Carlo Foddis
LA CONSULENZA ORGANIZZATIVA Modelli d’intervento psicosociale nelle organizzazioni
ARMANDO EDITORE
Sommario
Introduzione Capitolo 1: Conoscere il contesto d’intervento: la modellizzazione dei processi organizzativi 1. Appunti di viaggio: attori, obiettivi, scenari 2. La gestione aziendale per processi 2.1. Cos’è un processo organizzativo 2.2. Mappare i processi aziendali
3. Il linguaggio di modellizzazione aziendale IDEF 0 3.1. Sintassi e semantica del linguaggio IDEF 0
4. Ricomporre il nesso fra azione e organizzazione Capitolo 2: La convivenza produttiva: partecipare e gestire gruppi di lavoro 1. La costruzione “emozionata” della realtà organizzativa 2. I gruppi di lavoro: uno sguardo alla letteratura 3. La dimensione organizzativa del gruppo 3.1. Il gruppo nei suoi aspetti costitutivi 3.2. Confrontarsi con la realizzazione del prodotto Riquadro 1. “Costruire un prodotto condiviso: L’esercitazione della ‘Torre’” 3.3. La gestione della convivenza produttiva Riquadro 2. “Lavorare con il gruppo: la gestione delle riunioni operative”
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60 62 65 Riquadro 3. “Il Social Dreaming: sognare e narrare l’organizzazione” 68
4. Un modello di lettura dell’operatività di gruppo 5. La dinamica istituzionale del gruppo
Capitolo 3: Costruire committenza: dalla diagnosi organizzativa alla condivisione del progetto di sviluppo 1. L’intervento consulenziale nei sistemi sociali complessi 2. Modelli di consulenza A) B) C) D)
Modello del tecnicismo autoreferenziale Modello medico-paziente Modello “a domanda rispondo” Modello fondato sulla partecipazione alla domanda
3. Il setting della consulenza 4. La domanda di intervento Riquadro 4. “Da padre a figlio: storia di un’azienda di famiglia e del confronto generazionale”
5. Strumenti della consulenza 5.1. Il Brainstorming 5.2. Il diagramma a lisca di pesce di Ishikawa 5.3. Il Problem Solving
6. Individuare e definire i livelli di intervento Riquadro 5. “Il resoconto narrativo: esplicitare ed articolare il rapporto fra teoria e prassi dell’intervento”
Capitolo 4 Elementi di project management 1. Le dimensioni del progetto 2. Il project management 3. Il ciclo di vita di un progetto 4. Definire gli obiettivi (Plan)
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Fattibilità del progetto e risk management “Do” (realizzazione) “Check” (verifica) “Act” (consolidamento)
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Capitolo 5 Verso una cultura organizzativa orientata al cliente 1. Consulenza e customer satisfaction 2. Il cliente come partner aziendale
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4.1. Il Piano Generale del Progetto 4.2. La dimensione temporale (Time plan) 4.3. Il piano finanziario
5. 6. 7. 8.
