsapevoli di atti sacrali e di predestinate vittime sacrificali, sembrerebbero, di volta in volta, concedere alle esigenze intime del testo e del suo autore qualcuno dei loro preziosi attributi. Che siano capienti ‘contenitori’ delle nostre paure primordiali o instancabili portatori di significati propri e irriducibili, tutti gli animali landolfiani, pur nella loro innegabile diversità, sono “creature simboliche per eccellenza, anzi, simboli fatti creature”1, rinviando sempre ad ‘un di più’, ad un significato sotterraneo. Del resto sarà lo stesso Landolfi a svelare, alla fine del suo cammino (di scrittura e di vita), in una lirica di Viola di morte, che il suo animale era “tropo”, cioè artificio retorico per dire oltre la lettera: “Onoriamo il piccolo topo, / Riconosciamo il tropo / Dei nostri affannosi andirivieni / Per le intercapedini. / […] / Topo, cattiva coscienza / Dell’umana semenza!”2. Ed è proprio un’ipotesi di ‘significato sotterraneo’, presumibilmente sottesa ad una delle sue famigerate bestie, forse una delle meno ‘esplorate’ e, tutto sommato, delle meno terrificanti, il rospo3, che si vuole qui formu1 Landolfi, I., “Amavo l’orbettino lindo” (Qualche suggerimento per un bestiario landolfiano), in L’area di Broca, a. XXI, n° 59, gennaio/giugno 1994, numero monografico dal titolo Animali, cit., p. 10. 2 Landolfi, T., “Onoriamo il piccolo topo”, in Viola di morte, Vallecchi, 1972, cit., p. 80. 3 Lautréamont dedicherà al rospo pagine ben più ‘terrificanti’! Citiamo brevemente dai Canti di Maldoror: “Chi è quell’essere, laggiù, all’orizzonte, che osa avvicinarsi a me, senza paura, a salti obliqui e tormentati […]. Mi è ignoto. Fissando i suoi occhi mostruosi, il corpo mi trema, è la prima volta, dacché ho succhiato le aride mammelle di quel che è chiamata una madre. […] Tu devi essere potente; poiché hai un viso più che umano, triste come l’universo, bello come il suicidio. Ti aborro quanto posso; e preferisco vedermi un serpente attorcigliato attorno al collo dall’inizio dei secoli, che non i tuoi occhi… […]”,
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lare, per gettare uno sguardo, testi alla mano, sul complesso universo del bestiario landolfiano. “China un poco, ma senza fretta, la donna sembrava inseguire un punto nero, una bestiola che si muoveva laggiù sul marciapiede, rasente il muro, e volerla colpire con brevi calci. «È un topo, macché topo un rospo, vorrà ammazzarlo!» proferirono con indignazione le donne […]. «Strega, vuol bruciarlo vivo! Corriamo a salvare il rospetto! Avviciniamoci, avrà paura» disse la ragazza che guidava”4. La ‘paura’ che dà il titolo all’omonimo racconto, di cui abbiamo appena citato un estratto, sapientemente ricreata attraverso l’articolazione dei rapporti spaziali e visivi fra i personaggi, è fatta di sentimenti controversi, tra cui il presentimento dei cinque giovani astanti di stare per assistere ad un inspiegabile atto di gratuita crudeltà, l’incapacità o forse soltanto la mancanza di volontà di impedirla veramente, l’attrazione, tutta landolfiana, verso ciò che incute malessere e sgomento, ma da cui non ci si riesce comunque a staccare. Per dirla con G. Pandini, “non è tanto la paura fisica di una scoperta crudeltà, ma la paura metafisica di una condizione, quando forze misteriose e incontrollabili avvolgono di terrore le creature della terra”5. E tra tutte le creature, la scelta di Landolfi cade, una volta di più, sull’ennesimo insignificante ‘animalino’, un rospo, “un essere così meschino, che nessun utile ha nella consuetudine presso l’uomo, ma che pure è parte di un universo creato”6 e, forse solo per questo, come l’uomo, non può sottrarsi ad una condanna e ad un destino ineludibili. Ecco allora il rospo diventare l’emblema landolfiano di una morte possibile e, proprio per questo, inspiegabile – non è, infatti, la possibilità stessa della morte ad essere inspiegabile? – una morte che “odia quella sua condanna, ma che pure un magico filo avvince alla sua sorte crudele”7: “Laggiù si vedeva il rospetto saltellare e trascinarsi debolmente, dal mezzo della strada, in direzione del suo carnefice”8. Lautrèamont, I canti di Maldoror, in I canti di Maldoror, Poesie, Lettere, a cura di I. Landolfi, BUR, Classici moderni, giugno 2010, vol. I, canto I, strofa 13, cit., p. 387. 4 Landolfi, T., “La paura”, in La spada, Adelphi, 2001, cit., p. 48 (corsivo nostro). 5 Pandini, G., Landolfi, Il Castoro, 1975, cit., p. 44. 6 Id., cit. 7 Id., cit. 8 Ibid: nota 4, cit., p. 52.
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Niente di nuovo per un lettore landolfiano: torna alla mente la sacrale immagine dei cavalli ormai vecchi e buoni a nulla, grati alla mano dell’uomo che li conduce al macello, in “Night must fall” (Dialogo dei massimi sistemi). Altrove Landolfi dirà: “In questa pozzanghera che ho sotto la finestra […] hanno preso stanza due rospi […] e vi hanno a suo tempo deposto le uova. Ora l’acqua pullula di girini che, quando il sole la raggiunge, si agitano gioiosamente e affiorano salutandolo. Essi son votati alla morte, poiché il sole stesso ben presto, tra pochi giorni, avrà seccato la pozzanghera; essi gioiosamente salutano ciò che loro darà […] la morte”9. Non diversamente da quanto, più tardi, dirà di sé: “Dalle mie sponde si ritira il mare / A grado a grado, e poco ormai rimane / Del vitale tumulto d’altri giorni. / Ancora trema in fondo a questo / Arido abisso pozza solitaria: / Ma non per molto, ché ben presto / L’avrà il sole esalata e resa all’aria / […]”10. Saranno molti gli animali landolfiani a morire di luce (sia essa quella naturale del giorno sia quella artificiale); luce che sempre, nel Nostro, rappresenta l’avvento della nascita, cioè l’inizio di una vita che ha come sua naturale (o ‘innaturale’) evoluzione la morte11. Non possono esserci riserve sulla collocazione di diritto del ‘rospicino’ de La paura, inseguito e bruciato vivo dalla malvagia donna in attesa di una figlia ritardataria, tra i cosiddetti ‘animali edipici’ landolfiani, visto che, in poche altre occasioni, lo scrittore è così esplicito: “Chissà a che cosa le servirà il rospo”, si chiede, ad un certo punto, una delle ragazze e Landolfi sembra risponderle puntualmente: “essa sfoga sul povero animale tutta la rabbia accumulata per via della figliola…”. Allora la Paura di queste dense paginette sarebbe, verosimilmente, “paura per l’incrinatura della regola rappresentata dall’avventura che la giovane donna sta sicuramente vivendo con un uomo”12. Vale la pena ricordare che gli antichi bestiari medioevali facevano della rana (e del rospo) proprio il simbolo per eccellenza della lussuria. Per Wilhelm Stekel, invece, il rospo rappresenterebbe il grembo materno… Landolfi, T., Rien va, Adelphi, 1998, cit., p. 139. Landolfi, T., “Dalle mie sponde si ritira il mare”, in Viola di morte, cit., p. 37. 11 Cfr. in particolare: la farfalla strappata dell’omonimo raccontino di Il mar delle blatte e altre storie e la civetta di “Colpo di sole”, in La spada. 12 Castelli, S., “Le bestie e le belle”, in Azzardo. Landolfi, Savinio, Delfini, Milano, Spirali, 1982, cit., p. 24. 9
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Potrebbe allora non essere semplicemente un caso che, nel racconto che stiamo analizzando, si parli, in un certo senso, proprio del rapporto conflittuale tra una madre e una figlia? Ipotesi questa tanto più suggestiva alla luce di tutto quello che sappiamo circa la figura materna e la sua pregnanza, sentimentale e stilistica, nella vicenda biografica e intellettuale di Landolfi, con la sua “ansia” di “rientrare nell’utero materno”13. Un’altra celebre immagine di rospo ci viene consegnata dallo scrittore in un passo di Un amore del nostro tempo, di cui vogliamo ricordare l’incipit: “Era l’alba, durante le mie insane riflessioni, e in un viale del giardino […], vedevo dalla finestra un grosso rospo che arrancava verso il suo ricetto (in una spessa coltre di foglie morte: conoscevo quel rospo)”14. Gli incontri rivelatori con la bestia hanno sempre il carattere dell’epifania e avvengono sempre un attimo prima di una folgorante illuminazione (come nel caso di Tale nella Morte del re di Francia, che capì “all’improvviso all’impensata, di che colore fossero gli occhi di suo figlio”) o, come adesso, prima di una difficile decisione: “Fosse il rospo, fosse l’ultimo giro di vite dei miei pensieri, improvvisamente le mie titubanze vennero travolte ed io seppi che cosa dovevo rispondere a Sigismondo: la pura verità ad onta di tutto”15. Ma quel che più ci interessa notare, ai fini del nostro discorso, è altro: la sofferta narrazione praticamente si apre e chiude nel nome di un’ingombrante presenza, un figlio drammaticamente evocato e chiamato in causa in mille modi. La maternità, dapprima percepita solo come abominio e vergogna, in quanto frutto di una relazione incestuosa tra fratelli, alla fine subisce una sorta di ‘riqualificazione’. E questo accade in virtù del suo riconoscimento come ‘maternità senza più’, che, avulsa da un contesto contingente condannabile, può recuperare, nonostante tutto, quella purezza primigenia aspaziale e a-temporale, connaturata all’essere madre in sé e assumere così il significato di ‘riscatto’ di tutta una vita vissuta nell’errore. 13 Famoso il passo di Rien va: “[…] la mia ansia di risalire il tempo, di tornare, se non al nulla primordiale, alla assorta vita prenatale, il mio orrore razionale e sentimentale del presente e forse del futuro, erano già allora riusciti a questa specie di formulazione imperativa (poiché verso non oso chiamarla): Rientrare nell’utero materno”, Landolfi, T., Rien va, cit., p. 25. Ma questo tema conserverà, immutate, la sua centralità e la sua forza rappresentativa in tutta l’opera di Landolfi. 14 Landolfi, Un amore del nostro tempo, Adelphi, 1993, cit., p. 37. 15 Id., cit.
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A ciò si deve aggiungere l’insistenza, talmente reiterata a tratti, da sembrare quasi forzata, sul grembo e sul bagnato, come dimostra questo breve excursus: “[…] un sudore caldo, dilavante, mi inondava la fronte […] quasi una diluzione del grembo. Il mio grembo tiepido, segreto, accovacciato sotto il lenzuolo; di cui non sapevo che fare […]”16; “E mi caddero le mani sul grembo e non aggiunsi altro”17; “[…] noi lasciavamo la nostra culla […] e il ventre capace dell’antica casa, dalla quale nulla se non di bene poteva venirci, l’alvo materno che mai a nessun altro si sarebbe aperto con tanta occulta e pacificante persuasione […]”18; “[…] codeste donne […] mi pare sì talvolta possederle, ma devo subito dopo riconoscere che non mi son neanche bagnato. […] Si darà al mondo, presi a chiedermi, una creatura che sappia (scusa l’insistenza) bagnarmi? […]”19. E ancora, più in generale, non si fugge forse la terra, fatta di querce, ulivi, ginestre, pini e cipressi, per ricercare la salvezza in un elemento naturale che si spera, in qualche modo, meno avverso, l’acqua, appunto?: “[…] vedo un atollo con palme tutt’intorno […] una tranquilla, azzurra laguna che si può traversare per intero a guado tra guizzi, passo passo, di pesci d’argento […]”20. Affascinati e sorretti dall’interpretazione di Stekel, ma anche dall’abbondanza di dati, sia folkloristici che storici (come, ad esempio, miti egiziani, greci e romani) che rivelerebbero un’identificazione del rospo con la stessa Dea Madre Universale21, come pensare che possa essere soltanto un caso l’inserimento, da parte di Landolfi, in un ‘foglietto di viaggio’, in cui Id., cit., p. 74 (corsivo nostro). Id., cit., p. 95. 18 Id., cit. 19 Id., cit., p. 102. 20 Id., cit., p. 93. 21 Solo per fare qualche esempio: la ‘dea-madre’ azteca Tonantzin viene raffigurata come un rospo che ingoia un coltello di pietra (e, sempre secondo una leggenda azteca, proprio la rana sarebbe all’origine dell’universo); nell’antico Egitto la Dea-rospo (o Dea-Rana) assiste le partorienti; la posizione ‘a gambe di rana’, schema iconografico diffuso dell’arte olmeca, è la posizione normale del parto… Ma il rospo come archetipo della fecondità femminile è arrivato sino ai giorni nostri, come dimostrano alcune tradizioni e credenze popolari, come quella delle donne tirolesi di offrire rospi votivi nelle chiese locali per avere una gravidanza facile. E ancora: nel folklore lituano Ragana, la dea della Vita e della Morte, da strega può trasformarsi in rospo e causare sia la morte che la vita (non a caso il rospo come simbolo di rinascita è osservabile nella necropoli di Nida, nella Lituania occidentale, dove molte pietre tombali sono appunto a forma di rospo con un giglio che spunta dalla testa). 16 17
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si tocca, in termini parimenti sconcertanti, ancora una volta proprio il tema della maternità, di un’immagine come questa?: “Una rana: ecco davvero un animale in accordo con quel fradicio paesaggio”22. Davvero troppe le corrispondenze intertestuali, per credere all’esibita noncuranza con cui lo scrittore sembrerebbe lasciar cadere queste due righe, considerato anche il fatto che, poco più avanti nel testo, si legge: “[…] cosa c’entra un bambino sotto questo cielo livido e lacrimoso, in questa desolata e fosca umidità, tra queste foglie bagnate […]. Un bambino: un essere nuovo, ignaro, indesiderato e promesso a ciechi affanni! In tal metro insensatamente bofonchiando (e dimenticando che proprio l’umidità è pegno di generazione), io girellavo […]”23. Fradicio, lacrimoso, umidità, bagnate… fin troppo agevole, a questo punto, il richiamo anche al liquido amniotico. Questa volta non siamo in un’isola sperduta dell’oceano Pacifico, ma comunque in una città di mare, Alassio, fiaccata da una pioggia battente, quasi tropicale; il che, in ultima analisi, non la rende poi tanto diversa, a livello di significazione, dalla più esotica Papeete. E un sottile richiamo alla maternità potrebbe esserci, in forma meno esplicita, anche in un’altra immagine di rospo, contenuta in un altro ‘foglietto di viaggio’ di Se non la realtà, dal titolo “Una bolla di sapone”: ”[…] nel giardino pubblico una sposina davanti alla vasca aveva fornito il suo piccolo d’un lungo giunco, con cui esso andava stuzzicando un rospetto immobile a gambe larghe sul pel dell’acqua, che ad ogni provocazione rispondeva stornando appena il capo e seguitando a fissare l’altro ranocchio in panni umani, non poco intimidito, per la verità, da quello sguardo serio”24. E che cosa scriverà Landolfi di suo figlio in un’indimenticabile pagina di Des mois? “Questo testone su due zampette, il Minimus, non si sa se sia più buffo o più commovente o più cosa mai cosa: ha del girino […]”25. Ma esplicitamente lo scrittore, in una lirica di Viola di morte, si limiterà a mettere in relazione l’animale soltanto con i sospiri d’amore: “[…] O dovrò dire che cogli anni corsi / Son trapassati anche i rospi, / Il loro sospiro d’amore? - / […]”26. 24 25 26 22 23
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Landolfi, T., “Svenimento ad Alassio”, in Se non la realtà, Adelphi, 2003, cit., p. 79. Id., cit. Landolfi, T., “Una bolla di sapone, in Se non la realtà, Adelphi, 2003, cit., pp. 44-45. Landolfi, T., Des mois, Rizzoli, 1991, cit., p. 50. Landolfi, T., “Smarrimento dell’ora antelucana”, in Viola di morte, cit., p. 217.
