Pallidi ostensori

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{Romanzo}

Tiziana Cariello

PALLIDI OSTENSORI


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Copyright Š 2019 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it In copertina fotografia di Valentina Biondo

ISBN: 978-88-99751-68-5

Tiziana Cariello, Pallidi ostensori, Antipodes, Palermo 2019


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A Sveva e Alida, sempre


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Fuochi fatui della morale croce di fuoco petardi bagnati cibori ben lucidati infelici piccoli soli di rame ostensori come pallidi e ridicoli sono i vostri raggi finché la luce di quella che ama l’amore incontra la luce di quello che ama l’amore ridicolo incendio poco importa della sua durata sempre ieri domani buongiorno buonasera una volta giammai sempre e voi stesso chi se ne frega purché arda. Luci d’uomo - J. Prévert


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ANTEFATTO Nell’anno del Signore 1840, il cavaliere Erwin van der Voort, fedele servitore della Casa d’Orange-Nassau, regnante nei Paesi Bassi, tornava a cavallo dalle terre del Sud Africa e del Botswana, dopo aver preso parte, con onore, al conflitto contro gli Zulu, culminato con l’uccisione di Dingane, il loro capo. Molto provato, nel corpo e nella mente, affrontava il lungo viaggio che lo avrebbe riportato nella sua terra. Portava con sé un seguito di dieci uomini, alcuni dei quali feriti, e tredici cavalli. I due cavalli senza cavaliere portavano pesanti sacche in pelle ricolme d’oro, rinvenuto o conquistato in quelle regioni estreme. Le teste degli uomini erano rasate, perché infestate dai pidocchi, gli abiti logori e le armature ricadevano senza vita lungo i fianchi dei cavalli, esausti anch’essi dopo aver dimostrato il loro valore in campo di battaglia. Tornando a casa, dalla moglie e i due figli, sarebbe stato accolto con tutti gli onori. Gli sarebbero spettate medaglie, riconoscimenti pubblici e laute ricompense. La sua esistenza sarebbe cambiata, poiché aveva a quel punto deciso di non partecipare più a campagne di conquista in nome della sua madrepatria. Il cavaliere, tuttavia, portava con sé qualcosa che valeva molto più di tutto l’oro che era riuscito ad accumulare, sebbene non ne fosse a conoscenza. Nel calzare dell’armatura teneva un involucro in pelle d’asino, sapientemente arrotolato su se stesso, al cui interno nascondeva un documento in carta pergamena. Gliel’aveva consegnato personalmente Mpande, fratellastro traditore di Dingane, colui che ne aveva permesso la sconfitta. Gli disse, nella sua lingua e aiutandosi con i gesti e con la collaborazione di un improvvisato traduttore: “Tienilo. Me l’ha tramandato mio padre, al quale l’ha dato suo padre e così per diverse generazioni. È stato rubato ai Boeri, dopo il 1652. 5


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So che ha grande valore, forse un valore inestimabile. Potrebbe far crollare la vostra religione. Portalo con te e fanne ciò che vuoi, io non ho più motivo di tenerlo. Tu sei un uomo buono, un uomo di Dio. So che deciderai per il meglio”. Erwin van der Voort conosceva la storia di quelle terre. Capo delle Tempeste, nell’estremità del Sud Africa, fu conquistato dal portoghese Bartolomeu Dias nel 1486 e divenne punto di appoggio e rifornimento sulle vie delle Indie. Un secolo e mezzo più tardi, esattamente nel 1652, quel territorio fu occupato da alcuni dipendenti della Compagnia olandese delle Indie orientali, ai quali si aggiunsero coloni olandesi e in seguito francesi di religione ugonotta, tedeschi e austriaci. Essi insieme diedero origine ad una popolazione di origine europea, che venne chiamata Boera, dalla parola olandese Boer che significa contadino. Van der Voort accettò quel regalo, commosso per la fiducia accordatagli e per la capacità di giudizio che gli veniva riconosciuta. Non aprì neanche quel documento, in parte intimorito e ripromettendosi di farlo solo davanti al suo generale, quando lo avesse rincontrato, giunto in patria. Quel documento, però, non giunse mai nelle mani del generale. In un agguato, lungo la via del ritorno, venne rubato. Nessuno andò alla sua ricerca perché nessuno, a parte quei due uomini, ne conosceva l’esistenza. Di esso si persero le tracce nei decenni successivi.

