Germano Dionisi e Maria Giovanna Garuti (a cura di)
I GIARDINI DELLA FORMAZIONE Prefazione di Italo Fiorin Postfazione di Gianluca Bocchi
ARMANDO EDITORE
Sommario
Prefazione: La centralità della formazione di ITALO FIORIN 1. Scenario 1.1. 1.2.
2.
Approcci 2.1. 2.2. 2.3.
3.
Il paradigma della complessità La dimensione Life Long Learning Un bivio Il modello funzionalista Il modello antropocentrico
Prospettive 3.1. 3.2.
Promuovere competenze Professionista riflessivo
Considerazioni conclusive PARTE I: FORMARE, EDUCARE NELLA ED ALLA COMPLESSITÀ
Capitolo 1: Soggetto e apprendimento: conoscenza, identità e relazioni (L’apprendimento nell’era della tecnica) 1.1. Complessità, apprendimento e formazione 1.1.1. Complessità 1.1.2. Apprendimento 1.1.3. Formazione
Riferimenti bibliografici 1.2. La costruzione della soggettività nell’ambito dell’intersoggettività. L’incontro tra sé e l’altro 1.2.1. Persona come comunità 1.2.2. Etica ed estetica quale ruolo giocano nell’integrazione tra sistemi? 1.2.3. La dimensione corporea 1.2.4. Il mondo disponibile 1.2.5. Persona intesa come processo
13 13 13 15 17 17 17 18 20 20 23 25 27
29 30 30 32 34 37 37 37 38 38 40 41
1.2.6. La costruzione attiva dell’identità 1.2.7. La coscienza e la sensazione del sé 1.2.8. Il darwinismo interpretativo 1.2.9. L’intelligenza connettiva 1.2.10. La mente estesa 1.2.11. Confine: demarcazione o interfaccia?
Riferimenti bibliografici 1.3. Apprendimento e identità 1.3.1. Soggetto e apprendimento 1.3.2. Identità e contemporaneità 1.3.3. Identità, apprendimento e narrazione
Riferimenti bibliografici 1.4. La dimensione interculturale tra apprendimento e formazione 1.4.1. L’accesso e il diritto alla formazione 1.4.2. La prospettiva interculturale in campo educativo 1.4.3. La formazione interculturale 1.4.4. Il campo dell’educazione interculturale
Capitolo 2: La formazione come costruzione di luoghi e di spazi per apprendere e per cambiare 2.1. I setting per l’apprendimento. Introduzione al concetto di setting e la funzione del formatore come figura istituente 2.1.1. Che cos’è un setting 2.1.2. Caratteristiche e qualità dei setting formativi 2.1.3. Il formatore come giardiniere
Riferimenti bibliografici 2.2. Il gruppo come luogo di apprendimento del plurale 2.2.1. Conoscenza e post-modernità 2.2.2. Il piacere dell’incontro con gli altri 2.2.3. Anoressia sociale 2.2.4. Che cosa comporta questo possibile scenario per il lavoro di formazione?
Riferimenti bibliografici 2.3. Counselling, coaching, mentoring 2.3.1. Mentoring 2.3.2. Coaching 2.3.3. Counselling 2.3.4. La fase diagnostica e il patto psicologico tra consulente e soggetto 2.3.5. Pensieri conclusivi
Riferimenti bibliografici
42 42 44 45 46 48 49 49 49 52 54 57 57 57 60 65 72
77 78 78 80 84 86 86 86 88 90 91 93 93 95 96 97 98 101 103
2.4. Per una formazione riflessiva: promuovere e sostenere l’apprendimento nelle comunità di pratica
104 2.4.1. Introduzione 104 2.4.2. Le comunità di pratica come contesti sociali di apprendimento 105 2.4.3. La comunità di pratica da schema interpretativo a costrutto metodologico 108 2.4.4. Una diversa prospettiva di metodo: promuovere, sostenere e curare comunità di pratica 110 2.4.5. Prove di comunità di pratica: il caso degli insegnanti di matematica di una rete di scuole della Valle d’Aosta 112 2.5. Progettare l’ambiente formativo o progettare la formazione? 118 2.5.1. Progettare la formazione 118 2.5.2. L’organizzazione meccanicistica 119 2.5.3. Oggetti e dimensione antropologica 119 2.5.4. Progettare l’ambiente formativo 120 2.5.5. Apprendimento di pratiche e competenze 121 2.5.6. Global Curriculum Approach 124 Riferimenti bibliografici 126
Capitolo 3: Le metodologie come spazi di ricerca e di senso 3.1. La questione del metodo: dalla certezza all’invenzione 3.1.1. Il metodo: storia e prospettive 3.1.2. Una proposta per metodi generativi
Riferimenti bibliografici 3.2. Le metodologie esperienziali (qui e ora) come spazio per la trasformazione 3.2.1. Origini e caratteristiche del metodo 3.2.2. Attualità dei metodi esperienziali
Riferimenti bibliografici 3.3. L’approccio teatrale come strumento per formare alla complessità 3.3.1. I metodi teatrali per la formazione 3.3.2. Il laboratorio teatrale come modalità di e-ducazione
Riferimenti bibliografici 3.4. Musica e formazione: interpreti e interpretazioni 3.5. L’E-learning e le opportunità dell’autoformazione 3.5.1. Lo scenario: l’importanza dell’E-learning nel contesto socio-culturale attuale 3.5.2. Le tecnologie per la formazione on line nell’era del web 2.0 3.5.3. Il punto di vista teorico: comunità che creano conoscenza