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Da un presunto significato sotterraneo ad una presunta fonte altrettanto ‘sotterranea’ o ‘sommersa’. E non potrebbe non essere così, dal momento che, chiunque ‘lavori’ su Landolfi sa benissimo di come si tratti, in fin dei conti, di un lavoro, continuo e faticoso, di ‘apnea’ ed ‘emersione’. Emblematiche le parole del Nostro sulla sua opera: “Eppure quante cose perfino intelligenti potrei dire di me… se una tal critica di me stesso non mancasse di oggetto concreto, se cioè avessi dietro di me una vera opera, almeno un’opera non quasi totalmente sommersa al modo degli icebergs. Da quei deboli trasparimenti di sott’acqua chi potrebbe argomentare alcunché? […]”27. La presunta fonte sotterranea che ci sentiremmo di aggiungere, con le dovute cautele, alla lista degli ipotesti più consolidati28 nel caso di un romanzo – capitale nella produzione landolfiana – come Le due zittelle (1946), è Il villaggio di Stepànĉikovo e i suoi abitanti (1859) di Dostoevskij, sulla base di alcune considerazioni e soprattutto di alcuni parallelismi che passiamo subito a delineare. In primo luogo la straordinaria somiglianza tra la landolfiana donna Marietta e la dostoevskijana generalessa Krachòtkina: in entrambi i casi si tratta di vecchie inacidite e autoritarie fino al dispotismo, anche se la seconda avrà la fortuna di potersi lamentare, svenire e tormentare attivamente il povero figlio per tutta la durata del romanzo – e della sua lunga vita – mentre la decrepita donna Marietta muore praticamente ad apertura del racconto, dopo aver passato gli ultimi anni della sua vita a letto, immobilizzata, ma, non per questo, meno tirannica. (Curioso come, invece, in Dostoevskij, a finire la sua vita proprio immobilizzato sia il secondo marito della vecchia, il generale Krachòtkin). La descrizione della generalessa sembra, infatti, ricalcare, a tratti, quella di donna Marietta: “Questa generalessa, il personaggio più importante in tutto quel gruppetto, davanti alla quale tutti camminavano come su una corda tesa, era una vecchietta secca e cattiva, tutta vestita a lutto – cattiva del resto più che altro per la vecchiaia e per la perdita delle sue ultime (e anche prima non cospicue) facoltà mentali; […]. Quando si infuriava, tutta la casa diventava un inferno. Aveva due modi diversi di arrabbiarsi. Il primo era silenzioso: per giorni interi la vecchietta non apriva bocca, ma Ibid., nota 9, cit., p. 42. Vale a dire soprattutto: il racconto lungo di Edgar Allan Poe The Murders in the Rue Morgue, Tè verde di J. S. Le Fanu e Le sorelle Materassi di Palazzeschi. 27 28
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taceva ostinatamente e spingeva, a volte persino scagliava, sul pavimento qualsiasi cosa le mettessero innanzi. Il secondo era completamente opposto: pieno di eloquenza! […]”. Continuando con le analogie: anche nel testo russo molti dei personaggi femminili sono proprio delle zitelle piuttosto avanti con l’età; in comune ai due testi è poi il corollario di pettegole, parassite, bigotte, suore e monachelle che fanno da contorno alle due vicende e il ricorso al vettore dello zoomorfismo fisiognomico. Al Tostini che si rovescia sulla poltrona “rosso come un gallinaccio” fa da eco il signor Bachĉeev che diventa d’un tratto “paonazzo come un gallo indiano”; a donna Marietta che raccoglie tutti gli abitatori della casa attorno a sé come una chioccia e intona il suo “«che dolori che dolori! Ah, ah, non ci’â faccio più»” risponde puntualmente la zitella Praskòv’ija Il’ìniĉna che “non dice altro che “ahi” e “ohi” e chioccia come una gallina”. Ma il Dostoevskij ‘minore’ di Il villaggio di Stepànĉikovo e i suoi abitanti ce ne offre moltissimi altri di questi esilaranti esempi di zoomorfismo fisiognomico, similmente rivisitati in chiave ironico-parodistica, con effetti che potremmo definire quasi ‘teatrali’ (considerata anche la destinazione originaria del testo in questione, inizialmente concepito come commedia). Ne vogliamo ricordare almeno qualcuno, tra quelli che ci sembrano più ‘landolfiani’: “«Mi era entrata una mosca in bocca, per questo sono rimasto in silenzio, e me ne stavo come un barbagianni […]»”; “Si è insuperbito, si è gonfiato come un sorcio nel semolino […]”; “«[…] Ma che il vostro zio sia innamorato, come un gatto siberiano, ve lo posso assicurare […]»”; “Nello stato di confusione in cui mi trovavo […] rimasi dritto in piedi e immobile, divenuto rosso come un gambero […]”; “Il disgraziato Falaléj […] apriva e chiudeva la bocca, come un carassio trascinato fuori dall’acqua sulla sabbia”. Da segnalare nel testo russo, poi, il ricorrere degli epiteti, più ‘affettati’ che affettuosi, di “piccioncino mio”, “palombello”, “colombella mia”, “passerotto mio” e simili che rientrano sicuramente nell’ambito dello zoomorfismo fisiognomico, così come ‘tirate’ dialettiche di questo tipo: “Sono forse un coccodrillo, che vi avrebbe solo divorato, e non invece elargito un utile consiglio? O forse sono un qualche disgustoso scarabeo, pronto solo a mordervi, e non ad agevolare la vostra felicità? Sono suo amico o il più rivoltante degli insetti?”. Una certa ‘assonanza’ – a occhio e a orecchio! – sembrerebbe esserci anche tra il passo landolfiano in cui vengono elencate, in forma dubitativa, le tecniche di soppressione dei più svariati animali e questo di Dostoevskij: 96
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“Perché mi avete teso di nascosto le reti in cui sono caduto come uno sciocco? Perché nell’oscurità mi avete scavato la fossa che si scava per i lupi […]? Perché non mi avete abbattuto sul posto, ancora prima, con un colpo di questa mazza? Perché fin dall’inizio non mi avete tirato il collo come a un gallo qualsiasi […]?”. Continuando la nostra disamina: anche in Dostoevskij risulta accennato, specie sul finale, il motivo di una religiosità ormai ridotta a vuote formule esteriori e a rituali stereotipati, disgiunti da un’autentica devozione, come si evince dal seguente passo: “La monachella e le parassite cominciarono a farsi il segno della croce e a profondersi in genuflessioni fino a terra […]. Lo zio e Nastja si misero di nuovo in ginocchio, e la cerimonia proseguì secondo le devote istruzioni della Perepelìcyna che diceva continuamente: «Inginocchiatevi, accostate le labbra all’immagine, baciate la mano alla mammina!»”. E i due testi sembrano condividere anche il medesimo intento dissacratorio: se la scimmia Tombo scompiscia l’altare, il grassone Stepàn Alekseiĉ, quasi altrettanto irrispettosamente, sfonda la sedia su cui è salito per accendere la candela davanti all’immagine sacra e precipita a terra, riuscendo miracolosamente a rimanere in piedi! Inoltre la lunga ‘tirata’ di padre Alessio, che, innescata dall’occasionale pretesto di giudicare il comportamento della scimmia finirà coll’incentrarsi sui concetti-cardine dell’ortodossia cristiana (fine ultimo della creazione, senso del peccato, morale e libero arbitrio), sembrerebbe avere il suo perfetto ‘corrispettivo’ nelle concilianti ultime parole di Egòr Il’iĉ Rostanev: “«[…] Signore! Perché l’uomo è malvagio? Perché io sono così spesso malvagio, quando è così bello, è così stupendo essere buoni? […] Eppure guarda che meraviglia è questo posto […] che natura, che quadro, che albero! Guarda, è tutto alla portata dell’uomo! Che linfa, che foglie, che sole! Come tutto qui intorno, dopo il temporale, si è fatto allegro, si è lavato!… E così, pensi che anche gli alberi capiscano qualcosa di sé, sentano e godano la vita… Possibile che sia così? Che ne pensi? […] Mirabile, mirabile Creatore! […]»”. E solo qualche rigo prima si diceva: “Io con calore presi a dire che anche in chi è caduto si possono mantenere vivi sentimenti umani altissimi, che la profondità dell’animo umano è insondabile, che non bisogna disprezzare chi è caduto, ma al contrario bisogna andare loro incontro e risollevarli, che è falsa la misura universalmente accettata del bene e della moralità, e così via, e così via”. Infine vorremmo azzardare ancora un ultimo parallelismo (il meno immediato forse): quello tra Tombo e Fomà Fomìĉ. Il piede e l’orma
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La scimmia e l’ex buffone – che, in passato, aveva ‘scimmiottato’, su richiesta del defunto generale, “differenti animali e svariati quadri viventi” e che, a ben vedere, non fa altro che scimmiottare un improponibile ruolo per tutta la vita – oltre all’eccentricità del loro comportamento e alla funzione di ‘catalizzatori’ assoluti delle rispettive vicende, sembrano condividere anche un’altra importante funzione narrativa: quella, cioè, di introdurre, all’interno di una quotidianità fatta di norme, tradizioni e sentimenti cristallizzati, l’elemento di imprevedibilità e, per così dire, di disturbo. In Landolfi il ripristino della normalità richiederà freudianamente, senza attenuante alcuna, il sacrificio del sovvertitore; mentre in Dostoevskij la normalità – e con essa lo scioglimento dell’intera vicenda – scaturirà proprio dall’accettazione dell’eccezionalità e dal suo definitivo consolidamento. Tombo, infatti, verrà brutalmente ucciso, Fomà Fomìĉ, invece, vedrà pienamente riconosciuta la sua missione superiore (smascherare le nefandezze del mondo!) e ne uscirà trionfatore assoluto, definitivamente consacrato nel suo ruolo di benefattore e salvatore dell’intera umanità29. In Landolfi non avrebbe potuto esserci un finale diverso, soprattutto se, uscendo dalle ‘griglie’ della psicoanalisi ed entrando in quelle, più genuinamente landolfiane, della meta-letteratura, si accoglie la tesi per cui, nella conclusione lancinante delle Due zittelle, il Nostro, sotto le vesti di Tombo, abbia voluto mettere in discussione, punire e alla fine condannare senza appello anche una parte di sé, ovviamente del sé scrittore; quello scrittore che, proprio all’opposto del dostoevskijano Fomà Fomìĉ, alla fine non potrà far altro che abdicare ad un ruolo di cui, forse, non si è mai sentito all’altezza. “[…] Parrebbe io fossi a ciò ordinato: / A dar sesto a una sorte scompigliata, / A rivestirla di parole vive / (Ma presto morte), di colori e suoni. / Ebbene, questo incarico declino: / Io sono l’ultimo degli uomini”30.
29 Per le citazioni da Dostoevskij rimandiamo a: Dostoevskij, F., Il villaggio di Stepànĉikovo e i suoi abitanti, Editori Riuniti, Collana di Letteratura: Asce, Grafiche del Liri, novembre 2010, Isola del Liri, Fr. 30 Landolfi, T., “Oh che compiute forme mi presenta”, in Viola di morte, cit., p. 118.
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Un chant dans une nuit sans air… La lune plaque en métal clair Les découpures du vert sombre. … Un chant ; comme un écho, tout vif Enterré, là, sous le massif… – Ça se tait : Viens, c’est là, dans l’ombre… – Un crapaud! – Pourquoi cette peur, Près de moi, ton soldat fidèle ! Vois-le, poète tondu, sans aile, Rossignol de la boue… – Horreur ! – … Il chante. – Horreur !! – Horreur pourquoi ? Vois-tu pas son oeil de lumière… Non : il s’en va, froid, sous sa pierre. ……………………………………………………………. Bonsoir-ce crapaud-là c’est moi. Ce soir, 20 juillet1. Questi versi sono di Tristan Corbière, poeta e pittore bretone (18451875) che, nella sua breve, tormentata ed eccentrica vita, compose un “anti-canzoniere” pubblicato a proprie spese, nel 1873, ed intitolato Les 1 “Un canto in una notte senz’aria… / La luna placca di metallo chiaro / I frastagli del verde cupo. / …Un canto, come un’eco, sepolto / Vivo, laggiù nel folto… / – Tace: vieni, è là nell’ombra… / – Un rospo! Perché questa paura, / Accanto a me tuo fedele soldato! / Guardalo, poeta tosato, senz’ala, / Usignolo del fango… – Orrore!-/…Canta. – Orrore!! – Orrore perché?/Non vedi il suo occhio di luce… / No: se ne va, freddo, Sotto il suo sasso. /……………..Buonasera – quel rospo sono io”. Stasera, 20 luglio (trad. dell’autore)
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Amours jaunes (Gli Amori gialli). Al di là dell’etichetta di poète maudit, che lo accomuna agli altri poeti antologizzati da Verlaine, Corbière si distingue nel panorama culturale francese della seconda metà del XIX secolo, rivelandosi un artista singolare nell’opera di scardinamento e di sovvertimento degli schemi e degli stilemi poetico-letterari ottocenteschi al punto da anticipare, per molti versi, le sperimentazioni delle avanguardie novecentesche. Come scrive Lorella Martinelli nel saggio Tristan Corbière nella rivoluzione poetica di fine ottocento2: “La sperimentazione di nuove modalità di creazione artistica porterà nel 1873 alla pubblicazione delle Amours jaunes, occasionando, da una parte, la separazione dalla tradizione poetica francese, e dall’altra l’assunzione di una fisionomia autonoma ‘inclassable et indeniable’ all’interno dell’esperienza pre-simbolista. Lo ‘sperimentalismo’ formale di Corbière, evidente non solo nell’irriverente profanazione tematica e stilistica, nella dissoluzione delle forme logico-sintattiche tradizionali, nell’anarchia ironica della fantasia, nel delirio provocatorio del sogno, ma anche, e soprattutto nel suo esibizionismo che lo porta finanche al punto di radersi le sopracciglia e di dipingersi sulla fronte un secondo paio di occhi, o ad apparire ai roscoviti come un ‘ankou’, ovvero lo spettro della morte, è il segno di un’operazione che, nell’impietosa demistificazione degli strumenti tradizionali dell’arte, tende a profanare i valori e i miti di una società che l’arte ha reso ‘sacri’. (…) Capovolgere grottescamente la ‘normalità’ mortificante e mistificante significa assumere coscienza dello stravolgimento e dell’alienazione, nascosti sotto un farsesco travestimento”. La poesia sopra riportata, intitolata Le crapaud (Il rospo), costituisce un esempio emblematico della sovversione tematico-stilistica operata dal poeta bretone che, è opportuno ricordarlo, “non ebbe in sorte la felicità (o infelicità) di ricevere alla nascita il nome di Tristano”3, chiamandosi per lo stato civile Édouard-Joachim. Il poeta si L. Martinelli, Tristan Corbière. Il linguaggio del disdegnoso e altri saggi di letteratura estrema, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2001, p. 26. 3 A. Cardamone – A. di Sora, Paese d’Anima, Frosinone, Dismisuratesti, 1988, pp. 5-6: “Corbière (…) scelse per sé di essere Tristano. Come se attraverso i secoli il potere di fascinazione legato al nome (il nome è l’anima: e Tristano non si innamora di Isotta proprio perché si chiama Isotta? e Tristano non incomincia a morire forse proprio quando incontra un altro cavaliere che dice di chiamarsi Tristano, dimostrandogli così di avergli rapito l’anima?) avesse continuato a fermentare tra i marosi e i faraglioni di Bretagna, fino a depositarsi nella coscienza febbrile, sofferente e ironica di un poeta come Corbière, che si sentiva rospo di palude, ma ambiva e si fingeva pirata e avventuroso scorridore degli immensi spazi marini”. 2
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paragona ad un rospo, o meglio si identifica con esso. Prima di scandagliare le connotazioni che tale figura bestiale assume nella poetica corbièriana, è bene riferire al lettore un dato biografico riportato da René Martineau, che esalta, nell’atto provocatorio, la cifra ironica e autoironica dell’artista, tesa a mascherare e a riscattare la sua infelice condizione di individuo malato, reso spettrale dalla sua raccapricciante magrezza: “En entrant dans sa chambre, une sonnette, mise en mouvement par la porte, vous forçait à lever la tête vers son portrait horriblement chargé. Sur la cheminée, on voyait un vieux crapaud séché, écrasé, cloué sur son trumeau.”4 Il rospo, dunque, è l’autoritratto del poeta: il suo doppio. Tristan Corbière, che nel corso della sua giovinezza dispendiosa, sofferta ed errabonda aveva conosciuto l’esperienza bifronte della bohème e del dandismo, seppe inventare e sperimentare una particolarissima forma di “dandismo della bruttezza e della dissonanza da pelle d’oca.”5 Il titolo della poesia è perfettamente in sintonia con quello dell’intera raccolta giocata sull’ accostamento del sostantivo amours con l’aggettivo jaunes che ne neutralizza ogni valenza lirica e sentimentale. Come è stato più volte notato dalla critica, l’aggettivo jaune (giallo) comprende un ventaglio di significati che attengono, da un lato, all’insoddisfazione e alla contestazione, alla risata derisoria e provocatrice, alla parodia e al sarcasmo; dall’altro, rimanda ad un intento artistico di distinzione e di alterità nei confronti della poesia tradizionale e del suo linguaggio. Corbière, infatti, ricerca ed elabora un linguaggio spurio e meticcio, apparentemente “sgrammaticato”, ricco di pastiches, una scrittura parlata, e questo linguaggio parlato si rivela “squisito, bohémien, popolare, postribolare, (…) guizzante, mimetico, che corre dietro alle onde, alle sottane, ai calembours, ai marinai, ai gerghi da taverna e da marciapiede e ai doppisensi, e non insegue nessuna idea, nessuna attrazione logica, ma solo le immagini di se stesso.”6 L’incipit del brano tratteggia una dimensione notturna misteriosa e vagamente angosciosa: “Un canto (indistinto, non si sa ancora se umano o bestiale), in una notte senz’aria”. Ė un verso ambiguo, dal momento che l’espressione sans air, per un procedimento ludi4 R. Martineau, Tristan Corbière, 1925, p. 74, in P. A. Jannini, Un altro Corbière, Roma, Bulzoni, 1977, p. 113: “Entrando nella sua camera, un campanello, messo in azione dalla porta, costringeva ad alzare la testa verso il suo ritratto orribilmente caricato. Sul camino, si vedeva un vecchio rospo secco, schiacciato, inchiodato sul suo specchio”. 5 A. Giuliani, in Corbière: tutte le poesie, Roma, Newton Compton Editori, 1976, p. 14. 6 A. Giuliani, op. cit., p. 12.
