I Racconti del Behcet

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Michele Protopapas

I Racconti del Behcet


In copertina: La sfinge di Konstantin Meyer

Copyright Š 2013 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi

Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it ISBN: 978-88-96926-16-1

M. Protopapas, I racconti del Bechet, Antipodes, Palermo 2013


Premessa

“I Racconti del Behcet” è una raccolta di racconti horror, e trattandosi della mia opera di esordio ho voluto dare un “tributo”, nel titolo della raccolta, alla malattia che ha fatto sì che mi dedicassi alla scrittura. Prima del suo avvento pensavo che avrei lavorato come ingegnere presso una grande industria, probabilmente all’estero, e tutti i miei sforzi erano rivolti in quella direzione. Poi, in modo improvviso e devastante è arrivata la malattia e tutto è cambiato. Al malessere fisico si è sommato quello psicologico dovuto non solo all’assenza della diagnosi definitiva (a tutt’oggi persiste qualche piccolo dubbio diagnostico), ma anche di un quadro generale che unificasse le diverse manifestazioni della patologia e, cosa più importante, di una terapia. In quelle notti agitate tutto il malessere e l’angoscia si condensavano in incubi che, riportati la mattina su carta, hanno contribuito a formare il nocciolo delle storie di questa raccolta. La malattia, la congiuntura economica e la relativa difficoltà d’inserimento nel mondo del lavoro, mi hanno portato a non smettere mai di studiare, percorrendo, però, percorsi formativi alternativi a quelli dell’Ingegneria. Ho deciso di seguire maggiormente le mie passioni e per tale ragione ho frequentato corsi di scrittura e di Filosofia riguardanti in particolare la Logica, la Teoria dei Giochi, la Filosofia della Matematica e la Filosofia della Scienza. Queste nuove competenze mi hanno permesso di rielaborare le storie generate nel mio subconscio e ho deciso di trasformare la passione della scrittura in una professione. Un ringraziamento va all’associazione SIMBA, specialmente nelle persone di Teresa Mistretta e Alessandra Del Bianco che in modo del tutto spontaneo e disinteressato mi hanno guidato verso i più importanti centri reumatologici d’Italia, anche quando l’ipotesi della sindrome di Behcet era considerata poco probabile. 5


Prefazione

La sindrome di Behcet è una patologia rara di origine autoimmune, multifattoriale, che provoca stanchezza cronica, febbri ricorrenti, spossatezza, afte, artriti e nei casi più gravi può portare gravi conseguenze a livello di ogni organo ed apparato tra cui cecità, sindromi neurologiche o gravi quadri di dolore cronico per interessamento muscolo-scheletrico. Il suo esordio avviene prevalentemente nell’età che va tra i 20 ed i 30 anni ed è ovviamente una malattia cronica. Al momento la diagnosi è soltanto clinica, non esistendo nessun esame che possa con assoluta certezza negare o confermare la malattia, ed esistono molti casi, tra cui quelli del nostro socio Michele Protopapas, per cui, nonostante la Sindrome di Behcet sia stata considerata la diagnosi più probabile, non si può al momento del tutto escludere che possa trattarsi di una diversa patologia autoimmune di natura reumatologica. L’associazione SIMBA ha comunque deciso, d’accordo con l’autore, di menzionare la sindrome di Behcet nel titolo dell’opera anche per sensibilizzare i lettori verso tutte le malattie reumatologiche e il Behcet in particolare: solo attraverso la conoscenza della malattia sarà possibile, in futuro, rendere più veloci le diagnosi e conseguentemente la qualità di vita dei pazienti, ed è questo obiettivo che SIMBA, collaborando a questo progetto, si propone, nella speranza di aiutare un malato, la sua famiglia o il suo medico a trovare la strada migliore nella ricerca di una cura. Le terapie a disposizione non sono molte e nessuna è stata specificatamente studiata per la patologia, inoltre, data l'esiguità dei casi con cui si manifesta (le malattie rare sono quelle patologie che per definizione si presentano in meno di 5 casi in un campione di 10000 persone) non rappresenta, per le grandi ditte farmaceutiche, un target di interesse per investire nella ricerca. Simba Onlus, attraverso il suo sito internet www.behcet.it e 6


l’opera costante dei propri referenti regionali, lavora ogni giorno per informare e sostenere i pazienti, i familiari e i medici, sia di base che specialisti, avendo un unico obiettivo: la salute.

