Patrimonio insediativo rurale dell’isola di lampedusa

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Patrimonio insediativo rurale dell’isola di Lampedusa Maria Antonietta Giardina

Palermo 2018


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ISBN 978-88-99751-56-2

M. A. Giardina, Patrimonio insediativo rurale dell’isola di Lampedusa, Antipodes, Palermo 2018.


INDICE Relazione Preliminare Premessa Storia delle Pelagie Morfologia e patrimonio insediativo Il paesaggio agrario Tipologia delle abitazioni rurali Tecniche costruttive Le fondazioni e la muratura Le tipologie di copertura L’arco, l’architrave e la piattabanda Pavimenti Gli infissi e il mobilio La raccolta del bene prezioso Patrimonio insediativo urbano Aspetti gestionali Valutazione dello stato di conservazione del patrimonio tradizionale fisso Interventi per il recupero della struttura muraria dei dammusi Interventi per il recupero della copertura originaria dei dammusi Interventi per il recupero dei sette palazzi Obiettivi e azioni gestionali Bibliografia

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RELAZIONE PRELIMINARE PREMESSA

Le risorse delle Pelagie non possono riassumersi solo e unicamente in risorse naturali caratterizzate dalla bellezza del territorio e del mare, ma strettamente correlata ad esse si propone un’approfondita rilettura degli insediamenti storici e una rivalutazione delle sue potenzialità, con progetti che ne propongono la conservazione e la riqualificazione. Le molteplici articolazioni determinate dalla morfologia dell’ambiente motivano un sistema di progetti che supera la tradizionale dicotomia fra progetti ambientali e progetti fisici a favore di una progettazione unitaria. Il patrimonio rurale è l’elemento antropico più interessante e diffuso nel paesaggio lampedusano. Il recupero strutturale e funzionale è parte del progetto di maggiore leggibilità del territorio e di migliore riqualificazione dell’entroterra, area che ha valore di grande interesse sia per il visitatore temporaneo che per il residente. Il seguente studio sarà condotto sul modello analitico, interessandosi agli aspetti aggregativo-funzionali, tecnici e culturali, per sottolineare l’importanza di un sistema edilizio che ancora persiste e che costituisce testimonianza storicizzata del rapporto tra attività antropiche e risorse naturali. Un sistema edilizio che va protetto e prima ancora conosciuto in tutte le sue valenze per non perdere quella memoria storica e culturale che caratterizza ogni popolo. Per poter intraprendere uno studio di questo tipo è necessario affrontare tematiche differenziate che vanno dall’analisi storica, agli studi geomorfologici, al rilievo e alle tecniche costruttive, per approfondire i molteplici aspetti che sono fondamentali per la comprensione del “manufatto” storico e delle sue valenze. Lo studio storico ci consente di poter individuare i fenomeni che forniscono prima che la descrizione o la nascita, le ragioni giustificate della sua funzione e lo stato dell’arte nel periodo che ne consentiva la realizzazione, attraverso cui è possibile risalire al motivo di determinate costruzioni e delle tecniche usate. Lo studio geomorfologico consente di comprendere sia il rapporto forma-funzione che quello intrinseco ed armonioso con la realtà territoriale, l’uso dei materiali del luogo nel rispetto della natura e dei suoi connotati fisici. La fase più importante di questo studio riguarda la ricognizione sui luoghi, poiché del tutto inesistenti sono le memorie scritte che ci vengono tramandate. La ricerca sul campo permette di toccare con mano i “manufatti”, di misurarli, di restituirli in forma grafica, di percepire e comprendere sia le caratteristiche dei materiali sia le tecniche costruttive. Nel procedere in questa operazione si è fatta una selezione che ha portato al rilievo esclusivo di quei dammusi le cui condizioni di abbandono ne hanno consentito una più facile lettura, poiché non è subentrata altra alterazione dovuta ad interventi successivi. Per cui, ad esempio una costruzione semi-diroccata consente la facile lettura della trama dei conci

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costituenti la volta, le tecniche d’imposta sulla muratura portante, i materiali e lo spessore degli strati adoperati. Di corredo a questa operazione si è sviluppata un indagine di tipo giornalistico ricorrendo alla testimonianza di anziani muratori, ultimo anello di congiunzione tra l’oggi e le tecniche del passato. Queste ultime vittime dell’attuale sistema consumistico che ha coinvolto il processo edilizio di Lampedusa e che seriamente rischia di compromettere in maniera definitiva le peculiarità del territorio e con esso l’identità culturale che ha contraddistinto l’insediamento antropico della colonizzazione dell’isola. Nell’ultimo decennio il territorio è inquinato da insediamenti neo vernacolari dei dammusi, imposti dalle recenti normative, testimonianza dell’incapacità di rinnovo del linguaggio insediativo. Di conseguenza occorre lavorare nella direzione della rivalutazione sia della maglia storica dei dammusi, che costituisce un importante riferimento culturale, per una società e una economia in rapida trasformazione, sia dei singoli manufatti lasciati in stato di abbandono all’inclemenza del tempo. Essi andrebbero riutilizzati non più ai fini insediativi, data la loro esigua dimensione ed il basso livello di comfort che sono in grado di fornire, ma come punti di sosta ai percorsi turistici destinati a rivalutare il patrimonio naturale. STORIA DELLE PELAGIE

L’isola di Lampedusa fu eretta a colonia dal sovrano borbonico Ferdinando II, il 22 settembre 1943. La spedizione per la colonizzazione venne guidata dal comandante Bernardo Sanvisente. Prima di questa data molti sono i periodi bui della storia delle Pelagie ma è certo che Pantelleria, Lampedusa e Linosa dovettero avere enorme importanza per la loro posizione geografica dal punto di vista strategico, dominando il Canale di Sicilia. Fu abitata da Greci, Romani e Saraceni, “……anfore lucerne sottocoppe di rame lacrimatoi d’argilla e di vetro, cripte sepolcrali, grotte ridotte a commode abitazioni, cisterne, pozzi, avanzi di fabbriche….” .,1 testimoniano la loro presenza sull’isola. La presenza di una civiltà stanziata dove adesso sorge il centro urbano è dimostrata da resti archeologici di abitazioni venute alla luce nel corso di campagne di scavi ed è dimostrato anche dalla presenza di una Necropoli rinvenuta nelle grotte antistanti il “porto vecchio”. Del periodo medievale niente ci è noto nonostante diventasse depositaria di diverse leggende. Nel 1436 il re Alfonso V d’Aragona da Ischia concesse l’isola a Giovanni Caro barone di Montechiaro, suo cameriere, per avere dimostrato più volte atti di devozione al re, con licenza di popolarla. Fra i discendenti ricordiamo Ferdinando Caro, padre di Francesca Caro, primogenita, che ereditò la baronia di Montechiaro e anche l’isola di Lampedusa. Dal matrimonio con la baronessa ha origine il ramo siciliano dei Tomasi e l’appartenenza dell’isola di Lampedusa alla loro famiglia. Lampedusa nella metà del XVI sec. diviene palcoscenico di una tragedia incresciosa 8

P. Calcara, Rapporto del viaggio del viaggio scientifico eseguito nell’isola di Lampedusa, Linosa e Pantelleria ecc., Palermo, Stamperia di R. Pagano, 1846. 1