129 130 130 133 135 135 135 139 142 142 143 144 149 149 159 160 161 163
3.5.4. Un esempio di ambiente per la formazione on line: il caso di AM.I.C.O.
Riferimenti bibliografici 3.6. Le metodologie come spazi di ricerca e di senso: il Cooperative Learning
165 167
168 3.6.1. Verso la ricerca di domande/risposte profonde nella professionalità docente 169 3.6.2. Il Cooperative Learning: metodologia che struttura la ricerca di senso 172 3.6.3. Il Cooperative Learning: metodologia utile a diversi stili di insegnamento 175 3.6.4. Patto di Corresponsabilità: un’esperienza in Cooperative Learning per la costruzione di un significato condiviso dell’educare 181 3.7. Le pratiche filosofiche 186 3.8. Cinema e formazione degli adulti: maneggiare con cura 194 3.8.1. Uso del cinema e dinamiche della formazione 194 3.8.2. Un linguaggio particolare 196 3.8.3. Principali modalità di utilizzo 197 3.8.4. Il cinema e le competenze dei formatori 199 Avvertenze finali 202
PARTE II: FARE FORMAZIONE: ATTIVARE PROCESSI FINALIZZATI ALL’APPRENDIMENTO (IL MESTIERE DEL FORMATORE)
203
Capitolo 1: Progettare sistemi e interventi formativi 1.1. L’analisi
205 206
1.1.1. La progettazione come sintesi/sistematizzazione dall’ideale al sostenibile a partire dalla lettura delle esigenze 1.1.2. Che cos’è l’analisi delle esigenze formative e a che cosa si applica 1.1.3. Dal bisogno al desiderio 1.1.4. L’analisi del ruolo organizzativo 1.1.5. Tipologia di analisi delle esigenze formative 1.1.6. Strumenti per l’analisi delle esigenze formative
1.2. La progettazione 1.2.1. La progettazione degli interventi formativi: premessa 1.2.2. La progettazione dell’architettura dell’intervento 1.2.3. Gli ingredienti del progetto formativo 1.2.4. Le sequenze didattiche
206 207 211 212 213 217 222 222 223 228 235
Capitolo 2: Valutare la formazione 2.1. La valutazione come ricerca 2.1.1. La valenza delle metodologie di ricerca nella valutazione 2.1.2. Le caratteristiche della ricerca valutativa 2.1.3. I tempi della valutazione 2.1.4. Servizi alla persona e valutazione
2.2. La valutazione nei processi di formazione 2.2.1. Alcuni aspetti concettuali nella valutazione della formazione 2.2.2. La valutazione della formazione e la valutazione dei risultati 2.2.3. Dalla valutazione della formazione al monitoraggio degli apprendimenti
Capitolo 3: Le prassi: modelli e strumenti di intervento 3.1. Le collaborazioni 3.1.1. Le collaborazioni interistituzionali a livello locale 3.1.2. Le collaborazioni a livello nazionale 3.1.3. Le collaborazioni a livello internazionale
In conclusione 3.2. La consulenza: l’esperienza dell’IRRE Valle d’Aosta 3.2.1. Un servizio per le consulenze 3.2.2. Autovalutazione di istituto: un esempio di consulenza Autovalutazione come processo 3.2.3. Considerazioni finali sul progetto di autovalutazione
3.3. Gli stage degli studenti 3.3.1. Il modello 3.3.2. Gli strumenti 3.3.3. La valutazione
3.4. Formazione dei docenti neo-assunti: riflessioni a partire da un modello sperimentato 3.4.1. Il quadro istituzionale 3.4.2. Tra ricerca e formazione 3.4.3. Il modello della ricerca-azione 3.4.4. Dalla ricerca-azione alle comunità di apprendimento 3.4.5. La scuola dell’infanzia 3.4.6. L’azione formativa nella scuola primaria e secondaria 3.4.7. Gli sviluppi futuri di implementazione del modello
Riferimenti bibliografici
239 240 240 242 244 246 247 250 252 261 265 266 266 268 268 274 274 274 277 284 285 288 288 290 292 300 300 302 303 305 311 313 317 318
Postfazione: Intervista/dialogo con Gianluca Bocchi
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Gli Autori
329
Ringraziamenti
335
Autori e parti
Daniele Agiman: parte I, cap. 3, par. 3.4 AA.VV., tratto da: IRRE Valle d’Aosta, ISMO Milano, Percorsi, processi e strumenti per la formazione (2003), parte II, cap. 1, parr. 1.1, 1.2 Andrea Bobbio: parte II, cap. 3, par. 3.4.2, 3.4.3, 3.4.5, 3.4.7 Stefano Cacciamani: parte I, cap. 3, par. 3.5 - parte II, cap. 3, par. 3.4.4, 3.4.6, 3.4.7 Marisa Cavalli: parte II, cap. 3, par. 3.1 Sergio Di Giorgi: parte I, cap. 3, par. 3.8 Germano Dionisi: parte II, cap. 3, parr. 3.2, 3.3, 3.41 Massimiliano Fiorucci: parte I, parr. 1.4.1, 1.4.2, 1.4.3, 1.4.4 Maria Giovanna Garuti: parte I, cap.1, parr. 1.1, 1.3, cap. 2, par. 2.1, cap. 3, parr. 3.1, 3.2, 3.3; parte II, cap. 2, par. 2.2 Paola Teresa Grassi: parte I, cap. 3, par. 3.7 Domenico Lipari: parte I, cap. 2, par. 2.4 Elettra Marconi: parte I, cap. 2, par. 2.3 Marco Orsi: parte I, cap. 2, par. 2.5 Daniela Pavan: parte I, cap. 3, par. 3.6 Rosi Tadiello: parte II, cap. 2, par. 2.1 Silvano Tagliagambe: parte I, cap. 1, par. 1.2 Vito Volpe: parte I, cap. 2, par. 2.2
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Prefazione
La centralità della formazione ITALO FIORIN
1. Scenario 1.1. Il paradigma della complessità Viviamo in un’epoca di transizione, che spesso viene definita con l’espressione post-industriale. Non si tratta di una definizione in positivo, ma di una indicazione temporale: un’epoca si è conclusa, siamo entrati in un nuovo periodo che ha i contorni ancora indefiniti. È tramontata la società industriale, l’espressione post-industriale indica una alterità e una distanza, ma segnala anche la difficoltà di definire compiutamente i tratti della nuova società. Tuttavia si possono individuare alcune caratterizzazioni forti, sufficienti a delineare questa nuova fase. La connotazione più rilevante è quella della complessità, una complessità che riguarda le interazioni fra gli individui, i gruppi, le organizzazioni, le istituzioni, le attività. Alla radice di tale complessità si colloca l’enorme sviluppo delle scienze e delle tecnologie, che ha contribuito a determinare in tempi brevi tanto