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Sandro Orlandi
I.V.G.
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Copyright Š 2014 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it In copertina: Natività di Maristella Angeli ISBN: 978-88-96926-48-2
Sandro Orlandi, I.V.G., Antipodes, Palermo 2014
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A tutte le donne che ho avuto modo di aiutare, e anche alle altre.
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Dobbiamo imparare ad ascoltare il silenzio se vogliamo sentire l’anima commuoversi (Madre Teresa di Calcutta)
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Premessa
La sigla I.V.G. sta per interruzione volontaria di gravidanza. La famosa legge 194/78 sull’aborto volontario, a suo tempo sottoposta a referendum, continua a tutt’oggi a regolamentare il cosiddetto aborto legalizzato, nella forma e nel contenuto. Per quasi ventisei anni il sottoscritto ha fatto parte dell’esiguo numero di ginecologi non obiettori votati ad applicare la suddetta legge di stato, convinto che fosse giusta e anche l’unico mezzo per combattere gli aborti clandestini, antica pratica esecrabile, lesiva della vita, della salute e della dignità della donna. Per due volte a settimana, in media quattro ivg per seduta, ha praticato il raschiamento abortivo legalizzato, dopo aver avuto modo di entrare in contatto con i drammi che tale decisione comportava, non solo per le donne, ma anche per chi, lavorando, metteva spesso alla prova la propria coscienza. Solo negli ultimi anni di professione, quando ormai le motivazioni personali hanno cominciato a non essere più sufficienti, quando la realtà della società, mutata in tanti anni di lavoro, lo hanno costretto a prendere atto dell’inutilità di continuare il proprio sacrificio, ha smesso di praticarli. Questo perché a fronte dell’aumento significativo del lavoro e delle responsabilità che le ivg comportano, a cui peraltro non ha mai corrisposto un aumento di retribuzione, si aveva al contrario una svalutazione professio7
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nale in quanto abortista, e spesso anche un’offesa continua da parte di colleghi e gente comune. Le storie descritte quindi sono tutte vere, come pure i personaggi di cui parlo e le situazioni che descrivo. Naturalmente i nomi sono immaginari, ma ho voluto riportare il più fedelmente possibile i casi che più di altri mi sono rimasti impressi per la loro drammaticità e, a volte, anche perché insoliti o imprevedibili. Si vedrà che non tutti hanno la stessa conclusione e non finiscono sempre con l’aborto, ma il dramma che scatena interiormente è il medesimo in tutti i casi. Attraverso questi, accuratamente scelti e descritti, ho tentato di far capire cosa significa abortire per la donna che decide in questo senso, e anche per coloro che partecipano a questa sua coraggiosa presa di coscienza, mettendo in pratica la legge. È qualcosa che solo dall’interno si può capire, vivendola. Per questo ho sempre respinto con fastidio chi, dall’esterno, non avendone cognizione alcuna, giudica e sentenzia. Ho tentato di non lasciarmi andare troppo nell’esprimere le mie convinzioni in tema di aborto e volutamente non mi sono addentrato in considerazioni religiose, morali, sociali o politiche. Solo descrivere onestamente la realtà per quello che è, sicuro che, letta con attenzione e tralasciando per un momento le proprie pur sacrosante convinzioni, se ne possa trarre tutti le dovute conclusioni, arrivando ad un sano e auspicabile arricchimento di pensiero. Non è forse tra le cose più importanti che ognuno di noi dovrebbe perseguire nella propria vita? S. Orlandi
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1 Adele
