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Antonio Soncina
Solo tre gradi di separazione
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Copyright © 2017 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it Vincitore del premio “Trizzi di Pinseri” indetto da Satyr ISBN: 978-88-99751-14-2
Antonio Soncina, Solo tre gradi di separazione, Antipodes, Palermo 2017
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Se la bambina cominciasse a prendere lezioni di danza classica e riuscisse a fare gli esercizi con lo stesso entusiasmo con cui gioca, niente le impedirebbe di diventare una vera ballerina. Tutto ciò non accadrà mai. Pigrizia e paura di fallire prenderanno il sopravvento, e questi ragazzi diventeranno negozianti, tecnici informatici e casalinghe. Benjamin Nugent, “Storia naturale del nerd”
Ma ritornato a casa ebbe bisogno di lei, era come un uomo nella cui vita una passante appena intravista ha fatto entrare l’immagine di una bellezza nuova che conferisce alla sua propria sensibilità un valore più grande, senza sapere nemmeno se potrà mai rivedere colei che già ama e di cui ignora anche il nome. Marcel Proust, “La ricerca del tempo perduto”
He married trouble and had a courtship with a gun. Skid Row, “Eighteen and life”
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1997-PROLOGO
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144 ORIZZONTALI
S
aro Trovato cercava una voce notturna sul baracchino, per sottrarsi alla voce monocorde del suo Iveco e ai rettilinei di solitudine di fronte a sé. Lanciava una richiesta di CQ setacciando tutti i quaranta canali. I dialoghi non erano molto rapidi: c’erano rumori di fondo (QRM), scariche di elettricità statica in caso di pessimo meteo (QRN), l’attesa del segnale libero per non sovrapporsi, il ritardo nella trasmissione che costringeva a delle pause prima e dopo le frasi, la necessità di scandire le parole – a Saro non importava: l’asfalto volgeva alle spalle, l’alba correggeva i caffè con irrazionale ottimismo, la destinazione si avvicinava e con essa il rientro. Le prime volte al microfono non sapeva bene cosa dire dopo «Brecco» ma era stato accolto da altri con lo stesso desiderio d’intrattenersi scambiando banali «Che si dice?» Ognuno di loro si identificava con un differente QRZ, un soprannome: Motozappa, Blue Jeans, Asso di Bastoni, Caronte. Saro era Over the top, come il titolo di quel film su un camionista e il suo delicato rapporto con il figlio. Nessuno forniva indicazioni sulla propria identità, sulla frequenza radio dei 27 MHz si parlava con la bisarca di fronte, carica di auto ancora da immatricolare, oppure con un altro radioamatore nel raggio di una quindicina di chilometri. Saro aveva cominciato anni prima per resistere 7
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al sonno e alle proprie ansie di capofamiglia. Quella notte stava già pensando al ritorno a casa. Filippo e Roberto, i suoi figli di dodici e nove anni, avrebbero riconosciuto il suono della manovra di parcheggio, il calo di giri del motore, l’arresto e lo sbuffo finale, sarebbero corsi fuori per accoglierlo appena sceso dalla cabina. Gianna si sarebbe finta indaffarata nelle faccende domestiche, nascondendo il sollievo per il marito ancora tornato incolume. Lui avrebbe detto semplicemente: «Che mangiamo oggi?» oppure «Che si dice?» come al baracchino. Nonostante le ore accumulate sulla strada, Over the top avrebbe chiesto notizie sulla scuola ai bambini reticenti, raccomandando quindi: «A casa mia non voglio asini. Studiate!» A questo servono i padri, si diceva in quel momento alla guida. Con quei pensieri e lo sguardo della luna riflessa sul mare, avvenne l’incidente. Le mani di Saro non avrebbero più retto un volante ma dei manubri per impedire che l’accorciamento dei tendini gli conficcasse le unghie nei palmi. Saro era rimasto in centoquarantaquattro orizzontali cioè sdraiato nel letto numero due della stanza cinque al terzo piano del Cannizzaro, registrato come paziente n. 483/97, finché i familiari lo avevano portato a casa – prima quella abituale poi una molto differente. Adesso, nel 2004, sette giorni sarebbero stati decisivi per le sorti di Saro Trovato e della sua famiglia.
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LO SPECCHIO
«Aveva confidato ai suoi genitori i dubbi sulla sua sessualità?» «Temevo non mi capissero. Mio padre però lo aveva scoperto.» La memoria ricollocava Christian in un pomeriggio da adolescente. Una pausa dai compiti, il segnalibro su “La ricerca del tempo perduto” di Proust regalatogli dalle zie: “Senza dubbio le note che stiamo ascoltando tendono fin da allora, secondo la loro altezza e quantità, a coprire davanti ai nostri occhi superfici di varie dimensioni, tracciare arabeschi, darci sensazioni di vastità, di tenuità, di stabilità, di capriccio. Ma le note sono svanite prima che tali sensazioni siano abbastanza formate dentro di noi per non essere sommerse da quelle che già risvegliano le note successive, e anche le simultanee.” In quel passaggio Christian ritrovava il suo modo di filtrare la musica, darvi una rappresentazione visiva, sostituendo al plettro di un chitarrista la propria matita; ai pentagrammi, curve su una vasta pagina bianca, puro spazio senza traiettorie obbligate. A Christian piaceva andare dalle zie, sedere sulla vecchia sedia a dondolo con cui giocava da bambino, annacarsi1 e leggere qualcosa dalla loro libreria. Lì aveva scoperto Chopin e le sue note librarsi per le stanze 1
Dondolarsi
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di un castello ideale le cui pareti vibravano di emozioni romantiche che forse non esistevano più. Il ragazzo immaginava di essere un pianoforte la cui cassa armonica risuonasse per il tocco del pianista, a volte malinconico come nel notturno Opera 9 n° 2, altre volte brioso come nel preludio Opera 28 n° 3 o ancora spensierato come nei valzer che avrebbero avuto una perfetta collocazione sonora a casa Verdurin durante le visite di Swann. Christian mise da parte il libro e guardò alla finestra come a cercare le risposte ai dubbi dell’adolescenza; trovò invece antenne televisive come rastrelli del segnale televisivo, ospite fisso alla tavola di ogni casa; imposte da riverniciare, scrostate come il dettaglio di un quadro impressionista; una massaia ritirava la biancheria, un foulard a riparare capelli più bianchi di quanto lui ricordasse; in basso, bambini giocavano a pallone improvvisando una porta con due bombole del gas come pali; seduti su degli scalini, una coppia di fidanzati cercava riparo dal forte vento e una privacy non troppo distante dagli occhi della madre di lei. A casa Mandarà, Christian era solo. Entrò nella stanza dei suoi e si piazzò di fronte all’armadio, sulla cui anta centrale si trovava uno specchio a figura intera. Da bambino aveva giocato assumendo varie pose, adesso il ragazzo trovava fuori posto quel riflesso non coincidente con l’immagine della sua coscienza. La stanza aveva una voce, lo chiamava, gli chiedeva di girarsi – una cassettiera, alcuni ninnoli su un centrino ricamato a mano, cornici; dalla foto del proprio battesimo, lo fissava l’abito che indossava sua madre quel giorno. Christian aprì le ante, tirò fuori quel vestito datato ma ancora in buono stato e appoggiò la stampella sotto il mento. Tolse polo e jeans, mise il vestito per terra, vi entrò a piedi nudi e lo tirò su. Infilò le braccia nelle bretelle del10