una distanza dal recente passato quanto un divario, che va sempre più ampliandosi, tra i Paesi ricchi e quelli poveri del mondo. Uno dei principali problemi della cultura di oggi è come dominare tale complessità, e questo richiede che si riveda il tipo di apprendimento necessario e che si riconsiderino i processi formativi. Una seconda connotazione è relativa al cambiamento del modello di organizzazione della produzione. Nella società post-industriale il superamento del modello tayloristico di organizzazione del lavoro ha comportato un significativo spostamento dell’occupazione dalle industrie manifatturiere alle attività legate ai servizi, quindi, implicitamente, il passaggio da una concezione meccanica e quantitativa delle organizzazioni umane ad una logica nella quale acquistano sempre più valore gli aspetti qualitativi e relazionali. Se un tempo la società industriale si trovava ad essere caratterizzata 13
dalla predominanza di una concezione meccanica delle organizzazioni umane, in cui gli elementi fondamentali erano quelli della standardizzazione e della razionalizzazione e la gestione della attività economica era improntata a criteri squisitamente quantitativi, attualmente l’avvento della società dei servizi ha capovolto questa concezione. Oggi gli elementi maggiormente valorizzati sono quelli relazionali e innovativi, che non possono essere ridotti entro il paradigma della misurazione. Un simile mutamento ha permesso di riconoscere come strategico l’investimento sulle risorse umane, se si vuole garantire sviluppo sociale e produttivo. I cambiamenti ai quali assistiamo riguardano direttamente l’organizzazione, le modalità e i contenuti del lavoro; l’accento si è spostato verso il lavoro di gruppo, la soluzione di problemi, l’apertura al cambiamento, l’iniziativa, la creatività. Un terzo elemento che contribuisce a comporre il mosaico della cultura contemporanea è costituito dalla sempre più accentuata globalizzazione e liberalizzazione dei mercati del lavoro e dell’economia. In realtà la globalizzazione non è un fenomeno nuovo né recente, ma è innegabile che nell’ultimo decennio ha conosciuto una fortissima accelerazione (è aumentata in termini esponenziali la diffusione delle conoscenze, la circolazione delle idee e delle persone, oltre a quella, meno recente, dei beni e dei servizi). Le profonde trasformazioni dovute alla globalizzazione e alla liberalizzazione in campo economico hanno accelerato i cambiamenti in campo tecnologico e promosso una maggiore competizione internazionale. Tutto questo ha facilitato il passaggio dall’attenzione alla produzione di beni e servizi standardizzati per un mercato di massa ad una nuova attenzione, rivolta alla creazione di prodotti complessi per consumatori sofisticati e attenti non solo alla qualità del bene o servizio in sé, ma del contesto entro il quale il bene viene fruito o il servizio erogato. La crescita economica fondata sull’innovazione dei processi produttivi ha provocato un rapido cambiamento negli skills richiesti ai lavoratori e questo ha delle importanti implicazioni per quanto riguarda i sistemi formativi. Un quarto elemento caratterizzante il tempo che viviamo è costituito dalla condizione di incertezza, vista come dato non emergenziale, ma permanente. Come scrive E. Morin, il contributo più importante del sapere del XX secolo è stata la conoscenza dei limiti della conoscenza. La più grande certezza che ne è derivata è la consapevolezza della ineliminabilità delle incertezze (afferma il poeta Salah-Stétié: «unico punto pressoché certo del naufragio delle antiche certezze assolute: il punto interrogativo»). Se le cose stanno così la conseguenza da trarne è che dobbiamo imparare ad affrontare l’incertezza. Oggi appare molto più chiaramente quanto sia stato illuso14
rio l’aver coltivato il mito del Progresso, immaginando l’avventura umana come una sorta di felice corsa in avanti, sempre più esaltante e destinata a continuare per sempre. Il secolo che si è appena chiuso alle nostre spalle, il Novecento, ha mandato in frantumi questa grande illusione (basti ricordare lo scatenarsi della Prima guerra mondiale, i trionfi dei totalitarismi del comunismo e del nazismo, l’olocausto…, fino alla recentissima guerra dei Balcani o a quella, in corso, dell’Iraq…); il secolo che si è da poco inaugurato ha drammaticamente ribadito, con altre nuove guerre e drammi, la precarietà e l’incertezza come condizioni durature. Prepararsi a vivere nell’incertezza è ben diverso che rassegnarsi allo scetticismo e richiede di imparare strategie e comportamenti adeguati. Ci troviamo, dunque, dentro un nuovo scenario, che, come abbiamo appena detto, è caratterizzato da: a) Complessità b) Nuova organizzazione del lavoro c) Globalizzazione d) Incertezza L’insieme di questi elementi costituisce il nuovo sfondo nel quale pensare alla formazione, che da un lato viene ad assumere una centralità prima sconosciuta; dall’altro richiede un profondo rinnovamento culturale e metodologico. 1.2. La dimensione Life Long Learning Per gli antichi e fino a tempi non molto lontani, valeva il detto ogni villaggio è il mondo; il luogo di vita rappresentava, infatti, per la maggior parte delle persone, l’orizzonte intero della loro esistenza; oggi si utilizza la metafora del villaggio globale (è il mondo ad essere diventato un villaggio). Un simile capovolgimento è stato dapprima opera della pervasività dei media, e si è progressivamente accentuato grazie ai progressi della tecnologia, fino all’attuale esplosione delle informazioni e dei contatti di tutti con tutti, indipendentemente dalle distanze spaziali, in tempo reale. Oggi più che l’accesso alle informazioni si fa problematico il loro trattamento, e, prima ancora, la loro selezione, dal momento che siamo di fronte ad un mare indistinto di input in cui è assai facile naufragare. Diventa centrale lo studio degli apprendimenti da sviluppare per promuovere la capacità di ristrutturazione e riorganizzazione dei processi del conoscere, connessi alla plasticità, alla individualità e unicità del funzionamento bio-esperienziale degli individui, alla multiformità e irriducibilità biologica di quelli che vengono definiti learning styles. 15