3. La metodologia CRM 3.1. Come funziona un sistema CRM
4. Progettare una strategia CRM 4. Immagine, comunicazione e posizionamento competitivo dell’azienda
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Conclusioni
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Bibliografia
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Introduzione
Il tema della consulenza organizzativa rappresenta un argomento suggestivo e complesso affrontabile da differenti vertici osservativi a seconda delle scelte metodologiche che caratterizzano l’intervento e delle possibili opportunità di incontro e costruzione di valore che si sviluppano fra il professionista esterno ed il contesto produttivo cliente. Torna, per certi versi, alla mente Il grande capo (2006) bel film di Lars von Trier nel quale si racconta l’ingresso, in un’azienda informatica in procinto di essere venduta, di un attore disoccupato reclutato per impersonare il “grande capo”, visto che il reale proprietario non aveva mai rivelato ai dipendenti la propria identità fingendosi negli anni un semplice portavoce della dirigenza, mai incontrata personalmente da nessuno. La storia, naturalmente, può essere seguita e scoperta da angolazioni differenti, tuttavia, se si presta attenzione alla dinamica di rapporto fra i personaggi appare evidente come l’ingresso di un terzo, l’attore disoccupato, svolga una funzione essenziale nella gestione dei rapporti fra le parti in scena, il proprietario “segreto” ed i suoi dipendenti. Una situazione per certi versi analoga si viene a creare nell’ambito della consulenza organizzativa e delle vicende di rapporto che legano il professionista ai propri interlocutori aziendali. Anche in questo caso, un po’ come nella trama del film citato, l’ingresso di un consulente esterno entro un sistema produttivo si presenta come un evento complesso, mai casuale, che richiama ed attiva reciproche rappresentazioni culturali, esigenze affettive ed attese, fra le parti in gioco, capaci di orientare ed organizzare profondamente i percorsi e gli esiti della relazione professionale. La domanda che la committenza aziendale rivolge al consulente, da questo punto di vista, rappresenta una specifica proposta organizzativa che circoscrive l’incontro e sollecita l’adesione del professionista al conseguimento degli obiettivi attesi e sperati dal management, siano essi riconducibili alla definizione di nuovi assetti produttivi, all’avvio di particolari progetti 11
strategici o alla gestione del sistema di convivenza delle risorse umane impiegate. Dal vertice osservativo del consulente, d’altra parte, la domanda d’intervento costituisce anche una sorta di pretesto istituente la relazione professionale i cui esiti possono essere, a seconda dei casi, l’agito emozionale ed immediato, da parte degli attori coinvolti, dei motivi dichiarati dell’incontro, il riferimento a dimensioni e saperi tecnici specifici in grado, da soli, di orientare l’azione o, nel migliore dei casi, la costruzione di un pensiero condiviso a sostegno di un progetto di intervento realistico entro il sistema cliente. Nella prospettiva che si tenta di delineare, dunque, la relazione che il consulente stabilisce con la propria committenza aziendale rappresenta l’elemento fondante l’intervento, terreno partecipato di incontro e costruzione di conoscenza, spazio di scoperta di ciò che non è noto a priori, snodo di scelte e valutazioni possibili e condivise e, infine, motore d’innovazione strategica e competitiva malgrado, fin troppo spesso, gli interlocutori coinvolti preferiscano, difensivamente, non vederne o sfruttarne appieno le possibilità Il presente libro nasce, pertanto, dal desiderio di attrarre e focalizzare l’attenzione del lettore sulle vicende, gli obiettivi, gli strumenti e gli itinerari di sviluppo del rapporto fra un professionista esterno e la sua azienda cliente. Possiamo, infatti, intendere la consulenza organizzativa come un progetto di lavoro che si caratterizza per la temporaneità, la reversibilità e l’unicità delle situazioni e delle soluzioni adottate, fondato sull’incontro fra esigenze, domande e bisogni di un sistema aziendale e le proposte metodologiche di un professionista esterno, da cui deriva un percorso di condivisione e partecipazione, fra gli interlocutori presenti, orientato al conseguimento dei risultati attesi. Diventa allora essenziale per il consulente collocarsi in maniera utile e realistica entro il contesto produttivo cliente esprimendo, da questo punto di vista, una preziosa competenza organizzativa (Carli, Paniccia, 1999) oltre che specificamente tecnica e metodologica. L’itinerario narrativo suggerito nel libro, in fondo, rappresenta la proposta di una possibile traduzione operativa delle competenze professionali del consulente in specifici modelli, strumenti ed aree di intervento entro l’azienda. In questa prospettiva, la variabilità delle domande e dei contesti produttivi di intervento richiede al professionista la capacità di leggere e capire il funzionamento organizzativo del sistema cliente, di sviluppare partecipazione e committenza nelle relazioni con individui e gruppi, di elaborare e definire metodologicamente obiettivi e progetti realistici d’intervento e, infine, di orientare la propria prassi professionale alla sod12
