Grazie di mille

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Fabio Marino

Grazie di Mille Un pre-testo politico Anteprima con Antonio Riolo


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In copertina: Francesco Franchina, “Grazie di Mille”, olio su tela, cm 80x100, anno 2013. Collezione privata. Copyright © - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes www.antipodes.com email: info@antipodes.it ISBN: 978-88-96926-29-1 F. Marino, Grazie dei Mille, Antipodes, Palermo 2013.


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Nella vita a tutto si può rinunciare! Alla libertà, all’amore, all’onestà … ma su una cosa non ammetto eccezioni: la pasta e fagioli va mangiata fredda e, preferibilmente, con il cucchiaio di legno. Thomas J. Taylor, tramp


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“(...) mi presentai al poeta Omero e, avendo tempo utile tutti e due, gli chiesi fra l’altro di dove fosse, dicendo che questo è ciò che noi desideriamo di più scoprire” (Luciano, Storia vera, 2,20)

Anteprima con Antonio Riolo Un pre-testo politico F.M.: Antonio, ci conosciamo da oltre trent’anni e possiamo dire di avere diviso e condiviso diverse fasi importanti della nostra vita. Di conseguenza il tuo giudizio su Grazie di Mille, che mette a fuoco anche i periodi di queste condivisioni, ti chiama in causa direttamente. Comportati da intellettuale “in purezza”, quale sei, e prova a dire la tua … A.R.: Una caratteristica del tuo libro denota uno stile tutto tipico italiano che è quello di un’autoironia di una comunità rispetto ad alcune vicende politicamente impegnative. Noi parliamo di Grazie di Mille come di un pre-testo politico. Sarebbe poco cortese, nei confronti della qualità del libro medesimo, non sottolineare questo atteggiamento antropologico; prendo ad esempio la cambiale. Sul “pagherò” si potrebbero avere punti di vista tra i più vari: da quello, diciamo noire, cioè terribile, di gente che si è uccisa per una cambiale non pagata 7


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o di un fallimento esistenziale per ricorrere a una cambiale o dell’abbattimento di un pubblico pudore, per cui ricordo, ad esempio, un piccolo trauma quando, per la prima volta, vidi un signore comprare le cambiali in una tabaccheria. Lo guardai come se stessi di fronte ad un oggetto particolarmente strano, identificativo di una comunità. Ma se ne può fare anche un uso economico. Nel tuo testo, invece, ne fai un uso ironico che può, all’apparenza, sembrare il classico discorso da caffè. Ma è un modo molto leggero per aggredire un tema importante e che, in fondo, si può riassumere nei termini di una medicina che il popolo italiano, almeno quello sagace ed intelligente, ha assunto per potere sopportare le pozioni venefiche che giornalmente la nazione e lo stato italiano globalizzati dispensano ai loro cittadini, ammesso e concesso che vi possa essere alterità tra l’essere cittadino e la comunità statuale. Perché non può mai venire meno la considerazione di alterità dell’italiano rispetto allo Stato italiano e all’Europa. Invece tu prendi tutto - come del resto è nel tuo stile - e non fai sconti a nessuno, a partire da te stesso, assumendo tutta la realtà e tutto quello che la circonda con quell’istinto da uomo fotografo, e ribadisco da uomo fotografo, perché dietro il fotografo c’è l’uomo che non si risparmia niente - né il bene né il male - e che le cose le chiama con il proprio nome. Anche quando “deformi” volutamente i nomi “sacri” dei politici del tempo o scegli di scrivere le parole inglesi nel modo in cui si pronunciano. 8


