La spettacolarizzazione del dolore nei telegiornali e nei programmi d’infotainment

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{Saggio}

FABIOLA PEPE

La spettacolarizzazione del dolore nei telegiornali e nei programmi d’infotainment: da Vermicino al delitto di Avetrana


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Fabiola Pepe, La spettacolarizzazione del dolore nei telegiornali e nei programmi d’infotainment: da Vermicino al delitto di Avetrana, Antipodes, Palermo 2019.


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“Seguiteci ma non aspettatevi di vedere in diretta che si sta tentando di salvare delle persone perché nel nostro DNA dell’informazione italiana c’è di non andare più in diretta spettacolarizzando l’attesa dell’evento positivo, il lieto fine annunciato, per due buoni motivi: che non si fa e perché poi può essere un terribile boomerang quando poi le cose vanno diversamente, come accadde a Vermicino”. (Enrico Mentana)


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Premessa Prefazione Introduzione

Indice

I Capitolo - L’informazione dei primi telegiornali: forma e contenuti 1.1 Il primo telegiornale in Italia: la Rai e la figura del cronista 1.2 Il linguaggio e l’informazione: la notizia fedele 1.3 Caduta del monopolio dell’informazione: la nascita di Mediaset 1.4 Dal prevalente interesse della politica all’avvento della cronaca nera 1.5 La lingua dei telegiornali: trasmesso televisivo e modelli linguistico - comunicativi

II Capitolo - Informare o intrattenere: quando la notizia diventa intrattenimento 2.1 La cronaca nera e il caso Vermicino: la tragedia in diretta 2.2 Dall’informazione severa all’infotainment: i telegiornali influenzati dagli ascolti 2.3 I talk show: dove finisce l’informazione e comincia l’intrattenimento 2.4 Immagini d’effetto, musica e titolo inquisitori: effetti collaterali

III Capitolo - La tv del dolore e la spettacolarizzazione della cronaca nera 3.1 Cos’è la tv del dolore e quali sono le sue caratteristiche 3.2 Vermicino, il primo caso di spettacolarizzazione: il caso mediatico 3.3 Il caso limite: Sarah Scazzi e il ritorno alle origini dei telegiornali 5

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IV Capitolo - La regolamentazione dell’attività giornalistica: il Testo Unico e le carte deontologiche 4.1 Il Testo Unico dei doveri del giornalista, il diritto di cronaca e privacy: norme e sanzioni 4.2 La “Carta dei doveri del giornalista” e la “Carta di Treviso”: aspetti rilevanti 4.3 Discrezione e riservatezza: quando i rapporti tra giurisprudenza e stampa degenerano

Conclusioni Appendice - Domande sulla deontologia al giornalista Riccardo Arena Bibliografia Sitografia Ringraziamenti

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Premessa “Volevamo vedere un fatto di vita, abbiamo visto un fatto di morte”. Così Giancarlo Santalmassi si congedò, il 13 giugno 1981, dai telespettatori che avevano seguito la diretta con la quale il Tg2 aveva tenuto incollati decine di milioni di persone (numeri peraltro normali nell’epoca in cui la TV commerciale si era appena affacciata nel panorama televisivo italiano), nell’attesa vana del lieto fine della vicenda di Alfredino Rampi, il bimbo caduto due giorni prima in un pozzo a Vermicino, piccolo paese dell’agro romano. Un lieto fine, che come nelle tragedie greche, non arriva mai, a causa della hybris, della tracotanza dell’eroe che osa sfidare l’ira degli dei. Quelle 18 ore di diretta hanno lasciato ferite profonde nella storia della televisione italiana. Quel momento ne segna, infatti, simbolicamente la perdita dell’innocenza, o meglio la caduta di quella sorta di senso del pudore che aveva impedito fino a quel momento, almeno in Italia, al mezzo che ha cambiato i mezzi di comunicazione di avviare quell’abbraccio mortale fra informazione e spettacolo che ha dato vita, anche nel nostro paese, a un genere televisivo dotato di un linguaggio e di un codice di (cattiva) condotta ben precisi: l’infotainment, parola macedonia (si dice così nel metalinguaggio della linguistica) che già nella sua forma esteriore (quella del significante, appunto) si presenta come un mostro comunicativo, metà giornalista e metà guitto cinico e senza scrupoli. Non che fino a quel momento il giornalismo (quello della carta stampata, che ancora quaranta anni or sono si voleva presentare senza macchia, irreprensibile custode della verità) fosse stato esente da colpe. Non è questa la sede per menzionare i tanti casi di cronaca che sulle pagine di tutti i quotidiani si erano trasformati quasi in romanzi d’appendice (“La saponificatrice di Correggio”, “Il caso Montesi” e via elencando). Ma, in fondo, confinati nella pagina scritta, queste 7