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I - LA TAVERNA DI ARTHUR GREEN

opo i fatti qui narrati, io sono morto e il ricordo dei miei peccati, che forse peccati non sono mai stati, potrebbe fare ombra alla mia tomba. Quelli da me subiti, credo ben più gravi, invece, hanno il peso di cadute che la storia ha in parte raccontato, in sæcula sæculorum. Erano tempi di cui - per usare le stesse, esemplari parole usate da Charles Dickens, con riferimento agli anni della Rivoluzione francese - si parlava soltanto al superlativo; ma la luce, su quei fatti, è arrivata solo decenni dopo. È di quei tempi che va a raccontarvi la mia storia, per mano o per bocca di personaggi, peccatori e santi insieme, com’è nella umana natura, che hanno avuto idee, allora rivoluzionarie, che hanno lottato, mai certi della vittoria, in una società che mischiava arte e fango, prima di capire di che pasta dovesse essere fatta. Perdoni i miei ricordi, il lettore, forse in parte graffiati, distorti o rimossi dal segreto. Racconto una storia, la mia, ma è passato così tanto tempo che la memoria, sono certo, mi tirerà qualche brutto scherzo.

“Perdonatemi, padre, perché ho peccato”. Le parole di Isabel, pronunciate con tono dimesso, si perdevano nella grandezza della chiesa. “Parla, figliola. Dio ti ascolta e perdona tutto”. “Non credo che mi perdonerà proprio tutto. E comunque sarò io che, forse, non mi perdonerò mai!” Isabel avrebbe voluto piangere. Ma non sapeva farlo più. A vent’anni aveva vissuto un numero di esperienze talmente vasto e aveva condiviso il suo letto con una tale quantità di uomini da sentirsi già vecchia. Troppe lacrime versate fin da bambina, per una vita di stenti e per la violenza che regnava in casa. Adesso, donna già fatta, sapeva che piangere non era un conforto né una soluzione, solo una debolezza che non intendeva più mostrare davanti a nessuno. Il prete l’ascoltava in silenzio, senza forzare con domande la sua confessione. 7


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“Sono una poco di buono, padre”. “Se sei entrata nella Casa del Signore, già questo indica che sei una brava ragazza”. “Oh, padre, come si sbaglia! Io sono una prostituta. Vendo il mio corpo”. “Tante donne sono nelle tue stesse condizioni. E Gesù Cristo è stato il primo a perdonare una prostituta”. “Sì, ma lei si era redenta. Io non so se sarò mai capace di smettere. Mi sento in fondo a un pozzo da cui non riesco a uscire”. “Hai solo bisogno di aiuto. Devi pregare, avere fede, e Dio ti aiuterà a uscire da questa situazione”. “È quello che voglio”. “Impara anche a chiedere aiuto agli altri. Non si è mai veramente da soli… ” “Ho un amico. Lui mi aiuterebbe, se solo glielo chiedessi… ” “È una questione di volontà. Tutto si può fare, se lo si desidera nel profondo del proprio cuore. Cerca dentro di te e, come ti ho detto prima, sappi che sicuramente nessuno si tirerà indietro, se gli chiederai aiuto. Io sarò sempre pronto ad ascoltarti. Spero solo che ti avvicini un po’ di più a Dio. Lui ha tutte le risposte”. “Grazie, padre. Per me è importante sapere che non sono giudicata da voi. Devo dirvi un’altra cosa, padre”. “Ti ascolto, figliola”. “L’altra sera mi sono intrattenuta con un uomo. È già la terza volta. È un uomo dall’aspetto sinistro, taciturno… Comunque, quello che voglio dirvi, padre, è che l’altra sera un foglio di carta gli è scivolato dalla tasca e io non ho resistito alla tentazione e l’ho nascosto per poterlo leggere dopo, non appena sarei rimasta da sola”. “Questo è peccato. Lo hai derubato di qualcosa”. “Lo so, padre, e di questo mi pento, ma è stato come se quel foglio mi richiamasse”. Isabel avvicinò ancora di più il capo alla finestrella del confessionale. Infine, sussurrò, prendendo il coraggio a piene mani e ponendo la domanda per cui era giunta fino a lì: “Posso rivelarvene il contenuto?” Senza attendere la risposta, proseguì: “Quell’uomo ha qualcosa 8