disfazione del cliente e alla creazione di una catena del valore nel rapporto fra l’azienda ed il proprio mercato. Da qui il senso e la scelta dei singoli capitoli che compongono il libro. Nello specifico il primo capitolo, “Conoscere il contesto d’intervento: la modellizzazione dei processi aziendali”, introduce il lettore ad un’analisi dei modelli di funzionamento produttivo adottati dai sistemi organizzativi nella realizzazione dei propri obiettivi. Pensare la propria azienda cliente in termini di flussi interfunzionali di attività orientate alla realizzazione del prodotto e di fattori critici di successo, in particolare, consente al consulente di individuare i processi strategici e valutare l’efficacia e l’adattabilità del sistema produttivo alle sfide competitive del mercato. L’approfondimento del linguaggio di modellizzazione IDEF 0 favorisce, a riguardo, la rappresentabilità grafica dei funzionamenti organizzativi individuati. Il tema del secondo capitolo, “La convivenza produttiva: partecipare e gestire gruppi di lavoro”, riguarda la gestione ed il coinvolgimento produttivo delle risorse umane interessate nell’intervento consulenziale. Il funzionamento e le dinamiche operative dei gruppi di lavoro in ambito aziendale vengono analizzate sia dal punto di vista delle variabili organizzative coinvolte, sia rispetto alle configurazioni affettive e simboliche attivate nei partecipanti dallo stare insieme entro situazioni di interazione produttiva. Il terzo capitolo, “Costruire committenza: dalla diagnosi organizzativa alla condivisione del progetto di sviluppo”, sposta invece il focus dell’attenzione sulla dinamica di rapporto fra committenza aziendale e consulente, quale momento essenziale nella comprensione del significato e dei reali motivi della richiesta d’intervento e nella scelta condivisa di obiettivi e soluzioni metodologiche realistiche da implementare entro il sistema aziendale cliente. Gli specifici strumenti presentati, inoltre, costituiscono un utile supporto nel percorso di indagine e costruzione di ipotesi e conoscenze che coinvolge i partecipanti al processo consulenziale. Il quarto capitolo, “Elementi di project management”, pone l’accento sulle tecniche e gli strumenti di pianificazione ed elaborazione metodologica del progetto di intervento e sulla sua realizzazione entro lo specifico contesto cliente. La gestione degli aspetti organizzativi ed operativi di un progetto di lavoro richiede, in particolare, l’individuazione dei percorsi metodologici utili al conseguimento degli obiettivi attesi, una valutazione realistica delle risorse a disposizione, un confronto fra opportunità, vincoli e rischi presenti nello specifico contesto ed il coinvolgimento produttivo del team alla realizzazione dei risultati. 13
Il quinto capitolo, “Verso una cultura organizzativa orientata al cliente”, per concludere, allarga i confini dell’intervento dalle dinamiche produttive interne all’azienda al rapporto che questa stabilisce con il proprio mercato di riferimento. La soddisfazione del cliente, quale criterio essenziale per valutare la qualità e la competitività del servizio erogato dall’impresa, rappresenta nella prospettiva proposta una dimensione culturale prima ancora che tecnica ed organizzativa, data dalla competenza aziendale nel conoscere le esigenze del proprio interlocutore esterno ed offrire a questo soluzioni capaci di creare valore nelle proprie attività produttive. Si comprende, dunque, l’attenzione rivolta alle metodologie di Customer Relationship Management (CRM) e di comunicazione organizzativa quali strumenti essenziali per sviluppare una pluralità di azioni aziendali personalizzate ed orientate a soddisfare nel tempo esigenze ed aspettative della clientela creando reciproca soddisfazione e convenienza per le parti in gioco. L’itinerario narrativo proposto nel presente libro si rivolge agli psicologi che intendano lavorare ed intervenire entro le organizzazioni, ponendo l’accento sulla competenza a pensare relazioni produttive con la clientela e a conoscerne le dimensioni culturali ed organizzative fondanti la convivenza fra i partecipanti, elaborando progetti di lavoro condivisi e realistici orientati a sviluppare un vantaggio competitivo dell’azienda sul proprio mercato di riferimento.
