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Massimiliano Fiorucci

GLI ALTRI SIAMO NOI La formazione interculturale degli operatori dell’educazione

ARMANDO EDITORE


Sommario

Introduzione

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Capitolo 1: La formazione non può che essere interculturale 13 1.1 Dalla costruzione del nemico alla cultura della convivenza 13 1.2 Educazione, partecipazione, intercultura 39 Riferimenti bibliografici 48 Capitolo 2: La formazione interculturale degli insegnanti 2.1 Le differenti prospettive interculturali 2.2 Prime considerazioni sulla formazione interculturale degli insegnanti 2.3 La formazione interculturale degli insegnanti di fronte agli odierni cambiamenti ordinamentali 2.4 Le componenti di una formazione interculturale per gli insegnanti: la proposta di F. Ouellet 2.5 Qualche ulteriore proposta per la formazione interculturale in servizio degli insegnanti Riferimenti bibliografici Capitolo 3: La mediazione interculturale: antecedenti, ambiti, prospettive, percorsi formativi 3.1 La mediazione nella storia dell’emigrazione italiana 3.2 La mediazione in ambito pedagogico 3.3 La mediazione e i mediatori interculturali tra passato e presente 3.4 La formazione dei mediatori: indicazioni metodologiche

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3.5 Le prospettive e il ruolo della mediazione per una società interculturale Riferimenti bibliografici Capitolo 4: Nuove tecnologie, accesso al sapere e interculturalità 4.1 Le nuove frontiere della ricerca educativa: interculturalità e nuove tecnologie 4.2 L’accesso al sapere e il diritto alla formazione come presupposti della democrazia 4.3 La rete Internet, le nuove tecnologie e l’educazione interculturale Riferimenti bibliografici

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Introduzione

I processi di globalizzazione in atto e la configurazione in senso multiculturale delle odierne società interrogano profondamente i sistemi educativi e formativi che devono ormai necessariamente avere come obiettivo la formazione dei “cittadini del mondo”. Si tratta, quindi, di dotare gli uomini e le donne di un corredo di saperi all’altezza dei problemi del presente che li renda capaci di decodificare e leggere criticamente anche i demagogici e strumentali messaggi di una certa propaganda politica. Negli ultimi anni, infatti, hanno ottenuto sempre maggiori consensi elettorali – soprattutto in Europa – alcuni movimenti politici che, individuando negli “stranieri” l’origine di tutti i mali, invocano la paura della contaminazione, la difesa dell’identità e la tutela delle radici pure richiamandosi esplicitamente o implicitamente al nazifascismo e all’eugenetica. Si tratta di fenomeni e di ideologie molto preoccupanti che, facendo leva sui concreti problemi di vita delle persone derivanti dal progressivo impoverimento prodotto dalla crisi economica mondiale in atto e dalle sconsiderate politiche neoliberiste dominanti, utilizzando ad arte la retorica della sicurezza, subdolamente stanno lentamente penetrando anche nel senso comune. In qualità di educatori dobbiamo allora farci carico di tali problemi e attraverso gli strumenti della cultura e della ragione immaginare nuove strade da percorrere per aprire la stagione di un nuovo umanesimo per contrastare il disastro culturale prodotto dagli “imprenditori della paura e dell’insicurezza”. Sono ben noti gli effetti catastrofici provocati dalla “costruzione del nemico” (Stella, 2010; Eco, 2011) e, tuttavia, può essere di qualche utilità ricordare almeno un episodio relativo alla storia dell’emi9


grazione italiana. Il 17 agosto 1893, nelle saline di Aigues-Mortes, in Provenza, dove la raccolta del sale riuniva ogni anno centinaia di lavoratori italiani e francesi, «avvenne il più sanguinoso pogrom della storia francese contemporanea. Un orrendo linciaggio che costò la vita a otto operai, oltre che cinquanta feriti e quindici dispersi, tutti italiani, e per la maggior parte piemontesi, massacrati perché colpevoli di “rubare” i salari» (Noiriel, 2010). Si potrebbero fare molti altri esempi tratti dal passato migratorio italiano per mostrare come la retorica xenofoba e razzista del passato somiglia ancora troppo a quella odierna. Il presente volume affronta tali questioni soffermandosi sulla necessità di dotare di strumenti di interpretazione adeguati non solo i professionisti dell’educazione, ma tutti gli operatori sociali: la formazione oggi, come viene spiegato nel primo capitolo, non può che essere di carattere interculturale. La competenza interculturale è infatti ormai un prerequisito indispensabile per tutti e dovrebbe far parte della nostra “cassetta degli attrezzi” concettuale per meglio comprendere sia il presente sia il futuro. I processi migratori in atto, comunque la si pensi, sono di fatto inarrestabili1 e presentano oggi i caratteri della “strutturalizzazione”, a cui dovrebbe corrispondere una visione organica, convinta e proiettata nel futuro. Gli immigrati sono i nuovi cittadini e per loro è necessario un progetto più chiaro e deciso di integrazione (non a senso unico) che, eliminando le disparità, sostenga e finanzi le attività necessarie per facilitare i percorsi di inserimento (scuola, casa, rimesse, credito, associazionismo, ecc.), riveda la legislazione sulla cittadinanza e faciliti la partecipazione degli immigrati alla vita politica e sociale. La formazione interculturale degli insegnanti – discussa nel secondo capitolo – occupa, all’interno di tale prospettiva, un posto centrale: è solo a partire da una corretta impostazione del lavoro educativo nella scuola che si può sperare di diffondere una sempre più necessaria “cultura della convivenza”, che deve essere adeguatamente progettata e costruita. Non si tratta di un obiettivo facile: insegnanti ed educatori per primi sono chiamati a rimettere in discussione i propri paradigmi 1 In un periodo di circa 20 anni la popolazione immigrata è cresciuta in Italia di quasi 20 volte, arrivando a sfiorare i 5 milioni di persone con una incidenza percentuale sulla popolazione complessiva pari al 7% (Caritas-Migrantes, 2010).

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di riferimento con l’obiettivo di ridurre il tasso di etnocentrismo presente nel nostro sistema educativo. È necessario allora ripensare curricoli e metodologie didattiche per acquisire le competenze necessarie a “spostare il centro del mondo”. L’insegnamento tradizionale non sempre è riuscito a proporre il dialogo come strumento privilegiato nelle relazioni tra gli individui, favorendo di fatto una comunicazione a senso unico, mentre sarebbe più opportuno oggi fare ricorso a metodologie, che consentano agli studenti di sperimentare concretamente l’attività dialogica. Insieme alla scuola, tuttavia, sono chiamati a collaborare anche tutti quegli operatori (autoctoni e/o migranti) che intenzionalmente o naturalmente (in ambito educativo, sociale o sanitario) svolgono una funzione educativa di mediazione interculturale: un processo di integrazione che non sia connotato in senso assimilazionista chiede sia alle maggioranze sia alle minoranze di mettersi in discussione. La mediazione interculturale, oggetto del terzo capitolo, può svolgere un ruolo importante in questa direzione sia attraverso il lavoro dei mediatori culturali di professione sia attraverso la capacità dei servizi di riconfigurarsi in senso interculturale. Il volume si conclude con una riflessione, sviluppata nel quarto e ultimo capitolo, sul rapporto tra nuove tecnologie, diritto alla formazione e prospettive interculturali. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione offrono possibilità inedite sia in termini di ampliamento, modalità e diffusione delle conoscenze sia in termini di confronto, collaborazione, cooperazione. Non si può tuttavia professare nei confronti del nuovo in quanto tale una sorta di acritica adorazione e di entusiastica e ingenua adesione: non tutti, anche all’interno delle cosiddette società a sviluppo avanzato, hanno le stesse possibilità di accedere al sapere e alle opportunità conoscitive esistenti. Non può nemmeno essere dimenticato che la “rete delle reti”, pur garantendo ancora degli spazi di reale partecipazione, è sempre più orientata da poteri e interessi economici e commerciali. È allora indispensabile predisporre le condizioni per un più equo e diffuso accesso al sapere (critico) che rappresenta la precondizione per garantire la realizzazione di una società aperta, realmente democratica e solidale. 11


Riferimenti bibliografici Caritas-Migrantes (2010), Immigrazione. Dossier statistico 2010. XX Rapporto, Idos, Roma. Eco U. (2011), Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Bompiani, Milano. Noiriel G. (2010), Il massacro degli italiani. Aigues-Mortes, 1893. Quando il lavoro lo rubavamo noi, Tropea, Milano. Stella G.A. (2010), Negri, froci, giudei & co. L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli, Milano.

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Capitolo 1

La formazione non può che essere interculturale

1.1 Dalla costruzione del nemico alla cultura della convivenza Il momento storico in cui viviamo è percorso da profonde trasformazioni di carattere socio-economico e politico determinate da diversi fattori. Tra questi un ruolo decisivo sta giocando il numero sempre più elevato dei contatti e delle relazioni tra persone di origine culturale diversa, che ha condotto alla “planetarizzazione dei rapporti interumani e interistituzionali” (Poletti, 1992, p. 14). Si afferma ormai da più parti che quella che viviamo è un’epoca globalizzata e interdipendente. Tale processo viene dato per acquisito e sembra irreversibile: «È un fatto – ha affermato Francesco Susi – che viviamo in un’epoca che interconnette, mette in relazione tutte le parti del pianeta. Si diffonde, per meglio dire, la coscienza che i problemi umani, dovunque si originino e si svolgano, determinano effetti anche nelle più remote regioni del globo. Si è potuto, pertanto, e ben a ragione, parlare di una “cultura delle interdipendenze”» (Susi, 1995, p. 19). Ciò che preoccupa, nonostante tutto, è la scarsa consapevolezza della dimensione “globale” dei problemi del presente: «noi viviamo in un’età planetaria – come ha affermato efficacemente padre Ernesto Balducci – con una coscienza neolitica» (Balducci, 2005). Si tratta allora di progettare, predisporre e realizzare percorsi educativi e formativi che siano all’altezza dei problemi del presente per comprendere i processi in atto senza subirli, senza esserne travolti ed evitando che possano condurre al famigerato “scontro di civiltà” (Huntington, 2000). Le enormi disparità nella distribuzione delle risorse, le guerre, lo squilibrio fra 13


Paesi ricchi e poveri producono e produrranno sempre più processi di mobilità umana. Peraltro, la globalizzazione dei mercati, «l’apertura delle frontiere economiche e finanziarie, le nuove tecnologie dell’informazione ingenerano inediti momenti di confronto, d’incontro e di scontro fra persone diverse sul piano etnico, linguistico, culturale e comportamentale» (Portera, 2006, p. 11). La scuola, il sistema educativo e formativo sono chiamati in causa con forza e la pedagogia ha il compito non rinviabile di tracciare i «lineamenti fondanti nell’attuale stagione del pluralismo e della complessità» (ibidem). La formazione interculturale concerne quindi tanto gli autoctoni quanto gli immigrati: la «formazione interculturale deve ormai affrontare compiti complessi, quali favorire la convivenza tra diversi, integrare gli immigrati, evitare conflitti di culture. Contrariamente a quanto spesso si pensa, infatti, essa non si limita all’inserimento degli alunni “venuti da lontano” nelle scuole, ma si propone scopi molto più ampi, in società multiculturali messe alla prova dalla diversità e dai conflitti identitari acuitisi dopo l’11 settembre 2001» (Santerini, Reggio, 2007, p. 7). Si tratta, in altri termini, di costruire le condizioni per la positiva convivenza tra soggetti che fanno riferimento a sistemi culturali e valoriali in alcuni casi anche molto differenti assumendo una prospettiva contraria rispetto a quella dello scontro delle civiltà (Huntington, 2000). «La paura dei barbari – ammonisce Todorov – è ciò che rischia di renderci barbari» (Todorov, 2009, p. 16). E, tuttavia, costruire le condizioni per la convivenza positiva e per l’integrazione è prima di tutto un progetto educativo che agisce in senso diametralmente opposto rispetto a quello agito dagli “imprenditori della paura”1. La cultura della convivenza chiama in causa sia la maggioranza sia le minoranze: i processi di integrazione, infatti, sono tali solo se sono biunivoci e bilaterali. La questione dell’integrazione è 1 Tale

espressione è stata usata da Gad Lerner per titolare un suo articolo apparso sul quotidiano “La Repubblica” in data 25 marzo 2011. Gad Lerner si riferisce in primo luogo a quei politici italiani (Maroni, Frattini, La Russa, ecc.) che, in occasione delle rivolte nel Mediterraneo, anziché sostenere un processo rivoluzionario epocale che ha aperto la strada ad una nuova stagione di partecipazione democratica in Paesi affetti da regimi dittatoriali, hanno unicamente lavorato irresponsabilmente sulla costruzione della paura parlando di migrazioni epocali, esodi biblici, tsunami umani, infiltrazioni terroristiche nelle società europee, ecc.