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co caro a Corbière, può riferirsi sia a nuit sia a chant. Nel primo caso, starebbe ad indicare uno stato di immobilità atmosferica, di assenza di circolazione d’aria; nel secondo acquisterebbe il significato di “aria musicale”, quindi sans air = sans musique. Entrambe le interpretazioni sono coerenti con la posizione critica e dissacrante del poeta, impegnato a distanziarsi ironicamente dalla tradizione petrarchesca e dal patetismo romantico, funambolico dandy nel comportamento e nel linguaggio, costantemente teso a creare modi di vita e di scrittura giocati all’insegna della parodia, del travestimento e del pastiche. D’altronde, il dandy preferisce stupire piuttosto che piacere e Tristan, cui l’avverso destino aveva vietato l’ebbrezza della navigazione in mare, ricerca nel mare dei versi una diversa possibilità di farsi pirata e marinaio. Ma torniamo al verso iniziale. In una notte senz’aria, pesante nella sua inquietante immobilità, si sprigiona dal silenzio un canto senza musica, prolungato dall’impiego dei puntini di sospensione […] che, unitamente alle lineette [-], costituiscono una cifra stilistica peculiare dell’Autore7. Il paesaggio notturno che viene offerto al lettore è ben distante da quelli della poesia tradizionale: la luna risplende, sì, ma il suo chiarore è freddo, metallico, senza alcuna nota di dolcezza e il verde è “frastagliato” e “cupo” (– La lune plaque en métal clair / Les découpures du vert sombre). E in questo universo tetro e raggelato, in cui la tenebra fosca è resa spettrale dalla luce metallica della luna, l’unica presenza è un canto, che non ha pienezza di voce ma è come un’eco e per giunta sepolto vivo laggiù nel folto. D’improvviso, il canto si tace ed il soggetto poetante si rivolge ad un anonimo interlocutore invitandolo a seguirlo per individuare l’autore del canto, occultato nell’ombra del macchione. Se uno dei due è il poeta, l’altro è l’individuo comune incapace di apprezzare la singolare bellezza del canto del rospo, che orribilmente si manifesta nell’oscurità della notte e in seno ai frastagli del verde. L’individuo comune, da “buon borghese”, è avvezzo all’ascolto del canto dell’usignolo dell’aria, del mellifluo e melodioso volatile, mentre l’usignolo del fango (rossignol de la boue) non può che fargli orrore. Il rospo corbièriano è un poeta tosato, senz’ala, che canta una strana ed orrenda canzone, tale 7 P. A. Jannini, op. cit., pp. 86, 87: “(…) La lineetta in Corbière acquista principalmente un valore simbolico di rottura dell’armonia tipografica tradizionale. Un’osservazione analoga si potrebbe fare per i più comuni puntini di sospensione. (…) Al no di Corbière alla comune disposizione della pagina stampata corrisponde un no alla comune sintassi che presiede al testo poetico e un no al linguaggio privilegiato usato fino ad allora dai poeti: s’apre così la via al senso ‘parlato’ (…)”
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solo per chi non sa comprenderne il significato profondo. La figura del rospo è tradizionalmente ripugnante, suscita orrore e disgusto per l’aspetto e fastidiosamente sgradevole è il suono della sua voce, ma è proprio con esso che Corbière si identifica, rivelando fuor di metafora, nel verso conclusivo, una sorta di epigrammatico fulmen in clausula: “Buonasera – quel rospo sono io” (Bonsoir – ce crapaud-là c’est moi). Altro che albatros baudelairiano! Per Corbière, il poeta, lungi dall’essere un “principe delle nubi” maestoso e bello, esiliato sulla terra come un angelo caduto, è un animale ripugnante, principe degli stagni e delle paludi, gracidante, reietto, che si allontana, freddo, sotto il suo sasso. Una creatura oscuramente “maledetta” che solo dall’occhio sprigiona una luce singolare. Mediante la similitudine con il rospo, Tristano va al di là dell’analogia ironica e autoironica riguardante il suo aspetto fisico. Alla mostruosità della sua persona (grand, maigre, il avait une barbe inculte, en pointe, un nez énorme. […] Sa maigreur devenait si épouvantable que les Roscovites l’avait surnommé l’ankou, ce qui, en breton, veut dire exactement : le spectre de la mort )8, egli intende associare la mostruosità della sua lingua con la quale ha voluto spoetizzare la poesia, collocandola agli antipodi della laccata e calligrafica poesia ufficiale, rendendola “quella cosa ostile, animalesca, insolubilmente blasfema e religiosa, che circola ancora da qualche parte nella vita e che cuori di rospo e orecchie di cane sanno ancora intendere”9.
8 R. Martineau, in P. A. Jannini, op. cit., p. 43. (alto, magro, aveva una barba incolta, in punta, un naso enorme. […] La sua magrezza diventava a tal punto spaventosa che i Roscoviti l’avevano soprannominato l’ankou, che in bretone vuol dire esattamente: lo spettro della morte). 9 A. Giuliani, op. cit., p. 14.
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come intrappolare la paura in una tela di ragno
La mia scultura mi permette di ri-esperire la paura, di darle fisicità, così da farla a pezzi Louise Bourgeois
Nel 1949 per la sua prima mostra personale a New York1, Louise Bougerois propone diciassette sculture, espressione in termini astratti di emozioni e stati di consapevolezza: rappresentano, infatti, le persone che ha lasciato in Francia nel 1938, quando parte con il marito, lo storico dell’arte Robert Goldwater, per trasferirsi negli Stati Uniti. Sono il risultato di un’attenta selezione delle opere denominate Personnages, create in quegli anni di fertile contatto con Arp e Matta. Sono realizzate in legno e dipinte con tonalità intense ma piatte (soprattutto bianco e nero), scelte non per ottenere effetti cromatici ma al contrario per annullare l’intrinseca qualità della materia usata e accentuare l’unità visiva. Estremamente stilizzate, severe e contemporaneamente raffinate, sono immaginate come silenti sentinelle che contrappuntano lo spazio della galleria, a suggerire molteplici associazioni all’interno di una sola opera, in una sorta di confrontation piece2. Sono un monumento commemorativo3 in cui non c’è traccia di retorica: si presentano allo sguardo come gli elementi fondanti di una precoce istallazione ambientale, che l’artista sceglie di montare senza base direttamente sul pavimento, a sottolineare l’unitarietà dell’intervento, in un gioco esemplare di equilibri. Erano state concepite – e funzionavano – come figure, cia Louise Bourgeois Recent Work 1947 to 1949. Seventeen Standing Figures, Peridot Gallery, 3-29 ottobre 1949. 2 Louise Bourgeois Distruzione del padre/Ricostruzione del padre (a cura di MarieLaure Bernadac e Hans-Ulrich Obrist), Quodlibet, Macerata, 2009, p. 80. 3 Ibidem, p. 211. 1
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scuna con una personalità caratterizzata dalla sua forma e articolazione, e ciascuna in relazione con le altre. Erano a grandezza naturale dentro uno spazio reale e pensate per essere viste a gruppi4.
Sono forme monolitiche e totemiche, solenni ma esili, affusolate come guglie, rigide eppure articolate, alcune quasi sbilanciate, come a rispecchiare la fragilità della vita, oppressa dall’angoscia dell’isolamento psicologico. Attraverso esse lascia affiorare i timori e le ansie di moglie, madre e artista, che si sente inadeguata e déracinée. Elabora il mal du pays, la solitudine e il vuoto affettivo, ricreando i propri cari, parenti e amici rimasti nel paese natale, a rendere manifeste le maglie di una rete di rapporti che intrattengono tra loro e con lo spazio in cui si trovano e, soprattutto, i sentimenti che la legano a loro indissolubilmente. Li dispone poi gli uni vicino agli altri, immobili, bloccati, come primigeni numi tutelari eretti a protezione di un mondo minacciato da troppe insidie. Non lo avrei mai ammesso, ma la verità è che mi mancavano disperatamente. C’era qualcosa di morto, e bisognava che lo resuscitassi. Questa cosa che era morta era il mio diritto di essere in lutto per tutto ciò che avevo lasciato in Francia5.
Inizia così la lunghissima carriera artistica di Louise Bourgeois, che è al tempo stesso un pezzo di storia dell’arte e una storia d’arte, un esercizio continuo per esorcizzare la paura, che come una bestia indomabile attanaglia ogni giorno della vita, portandosi via le effimere certezze conquistate il giorno precedente e lasciandola disarmata ad affrontare il futuro, in un corpo a corpo che non conosce soste. L’unica possibilità è lasciare che la paura prenda forma attraverso figure difficili da interpretare, scelte per scandagliare l’oscura profondità di sentimenti contrastanti, spesso tanto dolorosi da lasciare abbacinati. Abbandonandosi all’esigenza di restituire la complessità di enigmi che non possono essere sciolti, nel tentativo di definire l’ineludibile precarietà della propria condizione, l’artista si concentra sulla costruzione di un autoritratto che si definisce e ridefinisce nel presente, come una sorta di work in progress, a Ibidem, p. 91. Ivi.
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sfiorare l’indicibile, inseguire il fuggevole, catturare l’autentico sé (o forse viceversa l’altro in agguato nel sé). L’espressione di sé è sacra e fatale. È una necessità. La sublimazione è un dono, un colpo di fortuna. L’una non ha niente a che vedere con l’altra. Oggi con la scultura dico ciò che non riuscivo a comprendere in passato. Era la paura che mi impediva di capire. La paura è la cosa peggiore. Ti paralizza. La scultura mi permette di rivivere la paura, di darle corpo, in modo da cancellarla a colpi di scalpello6.
Pur scartando le lusinghe dell’autobiografia, il suo lavoro non sembra altro che un modo per tessere come ragno paziente la propria storia, montata e rimontata fino poi a trasformarla in una figura, pronta a essere esposta a sguardi estranei, che la osservano, ispezionano, sezionano ed elaborano in direzioni talmente differenti da apparire opposte rispetto all’originaria. Ogni tentazione narrativa è attentamente rifuggita, perché Bourgeois non illustra la sua storia, semmai la mette in scena, attraverso emozioni, suggestioni, memorie, frammenti. Come se tutti gli accadimenti di una vita lunghissima7, la sua esperienza, le sue riflessioni, i suoi incontri, non fossero che materiale d’archivio cui attingere, per scegliere di volta in volta materie e strumenti di lavoro, da riporre poi nel proprio atelier insieme ai fogli, alle tele, ai colori, alle matite, alle sgorbie, alle lime, agli scalpelli. Il passato, vissuto e rivissuto, ingoiato e poi vomitato in un’originalissima esibizione esistenziale, è sostanza di tutte le opere, che affondano le radici nel rapporto tormentato con i genitori, amati profondamente e detestati per le loro debolezze, nell’irresolutezza di una femminilità che non riesce a trovare appagamento nei ruoli tradizionalmente attribuitile, ma soltanto nell’arte, luogo in cui i sensi di colpa e l’inanità si alleviano, quasi si ricompongono nel desiderio di riparazione. Ho bisogno dei miei ricordi. Sono i miei documenti. Li tengo sempre d’occhio. Sono il mio mondo e sono profondamente
Ibidem, p. 249. Louise Bourgeois è nata a Parigi il 25 dicembre 1911 e morta a New York il 31 maggio 2010. 6 7
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gelosa. Cézanne diceva: “Sono geloso delle mie sensazioni”. Rievocare e sognare a occhi aperti è negativo. Bisogna distinguere i ricordi: se sei tu che vai da loro o loro che vengono da te. Se sei tu ad andare da loro, stai perdendo tempo. La nostalgia è improduttiva. Se vengono da te, sono dei semi di scultura8.
Objets trouvés e forme organiche, talvolta dalle esplicite connotazioni sessuali, immagini intensamente minacciose e figure perturbanti (donne incinte, sfingi, mammelle, falli, ragni), sperimentazioni con materiali eterogenei, freddi e caldi, tradizionali e non (marmo, bronzo, legno, tessuti, ricami, vetro, lattice, gesso, acciaio, ferro) strutturano e danno forza al lavoro di Bourgeois, che si srotola come un ininterrotto dialogo con le fonti (l’opera di Picasso, Bacon e Giacometti, l’imagerie surrealista, l’arte primitiva) e le ricombina in una cifra intensamente personale. Sperimenta un’infinità di materiali e di ipotesi progettuali, mette alla prova le leggi della geometria, smonta e ricostruisce, leviga, intaglia, modella, cuce. Mescolando sapientemente reminescenze, vissuto e metafore psicoanalitiche, crea dispositivi complessi, che possono raggiungere la dimensioni di veri e propri environment o di sculture monumentali, a dipanare il filo sottile ma tenace di traumi profondi e individuare il proprio baricentro nell’esplorazione dei fantasmi della psiche. Le sue sculture, infatti, hanno un aspetto familiare e straniante al tempo stesso, come i frammenti di un sogno ricorrente che riappare all’improvviso. Nutrite costantemente da un humus fertile ma composito, intessuto di fragilità, solitudini, desideri, timori, trovano le proprie ragioni nella difficoltà di essere e, soprattutto, nella consapevolezza di non possedere gli strumenti per sanare le sofferenze, troppo spesso causate dall’incapacità di affrontare i propri sentimenti. Si presentano come il multiforme risultato di una libertà di sperimentazione, perseguita al di fuori di schemi prestabiliti, tanto più che i riconoscimenti arrivano, in coincidenza con la stagione più produttiva della sua carriera, quando ha poco meno di settanta anni. Come se avesse avuto necessità di far provvista di vita per dare maggior consistenza alla sua opera, a quell’immagine di sé da restituire al mondo, per essere amata e superare ogni manchevolezza che accompagna il farsi delle cose. Ibidem, p. 246.
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Il mio lavoro è l’opera di ricostruzione di me stessa e trova origine nella mia infanzia. Il mio lavoro riguarda la fragilità del vivere e la difficoltà di amare ed essere amati. Utilizzo un linguaggio simbolico per esprimermi. Bisogna impregnare la materia di sentimenti. Il mio bisogno di utilizzare materiali soffici e stoffe, di far ricorso al cucito e alla bendatura dice la paura della separazione e dell’abbandono. Le emozioni sono proiettate all’esterno, in una forma e in uno spazio. L’inconscio è portato alla coscienza attraverso l’arte9.
Attraverso l’arte Louise Bourgeois ha la possibilità di sanare le sconnessioni dell’esistenza a partire dai traumi dell’infanzia, che le offrono sempre nuova linfa per operare con un’energia ogni volta diversa, eppure incessantemente bisognosa di una regia sorvegliata e una costruzione organizzata, in cui le parole e le opere rappresentano la trama e l’ordito di un unico lavoro. Comincia a scrivere a dodici anni e non smette più, come se la scrittura fosse il corrispettivo del disegno: un esercizio quotidiano per raccogliere e archiviare i suoi pensieri-piume10, attraverso cui ritornare ossessivamente al passato, per ricrearlo e rimodellarlo, provando poi ad andare oltre. Tutto quello che faccio è stato ispirato dai miei primi anni di vita. Tutti i miei lavori, tutti i miei soggetti hanno tratto ispirazione dalla mia infanzia. La mia infanzia non ha mai perso la sua magia. Il suo mistero, il suo dramma11.