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Capitolo 1
Conoscere il contesto d’intervento: la modellizzazione dei processi organizzativi
1. Appunti di viaggio: attori, obiettivi, scenari La consulenza organizzativa può essere definita come un processo metodologico di affiancamento (go with) e supporto che coinvolge il consulente psicologo ed il sistema cliente (committenza e destinatari), fondato sulla possibilità di integrare competenze e strumenti d’intervento di tipo psicosociale con specifiche esigenze, bisogni ed esperienze aziendali. Gli obiettivi che sostanziano tale rapporto professionale sono, principalmente, il promuovere conoscenza sui problemi che hanno motivato la domanda d’intervento rivolta al consulente, affrontare particolari fasi di transizione dell’azienda nel rapporto con il mercato, migliorare l’efficienza dei processi produttivi e facilitare lo sviluppo dell’organizzazione, della sua immagine e la soddisfazione di clienti e personale interno. In generale con il termine Organizzazione intendiamo un insieme di persone, con definite responsabilità, autorità e relazioni reciproche che dispongono ed utilizzano, in maniera coordinata, specifici mezzi e risorse con l’obiettivo di raggiungere determinati risultati produttivi. Tale definizione comprende, dunque, qualsiasi tipo di azienda, pubblica e privata, nelle sue svariate declinazioni in termini di dimensioni, struttura, obiettivi, strategie, prodotti e servizi erogati. Ogni azienda, inoltre, non può essere considerata in maniera avulsa dal proprio contesto culturale, sociale ed economico, ma fa sempre parte di più complessi ed estesi sistemi organizzativi e di convivenza che influenzano in vario modo le sue performance. Il termine parti interessate, a tal proposito, si riferisce a quelle persone o gruppi che hanno un interesse alle prestazioni ed al successo di una data impresa e non sono identificabili esclusivamente con i suoi clienti. Ad esempio, le parti interessate al funzionamento di un asilo nido sono, 15
oltre alle famiglie-clienti che inviano i loro bambini, anche le istituzioni pubbliche deputate a regolamentare e coordinare il servizio, il sistema di trasporti, le risorse umane necessarie, eventuali associazioni culturali, enti di formazione, personale medico, fornitori di vario tipo e negozi di interesse specifico, ovvero tutti coloro che, per quanto attiene al proprio contributo, hanno interesse al successo dell’organizzazione in esame. Conoscere quante e quali parti sono coinvolte e traggono interesse al buon funzionamento di una data organizzazione ci consente di valutare, in maniera più articolata, la portata della rete formale ed informale (network) e del sistema produttivo in cui questa è inserita, individuando possibili risorse e modelli di rapporto con il proprio mercato economico e sociale di riferimento. Il termine prodotto fa riferimento a tutto ciò che deriva da un’attività umana di qualunque natura (fisica e intellettuale), risultato dell’utilizzo delle più svariate risorse, supporti tecnici ed operazioni. È interessante osservare come nella nostra società la maggior parte delle attività economiche riguarda la fornitura di servizi intangibili, sempre più frutto delle nostre idee e del nostro sapere. Questa tendenza alla “smaterializzazione” dei beni di consumo sta progressivamente influenzando anche i cosiddetti prodotti tangibili dell’impresa manifatturiera che, nella nostra epoca, acquistano sempre più il valore di “servizi in evoluzione”. Ogni “oggetto”, infatti, pensate ad esempio ad un qualsiasi prodotto tecnologico di ultima generazione, è dotato di un contenuto di informazione sempre più determinante, di una maggiore interattività, di un marchio (brand), di un’idea frutto di continui miglioramenti e consente l’accesso ad un universo di esperienze sempre più vasto ed articolato. Le imprese, dunque, cominciano a considerare il prodotto non più come un oggetto fisso dotato di certe caratteristiche e di un valore commerciale da sfruttare una volta sola, ma come una “piattaforma” (Rifklin, 2000) per promuovere servizi a valore aggiunto. Nell’economia attuale, dunque, la risorsa essenziale è data dal know-how dell’organizzazione, ovvero dal sistema di conoscenze, competenza e creatività messe in gioco dalle persone coinvolte. Il concetto di right organization (Ò Reilly, Pfeffer, 2000) si riferisce a quei sistemi produttivi centrati sulle risorse umane, interessati ad accrescerne il valore e ad utilizzarne al massimo le potenzialità attraverso la definizione di un insieme di valori aziendali capaci di allineare le strategie produttive, i sistemi gestionali e la valorizzazione delle persone coinvolte. Le risorse umane occupano, pertanto, la posizione centrale nella gestione strategica delle aziende attuali e, non a caso, rappresentano il focus principale degli interventi di consulenza organizzativa. 16