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da sempre tra quelle maggiormente dibattute all’interno dell’ampia letteratura sui fenomeni migratori a livello nazionale e internazionale, anche in conseguenza della sua polisemia. Non è semplice, infatti, definire e individuare il livello di integrazione sociale degli immigrati. Si può osservare, tuttavia, come l’integrazione sociale debba essere considerata come un processo multidimensionale e dinamico che chiama in causa sia gli autoctoni sia gli immigrati e che coinvolge le dimensioni dell’integrazione economica, politica, culturale, psicologica, demografica e che si realizza in forme, pratiche e progetti tra loro molto differenti che fanno riferimento ad approcci culturali profondamente diversi. Negli ultimi venti anni, inoltre, le tensioni internazionali, le crisi delle periferie di molte città europee (Castel, 2008), le contrapposizioni e i conflitti identitari insieme alla crisi economica mondiale, alla crisi del Welfare, agli alti tassi di disoccupazione sia fra gli autoctoni sia tra i migranti e al senso d’insicurezza diffuso, hanno a loro volta contribuito ad accentuare dubbi e perplessità (frequentemente orchestrate da veri e propri impresari dell’insicurezza) sulla stessa possibilità di dar vita a realtà sociali integrate, riportando il tema dell’incorporazione degli stranieri nel tessuto sociale al centro del dibattito pubblico. In Italia e in misura diversa in Francia, negli ultimi anni, la presenza di soggetti provenienti da Paesi diversi facenti riferimento a sistemi culturali e valoriali differenti da quelli del Paese d’accoglienza hanno provocato lunghe discussioni e prodotto infinite polemiche. Alimentando ad arte i sentimenti di paura e di insicurezza, in modo particolare in un periodo di profonda crisi economica e sociale, gli imprenditori della paura continuano in quell’eterno processo di “costruzione del nemico” e del capro espiatorio sempre utile per deviare l’attenzione della pubblica opinione dai problemi reali e per orientare in senso xenofobico le campagne elettorali. Negli ultimi anni tale tema è stato affrontato a differenti livelli e con diversi intenti da numerosi e importanti autori. Un’attenzione particolare merita il volume di Tzvetan Todorov, pubblicato in Italia nel 2009, dal titolo La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà. Il libro di Tvezan Todorov rappresenta già a partire dal titolo la risposta al già citato volume di Samuel Huntington, Lo scontro delle 15


civiltà e il nuovo ordine mondiale (2000). Todorov è convinto che l’unica strada perseguibile sia quella della ricerca del dialogo a partire da ciò che accomuna gli uomini e i loro bisogni a prescindere dalle specifiche appartenenze culturali. La definizione stessa del barbaro presuppone un forte etnocentrismo che vede nell’alterità una minaccia e una forma di inferiorità. La barbarie consiste nel non riconoscere l’umanità degli altri, mentre la civiltà è precisamente la capacità di vedere gli altri come altri e ammettere allo stesso tempo che sono umani come noi. Superare la diffidenza legata al pregiudizio negativo implica uno sforzo conoscitivo e un atteggiamento ermeneutico. «Nel mondo di oggi e di domani, sostiene Todorov, gli incontri fra individui e comunità appartenenti a culture differenti sono destinati a diventare sempre più frequenti; i loro partecipanti sono i soli a poter impedire che si trasformino in altrettanti conflitti. Con i mezzi di distruzione di cui disponiamo attualmente, il loro utilizzo potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza della specie umana. Perciò è necessario fare di tutto per evitarlo. La ragione per cui ho scritto questo libro è proprio questa» (Todorov, 2009, p. 22). Poiché ogni essere umano appartiene simultaneamente a diverse culture, la possibilità di una loro coesistenza pacifica non può essere messa in discussione. E, tuttavia, ciò è accaduto e continua ad accadere ogni volta che si passa dal piano individuale a quello collettivo reificando le culture e interpretando i sistemi culturali come blocchi monolitici, puri, statici e immodificabili. Il volume di Todorov aiuta a decostruire una tale errata interpretazione e propone una complessa analisi dell’attuale situazione prendendo in considerazione le nozioni di barbarie e civiltà, riflettendo sulle identità collettive e sull’identità europea e criticando in modo argomentato le semplificazioni proposte da Huntington e dai suoi seguaci. Le tesi di Huntington, infatti, hanno avuto una grande diffusione ed hanno influenzato alcune scelte politiche (si pensi, per fare un esempio, alla dottrina Bush nel campo delle relazioni internazionali). Il successo delle tesi di Huntington si spiega grazie al fatto che il suo libro propone una spiegazione semplice e accessibile a tutti della complessità del mondo internazionale e, allo stesso tempo, propone come impedire che si verifichino le conseguenze indesiderabili dell’attuale situazione. Sostanzialmente, secondo Huntington il be16


nessere degli occidentali (nordamericani ed europei dell’ovest) è minacciato e propone un rimedio contro questo male. «La sopravvivenza dell’Occidente – afferma Huntington – dipende dalla volontà degli Stati Uniti di confermare la propria identità occidentale; gli occidentali devono unire le proprie forze per rinnovarla e proteggerla dalle sfide provenienti dalle società non occidentali» (Huntington, 2000, pp. 14-15). Dopo la caduta del muro di Berlino, secondo Huntington, «non sono più blocchi ideologici e politici ad affrontarsi, ma aree culturali, gruppi di Paesi appartenenti alla stessa civiltà. Sarebbero otto gruppi: civiltà cinese, giapponese, indù, musulmana, ortodossa, occidentale, latinoamericana e (forse) africana. Le relazioni tra loro consistono in rivalità che sfociano inevitabilmente in uno scontro; il più grande pericolo per noi, occidentali, proviene dunque dalle altre civiltà. Concretamente, la minaccia s’incarna soprattutto in due specifiche tradizioni, la Cina e l’islam» (Todorov, 2009, p. 123). Come è evidente anche ad una lettura superficiale gli otto gruppi vengono di volta in volta individuati con criteri diversi: la lingua, la religione, la geografia. Si tratta di una analisi semplicistica e pericolosa, ma funzionale ad una politica aggressiva e imperialista. Tutte le civiltà, tutti i sistemi culturali, tutte le persone sono in costante cambiamento e trasformazione, non rimangono mai uguali a se stessi, ogni individuo è portatore di culture molteplici. Al contrario Huntington procede come se fosse possibile «identificare una volta per tutte il nucleo duro, o l’essenza, di ogni civiltà, che avrebbe il sacro compito di non tradire mai; lo stesso numero di civiltà è immutato da sempre. Tuttavia, è sufficiente dare un rapido sguardo alla storia del mondo per constatare che le cose non stanno così: la civiltà occidentale, anche supponendo che una simile generalizzazione abbia un senso, si è profondamente trasformata fra l’anno zero, l’anno mille e l’anno duemila. Sappiamo poi che la rappresentazione che decide di dare di sé è il risultato di aspre lotte tra gruppi di potere e di compromessi che cambiano da una generazione all’altra» (ivi, p. 124). I recenti eventi nordafricani, la cosiddetta “primavera araba”, non sono altro che la conferma di quanto affermato da Todorov. Il 2011, infatti, si è aperto con una storica presa di coscienza dei popoli del Mediterraneo: in Tunisia, in Egitto, in Libia, in Siria, dopo anni di violazioni dei diritti umani e 17


di regimi politici oppressivi e corrotti, la società civile ha preso in mano il proprio destino ed è in lotta per ottenere democrazia e dignità. Solo una interpretazione monolitica e superficiale dell’islam poteva rendere del tutto imprevedibili i fenomeni in atto: sempre nel 2009, infatti, è stato pubblicato in traduzione italiana un importante volume (apparso in Francia nel 2007) dal titolo L’incontro delle civiltà di Youssef Courbage e Emmanuel Todd. I due studiosi, pur non potendo prevedere ciò che sarebbe accaduto nel 2011 in Paesi come Egitto, Tunisia, Libia e Siria, sostenevano che presentare «l’islam come una religione refrattaria alla modernità è diventato un esercizio banale. Sempre più teologi di circostanza si dedicano così alla vita di Maometto e al Corano per trovarvi le cause dell’irrimediabile blocco mentale e culturale che affliggerebbe, a loro dire, il mondo musulmano. Per questa erudizione di nuovo genere, il fondamentalismo islamico sarebbe l’espressione di un antagonismo essenziale tra islam e Occidente. Questo saggio mostrerà il carattere superficiale di tali analisi pessimiste e aggressive. La sua ambizione è proporre una interpretazione differente del mondo e della sua evoluzione. Lo “scontro tra civiltà” non avrà luogo. L’esame degli indicatori sociali e storici profondi impone al contrario l’idea di un “incontro delle civiltà”. Per dimostrarlo, mobiliteremo gli strumenti dell’analisi demografica su vasta scala, i quali dimostrano, in effetti, non una divergenza, ma un’ampia e rapida convergenza dei modelli. Il mondo musulmano è entrato nella rivoluzione demografica, culturale e mentale che permise un tempo lo sviluppo di regioni oggi più avanzate. A suo modo si è incamminato verso il punto d’incontro di una storia molto più universale di quanto si voglia in realtà ammettere» (Courbage, Todd, 2009, p. 9). Gli studi demografici di Courbage e Todd dimostrano che i Paesi musulmani stanno vivendo un radicale e profondo cambiamento in grado di modificare i modelli culturali più rigidi. I dati utilizzati dagli autori descrivono una situazione ben diversa e più dinamica rispetto a quella statica e immodificabile proposta dalle tesi più allarmistiche: diminuzione del tasso di fecondità, innalzamento dei livelli di alfabetizzazione maschile e femminile, erosione dell’endogamia. Si tratta di cambiamenti che accompagnano una graduale rivoluzione delle strutture familiari, dei rapporti di autorità, dei riferimenti ideologici e che 18