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d’inquietante. Porta un lungo mantello nero col cappuccio. È avvolto dal mistero. Per questo mi ha incuriosita. E non ho sbagliato… ”, aggiunse, cercando di stimolare la curiosità del prete. “Perché vuoi raccontarmi cosa vi era scritto o custodito?” “Perché vi riguarda”, rispose secca lei. ***

La taverna di Arthur Green si trovava a Soho, nel quartiere più malfamato della città. Per raggiungerla, bisognava avventurarsi tra viuzze strette e buie, rischiando d’incappare in diversi vicoli ciechi. Donne discinte nei costumi e nell’atteggiamento irretivano forestieri o uomini disperati, i quali affogavano nell’alcol e tra le cosce delle meretrici i fallimenti e le amarezze della vita. Si disponevano agli angoli delle stradine, là dove la luce rosseggiante e ambigua delle insegne al neon poteva illuminarne le grazie fisiche e nascondere i difetti e le imperfezioni. La Londra dei poveracci viveva tra quelle strade, lontano dagli sguardi moralisti dei bigotti e dei nobili della città, e abbastanza distante dalle abitazioni delle signore di alto ceto, come se la loro vicinanza potesse infettarle di squallore, lascivia e impudicizia. Ma soprattutto di miseria. Non era infrequente essere rapinati, talvolta malmenati o persino uccisi per poche sterline o per un alterco tra uomini che avevano alzato un po’ troppo il gomito. Le strade erano invase dal sudiciume e il fetore sembrava far parte delle persone stesse che in quel quartiere, loro malgrado, abitavano e provavano a sopravvivere. Londra viveva un momento difficile: non c’erano fondi per i più poveri, i quali, secondo le convinzioni dei ricchi e dei benestanti, convivevano senza troppi disagi con lo stato di squallore in cui erano abbandonati. “Sono dei cani e come cani vanno trattati”, si vociferava spesso nei salotti londinesi, alludendo alla malavita che nei quartieri poveri faceva da sovrana. L’uomo che doveva raggiungere la taverna, quella sera, indossava un lungo mantello nero con un cappuccio e aveva due guardaspalle con sé. Una prostituta invitò i tre uomini a intrattenersi con lei e la 9


