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Orazio Carpenzano

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Orazio Carpenzano Architetto, Direttore DiAP Sapienza Francesco Calabretti e Ilia Celiento

Francesco Calabretti e Ilia Celiento: Per i diversi ruoli che ricopre e le varie attività che svolge, Lei fa parte di una rosa di architetti e docenti scelti per discutere del progetto come prodotto di ricerca, una questione che può essere analizzata da diversi punti di vista. Quale è il suo pensiero a riguardo? Orazio Carpenzano: Un nodo cruciale della questione, che attiene sia al libro della professoressa Amirante sia a quanto elaborato da me che dal professor Rossi e dalla professoressa Capuano, riguarda la natura di un progetto presentato come prodotto di ricerca.

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A oggi i prodotti di ricerca scientifca in architettura entrano con difcoltà in una griglia valutativa commisurata ai settori disciplinari bibliometrici. Per un progetto architettonico, che per sua natura tratta questioni metodologiche e tematiche prevalentemente contestuali, caratterizzato com'è da elementi di natura espressivo-poetica, è ancora più difcile formulare una valutazione basata su criteri oggettivi e commisurabili.

Come i colleghi coinvolti, faccio parte di quei docenti che si considerano progettisti. Tali rilievi sono dunque per noi fonte di rifessioni riguardanti la didattica, la Terza Missione. Essi concernono attività che rientrano nelle more di quei docenti che, assunti a tempo pieno per scelta o per necessità, non possono frmare i progetti e, pertanto, non hanno modo di misurarsi con la cogenza della realtà della produzione edilizia. Il risultato di questa impasse si rifette in un vulnus nella formazione di molti dei dottori di ricerca in composizione architettonica, quali siete

voi. D’altronde, questa impostazione istituzionale e culturale è determinata da regole che, da un certo punto di vista, imbrigliano e tengono in una condizione di assoluta particolarità il lavoro degli architetti docenti.

In un passaggio cruciale del libro di Roberta Amirante si fa riferimento al concetto di abduzione: il metodo abduttivo defnisce un procedimento del tutto particolare come quello progettuale, attraverso il quale si scavalca sia il termine induttivo che deduttivo, con una sorta di mixité tra i due. Su tale tema si può senz'altro aprire una prospettiva nella comunità disciplinare, soprattutto se si guarda la sub-specie delle vocazioni progettuali, compresa quella del paesaggio, e anche perché si sente la necessità di attribuire un’identità specifca al progetto, una riconoscibilità del prodotto di ricerca che vada oltre la mera apparenza teorica o la natura burocratica del prodotto.

IC: Credo che sia anche la volontà inconscia di dare un valore a ciò che si progetta. OC: Esatto. Su questo ho un’esperienza abbastanza consolidata, perché in questi anni ho continuato a progettare. Attualmente si stanno realizzando i progetti, da me coordinati, del Museo di Federico Fellini e del Museo della Grande Guerra di Redipuglia, svolto tra il 2014 e il 2015, e che, dopo una battuta di arresto, fnalmente andrà in gara. Per queste opere ho assunto la posizione di consulente per la qualità dell’architettura e attraverso questo ruolo, che non assume i connotati di un incarico professionale, ho potuto, di fatto, coordinare le scelte e le decisioni del team di progetto che dal canto suo esprime invece fgure professionali cui è richiesta ben altra responsabilità.

Sono disposto a rinunciare anche ai proventi del mio lavoro, a patto di poter dare un imprinting assoluto alle scelte sul progetto, attraverso un lavoro d’interfaccia costante con il team che di volta in volta si costruisce attorno a un tema di progetto. Questa possibilità, nel pieno rispetto delle regole vigenti in materia, mi consente (parzialmente) di continuare a mantenere attiva la mia rifessione creativa e la mia competenza operativa sul progetto e, di rifesso, insegnare qualcosa che vado sperimentando concretamente.

IC: Parlando di natura del prodotto di ricerca, ci sembra doveroso fare una domanda che per la propria formulazione può sembrare anche banale, ma è necessaria per ricondurci agli albori della rifessione. Che cosa è per Lei un prodotto di ricerca?