L’esplosione del cambiamento ha grande rilevanza sui temi della formazione perché le esperienze individuali e la dimensione unica ed irripetibile delle soggettività adulte si trovano al centro di quei processi intenzionali, espliciti e organizzati che hanno l’apprendimento come oggetto specifico. In questo ambito si capisce bene come assuma rilevanza dirompente, sia rispetto alle biografie individuali che alle dinamiche sociali, il carattere qualitativo del cambiamento. La profonda trasformazione della società ci fa incamminare verso un’economia del sapere che prevede elevata qualificazione, alta tecnologia, crescente rilevanza delle capacità gestionali. Da qui la necessità di imparare per tutta la vita. I benefici di cui è portatore un soggetto in formazione continua ricadono su tutta la società. La formazione è sempre più intesa come la grande risorsa della società che apprende. Questo, a maggior ragione, vale per gli insegnanti, che, da un lato, in quanto formatori dei loro studenti, sono chiamati a rivedere la loro impostazione didattica spostando l’enfasi dalla trasmissione delle conoscenze alla facilitazione dei processi di apprendimento e allo sviluppo delle competenze; dall’altro sono essi stessi nella necessità di rimanere nel circolo continuo della formazione, e quindi necessitano che l’impostazione culturale e metodologica delle modalità formative per loro progettate siano profondamente rinnovate. Per poter assicurare la qualità dell’insegnamento è strategico investire in formazione. La trasmissione della conoscenza, qualunque sia la sua importanza, non deve essere il primo obiettivo della formazione, che deve mirare a sostenere, in ogni fase della vita professionale, il livello massimo del potenziale di apprendimento e di sviluppo. La scuola rinnovata ha bisogno di insegnanti competenti, capaci di fronteggiare problemi inediti, focalizzati sul problema di come favorire l’apprendimento significativo dei loro alunni, capaci di adeguarsi ad un clima di cambiamento permanente e di affrontare continuamente nuove sfide. Il concetto di apprendimento che una formazione all’altezza dei tempi deve tenere presente richiama l’importanza della soggettività, o, per dirla con Jarvis, dell’“impresa individuale”, ma anche “situata”, “contestuale”, “culturale” e “condivisa”. Del resto sono le stesse teorie dell’apprendimento a sottolinearne la dimensione sociale e la sua natura relazionale. Si evidenzia una delle caratteristiche più innovative delle moderne teorie dell’apprendimento e cioè l’attenzione al processo stesso e ai suoi aspetti qualitativi. Non interessano semplicemente le performances quanto i processi che l’individuo elabora nelle diverse situazioni. Certamente ci può essere apprendimento anche in situazioni occasionali, in esperienze casuali, nel corso della vita quotidiana, tant’è che proprio questa interazione o, tal16
volta, incongruenza fra la biografia individuale e l’esperienza dei contesti sociali costituisce una condizione riconosciuta per l’apprendimento in generale. Ciò che è rilevante in questo discorso è che, nella prospettiva life long learning, il concetto di apprendimento rinvia, in modo specifico, alle strategie che favoriscono negli individui lo sviluppo della capacità di apprendere, e alla qualità formativa dei processi e dei risultati che vengono realizzati. La life long learning non va intesa in vista di un ulteriore accumulo aggiuntivo di nuove conoscenze, ma come dimensione della persona da incrementare continuamente, in un processo.
2. Approcci 2.1. Un bivio Oggi non è più richiesta una formazione intesa come trasmissione di pratiche consolidate e di nozioni stabili, ma una formazione che sappia fornire competenze utili a fronteggiare il cambiamento continuo e l’incertezza che lo accompagna. Una volta abbandonato il modello della trasmissione (coerente con una realtà a basso tasso di cambiamento, con una cultura di tipo conservativo e con una concezione cumulativa del sapere) siamo ad un bivio, posti di fronte a quelli che appaiono i due principali approcci oggi disponibili, entro i quali pensare teorie e pratiche della formazione, entrambi capaci di assumere come riferimento fondamentale lo spostamento del focus dal processo di insegnamento al processo di apprendimento. Il primo è centrato sulla preoccupazione per i risultati, il secondo sulla qualità dei processi. Riprendendo una riflessione di M. Lichtner1, chiameremo il primo modello funzionalista ed il secondo modello fenomenologico, o, forse più propriamente, antropocentrico. 2.2. Il modello funzionalista L’approccio funzionalista punta sulla formazione di abilità, di tecniche, di metodi caratterizzati dall’efficienza, pone estrema cura nella definizione degli obiettivi, nella finalizzazione dei processi per il loro raggiungimento, nella accuratezza della verifica degli esiti preventivati. In termini estrema1 M. Lichtner contrappone al modello funzionalista il modello fenomenologico, sviluppando considerazioni analoghe a quelle da noi proposte a proposito del modello antropocentrico. Cfr. M. Lichtner, (1999), La qualità delle azioni formative, FrancoAngeli, Milano.