Il presidente di Simba Onlus Alessandra Del Bianco

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Welcome to my nightmare, I think you're gonna like it, I think you're gonna feel you belong. (Alice Cooper)

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I Mendicanti di Breslavia

S

ylvie Chambray uscì di corsa dall’ufficio in cui lavorava. Nonostante avesse da poco compiuto i trent’anni, era già la responsabile delle pubbliche relazioni della sede polacca di Breslavia per la “Visage”, una grande multinazionale di cosmetici. Sperava un giorno di entrare a far parte del consiglio di amministrazione della sede centrale, a Parigi, ma intanto doveva dimostrare di saper prendere decisioni importanti e far aumentare, col suo lavoro, gli utili di quella piccola sede distaccata. Era sempre stata una ribelle e per seguire il sogno di questa carriera, Sylvie non si era preoccupata di dover lasciare la propria famiglia, né la propria nazione, e neanche di dovere imparare in poco tempo, con difficili corsi serali, una lingua talmente difficile come il polacco. Sin da bambina Sylvie sapeva che sarebbe entrata a far parte del mondo della moda. Non essendoci riuscita come modella o come cantante aveva deciso, allora, di studiare economia e prendere un master in marketing. Fu così che riuscì ad entrare, spingendo, mordendo e facendo leva sul suo bell’aspetto, nel mondo dei cosmetici, delle sfilate e dei convegni, delle copertine patinate delle riviste femminili e degli affari. Sapeva anche che tante ragazze avrebbero fatto di tutto per prendere il suo posto e dunque molta 9


I racconti del Behcet

parte del suo lavoro consisteva nel difendere la propria posizione evitando che le rughe e la vecchiaia la tradissero. Era questa la ragione per cui utilizzava una vasta gamma di prodotti anti-età e creme antirughe e anticellulite (nonostante ancora il suo corpo non ne presentasse) e ricorreva spesso a iniezioni di botulino in occasione di feste o di eventi mondani particolari. Per quanto poi lo avesse sempre negato, aveva anche fatto interventi estetici alle labbra e al seno e condivideva questo segreto solamente con gli alti dirigenti con cui era andata a letto per fare carriera. E ne aveva fatto di carriera da quando era entrata, appena ventitreenne, come stagista, nell’ufficio di Parigi. Sylvie non aveva un uomo fisso, era troppo assorbita dal suo lavoro e trattava gli uomini come oggetti, accompagnandosi in pubblico con magnati e grossi imprenditori, che per la loro importanza le avrebbero fatto guadagnare prestigio sociale riflesso, mentre in privato si accontentava del sesso rubato con giovani modelli che posavano per la pubblicità, a patto che poi giurassero di non raccontare a nessuno di quella relazione. Non era, tra l’altro, facile per Sylvie creare dei legami stabili. Da quando aveva lasciato la sua città natale di Clermont-Ferrand, sulle montagne del Massiccio Centrale francese, per andare studiare a Parigi, aveva viaggiato sempre. Prima per vacanza: New York e Londra, Milano e Tokio, inseguendo le sfilate e la tendenza; poi, durante lo stage, per accompagnare gli alti dirigenti della “Visage” nei loro convegni, così da essere esibita da loro come un trofeo, cosa che non le era dispiaciuto affatto e che le aveva permesso, nel frattempo, di conoscere sempre più gente e sempre più importante. Adesso, invece, viaggiava per lavoro; le riunioni erano all’ordine del giorno, in ogni parte del mondo, e ogni volta che apriva gli occhi al mattino aveva bisogno di un po’ di tempo per ricordarsi dove si trovasse e che giorno fosse. Solo negli aeroporti e sugli aerei si sentiva 10