OC: In un discorso generale, il prodotto di ricerca è qualcosa che ha a che fare con due macro-questioni. Da un lato la continuità, in altre parole il fatto che ci sia, tra i diversi contributi che si succedono, una sorta di possibilità di rintracciare l’evoluzione e quindi uno stato di avanzamento del metodo e degli strumenti. Un ricercatore ha il dovere nei confronti della comunità scientifca in cui opera di poter lasciare tracce. Non può fare come il cane di Alice nel paese delle meraviglie, che con le zampe va avanti e con la coda cancella le proprie orme. Chi fa questo dimostra di avere una scarsa sensibilità nel rapporto tra l’individuo-ricercatore e la comunità scientifca: il lavoro svolto deve essere fatto per mettere gli altri nella condizione di poterne usufruire. È così anche nel momento storico in cui viviamo, dove gli scienziati studiano il Covid-19 e condividono a un ritmo serratissimo i risultati delle proprie ricerche, per permettere alla comunità scientifca di capire insieme quali sono state le strade percorse e di riuscire a fare una sintesi nella quale l’intuizione di uno, attraverso la correzione di molti o l’indicazione di altri, può diventare la risposta al problema.

IC: In questo modo si possono verifcare facilmente la formulazione e l’inizio di una nuova ricerca. OC: Sì, tanto è vero che nel capitolo fnale del mio libro La dissertazione in Progettazione architettonica (Quodlibet, 2017), cerco di spiegare cosa bisognerebbe dire alla comunità scientifca: a che punto della ricerca si è giunti, come si pensa che il lavoro debba continuare e possa essere accolto da altre fgure. Questo è possibile perché il buon ricercatore rende accessibile un metodo e degli strumenti in una certa dimensione e la persona che vuole continuare trova nel prodotto di ricerca un piccolo patrimonio da spendere nel proseguimento di quel lavoro.

Da questo punto di vista, il prodotto di ricerca rappresenta uno dei patrimoni più grandi dell’Università e in genere degli studi scientifci e delle strutture scientifche. È frutto di anni di studi e di una continuità che s’impegna tutti i giorni nelle ricerche applicate e teoriche. Questo patrimonio è indicativo sia in termini quantitativi, sia per la varietà della produzione, specialmente se è facilmente consultabile da chiunque e attraverso diferenti chiavi di lettura.

L’altra questione è la facilità d’accesso alla produzione scientifca da parte di un ricercatore. Si tratta di un elemento alla base di molte campagne di valutazione, anche della ricerca di Anvur e di sistemi come Iris, e rappresenta uno dei settori ai quali la comunità scientifca dedi-

ca maggiore attenzione. In architettura i processi si complicano, perché attraverso un progetto è molto difcile impostare un discorso comune e condiviso sulla tematica disciplinare. Se riusciamo a farlo è merito di chi ci ha preceduto, dei grandi maestri e dei grandi teorici della storia antica, moderna e contemporanea. Le Corbusier sviluppò il Modulor all'interno della lunga tradizione vitruviana. La scala di proporzioni ricavata e proposta dal maestro svizzero, trovava la sua radice nella Grecia classica e nella cultura rinascimentale.

In fondo, il Modulor è un compendio all’interno del quale l’opera del suo autore è dissezionata e declinata in rapporti dimensionali; dove i dati eccezionali sono disgiunti da quelli trasferibili, cioè quelli in grado di legare dal punto di vista qualitativo e quantitativo gli elementi che l’architetto ha messo in campo. D’altronde, i trattati di architettura, da Vitruvio in poi, sono da considerare luoghi in cui i progetti sono presentati come prodotti di ricerca, perché possiedono elementi dotati di una tempra universale, hanno misure e proporzionamenti che sono frutto d’idee, di dimensioni costruttive dentro le quali si sono verifcate tecnologie ed efetti euritmici relativi alla bellezza o alla gestione in senso lato della composizione. Un esempio è la “misura” di ciò che è misurabile e di ciò che non lo è, come la bellezza stessa.

IC: In un percorso scientifco, dove è fondamentale l’impegno profuso purché il progetto sia prodotto di ricerca, in che modo si manifesta l’attitudine alla ricerca? Questo termine è stato da Lei ripetuto in molti incontri seminariali, considerato come il corretto atteggiamento da assumere per uno studio di questo tipo. OC: Ne sono ancora fermamente convinto. Il giovane dottorando è un architetto speciale, perché dopo gli studi universitari rimane nella condizione di essere predisposto mentalmente alla ricerca. In lui si ripone l’auspicio che ne rimanga condizionato sempre e costantemente da tale predisposizione, anche quando progetta: in questo si diferenzia rispetto ad altre categorie di architetti. Si può dire che io sia stato ammaestrato dall’intero collegio di docenti attivo durante i miei studi. Ho discusso una tesi in cui i miei due tutor erano Rafaele Panella e Franco Purini, un cavallo bianco e uno nero: volevo che, come nella biga di Ben Hur, ci fosse chi mi frenasse e chi mi facesse volare. Ho avuto, quindi, maestri che mi hanno impartito un’eduzione alla disciplina progettuale ancora prima di un’educazione al progetto inteso come fuga espressiva dalla realtà. Questo non vuol dire che l’altro dato vada represso, anche perché