2. La gestione aziendale per processi Il concetto di struttura organizzativa esprime il modello di divisione del lavoro all’interno di un’impresa ed i relativi criteri di configurazione della dimensione verticale ed orizzontale, la prima attinente alla stratificazione gerarchica, la seconda alla specializzazione delle attività operative adottate. Isotta (1989; 2003), in particolare, distingue una microstruttura, relativa alla progettazione di posizioni, mansioni, compiti e responsabilità associate, da una macrostruttura che riguarda, invece, la definizione dei criteri di raggruppamento delle posizioni in unità organizzative di livello superiore e di individuazione dei rapporti gerarchici e di autorità fra le differenti funzioni aziendali. Il passaggio da forme organizzative più semplici, i cosiddetti assetti imprenditoriali, a strutture più complesse di tipo gerarchico-funzionale, risponde, dunque, al bisogno di creare un maggiore coordinamento fra le parti coinvolte, a sostegno di obiettivi strategici orientati all’incremento di valore che l’azienda intende generare attraverso la propria attività produttiva. Negli assetti imprenditoriali, generalmente, il vertice strategico, il controllo economico e la direzione e coordinamento delle attività sono presidiate dall’imprenditore a fronte di un’assenza di livelli gerarchici intermedi e di uno scarso sviluppo e differenziazione della dimensione orizzontale, relativa a ruoli e funzioni distinte (Costa, Guitta, 2004). L’esigenza di definire una maggiore specializzazione delle unità organizzative e di integrarne le attività attraverso l’introduzione di livelli gerarchici intermedi ha favorito la notevole diffusione, nei più svariati settori produttivi, dal manifatturiero alle amministrazioni pubbliche, della cosiddetta struttura organizzativa di tipo gerarchico-funzionale con la sua “classica” rappresentazione “piramidale” o “verticale”. Il modello organizzativo gerarchico-funzionale pone principalmente l’accento sulla struttura gerarchica dell’azienda e sulle varie funzioni specializzate (amministrazione, ricerca, produzione, approvvigionamenti, marketing, ecc.), che gestiscono obiettivi e mansioni di loro competenza in maniera più o meno autonoma. I principi che fondano tale configurazione organizzativa sono, dunque, quelli della divisione del lavoro, della creazione dell’unità di comando e del principio scalare nella gestione degli ordini e dei flussi informativi/comunicativi fra collaboratori e superiori ed, infine, della centralizzazione dei processi decisionali (Costa, Guitta, op. cit.). In questo tipo di visione aziendale la logica dominante è quella del “comando-controllo” esercitato dalle funzioni di vertice (mana17
ger, responsabile d’area, quadri intermedi, ecc.) sui livelli operativi di volta in volta inferiori. Le varie funzioni, che rappresentano delle macro aree di competenza, sono in ultima analisi frutto di una specializzazione del lavoro d’impronta tayloristica (Salvatore, 1996; Bonazzi, 2002; Negrelli, 2007). L’esperienza nel tempo ha mostrato come un eccessivo orientamento su questa visione gerarchico-funzionale può portare a comportamenti poco “allineati” e coordinati fra i vari reparti e, talvolta, allo sviluppo di centri di potere periferici gestiti dai responsabili d’area in maniera disgiunta, con risultati spesso disastrosi per le performance aziendali. L’utilizzo di strumenti supplementari di coordinamento fra le varie funzioni determina, inoltre, un aumento dei costi e della complessità del sistema spesso insostenibili e con ovvie ripercussioni sulla capacità dell’azienda di mirare alla soddisfazione del cliente e al raggiungimento dei propri obiettivi produttivi. Il tentativo di proporre un modello di organizzazione aziendale più flessibile, efficiente ed orientato ai risultati ha determinato un