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come riporta Tommaso Fazello ….levatasi un subito una grandissima, e inaspettata fortuna di Mare, venne a spinger l’armata di notte verso Lampedusa, e la gittò da quella parte dell’Isola, ove gli scogli son più acuti, e la spiaggia più sassosa, ove, otto Galere, percotendo gli scogli si ruppero, e vi morirono più di mille huomini, di diversi ordini, e condizioni; e se lo splendor d’un fulmine, e lo stesso fiammeggiar di baleni, che venivano lucidissimi tra la grandissima pioggia non havessero fatto vedere alle compagnie il miserando spettacolo delle altre, e per quello avvertitele a ritornar con tutte le loro forze in dietro, tutta l’armata in quella spaventevole notte, andava in rovina.2 Da un manoscritto inedito conservato presso la Biblioteca Comunale di Palermo che risale al 1573, apprendiamo alcune informazioni importanti che riguardano il Santuario, primo luogo dove avvenne il primo insediamento a carettere temporaneo, ed il Porto; “… ..della parte di menzo giorno e libechio gli sono alcune stantie pernavelli diremo et anco per navi quando ridosso necessita eglie una cala grande si chiama S. Maria dove potriano sorgere eglie stanza per galere e facendo fosse si fa acqua et andando poi sirocho miglia 2 glie il porto et una torre antica dove se gli puo sorgere con nave e con galere…”3 Fra Giovanni Abela commendatore e vice cancelliere dell’ordine dei Maltesi nella sua opera narra: “….sin ad hoggi deve scorgersi nella parte più sublime della facciata, che rimaneva in piede d’un antico Castello, o Torre, se pur affatto nò s’è ruinata nell’Isola Làpedosa…”, “…dall’uno e dall’altro lato si ravvisano due scudi d’arme di basso rilievo nella pietra, ch’aveano scolpiti nel campo cinque monti, con una dentatura per orlo dello scudo;” .4 La scritta riportava questa frase: Bartolomeus de Marsara dictu Ian Capitaniu me feci fari Ani prima Indictio. La storia più importante per l’isola del quale conviene parlare per far riaffiorare dal passato elementi che possono ricondurci a quella che è l’attuale morfologia dell’isola e della storicità del sistema insediativo inizia nell’Ottocento. Prima di questo Periodo dal lungo carteggio della famiglia Tomasi si evince che l’isola fu elemento di trattative con i re borbonici per tentare una colonizzazione o di impiegarla come colonia penale; tentativi sempre falliti per il disinteresse della Corona. Il 25 Giugno 1800, i Tomasi diedero in enfiteusi 2.200 salme dell’isola alla famiglia Gatt. Successivamente l’enfiteuta Gatt sub concesse all’inglese Fernandez 1.000 salme. Nell’isola per dividere il territorio fu costruito un muro che odiernamente indica la toponomastica di una zona chiamata “muro vecchio”. I testi riportano che il Fernandez si sia insediato con 400 persone. Inizia il periodo di trasformazione dell’isola….. Il 22 settembre 1943 il Sanvisente impianta la colonia …… Il 1858, visto in senso strettamente economico fu l’inizio di una nuova era per Lampedusa e per gli isolani, dopo l’abbandono del Governo difficili furono le condizioni di sopravivenza della colonia, la quale non ebbe più dei buoni raccolti. La salvezza fu data dalla scoperta della pescosità dei mari per cui l’economia si trasformò da prettamente agricola a marinara. Nel porto inglobata con le grotte sorsero le prime “baracche” per la lavorazione 2 3 4

Tommaso Fazello, Delle due deche del’historia di Sicilia,tradotte dal Latino in linguaTtoscana dal P.M. Remigio, in Venezia, M.D. LXXIII, pp.12-13. Ms. XVI, IN 4° Qq. 47, pp. 33-34, B.C.P. in G. Fragapane, Lampedusa dalla Preistoria al 1878, Sellerio editore, 1993.

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del pesce salato. Lampedusa a poco a poco crea una flottiglia di piccole imbarcazioni che si dedicò anche alla pesca delle spugne di cui i fondali erano ricchi. Più tardi il governo italiano sulla scia di quello borbonico si ricordò della lontana isola attorno al 1866, istituendo un domicilio coatto; a Lampedusa sorsero i “Cameroni”, stanzoni allineati dove i deportati di qualsiasi reato venivano rinchiusi dal tramonto all’alba. Nel 1878 venne istituito il Comune Lampedusa e Linosa MORFOLOGIA E PATRIMONIO INSEDIATIVO

Nelle mappe antiche la morfologia di Lampedusa è rappresentata sinteticamente con il disegno della baia del porto e di quelle vicine; un segno che racconta del senso di rifugio e accoglienza che l’isola rappresentava. La morfologia del passato che corrisponde a grandi linee a quella attuale è leggibile dalle testimonianze cartografiche di W.H. Smith, comandante la flottiglia inglese che visitò le Pelagie intorno al 1813, del Capitano di fregata Sanvisente del 1843, di Rosario Dottore, agronomo del 1854. Tracce dell’importanza che l’isola di Lampedusa ha avuto nel passato si riscontrano ancora oggi nella morfologia di Cala Madonna, insenatura che offriva riparo alle imbarcazioni, ristoro ai naviganti per la presenza di grotte piuttosto ampie dislocate nella parte alta del vallone vicino al Santuario, e riserva d’acqua data dalla presenza di un’ampia cisterna e di alcuni pozzi oggi non più esistenti. Il Santuario anch’esso scavato nella roccia è stato luogo di culto di diversa provenienza e religione. Un sistema che rappresenta come in un dato momento della storia c’è stata una perfetta compatibilità tra risorse naturali e insediamento. Il primo vero insediamento fu realizzato in occasione della colonizzazione voluta da re Ferdinando II, nel 1843. In tale occasione fu redatto un piano di fabbricazione. Ai coloni si prometteva l’assegnazione di tre salme5 di terreno boschivo da trasformare a coltura e una casa per civile abitazione che il governo avrebbe provveduto a far fabbricare. Le prime modifiche della morfologia del territorio avvennero con la costruzione di queste prime abitazioni. L’architetto D, Nicolò Puglia progettò le case che sorsero allineate lungo una linea parallela al porto in un numero di sette edifici isolati aventi ciascuno dieci abitazioni. Parallele ai primi sette furono costruiti altri cinque edifici isolati che contenevano in tutto dieci abitazioni. Si disponeva di ottanta alloggi. In occasione del viaggio che il re borbonico Ferdinando II volle intraprendere insieme alla sua consorte per visitare la nuova colonia, fece osservare che le case che stavano costruendo non erano adatte per una società agricolo – pastorizia. In effetti, tali si dimostrarono in quanto mancavano di forni per la panificazione e di ricoveri per gli animali. Nel 1846 il primo Sindaco Pietro Codiglione fornì, al botanico Pietro Calcara incaricato di effettuare uno studio scientifico sulle Pelagie, la statistica della popolazione. La prima popolazione era costituita da palermitani, agrigentini, panteschi e usticensi e ascendeva a 120 unità, 90 maschi e 30 femmine per accrescersi nel 1847 a un numero di 700. 10