Individua nei primi anni di bambina la sofferenza, il timore dell’abbandono e la coscienza dell’inadeguatezza, traumi persistenti, per liberarsi dei quali lavora un’intera vita: tutto sembra nascere da una delusione, da un tradimento, e dai conseguenti sensi di colpa, che infrangono precocemente l’incanto infantile, di cui ha assaporato la fragranza, custodendone poi intatta la memoria. L’amatissimo padre comincia a interessarsi di altre donne, poi stabilisce una lunga relazione con la precettrice assunta proprio per i figli. La madre, secondo le migliori convenzioni borghesi fa finta di Ibidem. Marie-Laure Bernadac, Introduzione, in op. cit., p. 19. 11 Ibidem, p. 178. 9
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niente, avallando di fatto un ménage familiare doloroso, soprattutto per Louise che non perdona il padre e la madre, né se stessa. Nel 1982, pubblica per Artforum un progetto, intitolato Child Abuse12, articolo-confessione composto di vecchie fotografie, immagini di opere, pensieri e riflessioni sull’arte e la vita, irrimediabilmente intrecciate in maniera assolutamente inestricabile. Bourgeois rivelava il rovello che ha alimentato il suo lungo percorso attorno al corpo, alla sessualità, alla maternità, alla famiglia, spingendola a trasformare gli organi genitali maschili, i seni, gli oggetti della quotidianità domestica in simboli di una paura mai sopita, di una ferita rimasta sempre aperta. L’infanzia vissuta silenziosamente nella menzogna di un perbenismo di facciata e consumata nell’ossessione di una sessualità perversa e distruttiva, è accompagnata dall’insicurezza e da un crescente sentimento di disistima, alimentato dalla sensazione di crescere in una casa piena d’insidie, pronta a trasformarsi presto in una gabbia, rievocata più tardi nelle Cells. Sono queste opere complesse, stanze/cages dai muri di rete, costruite con i lacerti della propria esistenza, ingombre degli oggetti del disagio, recuperati da un passato che torna ogni giorno alla vita. Rappresentano il luogo in cui mettere in atto una catarsi propiziatoria, distruttiva ma anche magica e terapeutica, che le permette di rivivere l’esperienza del passato, di distinguere i ricordi falsi pur nella loro vivacità e di arrivare alla comprensione di sé. Al trauma segue la riparazione, dall’ansia si arriva alla serenità, verso la completezza psicologica che solo l’arte può darle. Nel 1968 realizza Fillette, un grande pene di gesso ricoperto di lattex che espone sospeso al soffitto, attaccato con un gancio da macellaio, a evocare violenza e crudeltà. Soluzione questa già utilizzata in The Quartered One del 1964-65, che a prima vista ha l’aspetto di una carcassa di manzo (alla Rembrandt o alla Soutine), anche se poi le tasche e i buchi lo fanno assomigliare a un nido, e ripresa in molte altre opere degli anni successivi, dalle diverse versioni di Janus del 1968 a Arch of Hysteria del 1993, da Fée Couturière del 1963 a Couple I del 1996. Insieme a Fillette si fa fotografare da Robert Mapplethorpe nel 1982, esibendolo sotto il braccio come una baguette. Il giorno dell’appuntamento allo studio di Robert pensavo:
12 Progetto di Louise Bourgeois su invito della direttrice Ingrid Sischy, Artforum, XX dicembre 1982, pp. 40-47.
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che possiamo prendere? Quale accessorio possiamo portare? (…) Allora ho preso Fillette, una delle mie sculture che stava là tra le altre. Sapevo che mi avrebbe confortata stringerla e cullarla. In fondo il mio lavoro mi rappresenta più della mia presenza fisica. (…) Fillette era stato realizzato molti anni prima e riguarda direttamente una situazione familiare. Parlare di cose intime in pubblico vedete, mi fa venire i sudori freddi. A casa eravamo in cinque. (…) Avevo tre figli maschi più un marito, quindi quattro uomini da accudire. E non dico che non li amassi, li amavo. Provenendo dalla cultura francese, dove la moglie è di fatto madre, per me amare gli uomini significa aiutarli. Ma devi sapere come fare. Devi avere delle idee brillanti. (…) Ed eccomi lì, moglie e madre, spaventata dalla mia famiglia. Avevo il terrore di non essere all’altezza. Mia madre aveva compreso il suo ruolo e non ne temeva gli oneri. Io non avevo capito quale fosse il mio ruolo e temo di non averlo svolto in modo soddisfacente. E cosa fai quando hai paura?13
Cerchi di uscire dalla prigionia delle emozioni! dando forma a un universo creativo capace di sublimare il disagio identitario (proprio e di un’intera epoca) su un palcoscenico, in cui come in un incubo si muovono i simboli del disorientamento, pronti a trasformarsi in icone disfunzionali, sfuggite dalla sfera personale. Nel 1974 realizza una delle sue opere più rappresentative The Destruction of the Father, vero e proprio teatro della crudeltà, in cui il simbolico sacrificio di un’ancestrale figura paterna è inscenato per mezzo di forme tondeggianti, morbide e ambigue. La paura di essere intrappolati si tramuta in desiderio di intrappolare: una grande bocca, con i denti di bambina, pronta a masticare, assaporare, ingoiare. Un parricidio, dunque, generato dall’amore e dalla paura. Un gesto di inevitabile rivolta contro chi ama di più, ma che sempre l’ha fatta sentire manchevole. In una scena di The spider, the mistress and the tangerine, un documentario che la storica dell’arte Amei Wallach e la regista Marion Cajori hanno girato a partire dal 1993, conversando con l’artista nel suo studio di Brooklyn e nella sua abitazione di Manhattan, Bourgeois siede a un tavolo, Louise Bourgeois, pp. 217-218.
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con mandarino e coltello in mano. È visibilmente turbata mentre ricorda una storia della sua infanzia: il giorno in cui suo padre intagliò la buccia di un mandarino e la staccò dal frutto, in modo da creare un pupazzetto con un pene eretto e rivolgendosi ai commensali affermò: “Mi dispiace che mia figlia non possa esibire una simile bellezza. Lei, è ovvio, lì non ha granché”. Siede immobile e con difficoltà trattiene le lacrime: “A distanza di tanti anni, l’episodio è ancora così vivo nei miei ricordi. Come fosse successo ieri. Cosa possono fare i bambini, la notte, se non piangere, piangere? Anche se è inutile”14. Il dolore soffocato è pronto a esplodere, straripando incontenibile in una messa in scena di sofferenza e paura, non completamente elaborati, nonostante il tempo trascorso: vi campeggia una tavola imbandita, intorno alla quale il padre intrattiene i propri figli parlando di sé, di tutte le cose straordinarie che ha fatto. Finché monta la rabbia e i figli prendono il padre, lo stendono sulla tavola, lo spezzano, lo smembrano, lo divorano. Tutti gli oggetti in lattex sono calchi di membra animali (spalle d’agnello, cosce di pollo) che l’artista acquista al Washington Meat Market e getta nel gesso ancora morbido, così da ricavare le forme in cui colare la gomma, a rappresentare un banchetto cannibale e vendicatore e ricostruire una fantasia terribile, un’aggressione emotiva, consumata come prezzo di umiliazioni subite. C’è qualcosa di vagamente surrealista ma anche di primitivo in questa catarsi propiziatoria, attivata attraverso una distruzione al tempo stesso cruenta e arcana. The Destruction of the Father riguarda la paura – l’ordinaria comune paura, la paura reale, fisica, che ancora oggi provo. Ciò che mi interessa è la vittoria sulla paura, il nascondersi, la fuga di fronte ad essa, il saperla affrontare, esorcizzare, il vergognarsene, e infine la paura di aver paura. (…) Ebbene lo scopo era esorcizzare la paura. E dopo averlo esposto – ecco – mi sono sentita una persona diversa. Ora non intendo usare il termine thérapeutique, ma un esorcismo è un’azione terapeutica. All’origine di quest’opera c’è quindi la catarsi15.
Louise Bourgeois: The spider, the mistress and the tangerine, regia di Marion Cajori e Amei Wallach, giugno 2008. 15 Louise Bourgeois, op. cit., pp. 174-176. 14
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Se il padre incarna la complessità di sentimenti forti, spesso dominati dalla rabbia e dal risentimento, la madre motore della vita familiare e della sua stabilità economica gli ispira opere intense e ambivalenti. In esse la forza e la debolezza si confrontano per restituire un’idea di femminilità combattuta tra essere e dover essere, un concetto di mater che si pone al di fuori di ogni retorica. In un infinito gioco di scivolamenti la riflessione sul ruolo materno si sposta poi su di sé, a concretare il non sentirsi mai all’altezza delle altrui aspettative. Emerge allora un livore mai sopito, strettamente legato al timore di essere abbandonata, di ritrovarsi sola con se stessa ad affrontare la vita. Una figlia è una delusione. Se ne metti al mondo una devi farti perdonare, proprio come mia madre, che fu perdonata solo perché io ero il ritratto sputato di mio padre. Questa è stata la mia fortuna. Forse è per questo che lui mi trattava come il figlio che aveva sempre voluto. Ero sufficientemente dotata per dargli soddisfazione16.
She-Fox realizzata nel 1987, è il frutto di una rabbia che riemerge quando è costretta ad affrontare il rapporto con la figura materna. È una strana bestia in marmo nero, alta un metro e ottanta. Inquietante nella sua postura da sfinge. È inequivocabilmente femmina, perché molte mammelle, sode e tonde, si susseguono lungo il busto. È accovacciata sulle zampe posteriori e sotto i fianchi accoglienti c’è un piccolo nido, che custodisce una minuscola Fallen Woman, a rappresentare l’artista stessa, in una sorta di doppio autoritratto17. Non ha testa, qualcuno l’ha tagliata con un colpo sicuro, senza titubanze né timori, mentre un grande squarcio le attraversa la gola: eppure sebbene sia così mutilata è calma. Si tratta ovviamente di mia madre. Ero preoccupata dall’idea che mia madre potesse non amarvi affatto e non riuscivo ad accettarlo. L’appellativo volpe sta a significare che consideravo mia madre una persona molto intelligente, paziente e tenace, se non calcolatrice. Per me era una volpe perché non ero all’altezza di una simile abilità, e questo antagonismo, Ibidem, p. 146. Cfr. Louise Bougeois, in op. cit., p. 162.
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questo aspetto minaccioso, mi esasperava e mi spingeva alla violenza. Così cercavo di ferirla e questa volta l’ho fatto. Le ho mozzato la testa. Le ho tagliato la gola. Eppure mi aspetto che continui a volermi bene18.
She-Fox è la materializzazione della difficoltà e del dolore della relazione tra madre e figlia, che inevitabilmente segna la sua esperienza della maternità, contraddittoria e dilaniante, stretta tra un costante senso di inadeguatezza e un amore assoluto. Un desiderio fortissimo, frustrato dalla paura di non essere fertile, la spinge ad adottare un bambino subito dopo il matrimonio, per scacciare il timore di non poterne generare. Subito dopo, invece, le sarebbero nati due figli. Le gravidanze e i parti diventano conseguentemente materia per opere di una forza straordinaria, in cui dolcezza e violenza, pienezza e assenza (l’utero può nutrire e proteggere ma inevitabilmente rimane vuoto dopo che il figlio non è più tutt’uno con la madre) si rapportano dialetticamente per restituire aspetti diversi di uno dei momenti centrali dell’essere donna, tra desiderio incontrollabile e preoccupazione per un compito gravoso, tra senso di vulnerabilità e di dipendenza. Woman with Packages, la figura centrale di Quarantania I del 1947-53 è inequivocabile espressione di questi sentimenti. Gli elementi, che come essenziali bisacce pendono ai lati di questa forma fragile e sbilanciata, simboleggiano i suoi figli: i tre fardelli che dovrà portare con sé ovunque. È come se si sentisse presa al guinzaglio, trattenuta dalla zavorra della responsabilità materna eppure al tempo stesso impaurita dal pensiero di perderli e di essere abbandonata. In Do not abandoned me del 1997 ferma il momento in cui il bambino è espulso dal corpo della madre e comincia il suo percorso individuale. Utilizza tessuto rosa, ago e filo a concretare la sofferenza e recuperare non solo simbolicamente il senso di un’attività femminile per eccellenza, il cucito. Mentre in una delle serie più importanti, Cumuls, la prima scultura è realizzata in marmo a Pietrasanta, dove arriva per la prima volta nel 1967, giustappone gli uni accanto agli altri seni di donna, elemento materno per eccellenza, che nutrono e crescono un’umanità tormentata, contraddittoriamente realizzati in un materiale tanto duro, freddo e immobile quanto morbida e sinuosa è la forma che evocano. Ma le sculture simbolo di un immaginario multiforme e spesso anche molto difficile da interpretare sono i grandi Ibidem, p. 158.
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ragni, dominatori incontrastati del bestiario uscito dalle mani di Louise Bourgeois. Ibridi di una visionarietà assoluta, sono icone apotropaiche e al tempo stesso materializzazioni di disagi e inquietudini profonde, difficili da estirpare. Li chiama, utilizzando il francese, la sua lingua d’origine, Maman. La madre, restauratrice di arazzi antichi a Aubousson, paziente tesse il filo capace di proteggere e di legare, il filo dell’esistenza, che costruisce la tela, non solo luogo di caccia ma anche accogliente rifugio, in cui l’artista continua a trovare protezione. La mia migliore amica è stata mia madre. Era intelligente, saggia, paziente, rassicurante, selettiva, raffinata, indispensabile, ordinata e utile, proprio come un ragno. (…) Mia madre era una restauratrice. Aggiustava le cose rotte. Io non lo faccio. Io le cose le distruggo. Non so andare in linea retta. Io devo distruggere, ricostruire, distruggere ancora. Il mio ritmo non è lo stesso. Mia madre seguiva una linea dritta; io vado da un estremo all’altro19.
I ragni sono creature primigenie, dall’aria poco attraente, che si aggirano misteriose e affaccendate oppure vegliano immobili l’architettura che a mo’ di ricamo hanno costruito. Sono pronti a divorare la preda e a ricominciare all’infinito il lavoro per cui sono nati, proteggono il loro territorio contro ogni attacco e ritessono se necessario ogni smagliatura, riparando l’irreparabile. Nell’immaginario di Bourgeois sono capaci di assumere dimensioni titaniche (grazie al bronzo), di vestirsi di stoffe da tappezziere o di accollarsi sacche ricolme di bianche uova di marmo. Giganteschi o minuscoli, attraverso un sapiente intreccio di nodi e vuoti spaziali, hanno la capacità di rimodellare il tempo passato, di dare altra forma alla realtà, per porsi come impenetrabili guardiani di quella paura, rimasta intrappolata nella loro fragile rete.
19 Jerry Gorovoy, Pandora Tabatabai Asbaghi, Paulo Herkenhoff, Louise Bourgeois. Blue days pink days, Fondazione Prada, Milano, 1997, p. 21.
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FORMICA Il Fisiologo ha detto della formica che ha tre nature. La sua prima natura è questa: quando esse procedono in fila, ciascuna porta il suo chicco di grano in bocca, e quelle che ne sono prive non dicono alle compagne cariche: «Dateci dei vostri chicchi», né glieli strappano con la forza, ma vanno a raccoglierne per conto proprio. […] Seconda natura della formica. Quando mette in serbo il grano sottoterra, essa taglia in due parti il chicco, perché, al sopraggiungere dell’inverno, essi non si inumidiscano e non comincino a germogliare, e le formiche non muoiono così di fame. […] Terza natura della formica. Spesso la formica va nel campo all’epoca della mietitura e si arrampica sulla spiga e porta giù il chicco, e prima di arrampicarsi annusa lo stelo della spiga, e al fiuto riconosce se è grano oppure orzo: e se è orzo, non sale, se invece è grano, sale e fa cadere il chicco. (da Il Fisiologo, cit.)
MIRMICOLEONE Un animale inconcepibile è il mirmicoleone, così definito da Flaubert: «Leone davanti, formica di dietro, e con le pudende a rovescio». La storia di questo mostro è curiosa. (da J.L. Borges, cit.)
Il Fisiologo ha detto del leone-formica che ha le membra anteriori di leone e quelle posteriori di formica. Suo padre è carnivoro, sua madre invece erbivora;; quando generano il leone-formica, lo generano dotato di due nature, e non può mangiar carne a causa della natura della madre, né erba a causa della natura del padre: così perisce per mancanza di nutrimento. (da Il Fisiologo, cit.)