progressivo spostamento dell’attenzione dalle funzioni ai processi aziendali, facilitando lo sviluppo di una visione dell’azienda differente. La logica per processi, definita anche “orizzontale”, considera l’organizzazione come una catena di attività interfunzionali finalizzate alla fornitura del prodotto/servizio al cliente e coordinate attraverso flussi informativi principalmente orizzontali. Tale modello aziendale parte sostanzialmente dall’idea che il prodotto/ servizio offerto al cliente è il risultato di un determinato processo produttivo ed è quest’ultimo che l’azienda deve migliorare continuamente per garantirsi la soddisfazione del proprio cliente ed un vantaggio competitivo sulla concorrenza. In altri termini, i clienti sono poco interessati all’efficienza delle singole funzioni aziendali (ad esempio, progettazione, ricerca, approvvigionamenti) se questa non si traduce in un prodotto che ha le caratteristiche (prestazioni, costo) il più possibile rispondenti alle proprie attese e bisogni. L’obiettivo organizzativo, in quest’ottica, non è più quello di elevare il livello prestazionale di ogni singola attività funzionale, che porterebbe ad una semplice sub-ottimizzazione, ma di migliorare il coordinamento sistemico e sinergico del flusso di attività aziendali significative nella predisposizione ed erogazione del prodotto/servizio (Oriani, 1995). Come propone e ben rappresenta Oriani, l’organizzazione per processi non è altro che la rotazione di 90°, da verticale ad orizzontale, del concetto di organizzazione classica.
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Fig. 1
La logica aziendale per processi implica, dunque, una revisione significativa di meccanismi e concezioni organizzative “classiche”, quali i concetti di gerarchia, di specializzazione, di sistemi di coordinamento, controllo e gestione delle informazioni, ma soprattutto richiede agli attori coinvolti un difficile salto culturale da una visione del proprio agire organizzativo incentrata esclusivamente sui problemi del proprio reparto e sulle attese del diretto superiore, ad una logica di processo in cui l’attenzione è rivolta al sistema-azienda nel suo complesso, in rapporto alle richieste ed alle esigenze dei clienti. In altri termini, con il concetto di processo si intende potenziare le capacità di coordinamento dell’azienda mediando il passaggio da strutture lente, rigide, complesse ed in contrasto con le esigenze competitive, a strutture più semplici, dinamiche e flessibili, orientate ad ottimizzare i flussi delle attività generatrici di valore e sviluppo. La turbolenza economica che contraddistingue la situazione attuale, già da diversi anni, sembra spingere sempre più aziende verso soluzioni e assetti organizzativi “process oriented” che risultano più flessibili e adattabili alle esigenze dei mercati e fortemente orientati alla soddisfazione dei clienti, all’ottimizzazione dei costi e al miglioramento dell’efficienza dei processi produttivi, ovvero ciò che Butera (1991) definisce “economia della flessibilità” intesa come appropriatezza della risposta dell’azienda al proprio contesto. Non è un caso che le Norme della serie ISO 9000 (Vision 2000) considerino il modello organizzativo per processi alla base di un efficace funzionamento del Sistema di Gestione per la Qualità di un azienda, capace di assicurare i requisiti contrattuali di qualità richiesti dai clienti (Gabassi et al., 2005; Vincenzo, 2005). L’approccio per processi si fonda, dunque, sull’idea che ogni organizzazione genera valore attraverso i propri processi 19
produttivi quale chiave strategica per sviluppare rapporti progressivamente più soddisfacenti con clientela, fornitori e partner ed un vantaggio competitivo sulla concorrenza. 