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saghe giornalistiche avevano assunto quasi la dignità di genere letterario (ancorché popolare e popolaresco). L’avvento della televisione, con il suo linguaggio iperrealistico a causa di quel di più che è l’immagine visiva, ha fornito lo strumento del salto di qualità. Nel suo lavoro, che nasce dal suo percorso che l’ha condotta alla realizzazione della sua tesi, Fabiola Pepe, giovane laureata in Scienze della comunicazione con la passione per il giornalismo, prova a indagare e individuare la traiettoria (più una montagna russa che una parabola) che ha portato l’informazione televisiva italiana a diventare puro spettacolo di intrattenimento prima di poter ritrovare (questa la tesi dell’autrice) se stessa negli ultimi anni. Una sorta di discesa agli inferi prima di uscir a riveder le stelle insomma. Secondo Fabiola Pepe il punto più basso di questa parabola/montagna russa è stato toccato con il delitto di Avetrana e il suo squallido circo mediatico fatto di contadini divenuti personaggi come nella migliore tradizione della satira del villano, perfide comari di paese, avvocati pizzicati a chiedere il gettone di presenza per una intervista. Da quel momento, come ha anche notato un uomo di televisione accorto e intelligente come Enrico Mentana, si è verificato un salutare divorzio, per il quale i telegiornali hanno abbandonato il circo, tornando a fare il proprio mestiere, che è quello di raccontare il fatto e i suoi protagonisti con il proprio linguaggio e, soprattutto, con la consapevolezza di svolgere una funzione sociale, che ha bisogno anche di rispettare un’etica professionale che è oggettivamente diversa da quella, pur rispettabile, di chi fa intrattenimento. Ciò che, in ultima analisi, emerge dal lavoro di Fabiola Pepe, è la necessità che il giornalismo televisivo riesca pienamente a ritrovare un linguaggio autonomo che ristabilisca i giusti confini fra generi, professionalità e campi di intervento. Insomma, a ciascuno il suo. Giuseppe Paternostro

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Prefazione Lo vedo, vorrei usarlo, ma non posso. È una tentazione forte, ma contro la Signora M, non c’è niente da fare. Thanatos è il figlio della Notte, fratello gemello del Dio del sonno, e il suo potere non ha eguali. Dunque, cosa vuoi che sia per lui non farti prendere il telecomando per cambiar canale quando vedi la cronaca nera in televisione. E cosa mai può essere per lui anestetizzarti la mano per impedirti di muovere il mouse per non farti cambiare pagina su internet, quando leggi di questo o quel delitto? È la morte, bellezza. Vestita non di nero e con la falce, ma sotto forma di diretta, approfondimento, articolo o quant’altro.

Un potere soprannaturale, pari a quello della morbosità che risiede in ognuno di noi, quel prurito impossibile da gestire, che t’ipnotizza. Dopotutto, alla nascita dell’uomo c’è la curiosità. Pensate alla prima domanda che viene spontaneo fare quando si apprende la notizia improvvisa della dipartita di una persona, famosa e non: “Ma com’è morto?”. Ecco: questa è la nascita di tutto. Il punto focale. Da questa semplice, normalissima e umana curiosità nasce forse il ramo più seguito e forse anche più studiato del giornalismo, ovvero, la “cronaca nera”.

In soldoni, il cronista che si occupa di una notizia che fa parte di quel settore, ha essenzialmente il compito non solo di informare, di spiegare, di mettere dei paletti a questa o quella diceria, ma anche di soddisfare la curiosità e la morbosità del lettore. L’avanzare della tecnologia ha fatto il resto. Dagli smartphone ai social network, tutti si sentono cronisti, tutti credono di sapere fare i cronisti, ma non è questo il punto. Il fatto “caldo” di cronaca nera, grazie alla Santa Tecno, si può seguire ovunque, dappertutto, sempre. Prima non era così. Nemmeno lontanamente. Poi arrivarono Alfredino e Vermicino, e cambiò tutto. 9