alimentano l’ascesa dell’individualismo. Le società musulmane descritte da Courbage e Todd si trovano a vivere un processo di transizione complesso, contraddittorio e disorientante che è attraversato, quindi, da intolleranze, violenze e convulsioni che altro non sono che sintomi di un già avviato e potente percorso di modernizzazione. «Oggi, in un mondo reso ansioso dalla globalizzazione economica, è forte la tentazione di classificare, di separare e naturalmente di condannare. Del resto, alcune potenze e alcuni ricercatori hanno interesse a installare negli spiriti la rappresentazione di un conflitto fra civiltà, che maschera la violenza dei conflitti economici. La demografia libera da questa paranoia strumentalizzata e permette di andare più lontano. Le popolazioni del mondo, di civiltà e di religioni diverse, si trovano su traiettorie di convergenza. La convergenza degli indici di fecondità permette di proiettarsi in un futuro, prossimo, nel quale la diversità delle tradizioni culturali non sarà più percepita come generatrice di conflitti, ma testimonierà semplicemente la ricchezza della storia umana» (Courbage, Todd, 2009, p. 155). Tornando all’analisi di Todorov sembrano particolarmente lucide le sue considerazioni sull’identità o meglio sulle identità. Secondo l’autore, infatti, ognuno di noi possiede non una ma numerose identità culturali che si sovrappongono e si intersecano. Ogni individuo è di per sé pluriculturale. L’identità individuale deriva dall’incontro di molteplici identità collettive in seno a una sola e medesima persona: «ciascuna delle nostre numerose appartenenze contribuisce alla formazione dell’essere unico che siamo. Gli uomini non sono né tutti simili, né interamente diversi; ciascuno di essi, essendo in sé plurale, condivide i suoi tratti costitutivi con gruppi molto diversi tra loro, ma li combina a modo suo. La coabitazione delle differenti appartenenze culturali in ciascuno di noi non pone di per sé alcun problema, cosa che, a sua volta, dovrebbe suscitare ammirazione: come un giocoliere, maneggiamo questa pluralità con la massima facilità» (Todorov, 2009, pp. 77-78). Ciascuno di noi ridefinisce continuamente gli equilibri delle differenti appartenenze e di volta in volta – come afferma il dottor Cardoso parlando con il dottor Pereira – un io egemone controlla la “confederazione delle anime”. «Voglio farle una domanda, disse il dottor Cardoso, lei conosce i médecins-philosophes? No, 19


ammise Pereira, non li conosco, chi sono? I principali sono Théodule Ribot e Pierre Janet, disse il dottor Cardoso, è sui loro testi che ho studiato a Parigi, sono medici e psicologi, ma anche filosofi, sostengono una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere ‘uno’ che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un’illusione, peraltro ingenua, di un’unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone. Il dottor Cardoso fece una piccola pausa e poi continuò: quella che viene chiamata la norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto sulla confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io spodesta l’io egemone e ne prende il posto, passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione. Forse, concluse il dottor Cardoso, dopo una paziente erosione c’è un io egemone che sta prendendo la testa della confederazione delle sue anime, dottor Pereira, e lei non può farci nulla, può solo eventualmente assecondarlo. Il dottor Cardoso finì di mangiare la sua macedonia e si asciugò la bocca con il tovagliolo. E dunque cosa mi resterebbe da fare?, chiese Pereira. Nulla, rispose il dottor Cardoso, semplicemente aspettare, forse c’è un io egemone che in lei, dopo una lenta erosione, dopo tutti questi anni passati nel giornalismo a fare la cronaca nera credendo che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo, forse c’è un io egemone che sta prendendo la guida della confederazione delle sue anime, lei lo lasci venire alla superficie, tanto non può fare diversamente, non ci riuscirebbe e entrerebbe in conflitto con se stesso, e se vuole pentirsi della sua vita si penta pure, e anche se ha voglia di raccontarlo a un sacerdote glielo racconti, insomma, dottor Pereira, se lei comincia a pensare che quei ragazzi hanno ragione e che la sua vita finora è stata inutile, lo pensi pure, forse da ora in avanti la sua vita non le sembrerà 20


più inutile, si lasci guidare dal suo nuovo io egemone e non compensi il suo tormento con il cibo e con le limonate piene di zucchero» (Tabucchi, 1994, pp. 122-123). L’identità individuale è dunque il frutto dell’incrocio tra diverse identità collettive così come non esistono culture pure e culture mescolate. Tutte le culture sono miste, ibride, meticciate perché i contatti tra gruppi umani risalgono alle origini della specie e lasciano sempre dei segni o delle tracce. Definire, cogliere e insistere sull’identità – come ha opportunamente sostenuto Francesco Remotti – è pericoloso e conduce a quella che è stata da lui definita “ossessione identitaria”. «La tesi che si vuole sostenere […] è che identità – specialmente nell’uso che se ne fa negli ambiti sociale, politico, individuale, a livello di senso comune, oltreché scientifico – è una parola avvelenata. Il veleno contenuto in questa parola così nitida e bella, così fiduciosamente condivisa, di impiego pressoché universale, può essere poco oppure tanto, impercettibile e quasi innocuo in un caso oppure pieno di conseguenze nefaste in un altro. Ma anche quando esso è impercettibile, la tossicità è presente in numerose idee che la parola contiene e, accumulandosi, può manifestarsi alla lunga, in maniera inattesa e imprevista. Perché e in che senso identità è una parola avvelenata? Semplicemente perché promette ciò che non c’è; perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione. Diciamo allora che l’identità è un mito, un grande mito del nostro tempo» (Remotti, 2010, pp. XI-XII). Il pericolo consiste nel considerare l’identità come sostanza, una sorta di nucleo stabile e permanente che deve essere difeso per impedire che venga modificato e infettato. Se l’identità è essenza, sostanza, allora deve essere difesa e affermata nella sua integrità, nella sua purezza e ciò condurrà inevitabilmente a scontri e guerre in nome di qualcosa che non esiste ma che è interpretato come reale. Le identità possono quindi diventare pericolose e mortali. Una delle condizioni che determinano l’irruzione della violenza è la riduzione dell’identità molteplice all’identità unica (Sen, 2008). «Prima di uccidere il mio vicino perché è un tutsi, devo dimenticare tutte le sue altre appartenenze: a una professione, a un’età, a un ambiente sociale, a un Paese – o all’umanità. La violenza esercitata in nome 21


dell’identità non è meno forte, perché i gruppi che la praticano si considerano, a torto o a ragione, vittime di altri gruppi, minacciati nella loro stessa esistenza o in quella dei loro parenti» (Todorov, 2009, p. 93). Le culture e le identità pure, dunque, non esistono e non rimangono mai uguali a se stesse. Un’altra caratteristica delle culture, infatti, è che sono in costante trasformazione, si modificano e cambiano più o meno rapidamente e per molteplici ragioni. Dal momento che ciascuna cultura ne incorpora altre o con altre si interseca, i suoi diversi elementi formano un instabile equilibrio. Accanto alle tensioni interne vi sono i contatti con l’esterno (con culture vicine e lontane) a loro volta «promotori di cambiamenti. Prima di influenzare le altre culture del mondo, la cultura europea aveva già assorbito le influenze egizie, mesopotamiche, persiane, indiane, islamiche, cinesi…» (Todorov, 2009, p. 80). Le culture hanno quindi due caratteristiche che non possono essere tralasciate: la pluralità e la variabilità. Le uniche culture che non cambiano sono quelle morte. L’identità instabile delle culture non deve tuttavia indurci a rinunciare completamente alla nozione di cultura. Si può riconoscere «la necessità di parlare delle culture senza cadere negli ostacoli del “culturalismo”, o deduzione di tutti i tratti dell’individuo a partire dalla sua appartenenza culturale, come faceva il razzismo in passato» (ivi, p. 81). Non va dimenticato in ogni caso che la cultura è una costruzione poiché si basa sulla memoria collettiva del gruppo che ne è portatore e la memoria è in se stessa costruzione, cioè selezione degli avvenimenti del passato e loro gerarchizzazione secondo un ordine che gli viene assegnato dai suoi stessi membri. Ogni comunità umana – attraverso l’azione di determinati gruppi di potere – seleziona alcuni avvenimenti e ne tralascia altri: tanto la memoria quanto l’oblio sono elementi costitutivi dell’identità. È sufficiente ricordare, solo per fare un esempio, quanto è accaduto e sta accadendo in Italia nel 2011 in merito alle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia che hanno prodotto spaccature tra le differenti forze politiche e le differenti aree del Paese. Vi sono infatti gruppi, forze politiche, giornalisti, storici, singoli soggetti e associazioni che, per differenti ragioni, non si riconoscono all’interno della storia ufficiale che, per sua natura, è una narrazione 22


che deve necessariamente operare una selezione tra i differenti avvenimenti storici e ordinarli in forma gerarchica. Tale processo è ancora più evidente quando un Paese tenta di ricostruire storicamente i rapporti con le alterità esterne (altri Paesi) ed interne (minoranze linguistiche, culturali e religiose). Sempre con riferimento all’Italia sarebbe quanto mai necessario riconsiderare con opportuni strumenti critici e di analisi da una parte la vicenda e gli orrori del colonialismo italiano in Africa e dall’altra i comportamenti nei confronti di particolari gruppi o minoranze con particolare riferimento alle “leggi razziali fasciste” del 1938 rivolte contro gli ebrei e, in tempi più recenti, all’esclusione delle minoranze Rom e Sinti dalla legge 15 dicembre 1999, n. 482 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”. Si tratta, ovviamente, di avvenimenti e provvedimenti molto diversi fra loro e con diverso valore gerarchico e che, tuttavia, contribuiscono a comprendere qual è stato e qual è il posto che una società e un Paese assegnano alle cosiddette alterità. Diventa essenziale allora la capacità di decentramento: «è importante – in altri termini – valorizzare il momento in cui l’individuo prende coscienza dell’identità del proprio gruppo e diventa capace di osservarlo mettendosi nei panni dell’altro; così facendo, è in grado di analizzare con occhio critico il proprio passato, per cogliere sia tracce di umanità, sia di barbarie. Non è possibile riconoscere le proprie tradizione e la propria cultura se non si è capaci di prendere una certa distanza rispetto ad esse, il che non coincide affatto con l’autodenigrazione sistematica e la fustigazione pubblica, ma nemmeno con la tranquilla certezza di aver sempre avuto ragione. Si tratta piuttosto di sostituire le grida di fierezza e le lacrime di pentimento interrogandosi sulle cause e sul significato degli avvenimenti passati» (Todorov, 2009, p. 87). L’essere umano nasce sempre all’interno di un sistema culturale ma ciò non significa che sia destinato a rimanere prigioniero di esso. Le culture esistono ma non sono né immutabili né impermeabili ed è illegittimo incatenare l’individuo al suo gruppo e alla sua cultura d’origine negando all’essere umano la capacità di autonomia, che rappresenta una delle sue principali caratteristiche. Ogni individuo, 23