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E, utilizzando categorie ironiche come ad esempio quella della cambiale, descrivi una storia che possiamo definire paradigmatica di tante generazioni. Stiamo parlando, per esempio, dell’idea che apre nel respiro e nella storia della tua generazione a una fuoriuscita dal cortile di casa. Non c’è più “l’Italietta” al centro di tutte le questioni. Già c’è un passo, oltre che un occhio (per ritornare all’uomo fotografo), un passo che incede nell’Europa e come incede? Sempre in maniera comparativa. Tema, quello dell’Europa, che oggi registra dibattiti dalle più svariate tinteggiature che però non riesce a celare un atteggiamento tipico nostro italiano di farci del male, concetto ribadito recentemente dall’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri, cioè questa visione sempre catastrofista e distruttiva per mettere in evidenza solo gli aspetti negativi e mai per occuparsi degli aspetti positivi. Ecco perché questo spunto, diciamo di natura antropologica, arricchisce il pre-testo politico, quindi un respiro europeo che in fondo diventa anch’esso un metodo ironico per sopperire alle malattie italiote, perché guardare oltre il cortile di casa e andare in Europa può trovare - in quel terreno nuovo per gli anni Settanta/Ottanta di cui stiamo parlando - la soluzione ai soliti problemi italiani. Vorrei ricordare che Yalta ha finito di esaurire i suoi effetti formalmente nel 1989 e tu eri già in quell’anno un cittadino inserito nel contesto sociale, politico ed economico della comunità italiana ed eri uno che aveva sposato, insieme al sottoscritto (in epoche impensabili sul 9


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finire già degli anni Settanta) la piena volontarietà della causa europea ispirata al Manifesto di Ventotene e ad Altiero Spinelli. A Palermo noi costituimmo, grazie all’apporto del prof. Francesco Maletto che aveva manifestato da sempre questa grande sensibilità, il Movimento Federalista Europeo con la figura di Ruggero Del Vecchio, un sognatore ad occhi aperti che però metteva ogni giorno concretamente le mani nell’impasto della coscienza civica dei cittadini europei. Noi ci siamo formati lì, non solo da un punto di vista politico, ma anche da un punto di vista accademico e personale. F.M.: E sul dibattito che si è di recente sviluppato sull’Europa “mangiatutto” - artefice del cappio “patto di stabilità” - e “madre di tutti i mali” … sul “chi dentro e chi fuori” … cosa ne pensi? A.R.: “L’Europa mangiatutto” suggerisce l’immagine di una lente appannata, per cui noi abbiamo sempre nel bene e nel male – altra annotazione antropologica – mitizzato le cose, mitizzato le cose o demistificato perché in questo gioco tra avanti e indietro dell’italiano medio di vedere l’Europa … l’abbiamo mitizzata fino al punto che era irraggiungibile … poi ci siamo trovati l’euro in tasca ma non l’Europa in testa … e questo è il punto! Per cui oggi io la vedo, per rispondere direttamente alla tua domanda, più come una ragnatela di vincoli e di imposizioni tecnico-bancario-finanziarie, ma dall’altro lato, però, ho un altro occhio che non può nascondere la 10


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1962 Il 5 gennaio del 1962, in una delle tante metropoli del Mezzogiorno italico, dicono che facesse un freddo cane. Ricordo, ancora nel pancione di mia madre poche ore prima del parto, le sue moderate imprecazioni da donna devota a Santa Rita, ma ancor di più quelle decisamente laiche di mio padre che, in preda al panico pre-partum, provava con scarso successo a far partire il motore della Sfiatt 600. “La tecnologia contro la natura” pensai in un momento in cui, non lo nascondo, m’intestardivo (nel senso della testa) a trovare una via d’uscita e a guadagnarmi un posto al sole. San Sfiatt da Torino, alla fine, fece il miracolo e poche ore dopo mi ritrovai in una confortevole culletta, attorniato da un nugolo di perfetti sconosciuti che già dibatteva accanitamente sul colorito del mio tondo visino (la mozione d’ordine fu tra il rosa pesca e il violetta pallido) o sui tratti somatici ereditati da chissà quale avo, compreso don Ciccio - il portiere dello stabile - che tutto era, fuorché mio parente. Dalla disputa che si scatenò, capii subito che si stava meglio prima. Ben presto, però, mi rassegnai alla vita, quando intuii che qualcuno aveva già provveduto ad assegnarmi il nome di battesimo. Come a dire: la vita, appena nati, è tutta in salita, ma c’è qualcuno che pensa per te. Rilassati! In verità, il mio non era un nome terribile, sebbene fossi 25