2.1. Cos’è un processo organizzativo Un processo è una sequenza organizzata di decisioni interfunzionali e di attività correlate che utilizzano specifiche risorse per trasformare elementi in entrata (input) in elementi in uscita (output), questi ultimi identificabili con ciò che si ha intenzione di produrre. La finalità aziendale perseguita attraverso il processo, dunque, indirizza l’ordine e lo svolgimento delle azioni proposte (Beretta, 2001). Gli elementi in entrata (input) sono tutto ciò che l’azienda ha a disposizione per poter realizzare il suo prodotto finale e comprendono risorse di vario tipo, umane, tecniche e/o tecnologiche, metodologiche, finanziarie, informative, ecc. Gli elementi in uscita (output) sono, invece, il risultato/prodotto di un certo processo produttivo, generalmente rappresentabili in termini di servizi, prodotti o informazioni che abbiano un valore per il cliente (Hammer, Champy, 1993) ed un impatto significativo sulle capacità competitive dell’azienda. Spesso l’elemento in uscita da un processo (output) costituisce l’elemento in entrata (input) del processo successivo, in quanto soggetto ad ulteriori elaborazioni e trasformazioni. D’altra parte non rappresenta un processo finito qualsiasi tipo di attività specialistica che contribuisce solo parzialmente alla realizzazione di un dato output. Il termine “processo aziendale” identifica, dunque, una sequenza di attività interfunzionali che richiedono un incremento delle capacità di coordinamento fra i vari reparti/funzioni dell’organizzazione e concorrono a realizzare degli output ben identificabili e significativi per il successo dell’azienda come, ad esempio, possono essere le attività di sviluppo del prodotto o di gestione delle relazioni commerciali con i clienti. Appare evidente la distinzione fra funzioni e processi aziendali, le prime comprendono attività della stessa natura, ad esempio, amministrative, progettuali, commerciali, direttive, mentre i secondi riguardano sequenze di attività coordinate (Pierantozzi, 1998) di natura differente, finalizzate al raggiungimento di un obiettivo comune, l’output del processo. Seguendo tale modello possiamo, allora, delineare un’immagine del processo come una successione di fasi temporali e attività interfunzionali concatenate fra loro in un flusso continuo, un cosiddetto Workflow, in cui ogni reparto 20
dell’azienda è legato a quello “precedente” e a quello “successivo” come in un rapporto tra fornitore e cliente. Fig. 2
In Fig. 2 viene rappresentato il cosiddetto Ciclo Cliente-fornitore secondo il quale ciascun responsabile di processo considera le fasi del processo produttivo a “monte” come i propri fornitori mentre quelle a “valle” come i propri clienti. Secondo tale modello organizzativo, le interazioni fra differenti funzioni aziendali sono organizzate seguendo la stessa logica che generalmente viene adottata nelle transazioni verso terzi esterni, in questo senso, l’orientamento al cliente riguarda non solo l’atteggiamento verso il mercato esterno ma anche i rapporti interni all’azienda stessa, fra i vari reparti/funzioni coinvolte nei processi produttivi. I principi (Costa, Guitta, op. cit.) che fondano una visione aziendale per processi sono, pertanto: • l’adozione di una logica di cliente interno orientata, per ciascun reparto, alla soddisfazione di esigenze ed aspettative del suo diretto cliente, il reparto successivo coinvolto nel processo; • l’individuazione di validi indicatori di interfaccia posti nei punti di contatto/scambio fra differenti unità organizzative, utili a verificare standard, caratteristiche e qualità dell’output fornito; • il potenziamento dei flussi informativi automatizzati utili a gestire le interdipendenze fra funzioni migliorandone le capacità di coordinamento. Oltre all’output previsto, un processo gestito adeguatamente dall’azienda contribuisce, inoltre, ad incrementare il ciclo del valore delle risorse umane (Costa, Gianecchini, 2005) coinvolte, attraverso un aumento della 21
conoscenza, degli apprendimenti organizzativi (ISFOL, 2003) e uno sviluppo del know-how aziendale, fonte principale della qualità delle performance e del vantaggio competitivo dell’impresa entro il proprio mercato di riferimento. Alla luce di quanto detto possiamo, allora, definire un processo organizzativo come una sequenza coordinata di decisioni ed attività interfunzionali, che coinvolgono cioè più funzioni, orientata a trasformare risorse in ingresso (input), producendo un output che soddisfi i clienti interni ed esterni all’azienda, ed incrementando il ciclo del valore delle risorse umane impiegate quale asset intangibile (Itami, 1989) di importanza strategica essenziale per l’impresa. Proviamo a riepilogare questi aspetti nello schema seguente: Fig. 3 Struttura gerarchico-funzionale
Logica per processi
Unità organizzativa di riferimento
Funzione (intesa come insieme di attività della stessa natura, ad esempio, amministrative, produttive, marketing, ecc.).