ognuno di noi ha dentro di sé - ed è il bello della nostra disciplina - delle doti che hanno a che fare con una personale poetica. Detto ciò, per entrare in quella condizione di architetto speciale di cui sopra, bisogna tenere insieme due aspetti: da un lato costruirsi un’educazione nella disciplina progettuale, che signifca capire come impostare un progetto sul piano metodologico e su quello tecnico-scientifco e, quindi, quali siano i passaggi fondamentali da non omettere; dall’altro, mantenere attivo il contributo creativo riferibile a un universo più grande, a rifessioni che toccano l’anima che hanno a che fare con i libri che leggiamo, con i flm che vediamo e con le esperienze che viviamo.

Quando si presenta un lavoro di progettazione come prodotto di ricerca, si mettono a disposizione della comunità scientifca tanto il materiale oggettivamente valutabile quanto ciò che non lo è. Ciascun autore è pertanto tenuto a ricostruire le fasi che hanno dato al progetto la propria identità e i fattori che hanno contribuito a defnirlo nell’approccio, nei temi, nella modalità del lavoro, in tutti i suoi database. Il progetto assume così un carattere teorico-dimostrativo, come evidenziato in molti lavori di Dottorato ante litteram. La Cité Industrielle, ad esempio, va letto anche come un prodotto di ricerca, essendo una rifessione progettuale - e non certamente scritta - redatta da Tony Garnier nel corso del proprio anno di studio nell’accademia di Roma. I meravigliosi disegni di Garnier attengono a una dimensione immaginativa, teorica, progettuale attorno a un tema all’epoca fondamentale: capire come l’architettura potesse impartire un ordine, una forma e dunque un senso al rapporto tra produzione industriale, città e sistema abitativo. Si tratta di un progetto carico di valore teorico-dimostrativo, la sua idea di fondo trascendeva la peculiarità del singolo contesto e le caratteristiche particolari del tema, ma abbracciava una categoria progettuale più universale. Allo stesso modo, se si volesse lavorare a una tesi di laurea sul teatro ideale oppure sulla casa ideale, bisognerebbe necessariamente avventurarsi all’interno di un registro nel quale gli elementi universali del tema sono distillati prima ancora della sua trasfgurazione o del suo inveramento in particolari condizioni di contesto. Si dovrebbero pertanto mettere in gioco una serie di strumenti e metodologie diverse da quelle di un progetto ordinario, più aderenti a fenomeni ed elementi universali dell’architettura. In questa categoria di necessità, allo stesso modo, può essere incluso il manuale dell’architetto: se è chiaro che la manualistica e la teoria sono due categorie diverse, tuttavia gli utilizzi dell’una e dell’altra sono molto concreti. Invertendo gli aggettivi che normalmente si attribuiscono ai due

casi singolari, possiamo afermare che niente è più concreto di una buona teoria e niente può essere tanto astratto quanto un ottimo manuale.

IC: Vorremmo continuare a parlare con Lei sul confronto che coesiste tra l’architetto teorico e l’architetto progettista. FC: Lei ha la fortuna, onore e onere, di essere anche Direttore del Dipartimento di Architettura e Progetto, quindi ha una sua visione come architetto, ma anche come responsabile della ricerca che in tal senso deve dare una corretta linea guida in un settore universitario. Da Direttore, dunque, come svolge un lavoro scientifco con l’intento di guidare i ricercatori? OC: È molto vero che, ricoprendo il ruolo di Direttore di Dipartimento e ad interim anche quello di Coordinatore del Dottorato, sento forte questa responsabilità. Posso dire quello che ho fatto, che sto facendo e che avrei intenzione di fare. Ho implementato, in termini di spazio e unità di personale, una struttura che si chiama Centro Progetti DiAP, accessibile anche nel portale web del Dipartimento. Questo signifca - come dimostra la mostra Intramoenia, esposta allo Iuav a cavallo tra il 2017 e il 2018 dedicata ai lavori recentemente svolti dal nostro Dipartimento - che si può progettare intramoenia e rivendico il fatto di aver creduto molto in questa modalità. Negli ultimi anni abbiamo (intendo molti di noi del DiAP) progettato in house opere come la stazione della Metro C di San Giovanni a Roma, il corso di Lanciano, la scuola di Accumoli e stiamo producendo il progetto Sapienza a Pietralata, che ho avuto l’onere e l'onore di ricevere in eredità dal professor Panella.