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mente sintetici potremmo definire tale modello in due parole: obiettivi-risultati. Dal che si capisce anche come la bontà dell’azione formativa messa in campo è data dalla perfetta corrispondenza finale tra obiettivi e risultati. La concezione funzionalista si pone nell’orizzonte teorico del comportamentismo. Guidata da un preciso convincimento: l’apprendimento dipende dall’insegnamento e da questo viene gestito. Oggi la concezione funzionalista appare culturalmente molto forte. La nostra società attribuisce un grande peso al valore della razionalità, e tale razionalità viene intesa come capacità di porsi e perseguire scopi, cioè in termini di efficienza ed efficacia. Quello però che sembra non essere adeguatamente considerato in questa prospettiva è il più complessivo discorso circa il senso delle azioni che definiamo razionali. Probabilmente la razionalità non basta, è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Non è sufficiente saper definire con precisione e poi raggiungere obiettivi specifici, mirati, controllabili, se non si possiede un orizzonte di senso (Bildung) complessivo che giustifichi le azioni intraprese. La razionalità ha bisogno di ragionevolezza, altrimenti può essere messa al servizio di obiettivi insensati o comunque non importanti2. In altre parole ancora, potremmo dire che la formazione da sola non basta, ha bisogno dell’educazione, cioè di una concezione valoriale complessiva e sovraordinata, che va esplicitata. 2.3. Il modello antropocentrico Il modello fenomenologico o antropocentrico, più che alla efficienza dei processi e alla corrispondenza tra obiettivi e risultati finali, è particolarmente attento alla qualità dei percorsi e quindi alla qualità dell’esperienza che le persone implicate nel processo formativo vivono. Non significa con ciò minimizzare la questione degli obiettivi, ma questi vanno definiti all’interno di un più ampio orizzonte di significato e va prestata una particolare attenzione alle esigenze di quanti sono coinvolti in vista del loro raggiungimento. Se non si può parlare di inversione mezzi-fini si può però affermare che anche le modalità del processo di acquisizione degli obiettivi vanno intese come fini, nel senso che non è rilevante solo il fatto che si conseguano i risultati attesi, ma, e ancora di più, l’esperienza di crescita personale che il raggiungimento dei risultati comporta ed anzi l’incremento dei risultati stessi, dal momento che accanto ad obiettivi prefissati si riscontra il raggiungimento 2 Forse il più tragico esempio di razionalità irragionevole è costituito dai campi di concentramento nazisti. Dal punto di vista dell’efficienza burocratica erano modelli, dal punto di vista del significato sono stati una tragedia.
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di obiettivi non preventivati, ma non meno rilevanti. Una simile concezione non ha nulla di romantico, non riflette una sorta di ingenuo idealismo pedagogico. Semplicemente poggia sulla convinzione che solo chi vive il proprio itinerario di formazione come percorso conoscitivo significativo sviluppa al meglio le competenze desiderate. In questa concezione viene data molta importanza alla dimensione interiore, all’autobiografia personale, alla motivazione alla crescita. Mentre il modello funzionalista si basa su incentivi di tipo estrinseco, legati ai risultati conseguiti e ai rinforzi in termini di apprezzamenti e riconoscimenti che ne derivano, qui la motivazione su cui principalmente si conta è intrinseca. Nel caso della motivazione intrinseca l’azione è interamente sotto il governo dell’individuo sia per quanto riguarda i contenuti, sia per quanto riguarda le modalità di attivazione e esecuzione. Si può quindi riconoscere che quando la derivazione della motivazione è eminentemente intrinseca essa risulta propria del soggetto, non deriva cioè da alcuna negoziazione o compromesso con l’esterno e contiene in sé la ragione della sua soddisfazione. Il filosofo e pedagogista americano J. Dewey ha affermato che l’educazione è sviluppo della persona, e questo fa sì che «il processo educativo non ha altro scopo che se stesso; è il suo proprio scopo» ed è «processo di continua riorganizzazione, ricostruzione, trasformazione»3. J. Dewey è l’antesignano di questa visione così diversa dal funzionalismo, che poi ha avuto molti altri autorevoli pensatori di riferimento. È la motivazione personale la molla dell’apprendimento e l’esperienza formativa, avvenga nella scuola o in altri contesti, sarà tanto più rilevante quanto più verrà sentita come personalmente significativa. Una seconda caratteristica dell’approccio antropocentrico è data dall’importanza del contesto sociale. L’organizzazione entro la quale si apprende non è indifferente, può favorire o meno il processo di apprendimento. In particolare, la principale risorsa che un’organizzazione possiede è data dalle persone che la compongono, e diventa importante la capacità che essa ha di favorirne la piena valorizzazione. In campo formativo questo significa utilizzare al meglio le interazioni possibili all’interno di una situazione di apprendimento, con la consapevolezza che gli scambi di comunicazione tanto più saranno efficaci quanto più saranno ricchi e non semplicemente unidirezionali, come nella situazione della lezione tradizionale. Il confronto fra prospettive diverse, la discussione e la negoziazione dei punti di vista, la riflessione in gruppo, la valorizzazione della molteplicità di idee già presenti nei partecipanti al processo formativo, tutto questo contribuisce alla significatività e all’efficacia dell’apprendimento. Anche l’approccio funzionalista 3
Dewey J., (1959), Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Firenze.