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Le formiche e l’apparato di produzione della letteratura: il caso di Sveva Casati Modignani
Tutti, certamente, conoscono la favola di Esopo intitolata “La cicala e la formica”, nella quale si racconta come, durante l’estate, la formica lavorasse meticolosamente e senza sosta per mettere da parte le provviste per l’inverno, mentre la cicala, tutta intenta a vivere “cogliendo l’attimo”, non faceva altro che cantare e divertirsi tutto il giorno; morale: alla fine la formica si ritrova con il suo gruzzoletto, mentre la cicala muore di fame. Se si trasportassero questi due animali dall’universo della favola esopica a quello della produzione letteraria ne risulterebbero due tipologie autoriali bene precise. La cicala, infatti, non può non riportare alla mente l’autore “auratico”, per dirla con W. Benjamin1, che ha caratterizzato fortemente tutta la sfera artistica pre-novecentesca. Il concetto dell’“arte per l’arte” ben si sposerebbe con l’atteggiamento della cicala, che, ascoltando l’istinto senza pensare al domani, basa la sua intera esistenza su una sorta di “ispirazione mistica”, che la porta a cantare senza curarsi di nulla se non del suo stesso canto: vive il momento unico e magico che si fonde con la creazione artistica e ne è caratterizzato. Più interessante risulta, invece, la tipologia autoriale che è simboleggiata dalla formica e che caratterizza tutta quella letteratura di stampo otto-novecentesco, legata all’avvento delle masse e alla loro richiesta di beni culturali di consumo. L’arte come mercificazione conduce alla formica come autore-produttore, i cui prodotti non possono che apparire come forma di merce: il capitale diventa una forma di vita e la letteratura si fa sua ancella. La formica, infatti, nel racconto esopico, passa tutta l’estate, diligentemente e meticolosamente a mettere da parte il cibo: ogni giorno lavora un po’ per ricevere, alla fine, la sua ricompensa, ovvero avere agio di mangiare e , di conseguenza, sopravvivere. Le formiche operaie, con il 1 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, passim.
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loro lavoro eterodiretto, basano la loro intera esistenza sulla buona riuscita della loro nota capacità ed efficienza organizzativa. La formica porta a termine il lavoro assegnato, puntualmente ed in modo ripetitivo. Il paragone tra le figure rappresentate da Esopo nella nota favola e le due tipologie distinte di autorialità appare calzante più che nell’accezione morale data dall’autore, nella prassi della produzione letteraria. Il lavoro degli autoriformica, quindi, divenendo l’occupazione principale e dovendo generare reddito, acquisisce i caratteri di un mestiere, con le proprie tecniche e la propria routine organizzativa. Date tali considerazioni, non si vuole necessariamente sminuire il valore di ogni singolo prodotto letterario, ma evidenziare, al contrario, i meccanismi, le regolarità e le tendenze che hanno condotto alla sua produzione. La formica può, in alcuni casi, simboleggiare perfettamente l’autore che meticolosamente, giorno dopo giorno, scrive non guidato da una “mistica ispirazione”, ma per ottenere un tornaconto di tipo economico, dando vita a prodotti fabbricati in serie ed orientati al consumo di massa. Se la cicala viene a rappresentare l’autorialità di chi non ha coscienza della letteratura come apparato di produzione, con la sua conseguente forza trasgressiva e la sua tendenza verso un lavoro liberato; la formica, d’altro canto, si inserisce nell’alveo della piena modernità, riconoscendo l’apparato di produzione. La sua obbedienza cieca al lavoro, che certamente le procura utilità private, può portarla a dimenticare che, oggi, l’apparato di produzione della letteratura si rifà ad un’economia di mercato, che ha le sue regole ed ha, alle spalle, i suoi detentori e la sua logica di potere. Compito dello scrittore sarebbe, forse, quello di contestare l’apparato di produzione per rifondarlo in altra direzione. Ovviamente nella realtà esistono tipologie autoriali diverse da quelle qui proposte e che non sono ascrivibili completamente né all’una, né all’altra categoria: come esistono scrittori-cicale, cicale scriteriate e cicale utilmente trasgressive; ci sono anche scrittore formiche, scrittori avveduti e consapevoli e scrittori resisi totalmente funzionali al sistema e alla logica del formicaio. Esempio letterario di quest’ultima tipologia è certamente, Sveva Casati Modignani, che ha compiuto numerose esperienze co-autoriali (come capita per logica produttiva a questi autori-formiche): in particolare, il romanzo Qualcosa di buono edito, per la prima volta, nel 2004 e composto, probabilmente2, a quattro mani può essere a buon diritto considerato un emblema della letteratura di consumo italiana. Nullo Cantaroni, infatti, ancora in vita, era ormai gravemente malato di Parkinson.
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Sveva Casati Modignani è lo pseudonimo di Bice Cairati e Nullo Cantaroni, entrambi giornalisti, con il quale sono stati pubblicati circa venti romanzi a partire da Anna dagli occhi verdi, edito nel 1981. Bice Cairati è nata a Milano il 13 luglio 1938, mentre Nullo Cantaroni, suo marito, è nato, sempre a Milano, il 27 agosto 1928 e vi è morto il 29 novembre 2004. Dopo la morte del marito B. Cairati ha continuato a pubblicare romanzi, mantenendo lo stesso pseudonimo, a partire almeno da Rosso corallo edito nel 2006. Si è deciso, quindi, di prendere come esempio per questo autore il romanzo Qualcosa di buono, perché è l’ultima opera che vede dietro allo pseudonimo Sveva Casati Modignani due autori. Infatti, per quanto i due scrittori fossero sostanzialmente fusi in un unicum, se si confrontano i testi editi prima e dopo la morte di Cantaroni, si riesce a rintracciare chiaramente la scrittura della Cairati anche nelle opere a quattro mani precedentemente pubblicate. Tale dato, che risulta di notevole interesse per l’analisi di un’opera composta a quattro mani ‘di genere’, risulta evidente non solo dall’analisi incrociata delle opere di Sveva Casati Modignani, ma anche dalle parole della stessa Bice Cairati a proposito del suo lavoro di scrittrice dopo la morte del marito Nullo: […] dopo ventisette anni, continuo inutilmente a spiegare che Sveva è un’invenzione, lo pseudonimo di Bice, che sono io, e Nullo, che era mio marito. Per la verità, mio marito a un certo punto si è ammalato e non è più riuscito a martellare sui tasti della sua ‘lettera 32’. Poi mi ha lasciata e tutti pensano che Sveva sia rimasta sola. Non è così, perché Bice continua a scrivere con Nullo che ancora le dice: ‘Questo va bene, questo non va bene’. Né più né meno di quello che faceva quando lavoravamo insieme. Io scrivevo una storia e lui la riscriveva. Aveva un modo di raccontare ricco, opulento, turgido. Io sono più stringata e il passaggio dalle quattro alle due mani si sente via via che da Anna, Il Barone, Saulina, Come stelle cadenti, Disperatamente Giulia e Donna d’onore si passa ai romanzi successivi. Non solo cambia lo stile, cambiano anche i contenuti. Il sesso, per esempio, viene sempre più sottaciuto. Assumono invece rilevanza i percorsi interiori dei protagonisti. Con Nullo raccontavamo storie di grandi famiglie, in seguito ho ripiegato sulle piccole vicende intime di donne comuni. Lui, appunto, amava l’opulenza, io mi muovo meglio nella quotidianità un po’dimessa, ma non per questo meno catturan118
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te. Dunque, i personaggi di Sveva sono cambiati, così come è cambiato il mondo e sono cambiata anch’io […]3.
Se in alcune interviste, però, Bice Cairati sostiene che quella con il marito fosse una vera e propria “collaborazione a quattro mani”, che è andata avanti per una serie abbastanza lunga di opere – come si legge nel passaggio sopracitato –, in altre afferma che solo i primi tre romanzi di Sveva Casati Modignani sono scritti da lei e da suo marito insieme: Per amore… Et voilà la sua vita privata, l’incontro a Parigi con Nullo Cantaroni che diverrà suo marito, felice anche il sodalizio professionale… ‘Gli debbo il passo d’avvio. Mi ero domandata: che cosa sa mio figlio delle mie radici? E così cominciai a scrivergli una lettera che via via si allungherà, raggiungendo il centinaio di fogli. Mio marito li lesse, infine incoraggiandomi: ma questo è un romanzo. Nasceva Anna dagli occhi verdi. Insieme abbiamo ordito tre libri. Come? Io scrivevo, lui riscriveva, io, a mia volta, riscrivevo…’4.
In altre ancora toglie completamente la paternità delle opere di Sveva Casati Modignani al marito: I primi romanzi li scrisse con suo marito, Nullo Cantaroni. ‘A darci fiducia fu Tiziano Barbieri, artefice degli hit di Sperling & Kupfer, che per la nostra coppia inventò lo pseudonimo Sveva Casati Modignani. In realtà ero io a scrivere. Nullo correggeva. Poi fu vittima di una forma precoce di morbo di Parkinson e restò malatissimo per vent’anni. Morì nel 2004. Anche quand’era malato gli leggevo i testi, che lui commentava e criticava. Lo fa persino ora che non c’è più. È un tale rompicoglioni che non riesco a scrollarmelo di dosso’5. Cfr. http://svevacasatimodignani.ormedilettura.com/category/la-mia-storia/ Cfr. S. Casati Modignani, “Il conte Tolstoj non è il mio principe azzurro”, in La Stampa.it, 27 maggio 2012, <http://www.lastampa.it/2012/05/27/cultura/libri/sveva-casatimodignani-il-conte-tolstoj-non-e-il-mio-principe-azzurro-tkp7pO6vah2RKMcs1kBz7M/ pagina.htm>l. 5 Cfr. L. Bentivoglio, “Sveva Casati Modignani”, in La Repubblica.it, 25 maggio 2013, 3 4
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La verità è, probabilmente, situata nel mezzo. Se si prendono in esame i primi tre romanzi di Sveva Casati Modignani – che si possono catalogare con certezza come opere composte a più mani, anche per stessa ammissione di Bice Cairati – ed in particolare Anna dagli occhi verdi, la prima opera pubblicata sotto lo pseudonimo di Sveva Casati Modignani, si può facilmente constatare che vi sono tipizzazioni che si rintracciano in tutti i testi editi prima della morte di Nullo Cantaroni – in particolare la presenza di un numero elevato di scene sessuali e una scrittura più “barocca e opulenta”, come è stata definita dalla stessa B. Cairati6 –, ma che scompaiono quasi completamente nei libri editi successivamente al 2004, anno della morte del marito. Probabilmente è anche vero che a scrivere materialmente la maggior parte dei romanzi e ad occuparsi delle trame era la parte femminile della coppia di coniugi, ma ciò non toglie l’importanza del ruolo svolto da N. Cantaroni, sia nella correzione e riscrittura dei brani che la moglie gli presentava, sia nel proporre storie più saldamente connesse con il tessuto sociale, sia nel costruire i dialoghi dei personaggi: questa “organizzazione” ricorda da vicino quella dei fratelli Frédéric Henri Petitjean de la Rosiére e Jeanne Marie Henriette Petitjean de la Rosiére (conosciuti con lo pseudonimo di M. Delly), in cui, però, a differenza di Bice Cairati, gli stessi autori sottolineavano l’importanza della presenza di entrambi per la produzione delle loro opere. Il fatto che la parte femminile di questo binomio di scrittori abbia continuato a scrivere e pubblicare romanzi con lo stesso pseudonimo e con la stessa tipologia dei precedenti anche dopo la morte del suo corrispondente maschile risulta particolarmente interessante. Infatti, è un caso più unico che raro che uno scrittore sfrutti la notorietà raggiunta con il compagno di composizione nelle stesse modalità anche dopo la morte di questo. Ad esempio, Maj Sjöwall, dopo la morte del marito, Per Fredrik Wahlöö, avvenuta nel 1975, ha sì continuato il suo lavoro di scrittrice, pubblicando anche alcune opere composte a quattro mani con altri autori come A. Jürgen e T. Ross, ma non ha più composto romanzi che avessero per protagonisti l’ispettore Martin Beck e la sua squadra omicidi di Stoccolma, come nelle opere composte a quattro mani da lei e dal marito. È evidente che le opere di Sveva Casati Modignani composte prima del <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/05/25/sveva-casatimodignani.html>. 6 Cfr. http://svevacasatimodignani.ormedilettura.com/category/la-mia-storia/
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2004 – siano esse solamente tre o siano tutte quelle edite fino a Qualcosa di buono compreso – rispettano tutte le caratteristiche attribuite alla scrittura a quattro mani ‘di genere’: il numero limitato degli autori; il fatto che se l’opera è composta da una coppia di coniugi o di parenti la scrittura non viene separata, ed il libro appare, quindi, più fluido, ma che gli scrittori, comunque, emergano grazie alle loro peculiarità di genere e la realizzazione di una nuova ‘figura-autore’, che fagocita gli scrittori che la compongono; ma è anche vero che nelle opere successive alla morte di Nullo Cantaroni è presente un processo di ‘de-creolizzazione’ autoriale. Prima due scrittori compongono insieme un numero elevato di opere, successivamente uno dei due viene a mancare e si possono verificare, allora, due processi: in un primo caso vi può essere la morte della nuova ‘figura-autore’, che si era venuta a creare grazie alla scrittura a quattro mani, conseguentemente alla sparizione di uno degli scrittori che l’hanno composta – come nel caso di Maj Sjöwall e Per Fredrik Wahlöö – nel secondo caso si può verificare un processo di ‘de-creolizzazione’, che è quanto è avvenuto per Sveva Casati Modignani. Bice Cairati e Nullo Cantaroni, entrambi giornalisti e di conseguenza con scritture fortemente tipizzate, decidono di comporre una lunga serie di opere insieme, dando vita ad una mescolanza umana e di scrittura, che porta alla costituzione di una nuova ‘figura-autore’ tramite un processo profondo di creolizzazione autoriale; successivamente Cantaroni muore, e di conseguenza, muore con lui, come era avvenuto per il caso precedente, anche la nuova ‘figura autore’, che per sopravvivere ha bisogno di entrambi gli scrittori che ha fagocitato. La differenza, però, è che mentre Maj Sjöwall ritorna semplicemente ad essere una scrittrice ‘singola’ o ‘doppia’ con un altro autore, Bice Cairati ridiventa una scrittrice singola continuando, però, a sfruttare quei temi e quei motivi, che erano propri della nuova ‘figura-autore’ della quale faceva parte, ma non essendo più in relazione, quella stessa ‘Relazione’ cui si richiama Glissant7, con l’altro. Perché si verifichi ciò, Bice Cairati deve aver subito un percorso de-creolizzante, ovvero deve essere riuscita a staccarsi dal suo doppio ed, in un certo senso, a rimuoverlo, per potersi appropriare meccanicamente di quelle che erano le caratteristiche della nuova ‘figura-autore’, che aveva contribuito in parte a comporre, riuscendo successivamente a riprodurle. Si è scelto, quindi, di analizzare tale autore, evidentemente poco ‘lette É. Glissant, Poetica del diverso, Meltemi, Roma 1998, p. 26.
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rario’ e d’altra parte, così commerciale. Sveva Casati Modignani, a partire dal 2004, non è più la nuova figura autore che interessa e stimola l’analisi di una teoria della scrittura a quattro mani: è solo il gretto risultato di un’operazione puramente commerciale, che ha perso la spinta umana ed empatica caratteristica, come si è potuto constatare in precedenza, che è la base innescante il processo di creolizzazione. Essa si è svuotata ed ha perso la sua particolarità; è diventata solo una banale scrittrice di romanzi ‘rosa’ e sentimentali, come ce ne sono molte, che può essere apprezzabile o meno per la sua scrittura e i temi che affronta, ma che non porta più in sé quella carica innovativa e sperimentale, propria della prassi scrittoria a più mani, che conduce al ri-posizionamento autoriale nella contemporaneità. Si può facilmente dedurre che il processo di ‘de-creolizzazione’ non riporta, quindi, lo scrittore alla fase antecedente la composizione di opere a quattro mani, bensì lo incanala in un processo di impoverimento dell’autore, che lo conduce verso uno stato simile a quello dal quale è partito, ma impoverito. La formula di J. Lo Bianco et al. che costituisce il Terzo spazio8 può essere declinata attraverso la teoria della creolizzazione nella sua accezione autoriale e può essere sfruttata anche nell’analisi del processo contrario: nel caso di Sveva Casati Modignani conduce ad una “[…] diminuzione dell’essere […]”9, mentre per Maj Sjöwall – esempio evidente di “buona condotta”, se così si può dire – porta al ripristino di uno stato precedente. Nel caso di M. Sjöwall e di suo marito Per Fredrik Wahlöö, al fine di una maggiore evidenza, la formula può essere rappresentata graficamente come segue: X3 (a3, b3, c3) - X1 (a1, b1, c1) = X2 (a2, b2, c2) Dove X3 è la nuova ‘figura-autore’, creata dalla completa fusione dei due scrittori, X1 rappresenta l’individualità di uno scrittore (in tal caso Per Fredrik Wahlöö), X2 l’individualità di un ulteriore scrittore (Maj Sjöwall), a è la lingua, b è lo stile e c è la personalità individuale. Non è opportuno, invece, riproporre la formula proposta da Lo Bianco per il Terzo spazio per il caso di Sveva Casati Modignani, in quanto, pur rimanendo valido il concetto da essa rappresentato, non riuscirebbe a cogliere efficacemente 8 J. Lo Bianco, C. Crozet, A. J. Liddicoat (Eds.), Striving for The Third Place. Intercultural Competence through Language Education, Language Australia, Canberra 1999, pp. 1-20, 181-187; cfr. anche H. K. Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001, pp. 57-59. 9 É. Glissant, op. cit., p. 16.