Questa struttura operativa consente ai professori aferenti al Dipartimento la possibilità di progettare attraverso commesse dirette da enti pubblici. Si tratta di una struttura la cui fnalità principale è favorire e quindi supportare lo sviluppo di progettazione interna all’ateneo e per conto terzi, monitorarne la qualità dell’impegno, le competenze di carattere professionale, l’utilizzo di attrezzature adeguate e la realizzazione di prodotti trasmissibili, compresi anche i modelli fsici di architettura. Nello specifco, ho impiantato un laboratorio di progettazione modellistica e l’architetto Alessandra Di Giacomo, esperta di modelli di architettura, oggi afanca l'architetto Maurizio Alecci che coordina il Centro Progetti. Di volta in volta, ogni progetto è afdato a un responsabile scientifco o a un progettista incaricato ma può essere svolto anche dal responsabile del Centro Progetti in virtù delle competenze che sono richieste allo scopo. Quando si fanno ricerche di natura applicata, nel Centro Progetti lavorano dottorandi, collaboratori, assegnisti. Tale

struttura dipartimentale si occupa anche della gestione delle manutenzioni ed è attiva nel supportare anche l’Amministrazione Centrale per l’elaborazione di progetti particolarmente rilevanti per i quali, quando è necessario, si formano delle vere e proprie task force in ordine alla multidisciplinarità dei molteplici saperi di cui Sapienza dispone. Con la professoressa Giovannelli sto progettando la riabilitazione dell’edifcio del Dopolavoro di Ateneo disegnato da Minnucci all’interno della Città Universitaria, un vero capolavoro. A oggi la fase progettuale è terminata e, allo stesso modo, sono terminate le fasi di validazione da parte degli organi preposti. In tali occasioni la ricerca svolge un ruolo centrale: nel corso del lavoro ad esempio abbiamo avuto modo di confrontarci con il progetto originario di Minnucci e scoprire così la grande cupola nella sala del ballo, che una precedente e infausta ristrutturazione aveva nascosto con l’interposizione di un solaio in laterizi. Inutile dire che per la redazione del progetto sono stati indispensabili i giovani ricercatori e i dottorandi che hanno collaborato.

Un Dipartimento come il nostro deve avere queste prerogative, rappresentando un’istituzione universitaria in grado di gestire progetti complessi con la necessaria attenzione alla qualità anche su piani successivi a quelli della ricerca preliminare. E tali prerogative vanno divulgate al massimo livello possibile. Nella collana delle pubblicazioni di Dipartimento, DiAP Print, una sezione è dedicata ai progetti come prodotti di ricerca. Si trovano lavori in cui la ricerca teorica è dominante rispetto a quella progettuale, ma anche volumi in cui sono presentati progetti realizzati, come il Masterplan di Viterbo o la già citata stazione per la metropolitana della linea C, che afronta il tema dell’archeologia urbana (Archeologia per chi va in metro). Prossimamente vorrei implementare il lavoro del Centro Progetti con il contributo e il tirocinio dei dottorandi che si accingono al secondo anno, dando loro la possibilità di partecipare direttamente a progetti di architettura sotto la guida dei vari docenti responsabili.

IC: La teoria e il progetto sono uniti da una fase intermedia che va studiata e afrontata per giungere alla corretta conclusione di un percorso scientifco come il Dottorato di ricerca, così come anche descrive nel libro La dissertazione in Progettazione architettonica (Quodlibet, 2017). FC: Questo ci porta a rifettere su quanto e come possano essere applicate le competenze scientifche acquisite da un architetto che si dottora. Se viene a mancare la parte metodologica-applicativa, la nostra formazione non può es-

John Tenniel, Illustrazione originale del romanzo Alice nel paese delle meraviglie, 1865

sere completa. Secondo noi, non può esserci progetto architettonico senza quello teorico e viceversa, allora esiste realmente una sottile linea di demarcazione tra i due? IC: Se esiste, qual è? E da cosa è composta? OC: Dietro la domanda si legge la vostra posizione, che condivido pienamente. Una teoria, per essere una buona teoria scientifca, deve soddisfare sostanzialmente due requisiti: descrivere accuratamente una serie di cose, fare delle osservazioni empiriche in conformità a modelli che diano preminenza all’oggettivo rispetto all’arbitrario; e formulare prefgurazioni per future osservazioni. Molto spesso lavoriamo in questo senso osservando il fenomeno urbano. Spesso nei libri di teoria afermiamo ipotesi su come saranno in futuro le città, il lavoro, l’abitazione, le strade, le piazze, i supermercati, le stazioni, il nostro patrimonio.