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riconosce l’importanza delle persone e dei gruppi all’interno del processo di formazione (le risorse umane) e il ricorso a metodologie di lavoro di gruppo è ben presente. La sottolineatura della dimensione sociale come risorsa e dell’importanza delle relazioni interpersonali, in prospettiva antropocentrica, riguarda però il fatto che il gruppo non è inteso semplicemente per l’apporto strumentale che può offrire, ma per la significatività che le relazioni umane rivestono per la persona. La cura del clima relazionale non nasce da una considerazione strumentale, ma è componente essenziale dell’esperienza, è, si potrebbe tornar a dire, fine e non mezzo. Nell’interazione si sviluppa coesione, così che i membri si riconoscono appartenenti al gruppo, stretti da legami e orientati a scopi comuni. La coesione è la prima colla che sta alla base della formazione del gruppo, della condivisione delle regole, del sentimento di piacere che deriva dallo stare con gli altri. Il contrario della coesione è l’indifferenza, la mancata percezione di essere coinvolti insieme. Tuttavia l’interazione non è sufficiente a definire un gruppo di lavoro. Il passaggio fondamentale è quello dell’interdipendenza, cioè l’acquisizione della consapevolezza dei membri di un gruppo di dipendere gli uni dagli altri, e quindi il senso della necessità reciproca. Dall’interdipendenza l’evoluzione porta all’integrazione tra i membri e alla collaborazione. La collaborazione si fonda sulla relazione di fiducia fra i membri, sulla negoziazione continua di obiettivi, metodi, ruoli, leadership e sulla condivisione delle decisioni e degli esiti.
3. Prospettive 3.1. Promuovere competenze L’idea di competenza, che si è diffusa in anni recenti, si sta rivelando come una delle idee forti oggi presenti in campo educativo, capace di polarizzare i processi formativi. Una volta riconosciuta la centralità della persona, la preoccupazione di favorirne lo sviluppo delle competenze viene posta al centro dell’intero sistema di formazione ed ogni aspetto della didattica, dalla progettazione, alla conduzione delle attività, alle modalità organizzative, alle regole istituzionali, va pensato alla luce di questo importante riferimento. Ma che cosa intendere per competenza? In letteratura si trovano numerose definizioni, anche molto diverse tra loro, e ci si imbatte in un linguaggio estremamente vario (si parla di competenze trasversali, disciplinari, cognitive, immaginative, sociali, di base, tecnico-specialistiche, di comportamenti misurabili, di disposizioni inna20
te…). Vi è però, pur nella varietà, un nucleo di significato su cui si può concordare: la competenza è un complesso integrato di conoscenze, abilità, atteggiamenti, motivazioni, che permette alla persona di individuare e risolvere, in modo efficace e originale, i problemi che incontra in un determinato campo. La competenza può essere intesa come il risultato dell’interazione tra soggetto e contesto. Se le competenze sono il risultato di una costruzione personale, come possono essere pre-definite e programmate? La difficoltà nasce dal fatto che le competenze non possono essere intese come dei superobiettivi da proporre, far perseguire, verificare e valutare. Sono, piuttosto, delle prospettive di sviluppo lungo le quali vanno indirizzate l’acquisizione e l’utilizzazione dei singoli apprendimenti. Come tali, le competenze non sono mai completamente compiute, sono, piuttosto, sempre ulteriormente incrementabili, proprio perché non smettiamo mai di interagire con l’ambiente e di imparare dalla nostra interazione. Le competenze sono una costruzione del soggetto, ma questo vale per ogni tipo di apprendimento, anche per le singole conoscenze e abilità. Ormai siamo consapevoli che l’apprendimento non è la conseguenza meccanica, deterministica, dell’insegnamento, ma è una costruzione originale di ciascuno, influenzata da esperienze precedenti, da personali stili dell’apprendere, dalle emozioni e dagli stati affettivi. Il discorso sulle competenze si ricollega al ruolo attivo e costruttivo del soggetto. Quali sono le implicazioni di carattere formativo? Bisogna tener conto del fatto che le persone non reagiscono solo agli stimoli esterni, ma gli stimoli influenzano i comportamenti con la mediazione dei processi cognitivi, per cui diventa importante, ancora più che l’organizzazione degli incentivi, l’attenzione posta a suscitare l’automotivazione. La funzione del formatore è per certi versi paragonabile a quella del regista che organizza lo sfondo in cui avviene lo sviluppo cognitivo del soggetto: prepara gli scenari, i materiali, prevede i collegamenti, ipotizza i percorsi, ma anche valorizza lo spunto non programmato, sa far fruttificare l’imprevisto. Scrive Alessandrini: «La formazione continua, nella sua accezione più ampia, sottolinea il senso dell’orientamento verso la professionalità come progetto educativo di vita e lavoro. Cogliere il valore centrale delle competenze significa sottolineare la condizione evolutiva del soggetto adulto in formazione, sia nell’ambito dell’offerta formativa che delle altre fasi di un iter formativo. Le competenze non sono infatti i risultati comportamentali precodificati e chiusi, ma potenziale di risorse cognitive che si innesta nella persona intesa nel senso più ampio di “progetto cognitivo e affettivo” che interagisce con il sociale nell’ambiente professionale e nella comuni21
tà civile. La valenza educativa di un modello centrato sulle competenze si identifica pertanto nella capacità della persona di investire nei processi di apprendimento e sviluppo nel senso più pieno»4. A proposito dei metodi didattici utilizzabili per la formazione, M. Bellotto5 distingue tra: a) orientamento pedagogico-didattico; b) orientamento psico-sociale; c) orientamento animativo-espressivo; d) orientamento curativo-aggregativo. L’orientamento pedagogico-didattico è centrato sui contenuti e, quindi, ha come scopo la trasmissione delle conoscenze. Le modalità metodologiche che si rifanno a questo orientamento sono molteplici, dalla lezione in aula, ai lavori di gruppo dedicati all’approfondimento tematico…). Si tratta, perciò di un orientamento prevalentemente espositivo, che ha il suo focus nei contenuti. L’orientamento psico-sociale ha, invece, il suo nucleo caratterizzante nella valorizzazione dell’esperienza dei partecipanti, che diventa oggetto di riflessione, all’interno di un gruppo che apprende nell’interazione con un formatore. Le modalità metodologiche riguardano le varie forme del lavoro di gruppo. Anche l’orientamento animativo-partecipativo punta sul gruppo, e predilige tecniche di animazione, facendo attenzione anche alle dimensioni affettive ed espressive, non solo a quelle cognitive. L’orientamento curativo-aggregativo è attento a favorire la rielaborazione delle esperienze personali, mutuando dall’analisi terapeutica molte modalità (tecniche di rispecchiamento, psicodramma, terapia centrata sul cliente…). I diversi metodi didattici rappresentano un patrimonio professionale a disposizione dei formatori, strumenti da conoscere per poter consapevolmente scegliere e alternare, che vanno interpretati didatticamente in situazione, non certo applicati rigidamente ed in maniera esecutiva. Al riguardo è opportuno un approccio non ideologico, ma professionale: «Proporre un’analisi logica dei vari metodi e delle strategie significa ridimensionare la ricerca di un metodo risolutivo, capace di far fronte a tutte le occasioni e a tutti i problemi e dare agli insegnanti un bagaglio di competenze a cui attingere secondo le varie situazioni»6. 4 Alessandrini
170.