infatti, ridefinisce continuamente e in modo originale il proprio rapporto con la sua cultura di origine in virtù dell’educazione (formale, non formale e informale), dell’ambiente (naturale e sociale) e delle caratteristiche individuali. Alcune condizioni esteriori possono modificare positivamente o negativamente il rapporto di un individuo con il proprio sistema culturale di origine. Se il proprio gruppo di appartenenza viene perseguitato, escluso o discriminato ciò può provocare negli appartenenti a un tale gruppo un processo di arroccamento identitario e di rivendicazione dell’identità di origine. Nelle società e nelle scuole europee, sempre più caratterizzate in senso multiculturale, la presenza delle cosiddette “seconde generazioni” pone problemi inediti dal punto di vista formativo. I giovani di origine straniera sono definiti nella letteratura in diversi modi: ragazzi ponte, seconda generazione, figli di due mondi, giovani della terra di mezzo, eccetera. In tutte queste definizioni emerge il senso di precarietà e di sospensione che connota la situazione dei figli degli immigrati. Questi ragazzi si trovano a dover definire la loro identità in spazi trans-culturali, a vivere in perenne bilico tra contesti di riferimento differenti, a volte perfino contrastanti e a dover “fare i conti” quotidianamente con una serie di pregiudizi, impliciti o espliciti, che gli autoctoni riversano su di loro in quanto “stranieri” (sono considerati tali anche se sono nati in Italia, parlano perfettamente l’italiano, amano il “Bel Paese”, hanno la cittadinanza italiana e si sentono italiani, tutto questo viene annullato dal semplice fatto di avere un cognome inusuale, un accento diverso o dei tratti somatici differenti). Si tratta di una generazione cruciale per il futuro del Paese, una generazione che si situa tra bisogno di identità e desiderio di appartenenza e i cui esponenti rappresentano i “pionieri involontari di un’identità nazionale in trasformazione” (Ambrosini, 2006, p. 89). Costruire la propria identità all’interno di questo variegato panorama non è certamente un compito facile. Graziella Favaro definisce i giovani di origine straniera “doppiamente fragili” in quanto devono affrontare contemporaneamente sia le problematiche legate alle “crisi identitarie” proprie dell’adolescenza (strutturazione del sé adulto) sia trovare una forma di mediazione fra le diverse appartenenze nazionali. Il dover assolvere a diversi “compiti di sviluppo” contemporaneamente 24


può favorire la formazione di una identità fragile, instabile e “ambigua” (Favaro, Napoli, 2004). L’adolescente straniero può finire per non riconoscersi in nessun tipo di appartenenza, sentirsi senza radici o smarrito tra diverse identità che non riesce a gestire. Ad aggravare la situazione si associa il fatto che il giovane, spesso, è lasciato solo ad affrontare questi problemi, non può contare sull’aiuto di un adulto di riferimento in grado di guidarlo nel nuovo contesto; i genitori che solitamente sono deputati ad assolvere a questo compito non sono in molti casi in grado di farlo in quanto sono i primi ad essere disorientati nella società di accoglienza (frequentemente, per fare un esempio, è il ragazzo a ricoprire il ruolo di mediatore linguistico tra la famiglia e le istituzioni). Naturalmente la “doppia appartenenza” può essere vissuta non solo come un “problema”, come una “doppia assenza” (Sayad, 2002), ma anche come una risorsa, una ricchezza aggiuntiva: parlare più lingue, conoscere differenti “costumi culturali”, avere vissuto direttamente o indirettamente l’esperienza migratoria sono tutti fattori che possono rappresentare elementi di crescita e di maturazione personale. La ricchezza derivante da questo tipo di background culturale è espressa in modo molto eloquente da Teodoro Ndjock Ngana (1994), nella poesia Prigione: Vivere una sola vita in una sola città, in un solo paese, in un solo universo, vivere in un solo mondo è prigione. Amare un solo amico, un solo padre, una sola madre, una sola famiglia amare una sola persona è prigione. Conoscere una sola lingua, un solo lavoro, un solo costume, 25


una sola civiltà conoscere una sola logica è prigione. Avere un solo corpo, un solo pensiero, una sola conoscenza, una sola essenza, avere un solo essere è prigione. Il poeta, in questo testo, mette in luce come il riconoscersi in molteplici appartenenze o, per usare una terminologia a lui più congeniale, il non essere prigioniero di un’unica “essenza” consenta all’uomo di liberarsi dai lacci imposti da una logica predominante, da una singola prospettiva, da un unico punto di vista o da un pregiudizio indotto da altri. Assumere questa ottica implica l’acquisizione della consapevolezza del valore della “differenza”, la capacità di gestire le diverse provenienze nazionali senza essere costretti a sceglierne una sola e la propensione a percepire la propria identità come qualcosa di mutevole ed in continua evoluzione. Questo carattere dinamico dell’identità è stato messo in rilievo anche da Antonio Nanni che, per descrivere l’identità dei giovani di origine straniera, stravolge la classica immagine dell’identità-albero composta dalle radici (simbolo del radicamento nella cultura del proprio Paese e nei valori trasmessi dall’ambiente sociale di appartenenza), dal tronco e dalle ramificazioni (contatto con il mondo esterno) accostando ad essa un nuovo elemento in grado di rappresentare il carattere in progress di tale costrutto: le ruote, «Siamo […] identità aperte e vive, come alberi semoventi nella nostra società della mobilità umana» (Nanni, 2008, p. 14). Si tratta allora di ridefinire anche in ambito scolastico i paradigmi stessi dell’educazione favorendo una riflessione critica sulla nozione di identità culturale, sulla pluralità delle nostre appartenenze, sulla problematicità delle culture e delle storie nazionali. Più che insistere sulle identità, sulle culture, sulle appartenenze è forse più opportuno riconoscersi in alcuni valori morali e politici. «Così oggi, nei Paesi dell’Unione Europea, tutti provano un attaccamento per il regime 26


democratico, il suffragio universale, i diritti uguali degli individui, lo stato di diritto, la separazione tra potere politico e potere teologico, la protezione delle minoranze, la libertà di cercare la verità e di aspirare alla felicità… L’idea di civiltà, intesa come ciò che si oppone a “barbarie”, appartiene a questi valori. Per noi sono importanti, perché crediamo che siano positivi, non in quanto esclusivi della nostra civiltà. Del resto, non è certo così: questi valori possiedono tutti una vocazione universale e sono effettivamente rivendicati, nelle maniere più diverse, in tutto il mondo» (Todorov, 2009, pp. 106-107). Tale tesi è stata sostenuta efficacemente anche da Amartya Sen nel suo libro La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente (2004). Secondo l’economista indiano, infatti, il sostegno alla causa del pluralismo, della diversità e delle libertà fondamentali è presente nella storia di molte società. «Le antiche tradizioni di incoraggiamento e protezione della discussione pubblica su temi politici, sociali e culturali in – per esempio – India, Cina, Giappone, Corea, Iran, Turchia, nel mondo arabo e in molte regioni dell’Africa esigono un più concreto riconoscimento nella storia delle idee democratiche. Questa eredità globale è una ragione sufficiente per mettere in dubbio la tesi, spesso ripetuta, che la democrazia sia un’idea esclusivamente occidentale, e che sia perciò soltanto una forma di occidentalizzazione. Il riconoscimento di questa storia ha un’importanza diretta nella politica contemporanea perché sottolinea l’eredità globale nella protezione e nella promozione della deliberazione sociale e delle interazioni pluraliste, che non possono essere meno importanti oggi di quanto lo fossero in passato» (Sen, 2004, pp. 11-12). Una concezione più ampia della democrazia intesa come discussione pubblica, governo attraverso la discussione consente di individuare le profonde radici storiche delle idee democratiche in tutto il mondo. Le radici della democrazia – sostiene Sen – sono dunque globali e identificarle con una prospettiva esclusivamente occidentale rappresenta un’indebita appropriazione dovuta da una parte alla disattenzione per la storia intellettuale delle società non occidentali e dall’altra al difetto concettuale di considerare la democrazia quasi esclusivamente in termini di voti ed elezioni e non nella prospettiva più ampia della discussione pubblica, del dialogo, della partecipazione. 27


La questione della convivenza sia a livello locale (nelle società multiculturali) sia a livello globale richiede un forte impegno educativo che chiama in causa fortemente la categoria del dialogo. Per evitare, tuttavia, di declinare tale categoria in senso retorico sono necessarie alcune precisazioni. Le relazioni interculturali necessitano di alcuni requisiti di fondo che possono essere meglio definiti come condizioni di possibilità. Il dialogo per definirsi tale deve configurarsi come una relazione fra “pari” o meglio, per riprendere la definizione che ne dà il filosofo Martin Buber2, deve essere una relazione fra soggetti che sono in grado di far valere la propria soggettività, le proprie esigenze, i propri interessi, i propri bisogni e i propri diritti. Molto spesso, però, le minoranze (in modo particolare quelle immigrate) sono afflitte non solo da una disuguaglianza di tipo giuridico, ma anche da una disuguaglianza di carattere materiale e sociale fatta di lavori nocivi, precari, pesanti, mal retribuiti, ecc. I migranti in modo particolare vivono una situazione che è stata definita di “inclusione subordinata” (Cotesta) o di “integrazione subalterna” (Ambrosini) che di fatto determina una condizione di “cittadinanza relativa”. Vi è, quindi, tra autoctoni e immigrati una radicale asimmetria di potere che mina alla radice la possibilità stessa di un autentico dialogo. Si tratta allora di rafforzare l’alterità affinché possa svilupparsi. Per essere realmente efficace, il dialogo «deve rispondere ad una duplice esigenza. Da un lato riconoscere la differenza delle voci impegnate nello scambio, senza prestabilire che una delle due costituisca la norma e l’altra rappresenti una deviazione, o un’arretratezza, o una cattiva volontà. Se non si è disposti a mettere in discussione le proprie convinzioni e le proprie certezze, a porsi provvisoriamente nella prospettiva dell’altro – a rischio di constatare che, in quest’ottica, costui abbia ragione –, il dialogo non può avvenire» (Todorov, 2009, p. 265). Dall’altro lato il dialogo non può raggiungere nessun risul2

La concezione dialogica costituisce uno dei motivi fondamentali del pensiero di Martin Buber (1878-1965). Secondo Buber il senso profondo dell’esistenza umana è da rintracciarsi nel principio dialogico, cioè nella capacità di stare in relazione totale con la natura, con gli altri uomini e con le entità spirituali ponendosi in un rapporto Io-Tu. Si veda a questo proposito Buber M. (1993), Il principio dialogico e altri saggi, a cura di Poma A., San Paolo, Cinisello Balsamo.