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il deterioramento qualitativo determinato dal venire meno di uno dei due poli della relazione autoriale innescata dal processo di creolizzazione e la successiva ‘imitazione’, da parte del singolo scrittore sopravvissuto, dello stile della nuova ‘figura-autore’. Prima di prendere in considerazione il romanzo Qualcosa di buono, che qui interessa maggiormente,– in quanto è l’ultima opera pubblicata da Sveva Casati Modignani mentre Nullo Cantaroni, per quanto affetto dal Parkinson, è ancora in vita10 – si sceglie di analizzare brevemente Anna dagli occhi verdi, edita nel 1981, perché, essendo certamente composta a più mani, permetterà di sottolineare la presenza di entrambi gli autori. La storia narrata in Anna dagli occhi verdi è quella della famiglia Boldrani, in particolare di Cesare, il capofamiglia, e di sua figlia Anna. Il racconto si apre con il funerale del vecchio e potente Cesare Boldrani, al quale partecipa tutta la cosiddetta “Milano-bene”. Da quel momento sarà Anna a dover prendere in mano le redini dello smisurato impero edile del padre e per farlo dovrà confrontarsi con un passato oscuro ed incerto. La domanda principale, per tutto lo svolgimento del romanzo, che aleggerà sia nella mente di Anna che in quella dei lettori sarà: Anna è davvero la figlia di Cesare Boldrani? Si arriverà alla soluzione di questo enigma, solo alla fine del romanzo, dopo aver seguito le incessanti peripezie amorose e sessuali prima di Cesare; poi di Maria, la madre di Anna, prima con Nemesio, ipotetico “vero” padre di Anna e certo padre di Giulio, fratellastro della stessa, poi con Cesare, che nelle ultime quattro pagine del romanzo, ci sarà finalmente comunicato, anche in maniera piuttosto prevedibile, che è il vero padre della protagonista; poi ci saranno le peripezie amorose dei comprimari, tra cui quelle di Silvia De Carolis “creatura senza scrupoli che si dimenava come un serpente in calore”11, antagonista di Anna, e di Pazienza e del Riccio, amici del giovane Cesare; infine ci saranno raccontate anche le storie d’amore e di sesso di Anna, con i suoi primi amori, con suo marito Arrigo, con il suo 10 In quest’opera, infatti, è ancora possibile rintracciare una profonda influenza di Nullo Cantaroni. Realisticamente non è possibile pensare che, data la malattia dell’uomo, egli si sia potuto sedere vicino alla moglie per scrivere materialmente questo romanzo. Ciò che invece è possibile ipotizzare, anche grazie ad alcune evidenze testuali – di cui si tratterà più specificatamente in seguito – è che la sua influenza fosse ancora forte e resistesse in Bice Cairati la volontà di includerlo nell’opera, ma soprattutto che fosse ancora in grado di essere una “guida” per la scrittura e per il perfezionamento del romanzo. 11 S. Casati Modignani, Anna dagli occhi verdi, Sperling & Kupfer, Milano 1991, p. 480.
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amante e, poi, nuovamente con suo marito ed, in conclusione, sarà fornita anche qualche informazione sulle relazioni di Maria, la figlia di Anna. Come si noterà già per questo romanzo, come anche per i successivi, la trama è quella di un romanzetto amoroso sullo stile di Liala, intrisa di brani apparentemente tratti dai più spinti Harmony. L’inconsistente racconto viene protratto decisamente troppo a lungo, fino ad arrivare ad essere permeato di ritornelli completamente orientati al patetico e di un fervore religioso e moraleggiante, che si alternano a scene sessuali piuttosto particolareggiate: il sesso dell’uomo eretto e turgido aveva la consistenza del marmo e la dolcezza del velluto di seta. Anna si inginocchiò davanti a lui, lo accarezzò lungamente con il tocco lieve delle sue dita affusolate, lo sentì fremere e vibrare, poi avvicinò le labbra al glande umido e caldo […] La penetrò come un maschio […] attese il piacere di lei che veniva da lontano per raggiungere vette inesprimibili, prima di godere a sua volta nel ventre caldo12.
O anche: respiravo dentro le sue tettone morbide e in mezzo alle gambe mi sembrava di avere un tronco che lei tirava dentro di sé in un nido umido e caldo che mi faceva bruciare la testa”13.
Il registro patetico viene ampiamente sfruttato e la lingua utilizzata rimane quella che si rintraccia nei romanzi successivi: Anna guardò Arrigo sconvolta da quell’inattesa apparizione. Che significato poteva avere quel dono principesco? […] ‘Vedi’, le disse Arrigo, ‘nel momento in cui ritieni di aver risposto a tutti i perché ecco un nuovo mistero’. Anna rivide la faccia del vecchio. ‘Grazie, papà’, mormorò. ‘Ecco che cosa rimane quando le illusioni della giovinezza se ne sono andate. Rimane la grande avventura di vivere’. ‘E il biso Ivi, p. 22. Ivi, pp. 40-41.
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gno di stare insieme’, concluse Arrigo abbracciandola, ‘in un posto dove potersi dire: ti voglio bene’. ‘Senza appassionati stravolgimenti’, disse Anna baciandolo. ‘Alla nostra età’ soggiunse guardando il prato dei narcisi sotto il sole, ‘ricominciamo a parlare d’amore’. ‘L’amore’, mormorò Arrigo, ‘è probabilmente la sola alternativa per sopravvivere’14.
È da sottolineare che nei romanzi successivi a questo composti da Nullo Cantaroni e Bice Cairati rimarranno come tratti distintivi della coppia di scrittori sia le storie d’amore intricate, che i drammi e le saghe famigliari, nonché lo slancio religioso orientato verso una morale tutta cattolica, mentre andranno scomparendo le scene così esplicite di sesso, forse prerogativa di Nullo Cantaroni. In realtà, la maggior parte dei racconti di Sveva Casati Modignani ricorda le serie televisive Dallas o Beautiful – soap operas conosciutissime iniziate rispettivamente verso la fine degli anni Settanta e verso la fine degli anni Ottanta, proprio nel periodo in cui veniva composto questo romanzo –, nelle quali il romanzo popolare e d’intrattenimento si lega al modello della saga familiare americana, in cui agiscono ricchissime famiglie che custodiscono indicibili segreti, meditano terribili vendette, tra rivalità e gelosie, e si mescolano attraverso intricate partnership sessuali. Tornando al romanzo Qualcosa di buono, su cui si è deciso di focalizzare l’attenzione, è bene ribadire che è una delle ultime opere di Sveva Casati Modignani prima della morte di Nullo Cantaroni ed è edita nel 2004. Il romanzo, ambientato a Milano verso la fine di settembre, si apre con il racconto dell’apertura del testamento di Alessandra Pluda Cavalli, che avviene negli uffici milanesi del notaio Carlo Cajani, amico della defunta, morta all’improvviso alla fine di agosto, travolta e uccisa da un ubriaco al volante mentre attraversava la strada. La lettura del testamento sconvolge il marito Franco e i tre figli della donna: Giovanni, il primogenito “[…] trentacinquenne spaventato dalla vita, cultore della forma fisica e incapace di calarsi nella realtà […]”15, Wally, “[…] nata cinque anni dopo il fratello, insegnava storia a un’accozzaglia di ragazzi sbandati che frequentavano senza entusiasmo un costoso istituto privato […]”16 e Chiara, la figlia minore, che “[…] aveva rubato il Ivi, p. 525. S. Casati Modignani, Qualcosa di buono, Sperling & Kupfer, Milano 2006, p. 8. 16 Ibidem. 14 15
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fidanzato [a sua sorella] e lo aveva sposato […]”17. Il testamento di Alessandra Pluda Cavalli stupisce questi quattro personaggi, perché essa aveva lasciato la parte più consistente della sua eredità (ovvero il ricavato della vendita di “[…] una raccolta di circa duecentocinquanta quadri […]”18 comprensiva di “[…] opere eseguite da pittori minori dal tardo Medioevo al Settecento che riproducevano banchetti e tavole imbandite, trofei di caccia, di frutta e di verdura, interni di cucine […]”19), investito in polizze-vita ad un solo beneficiario, Ludovica Magnasco, custode dello stabile in cui viveva la famiglia Pluda. Anche la giovane custode Ludovica, che tutti, però, chiamano Lula, è sconvolta per questa inaspettata eredità, della quale non capisce il senso. Lula, la protagonista di Qualcosa di buono, ha avuto una vita piuttosto travagliata ed è riuscita a trovare il lavoro di custode per caso, ma grazie alla sua intelligenza e al suo buon cuore si è fatta benvolere da tutti i condomini ed in particolare dalla defunta Alessandra Pluda Cavalli. Lula inizia, quindi, una lunga ricerca per capire il motivo di questa grande generosità di Alessandra nei suoi confronti, scoprendo, verso la fine del racconto che lei è la nipote della signora Pluda. Intanto il caso intreccerà la sua vita con quella di Guido Montini, un maturo veterinario dedito al volontariato, con il quale Lula inizierà una profonda storia d’amore e grazie al quale riuscirà, alla fine del romanzo, a fare davvero ‘qualcosa di buono’ per gli altri, aiutando con i soldi ricevuti in eredità da Alessandra un gruppo di giovani immigrati, e acquistando la villa barocca di Linate, in cui Guido Montini l’aveva più volte condotta, per farli vivere lì. La protagonista compie, durante lo svolgimento del racconto, una sorta di ‘viaggio di formazione’, che la porterà ad essere una donna completa, solo, però, alla luce della sua vita passata e della conoscenza del segreto celato dalla sua famiglia; solo quando saprà davvero chi è, infatti, potrà essere donna e avere con un uomo, nella fattispecie Guido Montini, una relazione matura, diversa da quelle avute in precedenza, in cui lei era sempre sottomessa: […] ‘L’ho scampata bella’, sussurrò, pensando a Roberto. Il raffronto con Guido era inevitabile. Due braccia affettuose le circondarono le spalle. ‘Da che cosa l’hai scampata bella?’ Ivi, p. 9. Ivi, p. 11. 19 Ibidem. 17 18
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domandò Guido. ‘Da una piccola, squallida storia che il Signore mi ha aiutato a superare. Un giorno te la racconterò’, rispose. E proseguì: ‘Ma tu, che cosa ci fai qui? Dovevamo vederci questa sera, a cena.’ ‘Avevo voglia di stare con te. Ho mollato tutto e sono corso qui’, disse Guido. I suoi occhi brillavano di felicità […]20.
Il concetto portante, o meglio la morale, del romanzo è piuttosto semplice, e si basa su assunti religiosi, di cui nel racconto, come si è potuto vedere anche nella citazione precedente, si sente fortemente la presenza: se sei buono con gli altri, nonostante tutte le sciagure che ti capitano, sarai prima o poi ricompensato. Questo è proprio quello che avviene per Lula, rappresentazione ideale della ‘brava persona’, che, pur avendo avuto un’infanzia difficile e un padre totalmente assente, non ha mai smesso di essere gentile e di occuparsi delle persone in difficoltà, e che verrà ricompensata con un’eredità, che userà, di nuovo, per aiutare gli altri, e con un nuovo ‘grande’ amore. Tutto il romanzo, che fa, evidentemente, parte di quella che viene comunemente chiamata narrativa ‘rosa’, è totalmente modulato sui toni del patetico e del sentimentale, fino a risultare melenso e banale: […] Ora voi capite che, se si fosse trattato di una bella ragazza di vent’anni, io avrei potuto lottare per riprendermelo e ci sarei riuscita, perché quello di Aldo sarebbe stato un capriccio passeggero. Ma qui si tratta di vero amore. Perché soltanto l’amore non vede la cellulite, la calvizie e tutte le altre magagne dell’età […]21.
O anche: […] ‘Buona giornata, dottore’, disse. E si avviò lungo la via Consoli, con passo spedito. Ma era così felice che le sembrava di camminare su una nuvola. Lui la rincorse. ‘Lula! Devo dirti ancora una cosa. I tuoi capelli sono bellissimi, il tuo viso è una poesia e io mi sento ridicolo […] non so cosa mi stia succedendo, ma so che sei una piccola strega. Mi hai fatto un Ivi, p. 466. Ivi, p. 276.
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incantesimo e, dentro questo cerchio magico, mi trovo benissimo’, aggiunse Guido, e se ne andò, felice […]22.
Il linguaggio, come si vede, è comune e poco ricercato e tale romanzo, seppure proponga una qualche forma di intrattenimento, non sembra ‘letterariamente’ valido. Se si confrontano i temi, i motivi e lo stile di Anna dagli occhi verdi e di Qualcosa di buono con le opere singole e più recenti di Sveva Casati Modignani, ciò che emerge è che formalmente non vi è stato un grande cambiamento: ciò è dovuto al fatto che, come accennato in precedenza, Bice Cairati, come autrice singola, non ha fatto altro che cercare di mantenere lo stile dei romanzi scritti in precedenza insieme al marito, compiendo, però, un’operazione meccanica di imitazione del modello della scrittura della nuova ‘figura-autore’ che si era precedentemente creata, probabilmente – ma questa rimane solo un’ipotesi ed un giudizio prettamente soggettivo – a scopo commerciale. In uno degli ultimi romanzi di Bice Cairati, Un amore di marito, edito nel 2010 con lo pseudonimo di Sveva Casati Modignani, ciò appare maggiormente evidente. Questo romanzo racconta, in una Milano tutta contemporanea, la storia di Alberta, una giovane commessa che lavora “[…] in via Montenapoleone, nella storica bottega di Marta Piccini, che vendeva biancheria intima in seta ricamata a mano […]”23, che crede che suo marito, Leo, un giovane incantevole e di successo, dopo quasi venti anni di matrimonio, stanco di lei e della sua trasandatezza, la tradisca. Si è convinta di ciò, dopo aver visto suo marito Leo seduto al tavolo di un locale con un’attraente bionda in visone ed aver letto alcuni messaggi contenuti nel cellulare del marito lasciato sul tavolo della cucina. Alberta, la protagonista di quest’opera, sempre più aliena dalla realtà e da se stessa, cadrà in una sorta di delirio, che la porterà a fraintendere ogni gesto e a vivere di malintesi. Lei ha vissuto una vita agiata, perché la sua famiglia l’ha resa una privilegiata concedendole una bella casa, il gusto per l’eleganza e il lusso, gli studi in prestigiosi atenei e le frequentazioni altolocate; e quando Alberta, vent’anni prima del nostro episodio, aveva incontrato Leo, aveva lasciato per lui ogni privilegio, investendo in quel giovane squattrinato tutto il tempo e le energie che possedeva: l’aveva aiutato a studiare e a fare carriera. In realtà, si scoprirà, alla fine del romanzo, che la gelosia della Ivi, p. 301. S. Casati Modignani, Un amore di marito, RCS Quotidiani, Milano 2011, p. 10.
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protagonista è totalmente infondata: il marito non solo le è sempre stato fedele, ma non ha mai smesso di amarla, anche per ciò che lei ha fatto per lui e che quei messaggi erano solo un ringraziamento alla sua insegnante di tedesco. Anche in quest’opera, come in quella precedentemente analizzata, tutto è pervaso da un senso moraleggiante e la religione compare spesso tra le pagine del romanzo: […] Allora le tornarono in mente le parole della sua maestra: ‘Le stelle sono i nostri angeli custodi. Ognuno di noi ha la sua […] ‘Qual è la mia?’ le aveva chiesto Alberta. ‘Non puoi saperlo, ma la tua stella sa chi sei e, quando è il caso, scende sulla terra per aiutarti’ […] ripensò alla stella cadente e sussurrò, come quand’era bambina: ‘Angelo di Dio, che sei il mio custode…’ La preghiera le infuse una rassegnata tranquillità. Tornò a letto e si addormentò […]24.
Ed anche in questo romanzo a farla da padrone è il tono patetico e sentimentale, che già pervadeva completamente sia Qualcosa di buono, che Anna dagli occhi verdi: […] e aveva proseguito: ‘Sei sicura di stare meglio? Quel picco di stanchezza…non capisco…ti vedo strana, questa sera. Io ti sono vicino e tu sei lontana anni luce. Dove sei, tesoro mio?’ […]25.
O anche: […] come aveva potuto essere tanto stupida, tanto gelosa da pensare che Leo potesse tradirla? Leo era un amore di marito. E dire che lei aveva progettato di ammazzarlo. Ora capiva il significato di quei messaggi sul cellulare: volevano essere un modo scherzoso per sdrammatizzare la fatica di un duro apprendimento. Ricordò la stella cadente nel cielo di Natale. Come diceva la sua maestra: ‘Quando è il caso, la tua stella scende sulla terra per aiutarti’. E ora, dopo che aveva rischia Ivi, pp. 7-9. Ivi, p. 29.
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to di far precipitare Leo dal sesto piano, poteva forse dubitare di questa antica leggenda?26.