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Questo lavoro di Fabiola Pepe, giovane giornalista con la quale ho avuto il piacere di lavorare, inquadra perfettamente il punto, partendo dagli albori, ovvero da Alfredino e da Vermicino. Perché sì, la cronaca nera esisteva anche da prima, così come le disgrazie, i lutti e le tragedie, ma la dimensione voyeuristica nacque in quell’occasione. Almeno in Italia, lo spettatore scoprì in quelle drammatiche ore la morte in diretta televisiva. Anzi: un’agonia, in diretta televisiva. E scoprì che, in fondo, gli piaceva. Perché sì, c’è la pietà umana, ci sono le lacrime e c’è il dolore, ma sullo sfondo, quasi appoggiata irriverente, c’è la morbosità, quella cosa che ci spinge, appunto, a non toccare il telecomando o il mouse e a non sfogliare la successiva pagina di giornale quando vediamo una notizia di cronaca nera. Non lo capì solo l’italiano medio, lo spettatore, il fruitore ultimo della diretta fiume di Vermicino, ma lo capirono perfettamente anche i dirigenti delle reti televisive e i direttori di giornali. Da lì fu un’escalation. La parola “live”, che in inglese vuol dire “vivere” ma anche “dal vivo”, diventò quasi di uso comune. La traduzione italiana, “in diretta”, diventò quasi meno affascinante. E così tutto diventò, piano piano, “live”. Anche la morte, anche la vita. Internet e i social hanno poi dato il colpo di grazia: adesso si è fruitori ogni momento, “live” sembra una parola arcaica, ormai, tanto si dà la cosa per scontata. Questo lavoro sulla spettacolarizzazione del dolore, realizza un ideale ponte tra quello che è stato e quello che è, con il delitto di Avetrana come esempio perfetto. La tragica fine di Sarah Scazzi non è solo entrata dentro le nostre case, ma per certi momenti è diventata parte integrante. Abbiamo conosciuto ogni più piccolo particolare non solo di lei, ma della sua famiglia, dei suoi amici. E questo grazie alla tv, ai giornali e a internet, che si sono, a loro volta, impossessati di tutto quello che c’era da prendere, da quel caso. A volte trasformando tutto a loro volta, con storie ai limiti dell’assurdo, complotti e misteri. È stata forse la prima volta, in Italia. Di certo non sarà l’ultima. 15 febbraio 2019

Luigi Ansaloni 10


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Introduzione Telegiornali e programmi d’intrattenimento si assomigliano sempre di più, correndo insieme in una maratona verso la notizia, l’informazione a tutti i costi, che però non sempre è attendibile. Informazione e intrattenimento, due poli un tempo opposti, spesso oggi considerati uguali, ma in realtà sono solo apparentemente simili in quanto differiscono sotto vari aspetti l’una dall’altra. Questo lavoro vuole provare a tracciare i confini tra informazione pubblica e curiosità, distinguendole partendo dall’analisi dei contenuti televisivi offerti all’ascoltatore, a volte fedeli alla realtà, a volte meno, che si trovano ad essere primi fabbricatori di sentenze in realtà non ancora espresse. A tal fine si partirà da una breve disamina storica sulla nascita del telegiornale e dei programmi d’informazione e intrattenimento. Allo stesso tempo, si proverà a mostrare come l’informazione sia cambiata nel corso degli anni, superando a volte i confini della propria categoria, mostrando gli eccessi e le conseguenze che scaturiscono dal loro incontro. Dopo la nascita dei programmi d’info-intrattenimento, i telegiornali hanno cominciato a mescolarsi con essi, prendendo a volte le caratteristiche peculiari dell’intrattenimento, a scapito della buona informazione. Da Vermicino ad Avetrana, si percorrerà un viaggio tra l’informazione, che attraversa una strada fatta di crescita, cadute e auto ricognizione che i telegiornali hanno vissuto su sé stessi attraverso le vicende di cronaca nera che hanno riscosso “successo”, se così possiamo definirlo. In un momento dove il dolore fa notizia e la notizia crea storie e nuovi moventi e prove, si è innescato un doppio processo non giuridico ma mediatico che non dispone dell’autorità e dei mezzi per farlo, eppure crea dibattiti, opinioni e sentenze attraverso titoli inquisitori e argomenti che non hanno direttamente a che vedere con l’argomento centrale. 11


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