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tato se coloro che vi partecipano non accettano un quadro formale comune condiviso per la loro discussione, se non si accordano sugli argomenti consentiti e sulla possibilità di ricercare insieme giustizia e verità. Il dialogo può quindi essere considerato come uno degli strumenti principali della pedagogia interculturale o, per usare un’espressione utilizzata da Mariangela Giusti, come il primo strumento di una epistemologia interculturale. Secondo la Giusti, il filosofo francese Paul Ricoeur interpreta il dialogo come “scambio di memoria”, che «consente di tradurre per gradi una cultura che non si conosce (“straniera”) nelle categorie tipiche della nostra cultura e presuppone un “trasferimento nell’ambiente culturale regolato dalle categorie etiche e spirituali dell’altro”. Il dialogo e la memoria, attraverso la “funzione narrativa” (una delle sue maniere più comuni di manifestarsi) consentono che avvenga lo scambio fra le regole, le norme, le credenze, le convinzioni che “fanno l’identità di una cultura”» (Giusti, 1996, p. 19). La prima condizione del dialogo è costituita, anche secondo Paul Ricoeur, dal rispetto dell’altro, dal riconoscimento. I rapporti fra individui, come le relazioni fra gruppi, attraverso un atteggiamento di “comprensione dialogica” possono entrare in contatto alla pari, senza che uno dei due debba necessariamente prevalere. Tzvetan Todorov auspica un dialogo in cui nessuno dei due abbia l’ultima parola, in cui nessuna delle due parti riduca l’altra al ruolo di oggetto. Il dialogo consente di rileggere la propria cultura destrutturandola alla luce di quanto si raccoglie dalla voce dell’altro (Todorov, 1994). Il dialogo si accompagna ad un altro fondamentale strumento epistemologico in ambito interculturale: l’atteggiamento ermeneutico (Giusti, 1996; Sundermeier, 1999). La prospettiva interculturale impone un continuo lavoro di interpretazione, un’attitudine a far dialogare punti di vista diversi, con l’obiettivo di farli convivere senza conflitto; richiede dunque una capacità interpretativa che consenta di «disvelare le procedure e i contenuti del discorso, recuperando all’analisi il non-detto, l’escluso, ciò che è stato posto oltre (fuori) il cerchio magico del discorso istituzionalizzato. Ed è proprio l’ermeneutica che ci permette di compiere questo aggiramento» perché «rende possibile – anzi lo reclama come fondativo – un processo 29


cognitivo de-strutturante, che sveli il nascosto e lo riporti nell’ambito del giudizio» (Cambi, 1994, p. 24). Il dialogo dunque si fonda su un presupposto che è il riconoscimento dell’umanità dell’altro che, in quanto uomo, è titolare per ciò stesso di diritti universali. Un dialogo autentico allora richiede ai partecipanti di ridimensionare il proprio etnocentrismo. Quando questo non avviene, quando al contrario la propria centralità viene stravolta e forzata e si traduce in una pretesa di egemonia ci si immette su una strada pericolosa che conduce alla xenofobia e al razzismo. «Il guaio – ha affermato Gian Antonio Stella – è quando questa prospettiva in qualche modo naturale si traduce in una pretesa di egemonia. Di superiorità. Di eccellenza razziale. Quando pretende di scegliersi i vicini. O di distribuire patenti di “purezza etnica”» (Stella, 2010, p. 12). I capri espiatori cambiano di volta in volta ma la costruzione del nemico sembra essere una un’attività eterna e senza sosta come hanno dimostrato Gian Antonio Stella e Umberto Eco (2011). Secondo Eco, infatti, «sin dall’inizio vengono costruiti come nemici non tanto i diversi che ci minacciano direttamente […], bensì coloro che qualcuno ha interesse a rappresentare come minacciosi anche se non ci minacciano direttamente, così che non tanto la loro minacciosità ne faccia risaltare la diversità, ma la loro diversità diventi segno di minacciosità» (Eco, 2011, p. 12). Un esempio in questo senso viene fornito in Italia dalle posizioni politiche della Lega Nord che, pur avendo assunto la xenofobia come cifra identitaria, è arrivata ad essere un partito con responsabilità di Governo nazionale e locale: quasi quotidianamente qualche suo esponente, indipendentemente dalla posizione ricoperta, occupa le prime pagine delle principali testate a seguito di dichiarazioni razziste nei confronti dei migranti, degli “zingari” o dei “terroni”. Dal punto di vista delle politiche migratorie l’Italia vive quindi in una fase di grave arretramento culturale e civile che si è tradotto nel rafforzamento dei vincoli della legge 189/2002 (la cosiddetta Bossi-Fini), con il suo approccio al fenomeno migratorio in termini di permanenza temporanea e di repressione. Da quando l’attuale Governo Berlusconi si è insediato (2008) si sono susseguiti con inquietante frequenza una serie di provvedimenti nei confronti dei cittadini immigrati ca30


ratterizzati da un’impronta xenofoba e razzista. Dalle classi ponte al decreto sicurezza ogni settore della vita degli immigrati in Italia è stato oggetto di iniziative punitive e restrittive per la libertà. Appena insediato il Governo in carica ha decretato l’emergenza nomadi, nominando dei commissari straordinari (a Roma, a Milano e a Napoli) e dando il via al censimento dei Rom e dei Sinti su base etnica: l’emergenza decretata non si riferiva alle condizioni disumane in cui sono costretti a vivere i Rom in Italia, ma alla loro stessa presenza. Circa 160.000 persone, metà delle quali di nazionalità italiana, che vivono nelle discariche rappresenterebbero un pericolo e non uno scandalo per un Paese civile. Sempre nel 2008 è stata formulata dall’attuale Governatore del Piemonte, Roberto Cota, la proposta dell’istituzione delle classi separate (le cosiddette “classi ponte”) per gli allievi con cittadinanza non italiana. Successivamente la Camera dei Deputati ha approvato i tre emendamenti al disegno di legge sulla sicurezza, introducendo il reato di clandestinità, il pagamento da 80 a 200 euro per il permesso di soggiorno e di 200 euro per ottenere la cittadinanza, l’allungamento, fino a sei mesi, del trattenimento degli stranieri nei centri di identificazione ed espulsione e la costituzione delle ronde di cittadini per il controllo del territorio, mentre l’esponente leghista Matteo Salvini ha avanzato la vergognosa proposta di mezzi di trasporto pubblici separati per immigrati e milanesi “puri”. L’Italia ha poi dovuto assistere all’operazione “White Christmas” a Coccaglio, il comune in provincia di Brescia che ha inaugurato la caccia al clandestino in nome del Natale e all’assegnazione dell’Ambrogino, la più prestigiosa onorificenza milanese, ai vigili che rinchiudevano i presunti clandestini sui “bus della vergogna”, con grate ai vetri, in attesa dell’identificazione. L’Ambrogino è stato assegnato, su proposta della Lega, a maggioranza dal consiglio comunale al “Nucleo di tutela trasporto pubblico”. Il deputato leghista Maurizio Fugatti ha proposto qualche mese dopo un emendamento alla finanziaria che prevedeva una cassa integrazione ridotta (non superiore ai sei mesi) per i lavoratori immigrati. Pochi giorni dopo si è registrato l’ennesimo attacco, sempre da parte di esponenti della Lega Nord, al Cardinale Dionigi Tettamanzi per aver richiamato i valori dell’accoglienza e della solidarietà. Nel gennaio 2010, dopo i tragici fatti di Rosarno, il Ministro 31


degli Interni in carica, il leghista Roberto Maroni, ha affermato che erano conseguenza di politiche troppo tolleranti e l’8 gennaio 2010 il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha emanato la Circolare n. 2 avente come oggetto “Indicazioni e raccomandazioni per l’integrazione di alunni con cittadinanza non Italiana” che ha fissato al 30% il tetto massimo di presenze di studenti stranieri nelle classi scolastiche a partire dall’anno scolastico 2010/2011. Va ricordato, tuttavia che, fino a qualche tempo fa, almeno le scelte relative alle politiche scolastiche erano state guidate da una prospettiva di carattere interculturale. Ne sono testimonianza le circolari ministeriali (a partire dagli anni Novanta del secolo scorso), le pronunce del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione e i documenti prodotti dal Ministero della Pubblica Istruzione fino al 20073. La convivenza, quindi, non è né facile né scontata e richiede un forte impegno pedagogico e politico come aveva intuito Alexander Langer già negli anni Novanta del secolo scorso: «A me sembra che oggi sviluppare forme di cultura, di politica, di vita sociale, ecc. plurietniche e pluriculturali, sia una scelta difficile, per niente facile e scontata. Però credo che sia la risposta più civile e meno rassegnata e più ricca anche di prospettive positive fra le risposte che oggi in qualche modo possiamo cercare a questo proposito. Le forme alternative sono o di esclusione violenta, o di separazione violenta o al limite di inclusione violenta, cioè di assimilazione, di sottomissione o qualcosa del genere. […] Credo che valga la pena di tentare di esplorare i valori della convivenza. Anche se so che nella situazione attuale ci saranno turbamenti di equilibrio e che questo richiederà grandi sforzi per tutti: per noi e per gli immigrati» (Langer, 2001, pp. 68-69). La costruzione della “cultura della convivenza” può essere definito come il progetto di fondo dell’attività e della riflessione di Alexander Langer. La convivenza è una difficile arte che deve essere praticata quotidianamente e costantemente per arrivare a essere la normalità e non più l’eccezione. Non vi sono, secondo Langer, alternative ragionevoli: 3

Si veda, in particolare, il documento redatto nel 2007 dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale all’epoca attivo presso il Ministero della Pubblica Istruzione dal titolo La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli allievi stranieri.

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«che la soluzione plurietnica, plurilingue, pluriculturale, plurireligiosa offra di più, mi pare facilmente dimostrabile. Dovunque, infatti, la diversità e la pluralità sono più ricche dell’uniformità, semplicemente perché offrono un tessuto di relazioni, una possibilità di espressione e di rapporti tra le persone molto più articolati, con molte più opzioni. Di sicuro anche molto più problematiche: non mi faccio alcuna illusione, non sono sostenitore della facile idea del “plurietnico è bello” o cose del genere» (Langer, 1996, pp. 22-23). Egli intravede nell’idea stessa di “nazione” una sorta di truffa delle democrazie occidentali che rende impraticabile un percorso democratico di convivenza planetaria. L’idea che ogni gruppo etnico debba fare riferimento ad un proprio Stato nazionale è inconcepibile e «lo Stato nazionale inteso come Stato di un popolo per un solo popolo, di una nazione per una sola nazione, di una lingua per una sola lingua, di un’etnia per una sola etnia, oltretutto è anche concettualmente impossibile, a meno di attuare appunto o una politica di assimilazione o una politica di espulsione» (ivi, p. 26). La storia e l’esperienza dimostrano che non è possibile fissare dei confini “giusti”, “etnicamente rispondenti”, e ancora più difficile è renderli concreti in forma pacifica. Le umane vicende, gli spostamenti delle popolazioni, i cambiamenti politici e culturali rendono artificiale ogni tipo di frontiera e assolutamente inadeguato il concetto di Stato-nazione. La questione della convivenza tra i popoli non può essere affrontata a partire da questi presupposti. È opportuno e necessario esplorare altri percorsi e individuare nuove strade (a livello di pratica politica e culturale per l’autoaffermazione dei popoli) capaci di tutelare e valorizzare i diritti alle identità e alle diversità; allo stesso modo è sempre più opportuno limitare le sovranità per andare verso autorità sovranazionali, valorizzando la dimensione territoriale assai più che la dimensione etnica o nazionale. La proposta politica di Langer è quindi quella di inaugurare un percorso nuovo che conduca ad una forma di federalismo caratterizzato, nello stesso tempo, dallo spostamento dei poteri verso il basso, attraverso il rafforzamento delle autonomie locali, e verso l’alto, attraverso la costruzione di un’autorità e di ordinamenti sovranazionali. L’organismo sovranazionale a cui si riferiva Langer era l’allora Comunità Europea: «certo, la C.E. oggi non rappresenta propriamente un sogno di democrazia, di au33