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Salma = ha 1,7460


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Dallo studio dei principali momenti insediativi delle Pelagie e dall’articolazione morfologica assai ricca, scaturisce una trama che potremmo riassumere nei seguenti modi: • dell’impianto archeologico di un insediamento tardo-romano, situato vicino a Piazza Brignone, mai sufficientemente ed esaustivamente portato alla luce. • dell’origine insediativa della colonia, che trova testimonianza nel sistema di grotte. Le grotte vennero a costituire un reticolo diffuso sull’intera isola e ne segnano momenti importanti della storia insediativa. Sono le grotte antistanti il Santuario della Madonna di Porto Salvo, la grande cava all’ingresso della valle Imbriacole e il sistema molto articolato di grotte prospicienti il porto, testimonianze di strutture adibite alla conservazione delle merci, oltre che alla vita quotidiana. • del sistema Castello che sorgeva sul promontorio che guarda il porto, le cui memorie sono descritte dal Colucci: “…un diruto castello con muri di pietra calcarea, e malta di tajo, costruito da Salvatore Gatt sulle rovine di quattro antiche torri.6 Esso attende la riscoperta delle aree archeologiche, la rivalutazione delle parti agricole che lo collegavano ai valloni, la riqualificazione della parte insediativa. • della maglia ortogonale, espressione della razionalità insediativa ottocentesca, testimoniato dalla presenza dei Sette Palazzi. • dell’eredità del sistema di insediamenti agricoli diffusi con il segno forte nel territorio delle particelle agricole, le “lenze”. • della rete di dammusi, testimonianza di una cultura agricola ormai consegnata al passato. • delle più recenti zone di espansione che si estendono in aree che hanno differenzazioni morfologiche incomparabili e sono l’insenatura della Guitgia, di Cala Creta, del Vallone di Imbriacole e di Terranova. Quest’ultimo sistema insediativo si è esteso a macchia d’olio dopo l’incremento turistico avvenuto negli anni ottanta, senza una previsione di piano in grado di proteggere il patrimonio sia fisico che ambientale, compromettendo irrimediabilmente lo stato dei luoghi con costruzioni di bassa qualità. In un secolo e mezzo la morfologia dell’isola di Lampedusa testimonia il passaggio da una società dominata dall’idea dell’ordine, grazie alle trasparenti regole della maglia ortogonale ottocentesca a una società dominata dall’illusione dell’espansione perenne, in perfetta dicotomia con regole e valori del sistema ambientale. Più semplice è la trama insediativa di Linosa con il suo sistema ordinato lungo l’asse centrale. La struttura insediativa non si costituì negli anni della colonizzazione, poiché come ci riferiscono le fonti bibliografiche, i coloni abitarono le grotte scavate nella lava. L’analisi della morfologia delle due isole richiama due esigenze essenziali, quella dell’adeguamento delle infrastrutture esistenti, della riqualificazione delle aree fortemente compromesse e della protezione di quelle che conservano la memoria del passato per consegnarla alle generazioni future.

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Salvatore Colucci, in G.ragapane, op. cit.

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IL PAESAGGIO AGRARIO

Il territorio in cui la vegetazione arbustiva mediterranea sviluppatasi soprattutto lungo i Valloni e gli impluvi che solcano l’isola, costituiscono una morfologia importante è trasformato negli anni della colonizzazione in un paesaggio agricolo, completando l’opera che aveva iniziato il piccolo insediamento di alcune famiglie di maltesi, nei primi anni dell’ottocento. L’evoluzione biotica è dovuta sia al dissodamento dei terreni per la coltivazione sia per il consumo irreparabile della macchia mediterranea a scopo energetico che porterà a costituire il paesaggio brullo e desertico che appare oggi ai nostri occhi e che pone l’avvio di un processo di desertificazione. Il paesaggio lampedusano è caratterizzato dalla suddivisione degli appezzamenti di terreno, che i coloni ricevettero dal governo borbonico, con muretti a secco che servivano sia per dividere la proprietà ma anche per liberare il fondo agricolo dal ricco pietrame, che rendeva difficile e operoso il lavoro del contadino. I muretti a secco avevano anche una specifica funzione quella di riparare il coltivato dai venti impetuosi, per questo una stessa proprietà risulta ulteriormente frazionata in appezzamenti più piccoli, le “lenze”. Importante funzione di frangivento era affidata anche ai filari dei fichidindia che venivano disposti lungo i muretti perimetrali e assolvevano contemporaneamente il compito di cibaria per gli animali. I coloni che hanno abitato l’isola dopo il 1843, hanno impiegato tutte le loro energie e il loro ingegno per la bonifica di un territorio altamente ostile, sia dal punto di vista climatico che geomorfologico, adottando un attività agricola basata sulle culture arido-resistenti, attraverso sistemazioni e tecniche di coltivazione nel rispetto della fisiografia del territorio. Le terre più fertili dell’isola risultarono quelle di Cala Pisana, del Vallone dell’Imbriacole e della Madonna. Nel decennio successivo alla colonizzazione Ferdinando II, a causa delle vicende storiche del 1848, abbandonò l’interesse per le colonie e nel 1850 richiamò definitivamente il Sanvisente che lasciò l’isola per non farvi più ritorno. La stabilità dell’isola più grande fu compromessa. Si venne a creare una precaria situazione del rispettivo possesso delle terre perché mancavano gli atti di donazione o le concessioni enfiteutiche (già attribuite). Il colono essendo scoraggiato dalla precarietà del terreno, l’interesse per il suolo e per l’agricoltura divenne relativo, difatti come si evince dalla relazione dell’ingegnere Schirò7 preoccupanti erano i dati in merito alla carbonificazione che costituì l’unica risorsa della colonia. Fu così che la macchia mediterranea che ricopriva l’intera isola subì il colpo definitivo. TIPOLOGIA DELLE ABITAZIONI RURALI

La tipica costruzione rurale che si incornicia nel paesaggio di Lampedusa è il dammuso, una costruzione che ha origine dopo la colonizzazione, per la necessità del contadino di 12

G.Schirò Sull’attualità e l’avvenire delle isole di Lampedusa e Linosa, Stabilimento tipografico di Francesco Diliberti, 1860. 7


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custodire il fondo agricolo e gli animali, beni più preziosi per l’unico sostentamento della famiglia. La mancanza di fonti storiche o di studi odierni ci obbliga per la conoscenza a condurre la ricerca con lo spirito dell’archeologo per portare alla luce aspetti legati alla vita quotidiana ai materiali e alle tecniche e testimoniare così un popolo che con le sue povere risorse ha saputo creare un unicum edilizio di notevole qualità. L’analisi di tutti i dammusi presenti sull’isola ci porta attraverso differenze e analogie a comprendere la complessità della tipologia e il perché di determinate scelte progettuali motivate tutte da una specifica funzione. Dall’arabo dammus che si rifisce alla copertura dell’abitazione, il termine sta ad indicare tutto il manufatto. È una costruzione che ipotizziamo derivi da Pantelleria, isola dalla quale Lampedusa era a stretto contatto sin 1846 per importare carni bovina ed altri generi alimentari. È realizzata interamente ponendo in opera la pietra locale a secco, senza l’uso di nessun legante. Esempi di costruzione in pietra sono riconducibili già al periodo del Neolitico come è rilevato dall’archeologo inglese Ashby, intorno al primo decennio del Novecento e come è possibile rilevarne i segni eseguendo una ricognizione sul territorio. Ma gli esempi più caratterizzanti le connotazioni del territorio, anche per più recente edificazione, sono proprio i dammusi che si integrano perfettamente con il paesaggio lampedusano. Essi costituiscono un diverso tipo di insediamento sviluppatosi, fuori dall’abitato urbano, in stretto rapporto con il paesaggio agrario proprio nella seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento. È questo il contesto in cui si colloca il dammuso: originale compromesso fra condizione d’insularità, esigenza abitativa e produzione agricola. La sua posizione è tale da arrecare il meno disturbo possibile al coltivato. La scarsità di risorse organiche come il legno e l’incidenza dei costi di trasporto dalla Sicilia hanno fatto sì che anche per il dammuso venisse adoperato come materiale da costruzione quello di cui l’isola era più ricca, la pietra calcarea. Tale scelta di costruire in pietra è determinata da molteplici condizioni: la necessità di liberare il fondo agricolo dalla pietra, le condizioni climatiche, l’influenza che Lampedusa risente dalla vicina isola di Pantelleria. Queste influenze e necessità abitative hanno dato vita ad una costruzione con piccoli ambienti e con spessi muri perimetrali su cui poggia la volta della copertura costruita anch’essa con materiale lapideo. Tipologicamente i dammusi si possono classificare in base alle loro funzioni: semplice deposito attrezzi o ricovero per animali, abitazione stagionale o permanente. In base alla sua funzione aumenta la sua complessità tipologica. Il dammuso come ricovero è costituito da un mono-ambiente e può avere forma quadrata o rettangolare, con un solo vano di accesso; accanto è sempre presente la cisterna che raccoglie l’acqua piovana e in alcuni casi un altro ambiente adibito a stalla o a cucina. Il dammuso come abitazione stagionale era utilizzato dal contadino e dalla sua famiglia durante il periodo della raccolta del seminato e per la vendemmia. Questa tipologia che riscontriamo in numerosi esempi è composta principalmente da un vano principale, solitamente rettangolare e comunicante con esso due ambienti più piccoli; l’alcova riservata ai coniugi è separata dall’ambiente principale con una tenda e il “cammarino” un ambiente più piccolo che era la camera da letto dei figli. La cucina è sempre indipendente e aveva l’accesso dal terrazzo che accoglieva muretti usati come sedili, “bisolì” e utilizzati dalla famiglia nelle sere d’estate e dal contadino quando al tramonto tornava dai campi e lì si sedeva per sfilarsi gli stivali. Nelle immediate vicinanze troviamo la cisterna, scavata nella roccia e coibentata con intonaci di calce.