Il dottor Annibaldi arrivò al parcheggio dell’ospedale con dodici minuti di ritardo. Il traffico era stato peggiore del solito e ci aveva impiegato un’ora e dodici minuti, appunto. Sicuramente il collega lo avrebbe salutato in tono teso, mascherando, ma non troppo, il disappunto e dandogli le consegne con un piede già fuori della porta. Dei sette che con lui formavano l’equipe medica della divisione di ostetricia, era l’unico con cui non andava d’accordo. Tronfio, saccente, arrogante e pure ignorante, nel senso letterale del termine. Insomma confermava il detto: meno sei e più ti vanti, meno sai e più vai avanti. Non che il dottor Sandro Annibaldi si lasciasse intimorire e sottomettere facilmente, anzi, a detta di tutti era impossibile domarlo. Purtroppo però il suo collega tra i tanti difetti uno non l’aveva: quello di arrivare tardi. Era quasi sempre puntuale, il maledetto. D’altra parte lui abitava relativamente vicino all’ospedale e non doveva affrontare trenta chilometri di traffico terrificante per arrivarci, come invece toccava fare a lui. Come al solito il posto per la macchina non c’era. Per l’ennesima volta pensò di buttar giù quel cartello che recitava: “Struttura adibita agli utenti dell’ospedale” E lui cos’era? Un utente? Era giusto che ci parcheggiassero tutti in quello che avrebbe dovuto essere il parcheggio riservato a chi lavorava lì? E proprio in quel momento 9
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vide una vecchia seicento scalcagnata, appena posteggiata, da cui scendeva tranquilla una donna con la sporta della spesa. Digrignando i denti s’infilò tra la siepe e il muretto, facendo il contorsionista per uscire dalla macchina. I minuti erano diventati diciotto! «Buongiorno dottore!» chiosò Elisa l’infermiera. Rispose con un mezzo sorriso e tirò dritto verso la camera del medico di guardia. «Oh, buongiorno! » lo salutò con enfasi Gina, l’ostetrica di turno. «Sì, sì, buongiorno, buongiorno», rispose lui sempre meno convinto. Dal terzo buongiorno in poi rispose con grugniti e cenni del capo. Arrivò in stanza dopo l’ottavo. Dopotutto il corridoio da percorrere era lungo una ventina di metri buoni e le porte dei locali che vi si aprivano almeno una decina. Quando entrò nella stanza, il dr. De Pompeis era seduto sul letto col cappotto indossato e la borsa in mano. Per prima cosa, com’era suo stile, guardò platealmente l’orologio, come a dire: “guarda che sei in ritardo”. «Lo so» sibilò Annibaldi tra i denti, entrando e posando la sua di borsa «ho diciotto minuti di ritardo». «Venti!» precisò il caro collega. «Scusa», si trovò costretto a dire, ma con voce gutturale, tanto che sembrò un ringhio. Con teatrale atteggiamento di superiorità e sopportazione, De Pompeis prese le sue cose e fece per uscire dalla stanza, poi, come per aggiungere qualcosa si fermò e si voltò verso Annibaldi. Questi, già in posizione di attacco, attese la prevedibile provocazione. Ma non se ne fece niente, almeno per quella volta. Infatti fortuna volle che proprio in quel momento arrivasse l’altra collega, Anna, che entrò sorridente e leggiadra sfoderando un “ciao” innocente e destabilizzante. 10
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«Ciao». Le rispose De Pompeis, che nel frattempo si era accorto dell’aperta ostilità dell’altro e, com’era suo solito, già batteva in ritirata psicologica. «A lei non glielo dici che è in ritardo?» abbaiò Annibaldi. «Ah sì, scusa sai?», sorrise Anna «c’era un traffico terrificante e… ma che c’è?» guardando entrambi in viso. «Niente» disse sornione il caro collega «buona giornata!», concluse rivolto ad Anna, e uscì. «Oh, ma non impari mai? E lascialo perdere, ormai avrai capito che se gli dai corda fai il suo gioco, no?». «È che certe volte non sono in vena di sopportare e quindi…». «Ma almeno te le ha date le consegne?». «No. È anche vero che, se avesse aggiunto solo mezza sillaba e se non fossi arrivata tu, gli avrei sicuramente azzannato quel grosso collo flaccido, sognando di essere un rottweiler». Il reparto era in preda al solito bailamme del lunedì mattina: pronto soccorsi a ripetizione, cartelle urgenti da completare, attività ambulatoriali, referti da scrivere, accettazioni da fare e, oltre a tutto questo, si doveva tenere sotto controllo la sala travaglio, dove abitualmente stazionavano due o tre donne che di lì a poco sarebbero andate in sala parto a partorire. E infine c’era da prendere gli appuntamenti per le IVG, ovvero le Interruzioni Volontarie di Gravidanza. Un quadernino mostrava la lista delle donne che si erano prenotate per abortire, e la lista arrivava già a oltre tre mesi, malgrado l’ospedale fosse piccolo e di provincia. Ma era anche vero che ormai l’attività si era decuplicata rispetto a soli tre anni prima. Il dottor Annibaldi si cambiò, indossò la tuta verde, il camice, gli zoccoli e immaginò di mettere anche l’elmetto. Fece un sospiro e s’infilò in trincea, sperando di uscirne vivo ancora una volta.
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