tonomie, di federalismo, eppure si tratta di quell’“Europa realmente esistente” che viene presa come punto di riferimento, in positivo o in negativo; l’Europa che si loda, si critica, si cerca di imitare o si ritiene di dover combattere» (Langer, 2001, pp. 81-82): non un’Europa delle “patrie”, ma un’Europa delle “regioni”. Nonostante i suoi limiti egli vedeva nella Comunità Europea l’unica autorità sovranazionale potenzialmente in grado di garantire e promuovere la pace in Europa. Secondo Langer, però, molta strada doveva ancora essere percorsa per rendere la C.E. più democratica e federalista: – affermare il primato della politica rispetto a quello dell’economia; – inserire reali elementi democratici nel processo di integrazione europea; – realizzare una piena apertura nei confronti di quei Paesi che desideravano entrare nella Comunità; – garantire e favorire il regionalismo, l’autonomia e la tutela delle minoranze come elementi essenziali della stessa Comunità. La questione della convivenza interetnica chiama in causa, ovviamente, anche la realtà delle migrazioni che producono nuove forme e nuove tipologie di minoranze. Le migrazioni sono antiche quanto l’uomo e da sempre le persone si sono spostate per le ragioni più diverse: motivi politici, economici, sociali o ambientali. L’immigrazione è diventata però, negli ultimi anni, un fenomeno sempre più complesso ed ha messo in crisi i cosiddetti Paesi di accoglienza, che hanno reagito e reagiscono spesso con politiche restrittive, di controllo, basate sull’assimilazione o, peggio ancora, sul respingimento. Il fenomeno migratorio, essendo un fenomeno complesso, strettamente connesso alle condizioni economiche, politiche e sociali dei Paesi di partenza e ai cambiamenti globali in atto, richiede risposte equilibrate, che prendano in considerazione tutti gli elementi che intervengono senza trascurare le responsabilità di tutti i soggetti coinvolti. Alexander Langer ritiene che la questione dell’immigrazione «richiederà alle nostre società una forte capacità di risposta con politiche della convivenza. Ed a questo proposito personalmente non ritengo sia una soluzione auspicabile la semplice integrazione, cioè il semplice mescolarsi o melting pot, come viene definito negli Stati Uniti. Così pure 34


non ritengo possibile una politica della separazione» (Langer, 1996, p. 24). La compresenza e la convivenza, quindi, anche se difficili e non scontate rappresentano una realtà irrinunciabile: vi è qualcosa di molto importante in una compresenza di lingue, culture, identità ed esperienze, c’è sempre un valore inestimabile nell’incontro con gli “altri”, perché rappresentano una componente della nostra identità e del nostro modo di vivere. L’obiettivo è quindi quello di predisporre risposte molteplici, basate sulla pluralità e sulla possibilità di mantenere e coltivare l’umanità (Nussbaum, 2006) e le diversità. Alexander Langer, a partire dalla propria personale esperienza, ritiene comprensibile e giusta l’aspirazione di ogni comunità ad una certa forma di autonomia e di autogoverno, ad una certa valorizzazione delle proprie particolarità linguistiche, culturali o religiose; ciò che è del tutto infondato, impensabile e inaccettabile è «l’idea che dove è insediata un’etnia, un popolo, una confessione, una cultura… non ci sia posto per nessun altro. Certo, occorre che i nuovi arrivati vengano messi nelle condizioni di poter trovare forme di integrazione o comunque di inserimento soddisfacente, e che viceversa le popolazioni precedentemente insediate non vengano sopraffatte o emarginate: ovviamente c’è qui un ampio ventaglio di differenti esperienze storiche, anche secondo la differente forza economico-sociale e culturale che i diversi gruppi possono mettere in campo: i turchi a Berlino arrivano da proletari, gli italiani nel Tirolo erano magari anche soggettivamente spesso dei proletari, ma con il regime fascista alle spalle. Ma non vedo alternative alla “cultura della convivenza”, perché saranno sempre più rare le situazioni “pulite” dove etnia, nazione, Stato, ecc. coincidono: e quindi bisognerà decidersi: o si pensa davvero di poter costruire un’Europa con tante patrie-Stato mono-etniche (in fondo dei piccoli ghetti, magari dorati e volontari, ma oggi impensabili e neanche desiderabili), o si trovano le soluzioni per una convivenza plurilingue, pluriculturale, senza voler forzatamente trasformare i positivi elementi di identità e di differenza in altrettanti motivi di ostilità e di incompatibilità» (Langer, 2005a, pp. 71-72). Alexander Langer sente tuttavia l’esigenza di giungere ad una elaborazione più organica per il suo pensiero, valida sia per le questioni relative alla convivenza fra gli uomini sia per la convivenza fra gli uomini e la natura (conver35


sione ecologica): «mi rendo conto che condensare in un breve testo – per giunta astratto, cioè non riferito ad una singola situazione – un insieme di considerazioni su situazioni di contatto e conflitto interetnico (o inter-culturale, inter-confessionale, inter-razziale, ecc.) può far correre il rischio di genericità. Ma sono anche convinto che ormai il tempo sia più che maturo perché ci si occupi non solo e non tanto della definizione dei “diritti etnici” (o nazionali, o confessionali, ecc.), ma della ricerca di criteri per costruire un ordinamento della convivenza pluri-culturale, che ovviamente non potrà essere in primo luogo concepito come un insieme di norme e di statuizioni legali, ma soprattutto di valori e di pratiche della mutua tolleranza, conoscenza e frequentazione» (Langer, 2011, pp. 363-364). Il testo a cui si riferisce Langer è il famoso Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica4, pubblicato il 23 marzo 1994 sulla rivista «ArcobalenoTrento» con il titolo Decalogo per la convivenza interetnica5. Si tratta probabilmente del testo più maturo dal punto di vista intellettuale e culturale e dal punto di vista di una teoria strettamente connessa alla pratica sociale. Il testo è organizzato in dieci punti, costituiti da altrettante proposizioni iniziali seguite da riflessioni esplicative ricche di esempi e di riferimenti concreti. Nella parte iniziale del testo, Langer ribadisce che la compresenza sullo stesso territorio di comunità di diversa lingua, cultura e religione è ormai un dato di fatto, una nuova normalità, non un’eccezione, un fenomeno destinato a incrementarsi; di fronte a questa realtà multiculturale si può rispondere o seguendo la pericolosa logica dell’esclusivismo etnico o quella della convivenza plurietnica, che rappresenta un orizzonte di arricchimento, un’opportunità, a patto che venga posta in relazione con il diritto alle identità: la 4 Il testo completo del Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica è reperibile in diversi volumi: Langer A. (2001, pp. 33-42), (2011, pp. 365-375) oppure sul sito della Fondazione Alexander Langer (www.alexanderlanger.org). 5 I termini “etnico” ed “etnia” sono, come è noto, molto ambigui. Senza ripercorrere l’ampia letteratura odierna sul tema va precisato che, secondo Langer, tali termini vengono usati all’interno del “Decalogo” come “i più comprensivi delle caratteristiche nazionali, linguistiche, religiose, culturali che definiscono un’identità collettiva e possono esasperarla sino all’etnocentrismo: l’ego-mania collettiva più diffusa oggi” (Langer, 2011, p. 365).

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convivenza può essere garantita lasciando spazio sia alla conoscenza reciproca sia a momenti di “intimità etnica” (Langer, 2011, p. 368). A tale proposito, in alcuni casi può anche essere giusto optare per un’organizzazione etnica della comunità, purché essa sia una libera scelta e non assuma caratteri di integralismo o di totalitarismo: è quindi da accettare la possibilità di associazioni, scuole o club etnici, ma è evidente «che se si vuole favorire la convivenza più che l’(auto) isolamento etnico, si dovranno valorizzare tutte le altre dimensioni della vita personale e comunitaria che non sono in prima linea a carattere etnico» (ibidem). Non si deve dimenticare, quindi, che ogni persona ha anche tantissime altre appartenenze e tantissimi punti in comune con gli altri indipendentemente dalla propria cosiddetta originaria appartenenza: «è essenziale che le persone si possano incontrare e parlare e farsi valere non solo attraverso la “rappresentanza diplomatica” della propria etnia, ma direttamente: quindi è assai rilevante che ogni persona possa godere di robusti diritti umani individuali, accanto ai necessari diritti collettivi, di cui alcuni avranno anche un connotato etnico (uso della lingua, tutela delle tradizioni, ecc.); non tutti i diritti collettivi devono essere fruiti e canalizzati per linee etniche (per esempio diritti sociali – casa, occupazione, assistenza, salute… – o ambientali)» (ivi, p. 369). Il quinto punto del decalogo è dedicato alla questione dell’appartenenza e delle identità individuali e collettive. L’identità etnica, essendosi costruita attraverso processi storici, tradizioni, percorsi educativi e abitudini, prima ancora che attraverso la volontà e la libera scelta, non è e non deve essere delimitabile, essa è una nozione flessibile e fluida (Maalouf, 1996; Remotti, 1996, 2010). «Più rigida ed artificiosa diventa la definizione dell’appartenenza e la delimitazione contro gli altri, più pericolosamente vi è insita la vocazione al conflitto» (Langer, 2011, p. 369). Si tratta, quindi, di un’accezione non esclusiva e non pericolosamente rigida dell’identità. Tutti devono potersi sentire “a casa” e «l’autodeterminazione dei soggetti e delle comunità non deve partire dalla definizione delle proprie frontiere e dei divieti di accesso, bensì piuttosto dalla definizione in positivo dei propri valori e obiettivi, e non deve arrivare all’esclusivismo e alla separatezza. Deve essere possibile una realtà aperta a più comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di 37


immigrati, i figli di “famiglie miste”, le persone di formazione più pluralista e cosmopolita» (ivi, p. 370). Identità flessibili e convivenza interetnica devono svilupparsi in primo luogo attraverso le persone ma devono anche essere garantite da un adeguato quadro normativo (leggi, istituzioni e strutture) tanto da sviluppare concretamente una coscienza territoriale comune. Per rendere possibile il passaggio da una condizione di conflittualità a una di convivenza inter-etnica sono necessarie persone coraggiose, capaci di collocarsi volontariamente al confine tra le appartenenze e di promuovere la conoscenza reciproca, il dialogo, la cooperazione, di favorire la sensibilizzazione e la mediazione fra gruppi differenti; si tratta di quelli che Langer ha definito come “traditori della compattezza etnica”, persone cioè che si impegnano nell’esplorazione e nel superamento dei confini e che sono in grado di essere critici anche nei confronti del proprio gruppo di riferimento, che però non si devono mai trasformare in transfughi, non devono cioè perdere credibilità presso la propria comunità. Langer intravede in questi “traditori della compattezza etnica” il primo strumento di convivenza. In una certa misura «siamo tutti traditori delle nostre identità originarie. E il gesto della rottura con un’appartenenza che diviene gabbia spesso si rivela una necessità, talvolta si prospetta come una scelta rischiosa ma nobile» (Lerner, 2007, p. 184). È difficile immaginare che la convivenza interetnica non generi mai competizioni e conflitti ma la necessità principale è probabilmente quella di bandire ogni forma di violenza; spesso non sono sufficiente le leggi ma è necessario un “convinto e convincente no alla violenza” (Langer, 2011, p. 374). Langer sottolinea nuovamente l’importanza della costituzione di gruppi misti inter-etnici anche piccoli per sperimentare le difficoltà e le opportunità della convivenza perché «saranno in ogni caso il terreno più avanzato di sperimentazione della convivenza, e merita pertanto ogni appoggio da parte di chi ha a cuore l’arte e la cultura della convivenza come unica alternativa realistica al riemergere di una generalizzata barbarie etno-centrica» (ivi, p. 375). Il decalogo rappresenta quindi una riflessione matura sulla questione della convivenza che, molto concretamente, propone una serie di consigli e di attività effettivamente realizzabili. Essi vanno dalla necessità di creare gruppi e strutture su basi interetniche per 38


sperimentare la convivenza “in piccolo”, per costituire delle “zone grigie” in cui la tensione etnica è meno evidente, fino ad arrivare alla valorizzazione, da parte di ogni comunità etnica, delle persone e delle forze capaci di autocritica verso la propria comunità: traditori della compattezza etnica, che però non si devono trasformare in transfughi, se vogliono mantenere le radici e rimanere credibili (Langer, 2005b). Il Tentativo di decalogo sulla convivenza interetnica, anche per la sua concretezza, è ancora oggi un testo di grande attualità che merita di essere riletto, riscoperto e riproposto.