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Il dammuso a carattere permanente è molto più complesso perché si arricchisce di altre appendici che lo rendono più articolato; l’aia per la trebbiatura; il magazzino, “macasenu”, per conservare i prodotti agricoli; la stalla per l’asino, compagno inseparabile del contadino che lo aiutava nei campi, nel trasporto di merce pesante e per gli spostamenti; le stalle per il ricovero degli animali; il forno per la panificazione; il “parmentu” per la vinificazione; il giardino di forma circolare o rettangolare, costruito con muri di pietra a secco alti più di due metri, dove all’interno riparati dal vento venivano coltivati gli alberi più delicati, in genere gli agrumi. Tutti gli ingressi ai dammusi sono architravati con tipologie costruttive di varia natura; inoltre l’accesso è posizionato in modo da opporsi ai forti venti dominanti cui l’isola è sottoposta. Dall’analisi delle tipologie scopriamo dammusi di più recente costruzione, deducibile dall’impiego nella testata d’angolo della pietra squadrata. L’avvento della pietra tagliata porterà ad una riduzione dello spessore murario. Molte sono le valenze storiche che il manufatto ci restituisce e che ci proponiamo di analizzare più esaustivamente nel quadro conoscitivo della relazione finale. TECNICHE COSTRUTTIVE

Il dammuso ha origini incerte, potrebbe essere di derivazione araba o addirittura ancora più antica, ma nelle Pelagie è certo che siano stati realizzati tra la metà dell’Ottocento e i primi del Novecento. Il dammuso nella sua accezione più completa è un fabbricato rurale realizzato con i materiali più poveri che l’uomo aveva a sua disposizione, pietra e terra. Le sue caratteristiche architettoniche più salienti sono la sua struttura cubica, realizzata interamente a secco, e la copertura a cupola. Essi rappresentano magnifici esempi di comunione delle comunità umane con la vocazione naturale dei luoghi; sono l’esaltazione dell’ingegno dell’uomo di trasformare la semplice materia in creazioni artificiali uniche e di creare un unicum con l’ambiente. Appare ,oggi, necessario trascrivere l’esperienza tramandata verbalmente delle antiche tecniche costruttive per fornire strumenti di conoscenza pratica nel recupero di questi antichi manufatti. La conoscenza storica risulta necessaria sia che si ritenga di agire con interventi di tipo filologico che ripropongano cioè fattori costitutivi originari, sia che si ritenga opportuno intervenire con materiali e tecnologie moderne. Per codificare le tecniche costruttive che hanno determinato il dammuso, bisogna partire dalle prime fasi della sua edificazione. LE FONDAZIONI E LA MURATURA

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Era una regola nell’arte della costruzione della “pietra a secco” individuare nel fondo agricolo rocce affioranti sulla superficie del terreno che costituiranno la fondazione del manufatto. Dopo aver tracciato il perimetro della costruzione si procedeva a recuperare, in genere dal luogo stesso della costruzione, materiale lapideo di varie dimensioni. La realizzazione avveniva senza ricorrere a misurazioni precise.


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L’elevazione della muratura prevedeva il posizionamento delle cantoniere, agli angoli dell’edificio, in genere sono delle grosse pietre che vengono sommariamente squadrate ed hanno delle dimensioni medie di 60X 90X60 cm. A filo con gli spigoli d’angolo si posizionava la “lenza” che serviva come linea guida per l’allineamento dei muri. La tecnica consiste nel realizzare un muro di spessore variabile tra gli ottanta e i 2 metri. La struttura del muro è a casciata, il nome deriva dal dialetto cascia ossia cassa. È composta da due file parallele di pietre una esterna e l’altra interna e riempimento della sacca interna con pietrisco di piccolo dimensioni, opportunamente incastrato e terra rossa per riempire tutti gli interstizi. Sia lo spessore della muratura che un buon costipamento del riempimento interno, rendono la muratura refrattaria sia al caldo che al freddo. La tecnica della “pietra rotta” richiede una mano esperta che sappia intervenire sbozzando la pietra per assicurare l’incastro e un occhio vigile per il posizionamento a secco. La tessitura muraria che a prima vista sembra casuale in realtà e il risultato di una vera tecnica esecutiva,nelle file più basse vengono adoperate pietre più grandi e più pesanti diminuendone lo spessore man mano che si arriva alla sommità, alleggerendo così la struttura muraria. La disposizione della pietra per assicurare stabilità al muro è che la faccia più lunga è disposta in lunghezza. L’altezza di un dammuso mediamente è di circa tre mesi esclusa la cupola. La funzione della muratura esterna è quella di contenere il momento ribaltante provocato dall’azione spingente della volta sovrastante per questo era prevista l’acquintatura del muro, cioè la parete esterna non è perfettamente a piombo ma inclinata verso l’interno del 10-15%. La muratura esterna veniva rialzata fino alla linea di colmo, quella interna, perfettamente a piombo fino alla linea d’imposta che mediamente è a 1,80 m dal pavimento. Dopodiché si costruisce la volta. LE TIPOLOGIE DI COPERTURA

Le volte che completano la struttura del dammuso testimoniano che il costruttore di Lampedusa non è arrivato allo stesso grado di perfezionamento delle maestranze pantesche, dalle quali ha sicuramente appreso tutte le tecniche costruttive; ciò si deduce dal fatto che tutti gli ambienti del dammuso pantesco sono voltati mentre quelli pelagici hanno solo la volta nella dammuso principale, nella cucina e nel magazzino, le stalle e altri ambienti hanno un altro tipo di copertura di cui tratteremo più avanti. Le volte possono essere a botte, a botte lunettate o a crociera. La volta a botte è la forma primordiale di copertura ed era utilizzata per racchiudere superfici rettangolari, quelle a crociera per gli ambienti a pianta quadrata. La volta a crociera che come sappiamo è ottenuta dall’intersezione di due volte a botte, a differenza delle volta a botte scaricano le spinte agli spigoli del vano di chiusura, questa funzione permetteva di eseguire aperture più alte. Successivamente quando si perfezionò la tecnica, nei dammusi di grandi dimensioni si adoperò la volta a botte lunettata la quale permetteva di interrompere la continuità della volta e di trasferire i carichi su strutture discontinue, ossia i pilastri. In genere le lunette sovrastano le aperture quando la quota dell’imposta è molto bassa.