I Mercanti di Breslavia

a casa, erano tutti così uguali in ogni parte del mondo: i suoni, il tono della voce degli speaker e la rassicurante traduzione in inglese delle solite identiche frasi erano molto più familiari che la televisione indigena o i sempre diversi compagni di viaggio. Quel giorno dall’ufficio di Parigi le avevano comunicato che l’indomani si sarebbe dovuta recare presso la loro sede per discutere i dettagli della nuova campagna pubblicitaria per l’anno seguente e ciò aveva scombussolato di molto i suoi piani. Da una veloce occhiata alla sua agenda rosa, col marchio dell’azienda in rilievo che brillava come se fosse coperto da minuscoli diamanti, vide che avrebbe dovuto annullare gli appuntamenti con l’estetista e la cena con le colleghe al ristorante italiano, e prenotare di corsa un aereo per Parigi. Si rivolse, come al solito, a Vanda, la sua segretaria personale, un’insulsa ragazza polacca che a stento parlava francese, la quale però l’avvisò che uno sciopero aveva bloccato tutti i trasporti aerei per i prossimi tre giorni. La riunione non si poteva tuttavia spostare e da Parigi l’avevano inondata di chiamate, ordinandole di arrivare anche a cavallo o su un mulo se necessario, pur di esserci. Anche questa volta, pensò Sylvie, le toccava ricorrere alle proprie forze per risolvere la situazione! La segretaria le aveva detto che l’agenzia che aveva contattato non trattava i trasporti su ruote e che non era riuscita a trovare nessun treno per quella sera; se avesse lasciato fare a Vanda, chissà che razza di viaggio squallido le avrebbe organizzato! Sylvie uscì dunque prima del solito dal suo ufficio e girò per il centro in cerca di qualche agenzia di viaggio. Con rabbia notò come la maggior parte delle agenzie più importanti non trattava viaggi su pullman (anche se la rassicurarono dell’esistenza di collegamenti frequenti, operati con viaggi notturni da prenotare direttamente alla stazione dei bus) e da tutte le venne confermato che non vi sarebbero stati treni per la Francia prima dell’indomani, 11


I racconti del Behcet

anche optando per tratte con numerosi scali. A quel punto la giovane donna stava quasi per arrendersi allo squallore di un viaggio in autobus insieme a zingari e operai che puzzavano di vodka e aveva già iniziato a dirigersi verso la stazione degli autobus, quando in fondo a uno stretto vicolo una scritta in francese, in lontananza, attrasse la sua attenzione. Subito le erano sembrate lettere familiari, ma per averne la conferma si avvicinò percorrendo tutta la stradina lastricata con grosse pietre, simile al pavé di certe strade delle piccole cittadine francesi, col rischio di scivolare o che un tacco le rimanesse incastrato tra i ciottoli. In effetti aveva visto bene: una scritta in rosso su un’insegna di legno diceva: “Agence de Voyages”1, e solamente più in basso la scritta “Biuro Podróży”, come un sottotitolo, dava la traduzione in polacco. Quel luogo, nonostante si trovasse in una zona isolata, che Sylvie difficilmente avrebbe percorso in altri giorni, l’aveva attratta in modo strano. Forse era l’insegna in francese o le lettere rosse che sembravano quelle che lei disegnava da bambina, o, forse ancora, era l’odore familiare, come di baguette, che le ricordava la sua casa e la sua famiglia. Anche questa volta il suo fiuto non aveva fallito, si trattava proprio di un’agenzia di viaggi e vi entrò come estremo tentativo per trovare un treno che la portasse, finalmente, a Parigi. Il suono dei campanelli posti sopra la porta per avvertire della sua apertura rese quel luogo ancora più fiabesco e irreale, di certo molto diverso dallo stile rigoroso e di severo stampo ex comunista, tipico di Breslavia. «Heureux de vous voir, Madame!»2 «Bonjour !»3 rispose istintivamente Sylvie, senza neanche aver