1.2 Educazione, partecipazione, intercultura Sono in corso cambiamenti epocali che interrogano i sistemi educativi e formativi: molto più che in passato dipendiamo da persone che non abbiamo mai visto e che non conosciamo e viceversa. I problemi che siamo chiamati ad affrontare (ambientali, economici, politici e religiosi) sono di carattere mondiale e non potranno essere risolti se non quando le «persone, tanto distanti, si uniranno e coopereranno come non hanno mai fatto finora» (Nussbaum, 2011, p. 95). Si pensi, solo per fare degli esempi, al riscaldamento globale, alla protezione dell’ambiente, alle questioni energetiche, alla definizione di condizioni di lavoro dignitose, ecc. Tali questioni potranno essere positivamente risolte solo in una prospettiva sovranazionale anche a partire da un ripensamento dei modelli educativi e di istruzione. Uno dei compiti più urgenti, come si è sostenuto finora, è quello di aiutare l’individuo a percepirsi come un’identità multipla, «aiutandolo nel contempo a percepire gli altri individui come identità altrettanto multiple. Solo questo gioco di riconoscimenti reciproci, in se stesso e negli altri, può far emergere nuove idee di collettività e di cittadinanza (a tutti i livelli: da quello locale a quello globale) sottratte sia al degrado di arcaiche appartenenze rigide e omologatrici, sia al fascino perverso di nuove appartenenze totalizzanti e anche – ed è l’esatto rovescio della medaglia – nullificanti» (Bocchi, Ceruti, 2004, p. 12). Appare dunque inadeguata oggi la formazione del cittadino nazionale che è stato il compito tradizionale del sistema scolastico: ma come è 39


possibile garantire una formazione all’altezza delle sfide del presente? Come è possibile educare alla cittadinanza planetaria in una fase di crisi dell’istruzione durante la quale progressivamente diminuiscono gli investimenti destinati al sistema educativo? Secondo Martha C. Nussbaum per mantenere viva la democrazia è necessario invertire quell’orientamento che ha condotto negli ultimi anni a ridurre i finanziamenti destinati agli studi umanistici e artistici a favore di abilità tecniche e conoscenze pratico-scientifiche. Sedotti dall’idea del profitto a breve termine gli Stati stanno progressivamente ridimensionando i programmi di studio di carattere umanistico nelle scuole e nelle Università considerati poco utili a favore di saperi tecnico-scientifici più idonei allo scopo: mentre il mondo si fa via via più complesso, gli strumenti per comprenderlo diventano poveri e rudimentali. «Le nazioni – afferma la Nussbaum – sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i Paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare per sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo» (Nussbaum, 2011, pp. 22-23). Non si tratta – secondo la Nussbaum – di difendere una presunta superiorità della cultura classica su quella scientifica, ma di mantenere l’accesso a quella conoscenza che nutre la libertà di pensiero e di parola, l’autonomia del giudizio, la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere localismi e di affrontare i problemi mondiali come “cittadini del mondo” e la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro. La contrapposizione non è quindi tra la cultura umanistica e la cultura scientifica ma tra l’istruzione orientata al profitto e l’istruzione per una cittadinanza più inclusiva (per la democrazia). Ovviamente oltre alla scuola agiscono prepotentemente altre agenzie quali la famiglia, il gruppo dei pari, i media, ecc. Martha Nussbaum traccia un programma estremamente impegnativo di formazione morale in cui sono altrettanto importanti sia i contenuti sia i metodi pedagogici attivi rifacendosi ad una tradi40


zione occidentale che va da Rousseau a Dewey, una formazione che non consiste nell’assimilazione passiva di fatti e tradizioni culturali, ma nella problematizzazione, nell’abituare la mente a diventare attiva, competente e responsabilmente critica verso la complessità del mondo. Ecco – secondo la Nussbaum – cosa può fare la scuola per formare i cittadini di una democrazia sana: • sviluppare la capacità degli studenti di vedere il mondo dal punto di vista di altre persone, in particolare di coloro che la società tende a raffigurare come inferiori, come “meri oggetti”; • insegnare a confrontarsi con le inadeguatezze e fragilità umane, cioè insegnare che la debolezza non deve essere fonte di vergogna e che avere bisogno degli altri non è mancanza di virilità; insegnare ai bambini a non vergognarsi del bisogno e delle difficoltà ma vedere tutto ciò come occasione di cooperazione e reciprocità; • sviluppare la capacità di un’autentica sensibilità verso gli altri, vicini e lontani; • contrastare la tendenza a ritrarsi da minoranze per qualche motivo disprezzate, ritenendole “inferiori” e “contaminanti”; • insegnare cose autentiche su gruppi diversi (sulle minoranze razziali, religiose e sessuali; sulle persone disabili), così da controbattere gli stereotipi e il disgusto che spesso li accompagnano; • incoraggiare la responsabilità, trattando ciascun bambino come un essere affidabile; • promuovere con vigore il pensiero critico, la capacità e il coraggio richiesti per far sentire una voce dissenziente (ivi, p. 61). Il pensiero critico, autonomo, non omologato è in altri termini di per sé interculturale perché rifiuta il pregiudizio e la conoscenza preconfezionata mettendo l’individuo in condizioni di agire e pensare liberamente e di non essere facilmente influenzabile. Martha Nussbaum insiste su una pedagogia socratica che pone al centro il ragionamento: il metodo socratico «è importante per qualsiasi democrazia. Ma lo è in particolare nelle società che devono fare i conti con la presenza di persone diverse per etnia, casta e religione. L’idea che ci si debba 41


assumere la responsabilità dei propri ragionamenti, e scambiare opinioni con altri in un’atmosfera di reciproco rispetto, è essenziale alla soluzione pacifica delle differenze, sia all’interno delle nazioni sia in un mondo sempre più polarizzato dal conflitto etnico e religioso» (ivi, p. 71). Un metodo critico dunque che John Dewey ha reinterpretato magistralmente con l’obiettivo di formare cittadini attivi, curiosi, critici e reciprocamente rispettosi perché nelle loro esperienze educative hanno imparato ad analizzare, vagliare, risolvere problemi. Si tratta di una prospettiva pedagogica indispensabile per affrontare i problemi del presente, il cosiddetto mondo delle interdipendenze rispetto al quale nessuno può oggi sentirsi estraneo. L’immigrazione stessa rappresenta uno degli effetti più visibili nelle nostre società dell’interdipendenza mondiale e la sua comprensione significa interessarsi dei problemi che sono alla sua origine. Non è più possibile studiare la storia di una nazione senza inquadrarla nel contesto globale. È sufficiente soffermarsi a ragionare sull’origine dei più comuni prodotti di consumo (dal caffè agli alimenti, dal vestiario alle bibite) per essere costretti a interrogarsi sulle condizioni di vita e di lavoro in altri Paesi del mondo6. Si tratta di insegnare quella che Edgar Morin ha definito come identità terrestre. Basta poco in effetti per rendersi conto dei processi di globalizzazione in atto a partire dalle nostre pratiche quo6

Un importante esempio in questa direzione è rappresentato dal commercio equo e solidale. Il commercio equo e solidale, o fair trade, è una partnership economica basata sul dialogo, la trasparenza e il rispetto, che mira ad una maggiore equità tra Nord e Sud del mondo attraverso il commercio internazionale. Il fair trade contribuisce ad uno sviluppo sostenibile complessivo attraverso l’offerta di migliori condizioni economiche e assicurando i diritti per produttori marginalizzati dal mercato e dei lavoratori, specialmente nel Sud del mondo. È, dunque, una forma di commercio internazionale nella quale si cerca di far crescere aziende economicamente sane e di garantire ai produttori ed ai lavoratori dei Paesi in via di sviluppo un trattamento economico e sociale equo e rispettoso; in questo senso si contrappone alle pratiche di commercio basate sullo sfruttamento spesso applicate dalle aziende multinazionali che agiscono esclusivamente nell’ottica della massimizzazione del profitto. Il commercio equo risponde a importanti linee guida: – garantire ai piccoli produttori nel Sud del mondo un accesso diretto e sostenibile al mercato, al fine di favorire il passaggio dalla precarietà ad una situazione di autosufficienza economica e di rispetto dei diritti umani; – rafforzare il ruolo dei produttori e dei lavoratori come primari stakeholders (portatori di interesse) nelle organizzazioni in cui operano;

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tidiane: «Così l’europeo, per esempio, si sveglia ogni mattina accendendo la sua radio giapponese e da essa riceve gli eventi del mondo: eruzioni vulcaniche, terremoti, colpi di Stato, conferenze internazionali gli arrivano mentre sorseggia il suo tè di Ceylon, dell’India o della Cina, a meno che non sia un caffè di qualità moka dell’Etiopia o arabica dell’America Latina; indossa il suo maglione, i suoi slip e la sua camicia di cotone dell’Egitto e dell’India; veste giacca e pantaloni di lana d’Australia, lavorata a Manchester e poi a Roubaix-Tourcoing, oppure un giubbotto di cuoio venuto dalla Cina, indossato sopra jeans di stile americano. Il suo orologio è svizzero o giapponese. Gli occhiali sono di scaglie di tartaruga equatoriale. Può trovare d’inverno sulla sua tavola le fragole e le ciliegie dell’Argentina o del Cile, i fagiolini freschi del Senegal, gli avocado o gli ananas dell’Africa, i meloni della Guadalupa. Ha bottiglie di rhum della Martinica, di vodka russa, di tequila messicana, di bourbon americano. Può ascoltare a casa sua una sinfonia tedesca diretta da un direttore d’orchestra coreano, oppure assistere davanti allo schermo del televisore a La Bohème con la nera Barbara Hendricks nella parte di Mimi e lo spagnolo Placido Domingo in quella di Rodolfo. Mentre l’europeo vive nel suo circuito planetario di comfort, un grandissimo numero di africani, asiatici, sudamericani sono in un circuito planetario di miseria e subiscono, nella vita quotidiana, i contraccolpi del mercato mondiale che influenzano le quotazioni del cacao, del caffè, dello zucchero, delle materie prime prodotte dai loro Paesi. Sono stati cacciati dai loro villaggi da processi mondializzati originati dall’Occidente, in particolare dai progressi della monocultura industriale; contadini autosufficienti sono diventati abitanti suburbani in cerca di salario; i loro bisogni sono ormai tradotti in termini monetari. Aspirano alla vita di benessere fatta loro sognare dalle pubblicità e dai film occidentali. Usano stoviglie di alluminio o di plastica, bevono birra o Coca-Cola. Dormono su pezzi di polistirolo recuperati non si sa come e portano T-shirt stampate all’americana. Danzano su musiche sincretiche dove i ritmi delle loro tradizioni entrano in un’orchestrazione venuta dall’America. –

agire ad ampio raggio, anche a livello politico e culturale, per raggiungere una maggiore equità nelle regole e nelle pratiche del commercio internazionale.