G., (1998), Manuale per l’esperto dei processi formativi, Carocci, Roma, p.
5 Bellotto M., Trentini G., (1996), Culture organizzative e formazione, FrancoAngeli, Milano, p. 74 e ss. 6 Montedoro C. (a cura di), (2001), La personalizzazione dei percorsi di apprendimento e insegnamento, FrancoAngeli, Milano, p. 86.
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3.2. Professionista riflessivo Schoen definisce l’insegnante professionista riflessivo7 per segnalare una componente della professionalità docente da lui considerata fondamentale. Riflessivo è l’insegnante che non si limita al fare scuola, non si accontenta di accumulare esperienza per considerarsi competente, non si affida a routine consolidate, ma è attento a riconsiderare le proprie pratiche, a vagliarle criticamente, perché è interessato e disponibile ad imparare dall’esperienza. Un aspetto non trascurabile dell’atteggiamento riflessivo è la considerazione della relazione tra insegnante ed alunno come non scontata, ma continuamente migliorabile, ed il desiderabile miglioramento non viene messo in conto esclusivamente all’alunno (che dovrà impegnarsi di più, stare più attento, esercitarsi…), ma coinvolge l’insegnante stesso, implicato in maniera profonda nella relazione e quindi nella responsabilità del rapporto. Oggi la relazione tra insegnamento-apprendimento è considerata focale per la didattica, precedentemente sbilanciata sul polo dell’insegnamento8. La versione più tradizionale della relazione didattica centrata sull’insegnamento è quella della lezione cattedratica, che prevede la trasmissione del sapere da chi sa a chi non sa, versione che conosce molte varianti, ma che è ancora, probabilmente la più diffusa, vista la matrice fortemente gentiliana che ha informato il nostro costume scolastico. La parola dell’insegnante e il manuale rappresentano gli strumenti didattici prevalentemente usati. Una versione più evoluta è legata alla maggiore attenzione oggi attribuita alla mediazione didattica, e all’importanza che assumono diversi mediatori. Già J. Bruner, nel suo testo considerato un classico della didattica moderna Verso una teoria dell’istruzione9 richiama l’importanza che assume per lo studente il poter utilizzare una gamma di sistemi di rappresentazione piuttosto ampia, che comprende oltre ai mediatori simbolici anche quelli attivi e quelli iconici. Un autore che, in Italia, ha dedicato molta attenzione al sistema dei mediatori è E. Damiano, che arricchisce la gamma dei mediatori considerati e cerca di collegarli alle pratiche didattiche più diffuse nella nostra scuola10. La valorizzazione dei mediatori didattici arricchisce la qualità 7
Cfr. Schön D., (1987), The reflective practitioner, Basic Books, New York. Molte sono le definizioni di didattica, ma quella che meglio mette a fuoco il suo “oggetto” è di intenderla come la scienza della relazione tra l’insegnare e l’apprendere, all’interno di un contesto. La didattica non va considerata come un sapere che riguarda esclusivamente l’insegnamento scolastico, anche se è questo il modo più diffuso di concepirla. Ogni situazione nella quale ci sia la preoccupazione di favorire l’apprendimento di un qualsivoglia “oggetto” (informazioni, tecniche, procedure…) da parte di chi è, al riguardo, competente in favore di chi non lo è, appartiene al campo della relazione didattica. Al riguardo cfr. Fiorin I., (2004), La relazione didattica, La Scuola, Brescia. 9 Cfr. Bruner J., (1971), Verso una teoria dell’istruzione, Armando, Roma. 10 Cfr. Damiano E., (1993), L’azione didattica, Armando, Roma. 8
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dell’insegnamento e consente il ricorso ad una molteplicità di approcci che, si suppone ragionevolmente, allargano l’efficacia dell’azione didattica. Ma è pericoloso mettere gli esiti dell’apprendimento esclusivamente a carico dei modi dell’insegnamento. Damiano ha sviluppato una robusta critica alla cosiddetta pedagogia per obiettivi, che si regge sulla presupposizione che gli apprendimenti corrispondano, come gli effetti alla causa, all’insegnamento impartito, siano rigorosamente preventivabili e, in sede valutativa, riscontrabili in termini di comportamenti esibiti11. In realtà la relazione è molto più complessa, anche se non si vuole negare l’influenza che la qualità dell’insegnamento ha circa gli apprendimenti degli alunni. Troppe sono le variabili che entrano in gioco, non tutte facilmente individuabili e su molte non c’è la possibilità di intervenire. Oggi si è consapevoli che non basta saper analizzare i contenuti dell’insegnamento, selezionarne gli aspetti essenziali, predisporre un curricolo graduato e ben strutturato, nel quale gli obiettivi didattici rappresentino le tappe chiaramente definite di un percorso disciplinarmente convincente e appare importante spostare l’attenzione sui modi e sugli stili dell’apprendimento e sul contesto entro il quale la situazione didattica si realizza. Un ruolo molto importante lo gioca il contesto entro il quale avviene la relazione didattica. In realtà, più che di parlare, al singolare, di contesto, si dovrebbe fare riferimento ai diversi contesti che, uno dentro l’altro come le bamboline russe, fanno da