Il linguaggio, come si vede, rimane, rispetto ai tre romanzi presi in esame, più o meno lo stesso, segno che da parte di Bice Cairati c’è un tentativo di imitare i modi stilistici della nuova ‘figura-autore’ creata letterariamente dalla relazione con il marito e dal processo di creolizzazione che è avvenuto nei romanzi composti insieme. La trama, il linguaggio dei personaggi, la tematica amorosa rimangono anch’essi pressoché identici. Per quel che, invece, concerne il discorso della rintracciabilità autoriale, che qui interessa, è la stessa B. Cairati a fornirci la chiave di lettura per rintracciare le diverse mani, sostenendo in una intervista rilasciata dopo la morte del marito: “[…] la capacità di intessere trame o ce l’hai, o non ce l’hai. Mio marito non l’aveva. Io sì. Io sapevo delineare un personaggio, lui sapeva farlo parlare […]”27. Le diverse mani, quindi, anche in quest’opera si possono riconoscere, grazie alla divisione dei compiti tra i due scrittori: la donna si occupa di tratteggiare i personaggi e le situazioni più prettamente emotive ed empatiche, all’uomo è lasciata l’ambientazione, la cornice e l’ideazione e la tipizzazione dei dialoghi dei singoli personaggi. In conclusione, questo romanzo ha in sé molte delle caratteristiche principali delle opere composte a quattro mani ‘di genere’, in quanto: è stato scritto solo da due autori, che, tra l’altro erano due coniugi, con tutto ciò che a livello relazionale questo comporta; come per tutte le coppie di autori, che scrivono a quattro mani, formate da parenti o coniugi non vi è, a differenza di quanto avviene per gli amici, una divisione programmatica e formale delle scritture dei due singoli compositori, ma la scrittura non viene separata, ed il libro appare, quindi, più fluido e compatto; le diverse mani si possono riconoscere grazie alla divisione di compiti operata dai due autori; le opere sono tutte incentrate su personaggi femminili, che subiscono, nel corso del racconto, un profondo cambiamento che le porta a migliorare se stesse, grazie anche all’ausilio della religione. Come si è potuto constatare, nelle opere precedenti al 2004, anno della morte di N. Cantaroni, il processo di creolizzazione è avvenuto sia a livello linguistico che strutturale, riuscendo a far emergere una nuova ‘figura-autore’, che ha fagocitato i due compositori, ed infine, dato di maggiore importanza, Ivi, p. 62. Cfr. http://www.facebook.com/pages/Sveva-Casati-Modignani-Pagina-ufficiale/ 118517601521989? sk= app_ 138150162929665 26 27
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quest’opera risulta particolarmente interessante perché ammette, come evidenziato in precedenza, la possibilità di un processo ‘de-creolizzante’. Questi tre romanzi, come si può facilmente comprendere, si situano nell’ambito della scrittura industriale, intesa in senso fordista, che porta con sé caratteristiche ben precise, quali: la riproducibilità tecnica, cara a W. Benjamin28, la meccanizzazione della letteratura, la produzione standardizzata “[…] di prodotti fabbricati in serie […]29”, “[…] grandissimi incrementi della produttività […]”30, la produzione in serie ed il consumo di massa31. Come l’operaio nell’industria di stampo fordista, così lo scrittore multiplo alla maniera di Sveva Casati Modignani, perviene “[…] alla serena accettazione di un sistema produttivo nel quale il lavoratore veniva assegnato a lunghe ore di mera routine, nel quale non c’era praticamente bisogno di ricorrere alle tradizionali capacità artigiane […]”32. Questo tipo di scrittura così orientata alla produzione ed al guadagno – tanto da rendere lo scrittore una “bestia da soma” – tende, quindi, alla produzione letteraria circolare, che inserisce l’autore in una sorta di ‘fabbrica della letteratura’.
W. Benjamin, op. cit., passim. D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, Mondadori, Milano 2006, p. 158 . 30 Ivi, p. 157. 31 Ivi, p. 175. 32 Ivi, p. 160. 28 29
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Michela Cardamone
Cuore di vetro
Molle, la massa informe copriva il secchio bianco; si apriva e si chiudeva nel respiro costante di chi attonito aspetta, e non sa ancora cosa. Era stato strappato all’abbraccio del mare da una mano improvvisa che lo aveva sorpreso mentre, accorto, esplorava il fondale più scuro. Già gustava il sapore di quel rosso tartufo che allungava procace la sua lingua vermiglia, quando l’ombra più strana in quel mondo a lui noto lo coprì, provocandogli, lungo, un brivido ostile. Repentina l’ascesa verso l’acqua più chiara, dove lame di luce ti trafiggono gli occhi, gli impedì di spruzzare la sua nera difesa. Ed il tuffo mortale al di sopra del mare lo lasciò abbandonato, con le braccia già molli. Ma bastò il duro impatto con il muro dell’aria perché intero trovasse il suo spirito audace. Allungò e poi ritrasse le dita carnose ed aprì le ventose come labbra che cercano baci d’amore. Si attaccò con tenacia a quel braccio crudele che insisteva con forza a tenerlo sospeso e tirò coi tentacoli per portarlo alla bocca, solo un morso ben dato lo poteva salvare. Ma le dita dell’uomo penetravano ardite nell’anello del collo e con strappi veloci gli girarono il capo. Si sentì rovesciare fin nel punto più molle del suo cuore di vetro, e gustò la sua fine. Fu sbattuto nel secchio con un colpo brutale e rimase, allibito, a seccarsi nel sole.
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Bestie narrate
Luca Carbonara
Il circo degli uomini
Non ci fu proprio nulla da fare: quella notte non si poté proprio dormire. Tutto cominciò intorno alla mezzanotte. Chi già dormiva si svegliò. Chi, ancora insonne, s’aggirava per le case e per le strade sarebbe rimasto sveglio e con gli occhi ben aperti. I più eccitati, e i primi a svegliarsi, furono i bambini. Un tremendo ululato aveva infranto il silenzio notturno facendo precipitare la gente fuori dai locali e accendere le luci di tutta la città, che sembrava un presepio incredulo e spaventato. Occhiaie buie e profonde sarebbero rimaste a lungo sui volti di coloro che assistettero impotenti alla scena. Al centro della grande piazza, tra i ruderi, antiche vestigia di una lontana civiltà, un lupo chiamava a raccolta i suoi fratelli animali, il muso aguzzo rivolto verso il cielo, orfano della luna. Dalle case e dai cortili era un unico abbaiare, mentre i cani e i gatti randagi si erano già raccolti intorno al gran masso. Il lupo pareva una freccia rivolta verso l’alto e la terra era il suo arco. Giunsero, poco dopo, i cani lasciati liberi dai loro padroni, rimasti pietrificati dalla paura, e i gatti che, provenienti da ogni dove, salirono sulle vecchie pietre. Dalle finestre aperte arrivarono merli, colombe, canarini; dal cielo piovvero rondini, credute estinte, passeri, cornacchie, picchi. Poi, dopo un interminabile silenzio, s’udì un gran frastuono, rumori metallici assordanti: elefanti, tigri, una sontuosa coppia di leoni, orsi, rinoceronti, cervi, stambecchi, cammelli, dromedari, gnu, giraffe, zebre, scimmie, cavalli, tapiri, conigli, lepri, scoiattoli, preceduti tutti da aquile, falchi, avvoltoi, si radunarono sul prato circostante le rovine. La piazza era gremita, fino all’inverosimile, di ogni specie d’animale. Si disposero, cercando ognuno i propri simili, in modo da formare un cerchio perfetto. Ebbe inizio così, in piena notte, il particolare consesso. I primi che, finito il trambusto, presero la parola furono, per unanime consenso, gli ultimi arrivati. Costoro provenivano dallo stesso luogo angusto e tetro. Sembravano, infatti, i più sofferenti, quelli che avevano la maggiore urgenza di parlare e sfogarsi. “Siamo stanchi!!”, gridarono quasi in coro. “Vogliamo Il piede e l’orma
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andarcene!”. Era l’orso più vecchio, adesso, a parlare: “Basta con le promesse non mantenute! Riprendiamoci gli spazi dei nostri antenati, la nostra libertà!!”. Tutti applaudirono con grande entusiasmo e convinzione. Il leone, sconsolato, chiese agli uccelli se esistevano ancora foreste e savane incontaminate. Molti uccelli presenti provenivano da paesi lontani, alcuni avevano sorvolato le distese dei mari e sembravano terrorizzati. A loro fu data quindi la parola. “Gli uomini non sanno vivere in pace”, disse con tono grave una colomba, “né dall’altra parte del mare dove c’è la guerra, né qui dove le persone non hanno imparato a convivere e a rispettarsi”. “Io sono stato abbandonato sul ciglio della strada...”, si lamentò un cane. Gli elefanti, che erano i più pazienti, fecero da moderatori dando la parola a tutti. Le zebre e le tigri non furono mai così amichevolmente vicine e solidali nelle rivendicazioni, i lupi e gli orsi invece furono tra i più decisi e battaglieri. “Credono di essere furbi”, esclamò un vecchio lupo, “ma non sanno apprezzare le ricchezze che hanno”. Gli animali discussero così per tutta la notte di fronte allo stupore degli abitanti della città i quali, muti e spaventati, si erano rifugiati sui tetti. I continui barriti, i miagolii, i tremendi ululati, che per giorni e giorni avevano lacerato l’atmosfera, rendendola inquieta, altro non erano che richiami, appelli, voci. Un’accesa discussione aveva avuto luogo in quella piazza, in un linguaggio ignoto agli esseri umani. Gli animali domestici, tra i più arrabbiati e determinati, si erano uniti a loro. Erano soprattutto delusi, gli uomini non erano progrediti, a dispetto della loro intelligenza, non riuscendo a comunicare e a mettersi d’accordo. L’assemblea, invece, decise all’unanimità, e, all’alba, di fronte a facce stanche, incredule, assonnate, voltarono le spalle a quegli stessi uomini che avevano amato, temuto, e, talvolta, invidiato.
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4 racconti
Il Gatto d’oro C’era una volta, molto tempo fa, un villaggio, dove tutti gli abitanti erano ricchi: la terra donava generosamente i suoi frutti, il fiume irrigava benevolmente i campi, mucche, capre e pecore fornivano latte in grande abbondanza, i mercanti facevano affari d’oro. C’era tuttavia, ai margini del paese, una famiglia molto povera: il piccolo pezzo di terra produceva a stento qualche patata e qualche barbabietola, che andava a finire, il più delle volte, nello stomaco dell’unica capra. Così il capofamiglia, ancora giovane, decise di morire, pensando che dall’altro mondo avrebbe potuto aiutare moglie e figli, e così una sera egli uscì di casa. Trascorse qualche mese e dinanzi l’uscio della povera casa si presentò un gatto e iniziò a miagolare. Era inverno e dal cielo scendevano fiocchi di neve grandi come chicchi di grano; tutt’intorno la terra era coperta del bianco manto e, sebbene il proverbio dica “Sotto la pioggia fame, sotto la neve pane”, la famigliola, composta da madre, nonna e cinque figlie, pativa la carestia. C’era un camino dove ardevano gli ultimi pezzi di legna e al miagolio del gatto, che era lungi dallo smettere, si aggiungeva il pianto della bambina più piccola. “Se quel gatto la finisse!” esclamò la madre, ma una delle ragazze rispose “Noi stiamo al caldo e quel gatto soffre il freddo, lasciamolo entrare” “Ci manca solo questo. Non abbiamo quasi da mangiare per noi e tu vuoi un gatto!” “Anche noi lo vogliamo” dissero le altre figliole e tanta fu l’insitenza che infine la madre aprì la porta e fece entrare il gatto. Non pensate, bambini, che la madre avesse pensato di mangiare il gatto. Appena entrato il gatto non andò vicino al fuoco, ma si strusciò contro le gambe delle cinque sorelle; “Guarda, mamma, il gatto ci dice grazie” disse la maggiore; “Può darsi, ma io non credo che un gatto capisca il linguaggio degli umani” rispose la mamma “Ora, che vi ho accontentato, Il piede e l’orma
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cercate di dormire”. “Detto questo, tutte si assopirono e il gatto si acciambellò vicino al fuoco, ma dopo un breve sonnellino si destò e cominciò a guardarsi intorno. “Ah, era piccola la mia casa e piccola è rimasta, eppure mi piace e come sono belle e buone le mie figlie”. Eh sì, miei piccoli lettori, quel gatto era il padre delle ragazze e, ovviamente, il marito della loro madre. La sera che era uscito per morire si era inoltrato nella foresta, pensando che sarebbe stato facile che un lupo o qualche atra bestia feroce e affamata lo sbranasse; invece non aveva incontrato nessuno e stanco del cammino si era seduto sotto un albero, credendo che il freddo lo uccidesse. Si addormentò e nel sonno iniziò a sentire un bel calore per tutto il corpo. Come dormì bene, ma quando si svegliò si trovò trasformato in gatto e il calore che aveva provato era dovuto alla sua folta pelliccia nera. “Che cosa mi è accaduto?” si chiese, miagolando. Mentre così pensava, apparve una vecchia signora, che gli rivelò l’accaduto: «Le tue intenzioni erano buone, ma è un grave peccato voler morire, perché la vita è il dono più prezioso che abbiamo ricevuto. Sarai un gatto fino a quando non riuscirai ad aiutare la tua famiglia, che hai abbandonato nella miseria». Appena dette queste parole, la vecchia, che, certo voi avete indovinato, era una fata, svanì. Il gatto si guardò intorno e comprese che ora era ancora più in pericolo che nelle vesti umane ed allora si incamminò. Cammina, cammina, finalmente vide in lontananza delle luci e si diresse verso di loro. Certo, durante il cammino sentiva gli ululati dei lupi, i gridi dei gufi e altri versi paurosi, cosicché accelerava il passo. Finalmente le luci si fecero vicine e quando poté vedere da dove esse arrivavano, rimase incantato: dinanzi ai suoi occhi di gatto si ergeva il castello più grande e bello del mondo, le cui torri sembravano toccare il cielo. Il nostro amico gatto cominciò a miagolare e dopo che i suoi versi divennero fastidiosi, venne una fantesca ad aprire: «Finalmente sei arrivato. Hai impiegato tutta la notte. Vieni, ti do la colazione». La fantesca, che era la stessa fata del bosco, condusse il gatto in cucina e gli pose dinanzi una scodella piena di latte caldo. Quando ebbe finito di leccare le ultime gocce, la fata gli disse: «Questo è il castello di un re, che ha cinque figli maschi. Io so che le tue figlie sono le più belle ragazze della nazione; se tu riesci a condurle qui, ci saranno cinque matrimoni ed esse diverranno principesse». Il gatto nero riposò per tutto il giorno e per la notte seguente, poi all’alba s’incamminò verso la sua vecchia casa. Giunto colà, sappiamo bene come era entrato, ma ora si esaminava minuziosamente il modo di condurre le sue figlie al bel castello: fosse stato un cane avrebbe preso un 136
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Bestie narrate
lembo di veste e avrebbe tirato, ma un gatto non ha la forza di fare questo, o almeno non si è mai visto un micio che lo abbia fatto. Prese a saltare dal posto vicino al camino al davanzale della finestra, ma le donne credettero che egli volesse uscire per qualche bisogno impellente. Egli miagolava, però sua moglie lo rimproverò, minacciandolo di metterlo alla porta, se non avesse smesso quel piagnucolamento insopportabile. Pensa che ti ripensa, nella sua mente chiese aiuto alla fata ed essa venne subito, ma senza lasciarsi vedere dalla donna e dalle sue figlie: «Vedi, disse, finalmente hai compreso che se si chiede aiuto, qualcuno viene. Eri povero ma superbo, ora fai quello che ti consiglio». La fata toccò con la sua bacchetta un pelo del gatto e la sua pelliccia divenne gialla. Il micio si grattò e trovò un pelo leggermente più duro degli altri: era d’oro! Se lo strappò, lo prese in bocca e andò a posarlo ai piedi della padrona di casa, che dormiva accoccolata vicino al camino. Quando aprì gli occhi, mancò poco che rimanesse accecata dal fulgore del pelo di gatto d’oro, perché era di metallo purissimo. “Gatto, gatto” cominciò a chiamare e l’animale subito si presentò nella sua nuova veste gialla; lo prese in grembo ma s’avvide subito che i peli non erano d’oro; “Gatto, non hai altri peli d’oro?” domandò. Il gatto allora cominciò a strapparsi i peli e a disegnare per terra una strada. La donna lo seguiva e così s’inoltrarono nella foresta, nonostante la neve. E cammina cammina, giunsero al castello. Quale meraviglia nel vedere il magnifico maniero! Senza che la donna avesse suonato la campana vicino al cancello, venne la fantesca, quella che già conosciamo e che sappiamo essere la fata del bosco, e aprì. Traversarono il magnifico parco, dove non c’era la neve, bensì alberi verdi altissimi e prati e aiuole piene di fiori che spandevano meravigliosi profumi. E poi traversarono stanze dagli specchi con le cornici d’oro e tavoli d’ebano e altre meraviglie, che non stiamo qui a descrivere una per una, perché occorrerebbero due o più volumi, finché giunsero alla grande sala del trono del Re. Non c’erano guardie armate, perché quel sovrano amava la pace, si udiva invece una musica talmente melodiosa che scendeva fin nelle profondità dell’anima. Il re accolse con un sorriso il gatto e la donna, perché la fata, come suo costume, era scomparsa. “Io so” disse il re “che tu, bella signora, hai cinque bellissime figlie, ma per sentito dire non si fanno i matrimoni. Conducile qui e le faremo incontrare con i miei figli”. Appena detto questo, si udì un chiacchiericcio di voci femminili provenire dal di fuori: erano le fanciulle che avevano seguito le tracce del gatto e della mamma, impresa alquanto facile sulla neve. Ed ecco, esse entrarono ed erano abbigliate non con i loro soliti stracci, bensì con bellissime vesti Il piede e l’orma