Agenzia di viaggio. Felice di vederla, Signora 3 Buongiorno! 1 2

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I Mercanti di Breslavia

gettato uno sguardo verso il suo interlocutore, con la voce tremante di chi non si aspetta di sentirsi salutare nella propria lingua. «Ma come fa a…» tentò di chiedere Sylvie in polacco. «Ho capito subito che madame doveva essere francese! − rispose l’uomo al bancone senza lasciarla finire − L’eleganza dei suoi abiti e la perfezione del suo viso dicono più delle parole. Solo una donna che ha vissuto a Parigi sa portare quei tacchi così alti senza risultare ridicola. Sa, anch’io sono stato per qualche tempo in Francia e, per dirla tutta, ho vissuto in diverse parti del mondo. Quando mi stanco di un posto, dei suoi odori e dei suoi sapori, faccio le valige e vado via. Non ci crederà, ma in ciascun luogo la gente si muove, si veste e odora in modo diverso. È sufficiente perciò osservare bene una persona per capire la sua provenienza!» L’uomo dietro al bancone era magro e alto, elegantissimo nel suo frac scuro, col solo papillon granata che spezzava il nero del vestito, che però riprendeva nei capelli, nerissimi e brillanti per il gel, pettinati con una riga sulla destra in modo tale che quelli che andavano sulla sinistra fungevano da riporto sulla fronte stempiata, non molto ampia in verità. Il cranio era abbastanza piccolo, ma ciò che perdeva in larghezza lo guadagnava con un viso allungato, completamente privo di barba e coperto solo da qualche ruga. Il volto era scuro, del colore che avevano i francesi con qualche antenato di origine nordafricana, gli zigomi molto pronunciati e dei piccoli occhiali tondi nascondevano due occhi stretti e semichiusi. Il sorriso che s’intravedeva tra le labbra sottili, coperte da sottili baffetti neri, era inquietante ma allo stesso tempo rassicurante, come quello di un padre severo che al rientro a casa poteva portare, con la stessa probabilità, rimproveri o balocchi. «La prego, mi dica!» riprese l’uomo, per nulla turbato per come Sylvie lo stesse fissando. «Cercavo un biglietto per Parigi, possibilmente per stasera.» 13


Il pulitore

A

nche quella sera James aveva fatto il suo dovere. Le sue mani erano ancora intrise di sangue ed emanavano un acre odore di sudore e d’immondizia; tuttavia, non aveva tempo da perdere. Doveva scappare lontano da quel vicolo buio, lontano dalla prostituta che giaceva per terra, ma non prima di averle chiuso gli occhi, incrociato le braccia e recitato una preghiera. Era solito lasciare sempre così le sue vittime, che si trattasse di prostitute, maniaci, papponi, delinquenti o di chissà chi. Un tempo era addirittura stato considerato un eroe: aveva ucciso il maniaco degli ospedali. Era andato a scovarlo sin dentro il suo nascondiglio guidato dalla sola fede e tutti lo avevano acclamato come il paladino della giustizia, un vendicatore che operava nel buio senza mostrare la propria identità, riuscendo laddove la polizia aveva fallito; adesso, però, agli occhi della gente si era trasformato in un maniaco ancora più pericoloso. Eppure niente in James era cambiato; era sempre guidato dalla stessa fede e dalle stesse motivazioni, dagli stessi libri e dalle stesse voci che, nella sua testa, lo spronavano. La gente, però, non poteva capire. Tutti lo chiamavano il pulitore, uno stupido soprannome creato dai media per 45


I racconti del Behcet

vendere a più caro prezzo le sue storie e dovuto al fatto che, una volta compiuto l’omicidio, aveva l’abitudine di riordinare la scena del crimine: per quanto possibile ripuliva il volto delle sue vittime dal sangue e risistemava loro gli abiti. I giornalisti sostenevano che quei gesti erano dovuti al rimorso per ciò che aveva fatto, ma, in realtà, James non aveva alcun rimorso, o, almeno, lo soffocava con la ragione. Non aveva nulla contro quelle persone ma era giusto che morissero, anche se ne scopriva il motivo solo successivamente, leggendo i quotidiani. Dagli articoli riguardanti i suoi omicidi scopriva sempre che alcune tra le sue vittime erano pessimi padri che picchiavano moglie e figli, oppure erano dei molestatori; altre soffrivano per malattie incurabili e spesso si trattava di prostitute o transessuali malati di Aids o gonorrea. La gente non poteva capire il suo ruolo nella società e ne aveva paura così come si teme qualsiasi cosa che non comprende. A volte James si sentiva stanco e senza la voglia di commettere alcun omicidio, ma le visioni divenivano così insistenti da farlo quasi ammattire e si placavano solo dopo avergli fatto versare il sangue che reclamavano. Non era facile compiere le sue missioni e spesso era costretto a viaggiare a lungo prima di raggiungere la località in cui avrebbe dovuto agire. James si era reso conto che gli uomini possiedono una grande dote che aiuta il loro cervello primitivo a non impazzire, immerso com’è nell’infinità della creazione divina: questa dote è la soggettività della percezione delle cose. Per qualcuno un oggetto è grande, per qualcun altro è piccolo, ma difficilmente un uomo percepirà quell’oggetto contemporaneamente come grande e piccolo, utile e inutile, vero e falso, esistente e non. Per di più la mente umana, probabilmente per la simmetria duale insita nella natura della vita, tende a vedere solo i due estremi nelle cose; il pulitore, invece, nelle sue visioni ne percepiva gli infiniti punti di vista. 46