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La costruzione della volta era abbastanza semplice e nello stesso tempo molto ingegnosa; si disponeva nella mezzeria dei muri perimetrali all’altezza della linea d’imposta, due assi di legno ortogonali tra di loro; all’intersezione delle due travi si costruiva un pilastrino in muratura su cui si appoggiavano quattro tavole inclinate che si addossavano nella mezzeria dei muri perimetrali. Un puntone posto al di sotto del pilastrino e appoggiato al pavimento evitava possibili dissesti. Terminata questa fase si procedeva ad eseguire una specie di costruzione provvisoria che potremmo definire il negativo della volta; sulle travi inclinate si disponevano quattro ordini di rami di diverse specie arbuste esistenti sull’isola fino a chiudere alla sommità in una sorta di piramide a gradoni; tra questi rami per chiudere gli interstizi si incastravano pietra e malta di tàiu8, infine la cassaforma veniva regolarizzata da uno strato di tàiu. Se questa operazione era eseguita di mattina si sospendeva e si riprendeva l’indomani quando il tàiu era asciutto. Dopo questa operazione si passava alla realizzazione della volta vera e propria. Lo spessore della pietra utilizzata è di 25-30cm la posa della pietra è di taglio. Per la posa si procedeva progressivamente dalle spalle verso la chiave.

Fig. 1. Particolare di una sezione di volta diroccata.

Nella volta a crociera si realizzavano in primis le direttrici della volta. È inutile dire che la costruzione della volta richiedeva opera di grande maestria, venendo meno una sola pietra collassava tutta la volta, poiché ricordiamo, non c’era una goccia di legante. La volta, infine, era regolarizzata da uno strato di terra battuta con il mazzuolo di legno che ne modellava l’estradosso e rifinita solo in epoca più recente con materiale impermeabilizzante. 16

Il nome deriva dalla vicina Pantelleria ed è una malta di terra rossa e acqua che a vista la riscontriamo nella copertura. 8


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A questo proposito, nel processo di rielaborazione delle informazioni è emerso che esiste un’evoluzione nei materiali e nella tecnica costruttiva. In base a ciò possiamo distinguere due periodi: il primo che corrisponde ai primi anni della colonizzazione, il dammuso ha la copertura realizzata con malta di tàiu, il secondo vede l’avvento della calce ed è un periodo che è antecedente alla seconda guerra mondiale. Nel caso dei primi dammusi che non erano rifiniti con lo strato di calce, l’impermabilizzazione era assicurata dalla ricrescita sulla cupola dello stesso tipo di vegetazione spontanea del suolo; avendo luogo la germinazione dei semi contenuti nella terra si compiva nel contempo che le radici trattenevano la terra e assorbivano l’acqua quando pioveva.

Fig. 2. Dammuso in C. San Fratello.

Nel periodo successivo con l’introduzione della calce era garantita alla copertura una migliore impermeabilizzazione, inoltre assolveva alla vitale funzione della raccolta dell’acqua piovana che attraverso un sistema di pendenze e dislivelli veniva convogliata nella cisterna. Nell’esecuzione della tecnica di impermeabilizzazione si procedeva ad addossare sullo strato di terra rossa, che serviva per modellare la sagoma della volta, un strato di calce dello spessore di circa 5 cm. Ultima operazione di finitura consisteva nel battere per 2-3 giorni con il mazzuolo di legno la calce per dargli la compattezza desiderata. Veniva ulteriormente impermeabilizzata con pennellate di latte di calce. Lo spessore del pacchetto di copertura mediamente è di circa 35-40cm. La sporgenza della copertura dalla sagoma scatolare del dammuso è di circa 50cm. L’inconveniente della volta è che non permette la creazione di ambienti di grande di-

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mensione; al crescere delle dimensioni del dammuso crescono le intensità delle spinte e si riduce il grado di sicurezza al ribaltamento dei paramenti verticali. Un’altra particolarità del dammuso è che la volta non è mai visibile dall’esterno il cui estradosso presenta una forma che il d’Aietti9 definisce a “schiena d’asino” . Un’altra tipologia di copertura riguardano altri spazi funzionali del dammuso che, comprendono i ricoveri per gli animali e il magazzino per conservare i foraggi, riscontriamo una copertura a “capanna” anche se la denominazione risulta piuttosto impropria visto che ai lati longitudinali assume una sagoma arcuata; più specificatamente presenta una forma convessa all’apice e concava all’estremità laterali. La copertura non è in pietra ma hanno una copertura vegetale. La travatura portante non ha travi squadrate ma è creata con rami di timo selvatico e steli d’agave. Il pacchetto di copertura è abbastanza singolare e mostra quanto l’uomo con il suo ingegno sappia attuare soluzioni di ingegneristica naturale con i pochi materiali che ha a disposizione. La prima opera di costruzione della copertura consisteva nel posizionare una trave di spessore all’incirca di 20-25 cm nel senso longitudinale del vano, su questo trasversalmente si posizionavano rami e pezzi di arbusti piuttosto irregolari. Lo strato successivo era uno strato di canne a chiusura degli interstizi; al di sopra uno strato compatto di alghe, dello spessore all’incirca di 15-20 cm, assicurava al meglio l’impermeabilizzazione. Infine, il completamento del pacchetto con uno strato di terra rossa sul quali si costituiva la crescita di erba. L’ARCO, L’ARCHITRAVE E LA PIATTABANDA

Nei dammusi, visto che la pietra ha una debole resistenza a trazione non poteva essere impiegato il sistema trilitico, ma si è escogitato di utilizzare la volta per la copertura e l’arco come interruzione della muratura per consentire le aperture. Nei dammusi più antichi le aperture non potevano essere che ad arco e ciò comportava che l’infisso doveva essere all’estremità superiore circolare e seguire la sagoma dell’arco. Più tardi questa difficoltà si superò con l’introduzione dell’architrave in pietra tagliata. Posta a chiusura del vano porta lascia all’arco di scarico sopra di essa la funzione di sorreggere la muratura sovrastante e di trasferire i carichi indotti dalla volta sugli stipiti delle aperture. A tal fine agli stipiti troviamo la stessa dimensione della pietra che serviva per le cantoniere. Per la tecnica di come si costruiva l’arco di scarico ci siamo documentati da notizie ricavate dalle maestranze pantesche. Si posizionava un filo al centro del vano da coprire e la sua distanza dal linea d’imposta era proporzionale al ribassamento del sesto dell’arco. La scelta delle pietre per essere adoperate come conci era scrupolosa, generalmente le pietre più grandi sono collocate nell’imposta e nell’altezza delle reni dell’arco; mediamente la pietra scelta ha dimensioni 14x38x30 cm. Al di sopra dell’architrave le cui dimensioni potevano giungere fino a 1,20 m si creava una semicerchio con pietra e terra impastata con acqua e su questa si costruiva l’arco. Il semicerchio una volta costruito l’arco poteva essere rimosso per lasciare libero il foro e inserirci una grata di ferro con al centro le iniziali della famiglia, ma questo non lo troviamo nei dammusi ma soltanto in alcuni esempi di case urbane. 18

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A D’Aietti, Il libro dell’Isola di Pantelleria, Trevi editore,1978.