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di broccato, damasco e con trine d’oro e d’argento. Alla fata era bastato un colpo di bacchetta per adornarle anche con collane e orecchini. Fu così che i cinque principi e le cinque fanciulle si sposarono, e a memoria d’uomo non si ricorda nel regno una festa più felice. Quanto al gatto, egli riprese le sembianze umane, sebbene ogni tanto sentisse la nostalgia della sua vita felina … L’orso sapiente1 (Liberamente tratto da una leggenda pellerossa) Era giorno di festa nel villaggio, i fuochi erano accesi, le donne vestivano gli abiti per le danze, gli uomini tornati dalla caccia si preparavano alla serata, i bambini scorrazzavano intorno ai tepee. La donna più vecchia del campo se ne stava seduta dinanzi alla sua tenda e guardava l’andirivieni dei giovani, delle fanciulle e dei bimbi. I bambini si avvicinarono e le chiesero di raccontare una storia. La vecchia si chiamava “Erba della prateria”, perché conosceva molte medicine: «Bambini, volete sapere come sono diventata brava a guarire le malattie?» «Sì» risposero in coro i piccoli e fecero cerchio attorno alla donna. «Ascoltate. Molto tempo fa, quando ero giovane, mi sposai ed ebbi tre figli. Essi crebbero bene e divennero grandi cacciatori, ma un giorno tornarono dalla grande prateria stanchi e abbattuti, tremavano, la loro fronte scottava e gli occhi brillavano, lasciando cadere umide gocce. Pian piano tutti gli uomini del villaggio si ammalarono della stessa infermità e solo io restai sana. Chi sarebbe andato a caccia? Che cosa avremmo mangiato? Mentre pensavo alle nostre difficoltà, vidi venire un uomo molto vecchio: si appoggiava ad un bastone, aveva le spalle curve e lunghi capelli bianchi come la neve. “Sono molto malato” mi disse “accoglimi nella tua tenda e coprimi con una coperta, perché tutte le mie membra tremano per il freddo”. Nonostante avessi poco da mangiare per me e i miei figli, lo feci entrare e divisi con lui quel poco cibo che mi era rimasto e ci scaldammo al misero fuoco, addormentandoci subito. Non so se fu una visione o un sogno, ma sentii una voce che mi diceva di andare nella grande prateria, cercare l’albero più alto che ci fosse e cogliere l’erba attorno ad esso. All’alba uscii e 1 Una storia degli Indiani del Nord America – Gli uomini dalla pelle rossa, a cura di Delia Guasco, Giunti, Firenze, 2001
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Bestie narrate
m’incamminai e riuscii a trovare l’albero, perché le indicazioni del sogno erano precise. Tornata al villaggio, presi la pentola più grande che c’era e feci un infuso con l’erba che avevo trovato e la diedi da bere a tutti e il giorno dopo erano guariti. Non trovai però il vecchio. Trascorsero molte lune e di nuovo giunse una malattia peggiore di quella di prima. Ancora venne il vecchio, ancora più affaticato, tanto che per farlo entrare dovetti sostenerlo. Sognai quello stesso vecchio che mi disse di andare nella grande prateria e cogliere l’erba vicino all’albero più basso che ci fosse. Seguii le istruzioni e tutti guarirono. Accadeva sempre che quando un cacciatore o un guerriero si ferisse, venisse il vecchio e io sognassi le istruzione per prendere l’erba per risanarlo. Infine quando conobbi molte erbe, incontrai il vecchio nella prateria, ma egli mi voltò le spalle e mentre lo guardavo andarsene, vidi che si trasformava in un grande orso». Il lupo, l’uomo e la fanciulla malvagia «Raccontaci un’altra storia» chiesero i bambini. Erba della prateria iniziò: «Questa storia è più adatta ai giovani che ai bambini, ma la racconto a voi egualmente. Molto tempo fa c’era un uomo che aveva una moglie bellissima e tutti lo rispettavano, ma quando egli era assente, la donna era attratta da suo cognato, che tuttavia rifiutava le profferte d’amore. Un giorno questa giovane disse al cognato che voleva andare a raccogliere i frutti nel bosco, ma aveva paura di andare la sola e insisté talmente che il ragazzo l’accompagnò. La ragazza conosceva benissimo la foresta e condusse il cognato fino ad una trappola messa da lei stessa e lo fece cadere in un profondo pozzo e lì lo abbandonò. Le pareti della buca erano lisce e non c’era modo di risalire, ma quando il giovane aveva ormai perso la speranza, giunse un branco di lupi, che strappando sterpi e rami fece una lunga corda e la gettò nel pozzo. Il giovane, riconoscente, andò a vivere con i lupi; imparò a cacciare d’inverno, a riconoscere tutti gli odori della foresta e ad ululare alla luna, e a parlare con i suoi nuovi compagni, ma non dimenticò la sua lingua. Crebbe e divenne un uomo forte e un giorno il capobranco gli disse che era ora di tornare tra la sua gente. L’uomo-lupo si separò con amarezza dal branco e tornò al villaggio, dove tutti l’avevano creduto morto. Fu festa grande: si ballò e si cantò attorno al grande fuoco. Il piede e l’orma
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Soltanto la cognata se ne stava in silenzio dentro al suo tepee, con il timore che l’uomo rivelasse quanto era accaduto, ma egli tacque. Venne un inverno rigido e i bisonti erano lontani, i lupi si aggiravano famelici attorno al campo, ma l’uomo che era aveva vissuto con loro, gli parlò; i lupi, tuttavia, avevamo fame ed allora fu data loro la cognata dell’uomo-lupo.» Era l’ora del tramonto e il sole colorava di rosso il mondo, ma i bambini non volevano andare a dormire, volevano un’altra storia e Erba della prateria li accontentò. Il corvo, il falco e l’aquila «Un tempo, quando il Grande Spirito soffiò il suo respiro e creò tutte le creature della terra e del cielo, fece il corvo bianco come la neve. L’uccello trovò subito una compagna, fecero le uova e le deposero, ma invece di covarle, se ne andarono in giro per i cieli. Era incantevole guardare da lassù la prateria, i fiumi che scorrevano, le montagne, l’affaccendarsi degli uomini e tutto il mondo. Un falco passò sul nido del corvo e vide le povere uova abbandonate e, commosso, le covò e così nacquero dei bei bianchi corvi. Il corvo vide i suoi piccoli e li voleva, ma il falco non volle cederli. Si udiva in tutto il cielo il loro litigio: il falco strideva, il corvo gracchiava e nessuno poteva più dormire. Decisero di sottoporre la questione alla regina dei cieli, l’aquila, che è tale perché vola più in alto di tutti gli uccelli. L’aquila ascoltò e la sentenza fu molto dura per il corvo: i piccoli sarebbero restati con il falco e il corvo, poiché aveva mostrato un’anima nera, da allora in poi avrebbe avuto il colore della notte.» E notte si era fatta e per i bambini era ora di andare a dormire …
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Autori Redattori del Fascicolo
Notizie bio-bibliografiche Alfonso Cardamone, nato a Paterno Calabro (CS), laureato in Lettere presso l’Università di Pisa, direttore della presente Rivista e già direttore di Dismisura, Cittanova, Tracciati. Poeta e saggista, nonché autore di testi teatrali, ha pubblicato numerose opere, tra cui di recente, con la Pellegrini Editore, In traccia di luna e Supplici e Amazzoni (saggi), Della consumazione del rogo, Tramonto/Aurora e Diario del mare (raccolte poetiche). Tra le opere teatrali piace ricordare L’ottava notte, omaggio a Jorge Luis Borges. Amedeo di Sora è ordinario di italiano e latino nei licei. Poeta e saggista, è autore di numerose pubblicazioni di carattere teatrale, letterario, storico e politico. Attore-regista e vocalista, è direttore artistico della Compagnia Teatro dell’Appeso, associazione dallo stesso fondata nel 1980, con la quale ha costantemente operato, in ambito spettacolare e pedagogico, privilegiando la ricerca e la multimedialità. Luca Carbonara è nato a Roma dove lavora. Giornalista, scrittore e poeta, ha pubblicato le sillogi poetiche “Edera rampicante” (Milano, Editrice Nuovi Autori, 1995), “Sabbia dolce” (Ragusa, Libroitaliano, 1995), “Riflessi di lune” (Torino, Genesi Editrice, 1996), la silloge di racconti e poesie “Tracce” (De Sario Editrice, 1998), la silloge di racconti “Il circo degli uomini” (Roma, Cultura e dintorni Editore, 2013). Nel 2002 ha vinto il Premio “Capit Terzo millennio” (sezione poesia inedita); nel 2006 e nel 2008 ha vinto il primo premio di poesia inedita “Città di Trasacco”. È l’editore (e il direttore responsabile), del periodico bimestrale di informazione culturale “Cultura e dintorni” e dell’omonima casa editrice Angelo D’Onorio, laureato in Restauro e tutela dell’arte contemporaIl piede e l’orma
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nea e in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Frosinone, opera nel campo delle arti figurative dalla seconda metà degli anni novanta partecipando a concorsi di pittura ed esponendo le sue opere in mostre personali e collettive. Occupandosi di Design, la sua opera esposta alla fiera di Roma, nell’ambito della manifestazione “CASAIDEA”, ha ottenuto notevole successo e lusinghieri giudizi della stampa nazionale. Sue opere sono esposte in maniera permanente nella sede dell’Accademia di belle arti di Frosinone. L’artista vive e lavora ad Alatri (FR). Carmen De Stasio (Barletta 1961), docente di Lingua e Cultura Inglese nella Scuola Superiore a Brindisi, dove vive, è impegnata da anni in ricerche confluite in conferenze sui processi letterari e artistici contemporanei. È autrice di un romanzo, racconti, testi per cataloghi d’arte, saggi culturali e redazionali pubblicati su testate nazionali ed estere, soggettisceneggiatura film. Enzo D’Onorio, nato a Roma nel 1950, ha frequentato il Liceo Artistico, l’Accademia di Belle Arti di Frosinone e la facoltà di Architettura di Roma. Ha esposto le sue opere in innumerevoli mostre personali e collettive, le sue opere sono collocate in collezioni pubbliche e private, in Italia e all’estero. Vive e lavora in Frosinone, Piazza Fiume 10. Francesca Medaglia (Roma, 1984) ha conseguito il Dottorato di ricerca in Italianistica presso l’Università di Roma “La Sapienza”, presso la quale ha anche compiuto il suo percorso di studio, discutendo una tesi triennale dal titolo “Poetica del diverso nell'arcipelago di Capo Verde” e una tesi specialistica dal titolo “Donne migranti: scrittura al femminile”. Attualmente collabora con l’Ufficio Redazione Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei e lavora come coordinatrice didattica di Co.Me.C. (Corso online mediatore culturale). Fa parte del Comitato direttivo del “Centro Studi sul Capo Verde e sulle piccole isole” (Università del Salento). Particolarmente attenta ai problemi della migrazione, ha ottenuto la Certificazione DITALS II Livello rilasciata dall’Università per Stranieri di Siena. Attualmente la sua attività di ricerca è orientata più specificatamente verso la scrittura a quattro mani e collettiva e verso tematiche di genere, quali la migrazione femminile. È autrice di due recenti volumi: La scrittura a quattro mani (Pensa Multimedia, Lecce-Brescia, 2014) e Asimmetrie ibride nella critica di Antonino Contiliano (CFR, Piateda, 2014). Ha tenuto relazioni in Convegni nazionali ed internazionali. 142
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Franco Araniti ha pubblicato libri di teatro, poesia e narrativa. Tra gli ultimi: Di quel viavai… D’amore (poesie), Meticcia (poesie, 2012) e L’uccello sciancato (racconti). È stato redattore del quadrimestrale Malvagia e del semestrale quaderno (del poeta). Antologie, riviste e quotidiani gli hanno ospitato poesie e racconti. Antonio Piromalli, Carmine Chiodo, Monica Lanzillotta, John Trumper, Angel Mota, Pierluigi Perdetti, Antonella Falco e tanti altri hanno scritto sulla sua produzione letteraria. Partecipa spesso a letture pubbliche. Gli sono stati assegnati vari premi nazionali Loredana Rea è docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Frosinone. È direttore dell’Archivio e del Centro di Documentazione del Libro d’Artista di Cassino. Svolge attività di critico e curatore indipendente in Italia e all’estero. Lavora con giornali e riviste. Ha pubblicato libri e redatto saggi e testi critici per cataloghi e miscellanee. Marcello Carlino insegna Letteratura italiana contemporanea alla Sapienza, Università di Roma. Tra i suoi libri di critica letteraria dell’ultimo decennio: Deposizioni, 2001; Scritture in vista, 2005; Dodici osservati speciali, 2008. È recentissima l’uscita del suo Racconto di parte della letteratura italiana del Novecento Mario Amato, nato a Roma (1950), ha studiato e lavorato in Germania, a Monaco di Baviera, Heidelberg e Kassel; laureato presso l’Università La Sapienza di Roma con una tesi interdisciplinare: L’ebraismo in Franz Kafka. Lineamenti di storia della critica letteraria, ha pubblicato il primo racconto su Dismisura nel fascicolo “Identità e imperfezione”. Da allora collabora con www.graffinrete.it con racconti, poesie, articoli di critica letteraria. Michela Cardamone, nata a Napoli, risiede a Frosinone, laureata in Scienze dell’educazione presso l’ Università di Roma. Narratrice, ha pubblicato i racconti lunghi La grande casa (Pellegrini, 1989) e Come terra (dismisuratesti, 1992), nonché la raccolta di racconti Fiori di cardo (dismisuratesti, 2000). Ha vinto premi nazionali di narrativa. Monica Caroselli, laureata in Letteratura italiana moderna e contemporanea presso La Sapienza di Roma con una tesi su Tommaso Landolfi (di cui continua a occuparsi), ha pubblicato nel 2003 una raccolta di poesie dal titolo “Pezzi di stelle” (Libro Italiano, collana Poeti Italiani Contemporanei). Nata a Roma nel 1979, attualmente vive a Frosinone. Il piede e l’orma
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Renzo Scasseddu (1948), laureato in Letteratura Greca, si è interessato in particolare del teatro (La figura di Eracle nella drammaturgia attica del V sec. a. C., Aristofane ‘contro’ Socrate ed Euripide, L’«Edipo re» di Sofocle: ironia tragica e prossemica). Insegna Latino e Greco nel Liceo Classico «Norberto Turriziani di Frosinone» e svolge un’intensa attività nell’ambito delle iniziative culturali in territorio ciociaro (conferenze, incontri letterari, presentazione libri, concorsi di poesia, articoli). Tra le sue pubblicazioni ‘extemporanee’ figurano Perché Cicerone?, Lo scrigno dei balocchi, Versi diversi. Severo Lutrario, libertario e altermondialista, è impegnato dal livello locale a quello internazionale sui temi dei beni comuni e dei diritti sociali (dall’acqua ai fondi pensione). Per sopravvivere fa l’ispettore del lavoro, per vivere si è occupato per oltre venti anni di teatro; è stato redattore di Dismisura, rivista di produzione e critica letteraria; è autore di racconti fantastici e di fantascienza. Ugo Fracassa insegna Critica letteraria presso l’Università Roma Tre. Ha pubblicato due monografie: Sconfinamenti d’autore. Episodi di letteratura giovanile presso gli scrittori italiani contemporanei, Giardini, Pisa 2002; Letture marginali e altri sconfinamenti, Scriptaweb, Napoli, 2007. Da qualche anno ha preso ad interessarsi dei riflessi letterari di colonialismo e migrazione.
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copertina di Stefania Chiaselotti su immagine di pittura rupestre elaborata da E. Dâ&#x20AC;&#x2122;Onorio
ISSN 2282-7161