La generatrice di mostri

Diario del dott. Friedrich Silbermann 8 Gennaio 1926 Oggi ho aperto il baule che mi ha lasciato il nonno. Spiccava, sopra a tutto il resto delle cose, una lettera all’interno di una busta bianca, che non era sigillata; l’indirizzo del destinatario era tagliato (anche se si riusciva a leggere che la lettera era originariamente destinata in Siberia), e sotto c’era scritto, con un inchiostro diverso: “A mio nipote Friedrich”. Ho trovato questa lettera particolarmente interessante e la ricopio fedelmente. Al dott. Michail Sokolov Sia che vengano generati dalla mente, o che siano riconosciuti in un individuo, i mostri sono comunque sempre dentro l’uomo e mai fuori di esso. Zanne, artigli, canini e pungiglioni velenosi risiedono nella memoria degli uomini, quella vissuta o quella ancestrale conservata nel patrimonio genetico. Anche se, nel suo piccolo, l’individuo considera mostro ciò che è dissimile da se stesso, il mostro è una parte di sé; una parte che l’individuo rinnega e tiene nascosta, che riconosce quasi sempre negli altri e solo di rado in se stesso. 75


I racconti del Behcet

Chiedendo alla gente comune, mi è stato risposto che per mostro si intende ciò che è fuori o contro natura, mentre cercando nei dizionari la definizione più ricorrente è quella di un essere vivente, reale o immaginario, a cui vengono attribuite una o più caratteristiche straordinarie, a causa delle quali si discosta enormemente dalla normalità. Dai miei studi di Fisica, Matematica, Biologia e Fisiologia umana posso dire che nessuna di queste definizioni è riuscita, invero, a convincermi. In qualsiasi disciplina in cui ho posto la mia attenzione, dovunque scoprivo mostri, o, almeno entità che in un determinato periodo storico furono considerate tali. Per i pitagorici l’esistenza di numeri irrazionali era un fatto mostruoso perché metteva in crisi la loro concezione della natura formata da sole grandezze commensurabili e mostri furono pure considerati i teoremi di geometria non euclidea da parte del suo stesso primo scopritore, Girolamo Saccheri, che rifiutò le proprie creazioni reputandole prive di ogni logica. In Biologia, oltre alle deformità, mostri furono considerati i primi fossili di creature preistoriche trovati dentro le rocce, tanto che taluni credettero fossero opera del diavolo in persona. La stessa parola “dinosauro” deriva dalle parole greche “deinos”, terribile, mostruoso e “sauros”, lucertola; ma se le teorie attualmente in uso sono valide, un tempo tutta la terra era popolata solamente da “mostri”. Io credo che l’uomo riconosce solo ciò che già conosce o che si aspetta di trovare entro una delle sue categorie mentali in cui suddivide la natura e le cose, e spesso non riesce neanche a vedere ciò che non rientra in tali categorie; credo quindi che si debba dare una nuova definizione di mostro. Il concetto di mostro, almeno in un suo significato più ampio, nasce dalla contrapposizione tra la ragione e la natura. La ragione cerca di catalogare la natura entro cassetti concettuali separati, ma a volte vi sono soggetti, oggetti o concetti che sfuggono a tale catalogazione e 76