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Altra tipologia di chiusura delle aperture è la piattabanda, che rinveniamo composta da pietra naturale o con la pietra calcarea tagliata in blocchetti e scolpita a mo di cuneo. La piattabanda è un elemento architettonico analogo visivamente all’architrave, ma legato da un punto di vista statico-edilizio all’arco, del quale è in pratica una sezione ad intradosso retto. Si differenzia dall’architrave per il fatto di non essere monolitica, cioè formata da un unico blocco di pietra, ma costituita da più conci. I blocchi di una piattabanda devono essere disposti in maniera di scaricare il peso sulle estremità e non verso il centro. Per questo i giunti tra i blocchi devono essere convergenti verso un punto al di sotto dell’apertura, formando, nella disposizione più semplice, dei cunei rivolti verso il basso analoghi a quelli delle pietre che costituiscono gli archi. In tutte le tipologie rinvenute l’ingresso è sempre a circa metà spessore del paramento murario. Le pareti dell’ingresso presentano uno sguincio caratteristica di quasi tutti i dammusi. PAVIMENTI

Per quanto riguarda le tecniche di pavimentazione è di norma eseguito un livellamento della pendenza della roccia su cui poggia il dammuso, con un vespaio di pietre piatte che ha anche la funzione di isolare dall’igroscopicità della roccia, su questo mosaico di pietre ad incastro poggia con un battuto di terra rossa che costituiva la pavimentazione del dammuso. Solo nei dammusi più recenti riscontriamo una pavimentazione di terra cotta maiolicata e con l’avvento del cemento troviamo spesso un battuto di cemento. GLI INFISSI E IL MOBILIO

Le aperture del dammuso consistono in un vano d’ingresso e una piccola finestra localizzata o nel prospetto laterale o di fronte all’ingresso. Le aperture erano così poche principalmente per non indebolire la struttura portante della volta ma anche per garantire condizioni ottimali di temperatura sia d’inverno che d’estate. L’infisso a chiusura delle aperture era molto scarno ed essenziale, generalmente ad un anta, costituito da in telaio formato da un montante verticale e da traverse orizzontali. Sul telaio venivano inchiodate delle tavole generalmente larghe 10-15 cm. Lo stesso procedimento vale per la finestra, i vetri mancano del tutto. Lo stesso essenzialismo lo troviamo nel mobilio che si riduceva a delle nicchie ricavate nella muratura e che servivano per poggiarvi il lume o altri pochi oggetti che possedevano. La chiave della volta molto spesso mostra un anello scavato nella pietra dal quale si faceva pendere le scorte di cibo che il contadino preferiva tenere con sé per paura dei furti. Altri chiodi inseriti nella muratura servivano per legare tavole orizzontali su cui poggiare il formaggio. Al di sopra della porta, cioè all’altezza dell’imposta dell’arco è presente un tavolato che aveva la funzione di ripostiglio. 19


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LA RACCOLTA DEL BENE PREZIOSO

Le cisterne per la raccolta dell’acqua piovana mostrano quell’intuizione in materia ingegneristica che ha senz’altro permeato tutta l’edilizia. Tra tutte le particolarità una ci ha maggiormente colpito: la forma. Precisamente sia in pianta che in sezione presentano una forma rotondeggiante o ellittica che sicuramente gli conferisce una notevole resistenza alla pressione dell’acqua. Si presenta o interamente scolpita a mano nella roccia o semi-costruita. La tecnica adottata per il secondo modello è la stessa per la copertura dei dammusi; la copertura e a volta ma l’estradosso non è a cupola come nei dammusi ma piano e presenta un apertura centrale per prelevare l’acqua con il secchio, un’altra apertura laterale permetteva al contadino di poterla pulire. Le pareti sono intonacate con malta di calce. Infine pennellate di latte di calce per migliorarne l’impermeabilizzazione.

Fig. 3. Cisterna scavata nella roccia con la copertura diroccata.

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Altro elemento importante che completa il ciclo della raccolta dell’acqua piovana è la “cannalata” che dalla copertura del dammuso e attraverso il prospetto e poi al di sotto del pavimento esterno convogliava l’acqua dentro la cisterna. Solitamente nei dammusi più grandi e a carattere di stagionalità permanente, dove si svolgeva l’attività agro-pastorizia è presente più di una cisterna una per gli usi della famiglia l’altra per l’abbeveraggio degli animali e per l’orto. Si trova discosta dall’abitazione è risulta molto interessante perché l’acqua non deriva dalla sommità dei tetti ma bensì raccoglie le acque del piano circostante la cisterna e più specificatamente dalle “balate”, che sono strati rocciosi in superficie che molto spesso presentano anche delle conche che diventano delle pozze d’acqua, quando piove.


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Fig. 4. Prospetto di una cisterna semi-costruita che raccoglie l’acqua dalle “balate”.

PATRIMONIO INSEDIATIVO URBANO

«In Sicilia fu bandito l’appalto per le fabbrica delle case coloniche. L’appalto fu aggiudicato alle ditte palermitane dei ricchi signori Verona e Messineo. Da Palermo giunsero a Lampedusa molti brigantini degli appaltanti per trasportare sull’isola architetti capimastri e più di 500 operai edili,falegnami e tagliapietra….10» Per prima dobbiamo puntualizzare, che le prime costruzioni furono una casa con cisterna, di cui non rimangono tracce, come ci riferiscono le fonti storiche, e due grandi magazzini, che in seguito serviranno per i domiciliati coatti. Recentemente queste costruzioni sono stati oggetto d’intervento per istituire in uno la sede dell’Area Marina Protetta e l’altro non ancora terminato ospiterà un Centro Polifunzionale. Negli anni della colonizzazione gli abitanti per lo più furono impegnati nella costruzione del paese, fu redatto un piano di fabbricazione ad opera dell’ingegnere idraulico e strade Salvatore Langone e dell’architetto Emanuele Palermo. L’architetto Nicolò Puglia progettò i Sette Palazzi, che formano la quinta muraria settentrionale della via Vittorio Emanuele, aventi ciascuno dieci abitazioni. Di essi nulla ci perviene dal passato, neanche una restituzione planimetrica in grado di restituirci l’originale progetto, sappiamo solo che il re Ferdinando II visitando la colonia, trovò i Sette Palazzi inadeguati per gli agricoltori. Dai contratti enfiteutici relativi alle concessioni delle case ai coloni, durante il regni di Vittorio Emanuele II, leggiamo: «…..di potervi eseguire nell’interno tutte le opere che l’en10

G. Fragapane, Lampedusa dalla preistoria al 1878, ed. Sellerio, 1993, pg. 431.

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fitèuta reputasse utili e di proprio interesse, ma di non mai aprire nello esterno vani di qualunque forma i quali potessero deformare la euritmia e la simmetria dei prospetti attualmente esistenti.»11. Nel rapporto del tenente di Fanteria leggiamo che esistevano alle spalle dei Sette Palazzi altre due file di caseggiati, ciascuna di cinque case costituite dal solo pian terreno. La viabilità era costituita dalla strada dei Sette Palazzi, Via Vittorio Emanuele e la seconda via Principe Umberto, normalmente a esse si diramava un’altra strada che da una parte portava al castello e al porto e dall’altra verso Taccio Vecchio (l’odierna Via Roma). Un’altra strada passava per il porto e continuava fino a Cala Pisana. Terminava negli anni del 1879 la maglia scacchiera prevista dal Sanvisente negli anni della colonizzazione. Oltre alle strade vi erano dei sentieri sui quali per la maggior parte s’impiantano le odierne infrastrutture. Sono da annoverarsi la strada che dai cameroni porta alla Madonna da dove più sopra si diparte in due rami per andare a Cimitero Vecchio per poi riunirsi e tendere verso Ponente. Quella del vallone Imbriacola la quale con un ramo si collega alla precedente e quella che partendo a nord-est del paese ci conduce a Capo Grecale. ASPETTI GESTIONALI