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Così, nel bene e nel male, ogni essere umano, ricco o povero, del Sud o del Nord, dell’Est o dell’Ovest porta in sé, senza saperlo, l’intero pianeta. La mondializzazione è nel contempo evidente, subcosciente, onnipresente» (Morin, 2001, p. 65). Se la globalizzazione è evidente anche nella nostra vita quotidiana deve essere però meglio conosciuta studiando i rapporti tra le economie e le reciproche storie in cui hanno avuto un ruolo non secondario il colonialismo e, in tempi più recenti, le società multinazionali. Storia, geografia, economia, letteratura, religione non possono essere più insegnate in prospettiva locale o nazionale perché non aiutano a capire la complessità dei problemi del presente e del futuro. Una educazione alla cittadinanza mondiale richiede quindi di imparare almeno i rudimenti della storia mondiale con una particolare attenzione alle relazioni di potere, ai rapporti tra i generi, al ruolo delle minoranze. Una formazione alla cittadinanza mondiale è però richiesta oggi non solo nella scuola ma anche nella società a diversi livelli. Molti professionisti e operatori si sono formati al loro lavoro senza una prospettiva interculturale. I fenomeni migratori, però, rendono immediatamente visibili gli effetti della globalizzazione sulla vita quotidiana di tutti. In un periodo di circa 20 anni la popolazione immigrata è cresciuta in Italia di quasi 20 volte, arrivando a sfiorare i 5 milioni di persone con una incidenza percentuale sulla popolazione complessiva pari al 7% (Caritas-Migrantes, 2010). Si tratta, come evidente, di cambiamenti repentini ed epocali che impongono a Enti, servizi e strutture pubblici e privati di riconfigurarsi in prospettiva interculturale. Per essere efficaci, tuttavia, i servizi devono necessariamente differenziare i propri strumenti, riconoscendo che l’utenza immigrata non è un gruppo sociale uniforme ma un insieme alquanto eterogeneo di soggetti che richiedono una de-standardizzazione delle risposte. Molto spesso emerge, da parte dei servizi, la difficoltà a svincolarsi da una visione e da una posizione “etnocentrica” che porta sostanzialmente a richiedere un’integrazione intesa come assimilazione; tale condizione appare a volte determinata dalla “rigidità strutturale” di alcuni servizi, compensata dalla flessibilità personale e professionale degli operatori che mettono in campo grandi competenze e capacità. L’innovazione e le competenze non possono però essere delegate a 44


singoli operatori, devono divenire patrimonio delle strutture e di tutti coloro che vi operano. La realtà sociale sempre più complessa e frammentata, il moltiplicarsi dei bisogni e delle domande hanno reso evidente che un servizio non è un prodotto standard generato in base alle abilità tecniche dell’operatore e nemmeno una risposta programmata in base agli scopi, ma è un processo che scaturisce dalla relazione con l’utente. I bisogni hanno una natura complessa e richiedono interventi flessibili, capaci di coinvolgere risorse, professionalità, competenze differenti. I processi di strutturalizzazione dell’immigrazione in Italia hanno inoltre reso più complesso il quadro; gli utenti immigrati sono infatti sempre più visibili anche in senso familiare: – aumentano sempre più i bambini negli asili, nelle scuole, nei servizi pediatrici, nelle realtà per il tempo libero; – aumenta il numero delle donne nelle sale parto, nei consultori e nei servizi per la maternità; – nascono sul territorio le associazioni di migranti che diventano interlocutrici delle istituzioni; – aumenta sensibilmente il numero degli immigrati anziani. Le esigenze delle persone migranti sono inoltre anche molto differenti tra loro a causa: – delle differenze individuali; – delle caratteristiche sociali e demografiche; – delle diverse aree di provenienza; – dei differenti progetti migratori (a breve, a medio, a lungo termine); – della condizione giuridico-amministrativa; – delle epoche di arrivo. Nei servizi sociali e sanitari, nella scuola, in campo socio-educativo quindi sempre di più gli operatori sentono l’esigenza di dotarsi di competenze interculturali. «Diversi sono anche gli ambiti in cui l’azione interculturale viene a realizzarsi, dall’ambito sociale alla scuola, dalle organizzazioni al territorio. Nel sociale la competenza interculturale permette di affrontare situazioni-problema quali le difficoltà e i conflitti di convivenza, la sicurezza, la riqualificazione urbana (casa, quartieri), il lavoro. Nella scuola svolge il ruolo di progettare compi45


ti di accoglienza, inserimento, insegnamento della L2 o della lingua d’origine, promozione della comprensione delle differenze culturali e prevenzione del pregiudizio. Infine, nelle organizzazioni, affronta le problematiche legate alla criticità della comunicazione interculturale all’interno e all’esterno della struttura» (Santerini, Reggio, 2007, pp. 7-8). Si tratta allora di mettere in atto strategie e percorsi formativi che mirino a riconfigurare i servizi in prospettiva interculturale. In questa direzione potrebbe essere molto utile lavorare per: – favorire il lavoro di rete tra i servizi e tra questi e il territorio; – diffondere e far conoscere le buone pratiche realizzate in Italia; – lavorare al progressivo superamento dei servizi dedicati (servizi speciali o emergenziali per stranieri) in vista del passaggio alla fase dei servizi per tutti, indipendentemente dalla provenienza dell’utente; – garantire la presenza all’interno del servizio di un’équipe di collaboratori “etnicamente” mista. Non sempre o quasi mai ciò avviene anche quando il servizio utilizza con stabilità il mediatore interculturale, figura oggi sperimentata e diffusa in molte strutture; – investire significativamente sulla formazione degli operatori: la competenza interculturale, la capacità di comunicare efficacemente con gli appartenenti a gruppi culturalmente differenti, non fa parte del corredo di saperi professionali della maggior parte degli operatori. Si tratta di agire sulla formazione a diversi livelli e soprattutto su quello iniziale affinché essa si configuri sempre più in una prospettiva interculturale. Non va trascurata però la formazione continua delle figure professionali che operano sempre più con soggetti migranti. La prospettiva interculturale è però per sua stessa natura biunivoca e richiede non solo alla società maggioritaria ma anche ai migranti di contribuire dinamicamente alla costruzione di una società inclusiva, ridefinendo la propria identità e le proprie appartenenze. Nel caso dei migranti la formazione interculturale è stata spesso indicata come via preferenziale all’integrazione (Bonetti, Fiorucci, 2006). Ciò è vero nella misura in cui tiene conto di almeno tre aspetti centrali: 46


la qualità della formazione erogata, la “globalità dei bisogni” di cui sono portatori gli immigrati e i progetti migratori dei migranti e delle loro famiglie. «La formazione per chi emigra è sintesi di accoglienza e stabilizzazione. L’immigrato accetta di intraprendere un percorso formativo sia per imparare a convivere nell’ambiguità della sua condizione sia per uscire da essa. Egli inizia un processo di reidentificazione linguistica, socio-culturale e professionale perché sa che non può sopportare più a lungo di vivere soltanto col “bene-rifugio” rappresentato dalla propria lingua, mentalità, operatività. L’immigrato cerca la sicurezza che i contenuti della formazione possono dargli (dalla prima alfabetizzazione alla formazione professionale)» (Demetrio e Favaro, 1992, p. 33). La formazione, tuttavia, non può da sola risolvere tutti i problemi di inserimento o di non inserimento dei migranti: l’esito dei percorsi di integrazione ha a che fare con le più complessive politiche di integrazione che un Paese è disposto a mettere in atto. Il caso dell’Italia si è caratterizzato a lungo per l’assenza di un modello politico e culturale intenzionalmente progettato e le misure legislative hanno sostanzialmente rincorso il fenomeno migratorio, anziché precederlo e governarlo (Ambrosini, 2005). Si tratta di un modello non intenzionale che si è venuto definendo a posteriori a seguito dei processi spontanei di inserimento informali di migliaia di immigrati nel tessuto sociale ed economico del nostro Paese, a cui hanno corrisposto contemporaneamente sia grandi slanci di solidarietà da parte di cittadini, di associazioni e di Enti locali, quanto reazioni di rigetto e campagne di sicurezza da parte di alcune componenti della società e del mondo politico, così come una scarsa regolazione istituzionale da parte del legislatore. Nonostante i cambi di direzione politica, una caratteristica costante nel tempo della politica italiana è stata l’uso delle sanatorie quale strumento attraverso cui regolarizzare le numerose situazioni in cui si sono trovati migliaia, e a volte centinaia di migliaia, di immigrati, mostrando indirettamente l’inadeguatezza delle politiche delle quote d’ingresso annuali quale principale modalità di accesso legale nel nostro Paese. Non si può quindi non tenere presente il quadro politico più generale e, tuttavia, la formazione può diventare una via preferenziale 47


per favorire percorsi di integrazione dei soggetti immigrati nel tessuto economico, sociale e culturale dei Paesi ospitanti. Va segnalato, infatti, che in alcune realtà italiane, seppure minoritarie, sono state messe in atto numerose iniziative e sono stati sperimentati dei progetti interessanti in questa direzione, che mirano all’integrazione attraverso percorsi di orientamento, di bilancio delle competenze, di inserimento e reinserimento lavorativo, di formazione professionale e continua e progetti che sostengono gli stranieri attraverso percorsi di alfabetizzazione linguistica con particolare attenzione per i soggetti più deboli, soprattutto donne, che spesso si ricongiungono con il marito in un secondo momento, e non hanno occasione di inserirsi all’interno della comunità. Il rischio da evitare è tuttavia quello di predisporre per gli immigrati una formazione di serie B. «Bisogna imparare, invece, a riconoscere in ogni straniero una persona che reca con sé una storia e una memoria, che ha una cultura e una patria, un progetto di vita, delle competenze da valorizzare e delle cose da dire; che incontra problemi diversi e differentemente acuti a seconda del gruppo etnico, a seconda se è uomo o donna, ragazzo, giovane o anziano, a seconda del percorso migratorio, a seconda se dispone o meno del sostegno di una comunità; che non ha solo bisogni di vitto o alloggio, ma anche di comunicazione, di socialità, di affetto, di cultura. Si tratta di guardare i fatti diversamente da prima, di farsene una nuova rappresentazione e, dunque, di operare una ristrutturazione cognitiva che è lungi dall’essere compiuta. Essa è, però, indispensabile, se si vuole rinviare agli stranieri l’immagine nuova e diversa che si deve avere di loro» (Susi, 1991, p. 20).

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