Così, la descrizione degli eventi è entrata a far parte di studi sull’architettura concernenti il fenomeno urbano: questo è avvenuto in molti autori importanti come Saverio Muratori, Giuseppe Samonà, Aldo Rossi, Carlo Aymonino, Giorgio Grassi, anche Zaha Hadid, Peter Schumacher, Rem Koolhaas e altri. Costoro, cercando di essere molto accurati rispetto a ciò che hanno osservavato, hanno tentato di tenere insieme, nella varietà dei fenomeni, alcune costanti come elementi meno arbitrari del ragionamento, deducendo in sintesi una serie di constatazioni. Tali osservazioni di natura prevalentemente empirica non si sarebbero potute efettuare se non confrontandosi con la realtà e lavorando sul campo. I prelievi di queste osservazioni, dei tessuti, degli elementi universali dell’architettura, hanno a che fare con la realtà e con il progetto.

Quando Le Corbusier ha presentato quella bellissima lezione sulla fnestra mettendo insieme, come elemento universale dell’architettura, le fnestre di tutte le epoche - da quelle delle caverne, dell’architettura rupestre, alla fnestra gotica e alla sua fnestra in lunghezza - ha estrapolato le proprie osservazioni empiriche sulla base di modelli che contenevano pochi elementi arbitrari, e ha quindi cercato di formulare delle predizioni sul futuro che derivassero direttamente da tali osservazioni. La sua comunicazione è avvenuta attraverso il disegno ed è stata dunque in grado di contenere sia l’elemento pratico, fenomenologico, empirico, sia l’elemento rifessivo e teorico. I due aspetti sono congiunti: non si può avere nessuna teoria scientifca e non si può avere nessun lavoro di approfondimento teorico senza l’unione di queste due componenti. Se potessimo mettere insieme la pratica e la teoria senza avvertire sempre il peso dell’una sull’altra, cercando di tenerle in un rapporto di equipollen-

za, staremmo facendo un ottimo lavoro, perché la pratica senza la teoria non vede, e viceversa. Perché siano dotate di “occhi per guardare”, hanno bisogno di indossare l’una gli occhiali dell’altra. Infne, considero la teoria un elemento che deve rendere consapevole l’osservazione. D’altra parte, l’agire inconsapevole è quasi sempre privo di teorie.

IC: In sintesi, quali possono essere le metodologie applicative con cui rendiamo pratica la teoria? Così da trasformare uno strumento di ricerca in un progetto teorico e architettonico, nella pura conclusione che coesistono. OC: La teoria - ed è quello che dottorandi come voi dovreste sperimentare - diviene un mezzo per guidare e confrontare le domande che emergono in sede didattica o durante un tirocinio che si svolge nel corso di un atelier o in un tavolo di progettazione. C’è bisogno di un rapporto dialettico con la pratica per rivedere e riformulare principi e anche per spiegare fatti o fenomeni, specialmente quelli già validati e ampiamente accettati da parte della comunità. Per esempio, è eclatante la ricerca sul tipo architettonico. L’avvento del libro di Carlos Martì Arìs, Las variaciones en la identidad : ensayo sobre el tipo en arquitectura (Ediciones del Serbal, 1993), ha rotto completamente il modo in cui si guardava alla tipologia. Quindi il libro, frutto di una ricerca che tentava di risolvere problemi, sorti nel corso dello studio del tema, ha posto alla comunità una rifessione critica. Da questo punto di vista, essa ha richiamato un insieme di principi per spiegare fatti - e quindi anche fenomeni - già validati, accettati pedissequamente e non più discussi.

Detto ciò, la ricerca modifca anche quello che defnisco il dominio educativo e delle volte un progetto riesce a dare un impulso molto più grande di tante parole scritte in un libro. Può essere il caso di un progetto di una casa disegnata da un gruppo di giovani che vogliono sperimentare nuovi assetti distributivi, rimettendo in discussione il ruolo che il corridoio deve avere rispetto alle stanze che disimpegna o il rapporto che deve avere la zona notte con il living; oppure di un progetto che disegna piazze che non sono spazi aperti involucrati dal costruito, ma tappeti volanti, aree spazio che misurano un ambito aldilà dell'idea di un recinto perimetrale. In queste occasioni s’insinua una dimensione in grado di sovvertire ciò che è validato ed è accettato dalla comunità che a sua volta si apre verso un’altra dimensione nella quale il dominio teorico, educativo, progettuale è messo in discussione. Quando ciò si attua con successo si ha innovazione, perché osservazione ed esercizio si misurano e agiscono interconnessi nella realtà.

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