VALUTAZIONE DELLO STATO DI CONSERVAZIONE DEL PATRIMONIO TRADIZIONALE FISSO

Emblemi incontrastati della conquista del territorio pelagico da parte dei coloni, oggi i dammusi rappresentano solo le ombre del passato, solamente qualche anziano ricorda il loro significato e l’importanza che hanno avuto. Memorie ormai scomparse dal passaggio repentino di una economia prima agricola poi marittima e infine turistica sono lasciati all’inclemenza del tempo. In vista di quello che è stato accennato nella prima analisi del quadro conoscitivo ci proponiamo di analizzare esaustivamente qual è lo stato di conservazione al fine di poter intraprendere una azione di recupero. Il problema della conservazione dell’architettura in “pietra a secco” è un problema comune a molte altre architetture vernacolari. È interessante osservare come questa architettura non ha tutela particolare né a livello nazionale né internazionale. Necessario per un intervento di tutela, recupero e conservazione, acquisire seriamente e accuratamente: • La conoscenza approfondita dell’espressione culturale (materiale o immateriale); • Le linee comportamentali da utilizzare rispetto a queste architetture; • Una coscienza veramente aperta in termini di conservazione e intervento; affinché queste architetture funzionino non solamente a livello di musei, ma nello scopo di far guadagnare loro un ruolo attivo nel paesaggio umano di cui sono immagini ragguardevoli; • L’acquisizione di un ruolo sempre più positivo degli operatori (tecnici, politici ecc.) rispetto a queste architetture con lo scopo di restituire loro l’importanza e il ruolo centrale nella società di cui esse stesse hanno contribuito ad esserne elementi generatori; 22

E. Avogrado di Vigliano, Lampedusa . Appunti di un comandante di distaccamento, Tipografia nel R. Albergo dei Poveri, Napoli, 1880. 11


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• Un intensificazione del dibattito intorno a questo tipo di architetture e della loro conservazione agendo nel contempo sui sistemi educativi delle generazioni future. • Sottoporli a vincolo e dichiararli patrimonio dell’umanità. L’espansione periferica incontrollata di quest’ultimo ventennio ha alterato lo stato dei luoghi di appartenenza del patrimonio storico. Nel corso della nostra indagine è emerso che le aree che hanno una valenza significativa dal punto di vista dell’insediamento storico sono principalmente il territorio del Vallone Imbriacole e il territorio di C. San Fratello. Nel resto dell’isola disseminati qua e là emergono ruderi di vecchie preesistenze inglobate in odierne costruzioni di bassa qualità. Come riscontriamo dalle cartografia storica e in particolare dell’agrimensore Rosario Dottore, le terre più fertili erano localizzate dentro a questi due grandi valloni che solcano l’isola nella parte centrale; anche la piana di Cala Pisana fu coltivata ma purtroppo è stata tra le prime aree ad essere interessata dal fenomeno dell’espansione e i vecchi dammusi sono stati manomessi. Per quanto riguarda il Vallone Imbriacole anche se è permeato ancora dalle tracce di un economia rurale e di alcuni esempi di case coloniali risulta fortemente compromesso dagli incontrollati avanzamenti espansionistici ai danni di un area che ha davvero delle grandi potenzialità storiche culturali e faunistiche. Andrebbero protette le tracce che ancora si leggono come per esempio le cave all’ingresso del vallone, i dammusi sopravvissuti e il terrazzamento con muretti a secco delle parcelle agricole. È richiesta con estrema urgenza, la preservazione dell’area al di C. San Fratello che conserva tra gli esempi più antichi e più belli di architettura rurale e presenta testimonianze del sistema insediativo agricolo diffuso con il segno forte nel territorio dei “muretti a secco”. Nell’area oggetto di studio solo recentemente il territorio ha subito inquinamenti con insediamenti neovernacolari, fenomeno che va assolutamente arrestato prima di perdere l’identità del luogo. L’esame del singolo manufatto ci permette di delineare linee generali dello stato di conservazione. Anche se tutti i dammusi sono in completo stato di abbandono e mancano anche degli infissi, possiamo affermare che per quanto riguarda la struttura statica buone sono le condizioni generali, si nota il degrado di alcuni conci che andrebbero sostituiti perché a lungo andare potrebbero comprometterne la resistenza. Il degrado interessa anche il disfacimento degli intonaci interni e la fessurazione del manto di impermeabilizzazione dell’estradosso della copertura. Per quanto riguarda le appendici del dammuso che, sono come abbiamo visto le stalle e il magazzino per la custodia del foraggio, hanno una copertura di origine vegetale sono ridotte a uno stato fatiscente in quanto le travi di legno che sono la struttura portante mostrano un completo stato di degrado e assistiamo quindi a strutture che evidenziano una copertura molto spesso crollata. Anche questa tipologia di copertura andrebbe recuperata, poiché contiene nel pacchetto insieme a materiale vegetale anche uno strato di alghe per migliorare l’impermeabilizzazione della copertura, tecnica che non riscontriamo nelle altre architetture vernacolari del territorio nazionale. Un processo descrittivo differente meritano le abitazioni storiche che costituiscono il tessuto urbano della metà dell’Ottocento i cosiddetti Sette Palazzi che fronteggiano il lato meridionale della via Vittorio Emanuele. La trattazione dello stato di conservazione ci consente di evidenziare che questi manufatti di particolare interesse storico- testimoniale sono lasciati nelle mani dei privati i quali realizzano attività commerciali al piano terra, altri

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sono lasciati in stato di abbandono e solo alcuni costituiscono ancora edilizia residenziale. Lo stato di degrado è avanzato soprattutto per la copertura di travi di castagno e per l’asportazione delle tegole di copertura. INTERVENTI PER IL RECUPERO DELLA STRUTTURA MURARIA DEI DAMMUSI

Nel corso della nostra studio basato sul modello analitico che ci ha restituito molte delle regole compositive del passato e dell’indagine di tipo giornalistico effettuata tra le maestranze del luogo che ci ha fornito la conoscenza e l’esperienza di tecniche tramandate verbalmente, possiamo trarre alcune conclusioni che ci permettono di indicare quali sono le metodologie d’intervento per il recupero di tali strutture. Come già accennato in precedenza si può ricorrere a interventi di tipo filologico, che ripropongano cioè fattori costitutivi originari, o intervenire con materiali e tecnologie moderne per incrementare la stabilità anche di carichi esterni non previsti in fase di progetto. Tra i fenomeni più frequentemente riscontrati evidenziamo lesioni anche di notevole entità e degrado di alcuni pietre che compromettono le caratteristiche di resistenza del paramento murario; tipico è lo sfiancamento del muro. Il più delle volte si tratta di fenomeni locali che non interessano la struttura nelle sua globalità. In tal caso si può attuare un ripristino della resistenza con la tecnica delle iniezioni. Tale tecnica ha il vantaggio di non turbare lo stato di equilibrio ma serve solo a rinforzare la struttura muraria. Si consiglia per le iniezione l’uso di malta di calce. Le iniezioni devono essere realizzate con bassa emissione per non pregiudicare l’equilibrio; devono essere preventivamente occlusi gli interstizi , con impasto di terra rossa e acqua,della parete da trattare per evitare fuoriuscite di materiale che potrebbero sporcare la pietra a faccia vista. Il posizionamento degli ugelli deve essere a una distanza di 5080cm in modo da assicurare che la malta fluisca negli interstizi a coprire quest’area. Dopo le iniezioni e l’asciugatura della malta si procede, infine, al lavaggio della muratura per rimuovere la miscela di terra rossa. Dal punto di vista tecnico,l’intervento con iniezioni consente di ripristinare la stabilità della muratura che potrebbe risultare compromessa dal deterioramento di alcune pietre che non garantiscono più l’incastro originario. INTERVENTI PER IL RECUPERO DELLA COPERTURA ORIGINARIA DEI DAMMUSI