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appena il quarto di una serie di cuginetti chiamati allo stesso modo grazie ad una deliberazione condominial-familiare che aveva deciso, a distanza di 2000 anni, di rinverdire i fasti di una antichissima e potente gens romana. Io, però, se avessi potuto esercitare liberamente la figliol-potestà – intesa come diritto all’autodeterminazione dei bambini - mi sarei chiamato senza indugi Amintore. Infatti, per tutto il periodo trascorso beatamente nel grembo materno, i radio e telegiornali dell’epoca avevano accompagnato le fasi della gestazione esaltando le gesta eroiche del prode Amintore Pampani, al timone del governo di centrosinistra. Ammetto che mi sfuggiva la posizione critica degli Americani, della Chiesa e di buona parte dei Cristianamente Democratici, il partito di maggioranza relativa che governava con straordinari risultati il paese dal 1948. Ma mi ero fatto un conto: per essere, Amintore sarà certamente un eroe. Magari a maggioranza relativa, ma sempre un eroe. Non credo di poter essere smentito da alcuno quando affermo che questa pampanizzazione pre e post-partum sia stato uno dei primi casi di condizionamento mediatico in età pre-scolare in tutto il Mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra al 1962. Un altro ricordo particolarmente forte fu allorquando, dopo aver superato il calo fisiologico, mi accorsi che a corredo del nome avevo anche un cognome. Non che quello imposto fosse particolarmente disdicevole, ma in tutta franchezza mi sarebbe piaciuto un altro cognome, mutuato anch’esso dalla mia precedente espe26


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rienza maturata nel grembo: Cambiale! Non c’era una sera, difatti, che i miei genitori non declamassero le sante virtù del pagherò. Usando tale pratica, tutta la vita era più facile. Bastava una firma per comprare casa, per cambiarsi la macchina (io avrei, fin da allora, optato per una autovettura scandinava e non per una Sfiatt 600), per acquistare un frigorifero, insomma per dare un tocco di novità alla grigia monotonia quotidiana degli adulti. Una vera e propria parola magica. E voi sapete che i bambini sono particolarmente affascinati dalla magia. Amintore Cambiale! Suonava anche bene. Peccato, sarà per la prossima volta. Nell’attimo in cui si spaccarono le gengive per cedere posto ai primi dentini, conobbi per la prima volta la paura della guerra. In un posto lontano, se non ricordo male tra Cuba e gli Stati Uniti, stava succedendo qualcosa di grosso. Il grande Capo Rosso del Cremlino, per fare un dispetto agli Americani, aveva collocato nell’isola caraibica missili a medio raggio diretti verso il territorio nemico. Tra un biberon stracolmo di latte e pappine spongiformi, continuavo a seguire con trepidazione l’evoluzione della crisi cubana, ancora una volta grazie ai mezzi mediatici, ma soprattutto avvalendomi dei relativi commenti parentali che, però, non sempre erano in linea con quanto enunciato dal tubo catodico (e poi dicono che certe generazioni sono cresciute nell’incertezza!). Ricordo, ad esempio, che nel caso fosse scoppiata la terza guerra mondiale, mio padre aveva già approntato un vero 27


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e proprio piano di fuga in campagna, a 60 km dalla città, che avrebbe fatto perno sulla pronta e tecnologica risposta della Sfiatt 600 che, in quel periodo, era sempre tenuta con il pieno di benzina. Non vi dico le occhiate complici che ci lanciavamo con mia madre a solo ricordare quanto accadde, il giorno della mia nascita, sulla pronta e tecnologica risposta della macchina acquistata a rate. Quando mio padre usciva per andare al lavoro la valutazione della crisi internazionale toccava, nell’intimità familiare, i punti più alti quando mia madre mi stringeva al seno e piangeva, terrorizzata al pensiero di una nuova guerra. Lei, che sotto le bombe c’era stata davvero, qualche anno prima. “Allora bastava nascondersi per avere salva la vita … ” sussurrava. “Ma adesso come dobbiamo fare con queste bombe moderne … Non c’è scampo neanche con il piano escogitato da papà! Figuriamoci se di mezzo c’è pure la Sfiatt 600.” Non credo di esagerare se affermo che sono cresciuto con il terrore della guerra e che questa paura continua ancora a martellarmi il cervello. Oggi mi consolo soltanto con il fatto che l’automobile in questione è andata fuori produzione. Sicuramente un punto a nostro favore. Nella routine domestica la tensione, per fortuna, si allentava quando la radio trasmetteva “Love me do” dei Bidols. Non potrò mai scordare l’interpretazione della canzone di mamma in perfetto stile parrocchialedadevotadisantaRita che mi ha accompagnato un sacco di volte 28


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