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sua amica poco distante. “Vi faremo riscaldare”, promise ammiccante e mostrando una fila di denti imperfetti e ingialliti. I due guardaspalle si scambiarono un’occhiata complice e uno di essi le pose una mano grassoccia sulla coscia, ma l’uomo con il mantello lo richiamò e proseguì lasciando alcuni penny tra le mani della ragazza. “Riscaldati da sola”, le disse con disprezzo. Il portone in legno era alto circa due metri e mezzo. Al centro era ricavata una finestrella protetta da un’inferriata. I due uomini rimasero qualche passo più indietro, osservando la strada. L’uomo con il mantello bussò con due rintocchi alla maniglia di ferro e sollevò leggermente il capo per permettere al guardiano di riconoscerlo. La finestrella si aprì e comparve la parte destra del volto di “Not Alone”, un dipendente della taverna, segnato da una profonda e irregolare cicatrice che scorreva lungo tutta la guancia come un piccolo fiume. Se l’era procurata per pagare un affronto: la vendetta per essersi invaghito della donna dell’uomo sbagliato. Il suo soprannome era nato dopo, quando qualcuno giurò d’aver visto la medesima cicatrice anche lungo il pene. Il chiavistello cedette rumorosamente. I due uomini rimasero fuori. Accompagnato al tavolo, nella zona meno in vista del locale, l’uomo col mantello tolse il cappuccio e ordinò all’oste un bicchiere di vino rosso. “La stavamo aspettando”, disse una voce alle sue spalle. Due uomini scostarono le sedie dal tavolo e presero posto accanto a lui. Non si presentarono, non ce n’era bisogno. L’uomo col mantello ordinò altri due bicchieri di vino. I due avventori erano alquanto giovani. I loro occhi esaminavano nervosamente e con sospetto ogni persona che entrava nella locanda, sussultando ad ogni rumore, ma cercando di mascherare l’imbarazzo dietro un tono di voce formale e impostato. Le loro dita erano affusolate e ben curate: una stonatura in quel contesto. L’uomo con il mantello intendeva godersi la scena dall’alto della sua esperienza. Lasciò che fossero loro i primi a parlare. “Il maestro vuol sapere se ci sono novità”, disse uno dei due, sforzandosi di nascondere il proprio timore. L’uomo col mantello pasteggiò il vino, si leccò le labbra reclinando leggermente il capo all’indietro e disse: “Qui si beve il miglior 10


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vino di tutta Londra. L’unica consolazione di questi poveracci!” Fece una lunga pausa, lasciando i due uomini in attesa di risposta. I loro bicchieri erano quasi intatti. Bevvero un sorso, distrattamente, per facilitare la conversazione. “Ho interessanti novità. Portate questo al maestro”, e porse loro, estraendola da sotto il mantello, una piccola busta di carta piegata a metà e sigillata su cui erano incise delle iniziali. Il più giovane allungò la mano per prenderlo. “Consegnatelo a lui personalmente, il più presto possibile”. Detto questo, vuotò il calice tutto d’un fiato e i due giovani lo imitarono. Pagarono per lui e si congedarono. L’uomo con il mantello si intrattenne ancora qualche minuto. Chiese di Arthur. “Cosa desidera, signore?”, domandò Arthur, solerte. “Ho bisogno di compagnia”, disse con un filo di voce tagliente e allusivo. Fece tintinnare delle monete sul tavolo. “Potrei presentarle Isabel: è una bellezza”. “Per caso è quella lì, che si sta intrattenendo con il grassone che canta?”, indicò. “Vedo che l’ha già notata… ”, sorrise compiaciuto Arthur, ben consapevole della freschezza e bellezza delle ragazze del suo locale. Isabel rideva, seduta in grembo a un uomo che con un grosso braccio le cingeva i fianchi magri. La scollatura della sua veste mostrava senza troppo pudore un seno morbido e generoso, che sobbalzava ad ogni risata del cliente. I suoi occhi azzurri erano l’unica luce pura di quella taverna. “Lasciala a me. Ti pagherò bene”. L’oste fece un inchino deferente e si avvicinò all’uomo che cantava. Si accostò al suo orecchio e l’uomo col mantello poté scrutare e decifrare tutte le smorfie e le proteste delle sue sopracciglia. Osservò, compiaciuto, come l’omaccione dovette rinunciare alla sua preda. “È una giungla, vince il più potente. E oggi io di soldi ne ho abbastanza”, pensò tra sé. La ragazza si avvicinò a lui un po’ inquieta. I suoi occhi ne schivavano lo sguardo. L’uomo scostò il tavolo leggermente, in modo da 11


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