La generatrice di mostri

per tale ragione vengono definiti, appunto, “mostri”. Con la parola mostro si devono dunque intendere tutti gli oggetti reali o immaginari che non rientrano perfettamente in nessuna catalogazione. Ciò può avvenire o perché non esiste la categoria, come nel caso dei numeri irrazionali per i pitagorici o dei dinosauri, quando furono ne scoperti i primi resti, o perché non si adattano alla categoria delegata a essi, avendo alcune caratteristiche deformi o mancanti, o, infine, perché si trova in una posizione intermedia tra due distinte categorie. Il problema sta dunque in come l’uomo vede e cataloga la natura e non certo nella natura stessa. La concezione negativa che viene poi data alla parola mostro è dovuta essenzialmente a due fattori: il primo e più importante è che l’uomo ha paura di ciò che non capisce o che non conosce. Il secondo fattore deriva implicitamente dal primo ed estende, un po’ arbitrariamente, il concetto di mostro a tutto ciò che è pauroso. In accordo a tale accezione tutte le bestie feroci possono considerarsi mostri perché minacciano la vita dell’individuo. Ecco le ragioni per cui sostengo che il mostruoso risiede nell’uomo. In particolare nasce dall’errata interpretazione dei fenomeni che lo circondano e, quindi, non si può prescindere dal considerare il mostruoso come qualcosa che fa parte della natura, ma che l’uomo non vuole o non può accettare. A molti uomini piace, infatti, immaginare la natura come una forza positiva e benevola, riconoscendo le sue opere solo nei paesaggi ameni e pacifici. I mostri però fanno parte di essa nonostante l’uomo, per difendere la propria errata concezione di natura, rifiuta tali manifestazioni come “mostruosità fuori natura” senza rendersi conto dell’insita contraddizione di quella definizione. Sono quindi arrivato alla conclusione che i mostri sono creature della natura e che abitano in tutti gli esseri umani, ma ho pure appurato che in genere gli uomini tendono a negare questa 77


I racconti del Behcet

parte della natura sia in se stessi che nella natura stessa. Quando allora si manifestano i mostri? La risposta risiede sempre nella definizione che ho provato a dare di mostro come elemento naturale non accettato dalla ragione. Se ognuno potesse con la propria ragione modellare se stesso o la natura non creerebbe mai dei mostri, anche perché, secondo i canoni attualmente riconosciuti di bellezza, questa coincide quasi sempre con l’efficienza. Le azioni compiute secondo razionalità difficilmente sarebbero da considerarsi “mostruose” e una civiltà completamente razionale non avrebbe mostri nascosti. Il mostro risiede nella parte più nascosta degli uomini, in quella dove la ragione non riesce ad arrivare e che per fortuna spesso è sopita, ma a volte emerge con inaudite manifestazioni di violenza o con biechi e rivoltanti atti di meschinità. Gli psicoanalisti potrebbero identificare tale parte con il subconscio, ma prima di dare la mia definizione preferisco proporre un esempio. Nella seconda delle accezioni negative di mostruoso, proposte prima, il mostruoso, il disgustoso è tutto ciò che in qualche modo offende l’integrità fisica e psichica dell’individuo. Zanne e veleno possono uccidere l’uomo, il contatto con i fluidi corporei può portare malattie, una bestia deforme disgusta perché fa capire che la natura riesce a essere cattiva e imperfetta, e la vista di un uomo morto ricorda la fine alla quale ogni individuo è destinato. Nonostante il disgusto che può avere, l’uomo è parte e strumento della natura, e quindi deve affrontare questi mostri. Mi sono chiesto allora quale forza ci permette di immergerci nella mostruosità, e finalmente ho capito. È l’istinto che ci spinge ad affrontare o a divenire mostri. Nel mondo animale i genitori sono spesso capaci di affrontare le bestie più minacciose per salvare la cucciolata, ma anche di scegliere quale figlio nutrire e quale far morire di fame o, infine, esistono specie in cui la madre divora i propri nati 78


Indice

Premessa

5

Prefazione

6

I Mendicanti di Breslavia

9

Il tempo del raccolto

36

Il pulitore

45

Le Cronache di Pickaway

65

L’appuntamento

71

La generatrice di mostri

75

La strana storia di Louis Chaperon

120

149


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