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Gli interventi di eliminazione dei dissesti della copertura, sono i più difficili e particolari, e sono di due tipi. Nel caso in cui l’opera sia nel suo complesso ben conservata e si possa fare affidamento sulla resistenza residua dei materiali agli agenti atmosferici, è sufficiente effettuare la manutenzione o la revisione generale del manto di copertura. Nel caso in cui la volta presenti dissesti diffusi la prima operazione da effettuare consiste nella messa a nudo della struttura con l’eliminazione degli strati di rivestimento dell’estradosso della co-


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pertura che andrà pulita con getti d’acqua. La successiva operazione consiste nello svuotamento di parte della muratura interna, fino al raggiungimento della linea d’imposta. Per aumentare il grado di resistenza della volta è necessario intervenire con delle resine e delle lastre a fibre di vetro che assicurando una stretta connessione con la struttura originaria ne aumentino la resistenza a trazione. È bene adottare l’accorgimento dei risvolti agli angoli per il miglioramento dei collegamenti con i paramenti verticali. Si procederà con l’esecuzione del massetto di uno spessore 3-5 cm. A completamento della metodologia d’intervento si può rifinire la struttura con uno strato di calce riproponendo, così la soluzione finale del completamento del dammuso. L’intervento di restauro non è invasivo poiché non necessita di smontaggio della volta .ma solo del manto di copertura. Ci sembra necessario ricordare che l’intervento di ristrutturazione del dammuso non può limitarsi alla sola copertura, ma deve interessare tutti gli elementi costruttivi. INTERVENTI PER IL RECUPERO DEI SETTE PALAZZI

Per il restauro dei Sette Palazzi dovrebbe essere previsto un piano comunitario di risanamento, fino adesso si è proceduto arbitrariamente con il risultato di interventi di riconversione tipologica e funzionale che hanno smembrato l’organicità di ciascun palazzo in tante cellule che si caratterizzano nel prospetto con colori cromatici differenti. Andrebbe previsto un restauro unitario di tutti i palazzi tendente ad eliminare tutte le superfetazioni, le alterazioni tipologiche, le manomissioni, il degrado tecnologico e architettonico, con riassetto e ricostruzione tipologica. Per quanto riguarda la rete infrastrutturale nell’ipotesi di un risanamento conservativo andrebbe previsto per la bonifica l’interramento dei cavi elettrici. OBIETTIVI E AZIONI GESTIONALI

Il patrimonio storico pelagico necessita di strumenti di preservazione e conservazione affinché possa essere dichiarato patrimonio nazionale, per questo si ritiene necessario aggiornare lo strumento vigente con un Piano Regolatore che individui le zone di recupero del patrimonio esistente nel contesto delle zone già vincolate da leggi statali: 1089/1939 e 1497/1939. Le amministrazioni dovrebbero perseguire un programma politico teso alla salvaguardia di questo patrimonio storico e sociale. Per tale scopo è da prendere come esempio Alberobello in provincia di Bari la cui caratteristica sono i “trulli”, magnifici esempi di architettura in “pietra a secco”, che dal 1909 sono sottoposti a vincolo e dal 1923 dichiarati monumento nazionale. L’obiettivo è la valorizzazione e la salvaguardia dell’ambiente paesistico, storico e culturale delle pelagie nel quadro dello sviluppo turistico generale e nel progetto di maggiore leggibilità del territorio. A tale riguardo si richiedono leggi per la “Tutela dell’ambiente naturale e culturale caratteristico delle pelagie che concedano : • al Comune di Lampedusa e Linosa contributi a fondo perduto per interventi di espropriazione, restauro e risanamento conservativo di questi importanti manufatti che caratterizzano il territorio pelagico;

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• ai privati proprietari dei dammusi, per opere di risanamento conservativo, contributi in conto capitale; • la possibilità d’integrazioni nelle adiacenze di ambienti che esplichino la funzione di servizi. Si attuerebbe, così, un processo di rifunzionalizzazione che servirebbe ad interrompere il degrado e contemporaneamente innescherebbe un processo di riqualificazione del territorio. I piani di gestione dovrebbero contenere, inoltre dei Piani di Recupero che molto simili ai Piani Particolareggiati hanno come obiettivo specifico, il recupero del patrimonio edilizio esistente, attraverso interventi finalizzati alla conservazione, al risanamento, al restauro e alla ristrutturazione di singoli immobili e di intere aree che presentino nel loro complesso particolari condizioni di degrado. Risulterebbe utile annettere un “prontuario del restauro”, una guida tecnica che i progettisti potrebbero acquisire per tecniche di restauro più adeguate. Tra gli obiettivi gestionali riteniamo si possano accostare all’architettura del passato alcuni progetti d’ingegneria ambientale che riguardano la produzione di energia da fonti rinnovabili: solare, eolico; la progettazione di una rete di separazione delle acque grigie e acque nere. Legato alla riqualificazione della rete dei dammusi, inoltre, si potrebbe attuare un programma per il recupero delle tradizionali colture arido-resistenti per ridare identità al paesaggio agricolo. Quest’ultimo intervento andrebbe attuato soprattutto a Linosa dove l’economia agricola si è conservata fino a tempi recenti. Il recupero strutturale e funzionale del sistema dei dammusi è parte del progetto di maggiore leggibilità del territorio e di riqualificazione dell’entroterra delle isole pelagiche che servirebbe ad arricchire le isole di contenuti e risorse atte a ridurre il carico ambientale sullo fasce costiere. Potrebbe essere considerata l’ipotesi di inserimento dei dammusi all’interno di una progettazione per la riqualificazione dei percorsi naturalistici nell’entroterra delle isole, il quale attuerebbe la valorizzazione integrata della morfologia naturale e dell’insediamento storico. Il quadro così articolato fornirebbe al visitatore percorsi che vedono il susseguirsi di scenari che mostrano i valloni, i paesaggi desertificati, il parco regionale, il paesaggio agrario con i muretti a secco e come nodi di congiunzione, i dammusi che rappresentano una perfetta implementazione con le potenzialità naturali. Ma andrebbe, per un’azione vera di restauro, arrestato l’attuale approccio di restauro,da parte di tecnici che potremmo definire ambiguo, poiché il nulla osta fornito dalla Soprintendenza di Agrigento per un restauro conservativo si traduce in un demolizione e ricostruzione. Per monitorare l’effettiva azione di recupero andrebbe istituito all’interno dell’Ufficio Urbanistico un Settore Storico, responsabile di tutti gli interventi sul patrimonio storico, che vagli sia le richieste di autorizzazioni di restauro avanzate dai privati, sia che svolga attività di consulenza per gli interventi comunali. Questo studio ci ha permesso di dare il nostro modesto contributo alla conoscenza di un tipologia carica di un immenso valore storico-ambientale che rischia a causa del disinteresse di scomparire per sempre. Infine nell’ottica che l’architettura in “pietra a secco” è un bene che riguarda il patrimonio mondiale e che ha caratterizzato tutti i popoli del bacino del mediterraneo, ci auguriamo che possa nascere un coordinamento internazionale con lo scopo di affrontare tutti questi temi e di definire un sistema comune comportamentale da applicare alle specificità locali.


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Finito di stampare nel mese di marzo 2018



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