cornice a quanto avviene in aula. Anzi, l’aula stessa è contesto non neutro, asettico, ma dinamico e molto influente. Conta molto il clima relazionale che informa le comunicazioni che vi accadono, così come la rete di relazioni sociali che si costruisce. Ma quanto avviene all’interno dell’aula ha uno sfondo più ampio, dato dall’organizzazione della scuola, dalle regole istituzionali che ne scandiscono il ritmo e ne connotano la qualità. Alla scuola come organizzazione che influisce sull’apprendimento è dedicata una vasta letteratura12. Ma si può risalire a contesti ancora più ampi, e però molto influenti, che riguardano l’ambiente sociale e culturale. Come una ormai vastissima letteratura sta a dimostrare, il peso che i condizionamenti sociali rivestono è molto elevato, e la lotta agli svantaggi che derivano da contesti deprivati è ben lontana dall’essere vinta. L’analisi dell’insegnamento è una operazione complessa proprio perché non può essere sufficiente una considerazione lineare che metta direttamente in relazione interventi ed esiti, l’insegnante non è fuori dal set, ma vi è implicato, ed il contesto va preso in attenta considerazione, perché la sua qualità è molto influente ai fini dell’efficacia dell’azione formativa. 11
Cfr. Damiano E., L’azione didattica, cit. Cfr. Cravotta G., Fiorin I., (2005), La valutazione della scuola, Coop. S. Tommaso, Messina. 12
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Ma una visione contestuale e sistemica è frutto di recente acquisizione. Le prime indagini sull’insegnamento, che possiamo far risalire ai primi decenni del XXI secolo, erano centrate quasi esclusivamente sull’insegnante e si valutavano i risultati degli alunni come variabili dipendenti dalla sua azione. In effetti l’insegnamento, inteso come una sequenza di azioni professionali all’interno dell’aula, non veniva molto considerato, ma si risaliva dagli effetti al giudizio sull’insegnante stesso, sulla sua capacità di essere un bravo docente. Il cambiamento di prospettiva avviene a partire dalla metà del XXI secolo, quando iniziano a diffondersi le diverse teorie curricolari. La progettazione di tipo curricolare, pur nella varietà delle versioni disponibili, presenta come tratto comune una forte attenzione all’intero processo di insegnamento, e vede il raggiungimento degli obiettivi legato ad una molteplicità di fattori, dalla capacità di analizzare la situazione di partenza all’organizzazione di esperienze di apprendimento frutto di una riflessione sui metodi disponibili e sulle modalità di lavoro nell’aula. La molteplicità di variabili (obiettivi, contenuti, metodi, organizzazione della classe, tempi…) va attentamente monitorata, perché l’efficacia dei risultati è anche legata all’efficienza delle procedure. La valutazione diventa considerazione complessiva, monitoraggio e bilancio, così che il docente impara a gestire meglio il proprio insegnamento grazie alle riflessioni che compie, acquisendo in tal modo una competenza metaprofessionale, per dirla con Schoen. Il valore della riflessività educativa, infatti, è quello del progressivo miglioramento delle pratiche e la riduzione degli insuccessi che si accompagnano al lavoro scolastico ed al perseguimento degli obiettivi educativi.
Considerazioni conclusive Il presente lavoro, I giardini della formazione, curato da G. Dionisi e M.G. Garuti, è frutto del contributo di una pluralità di esperti che, a partire dal loro specifico ambito di ricerca, riflettono sulla formazione, ed offre un ricco e non scontato materiale per la riflessione e l’approfondimento, proponendosi come prezioso strumento di lavoro. L’argomentazione a più voci, pur nella molteplicità degli sguardi, si struttura in un convincente e coerente discorso, che consente di identificare una prospettiva teorica per la formazione i cui tratti principali sono: – la considerazione dell’insegnamento come pratica professionale, ancorata a presupposti di un sapere in situazione, contestuale, fluido, procedurale; non subordinata alla logica tradizionale dell’esecutività, né a quella funzionalista della produttività e dei risultati misurabili come unici o privilegiati indicatori della qualità; 25
– la preoccupazione per un sapere didattico degli insegnanti che si alimenti grazie ad una costante riflessione sull’azione (sia riguardante i metodi di conduzione del lavoro di classe, sia l’allestimento degli ambienti educativi di apprendimento); – il riconoscimento dell’importanza di una varietà di approcci metodologici, con il comune denominatore dell’attenzione a valorizzare l’esperienza e a promuovere il protagonismo e l’autonomia dei soggetti nel loro percorso di formazione; – la consapevolezza che il rapporto tra teoria e pratica è circolare e che l’innovazione si alimenta attraverso la partecipazione di tutti i soggetti implicati nei processi formativi (dirigenti, middle management, insegnanti, personale non docente, ricercatori, alunni, genitori); – l’apertura alla ricerca, condizione per ogni percorso di miglioramento, fonte che alimenta l’innovazione, dimensione profonda della persona, alla quale attingere e da alimentare continuamente.
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