Processo (sequenza di attività interfunzionali che comportano la trasformazione di input in output che abbiano valore per il cliente).
Obiettivi
Efficienza delle performance dei singoli reparti/soddisfazione delle attese dei diretti superiori.
Efficienza del flusso di attività coordinate ed interfunzionali coinvolte nei processi orientati alla soddisfazione del cliente.
Attività e divisione del lavoro
Avviene seguendo esigenze di affinità tecnica e operativa, ciascuna funzione comprende attività della stessa natura.
Per interdipendenza di attività e risorse che, seppure di differente natura e competenze, risultano a vario modo coinvolte nello sviluppo di un dato processo.
Processi decisionali
Sono gestiti secondo i principi dell’unità di comando e della centralizzazione.
Sono fortemente decentrati lungo il flusso orizzontale delle attività coinvolte nei processi di business.
Comunicazione
Prevalentemente verticale, segue il principio scalare.
Avviene per flussi informativi automatizzati, in maniera prevalentemente orizzontale, a supporto delle esigenze di interdipendenza e coordinamento fra le varie attività coinvolte in un dato processo.
Controllo
Avviene secondo il principio dell’unità di comando ed il principio scalare, dall’alto verso il basso.
Si fonda su indicatori di interfaccia posti nei punti di contatto/ scambio fra differenti unità organizzative coinvolte nel processo.
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Un tipo particolare di attività che compongono un processo, infine, sono quelle che l’azienda decide di esternalizzare (outsourcing), ovvero, di affidare ad una organizzazione esterna che si occupa della realizzazione di una parte del prodotto e assume il ruolo di fornitrice rispetto all’organizzazione principale. I fattori che orientano l’azienda verso l’outsourcing riguardano generalmente la necessità di contenere i costi operativi e recuperare in efficienza e flessibilità delegando a terzi la gestione ed i rischi relativi allo svolgimento di particolari attività (Costa, Guitta, op. cit.). Nelle situazioni ambientali di maggiore variabilità e complessità le aziende si orientano frequentemente verso la creazione di rapporti di outsourcing più evoluti e fondati su forme di collaborazione e partnership (Tommassi, Caramia, 2009) con i propri fornitori in grado di creare condizioni di trasparenza e condivisione di obiettivi, rischi e risorse nel lungo periodo. 2.2. Mappare i processi aziendali Implementare in azienda una logica organizzativa per processi implica, anzitutto, un lavoro di analisi e identificazione dei processi sottesi alla creazione di valore da parte del sistema produttivo in esame. Individuare i processi di un’organizzazione, poterli “mappare” e rappresentare richiede, nello specifico, un’attenta considerazione dei flussi, delle modalità di svolgimento e delle interazioni fra le varie attività produttive, con l’obiettivo di circoscrivere e definire l’ordine, i confini, la trasversalità (Setti, 2008) e la rilevanza dei vari processi aziendali, identificando gli interlocutori di volta in volta coinvolti, le relative responsabilità ed il sistema di feed-back adottato. Il process mapping, pertanto, consente di rappresentare l’organizzazione come un “sistema di processi” di vario tipo, interdipendenti e centrati sulla creazione di valore per il cliente, interno ed esterno, attraverso la trasformazione degli input negli output previsti. Il passaggio ad una logica per processi ha, generalmente, un impatto significativo sulla struttura aziendale evidente, soprattutto, nella riduzione del grado di accentramento decisionale, caratteristico delle strutture gerarchico-funzionali, e nella gestione di unità organizzative non più fondate sul principio dell’affinità tecnica delle attività (funzioni) ma su quello della interdipendenza di azioni e risorse che contribuiscono al medesimo processo produttivo (Monti, Oriani, 1996). A livello metodologico, la letteratura (Bernardi, Biazzo, 1995; Pierantozzi, 1998) pone l’accento su due differenti modelli di progettazione 23
e implementazione di una logica per processi entro un sistema organizzativo. In particolare, il Business Process Improvement (BPI) rappresenta un approccio incrementale che parte dalla situazione esistente per realizzare interventi graduali e mirati a migliorare i limiti e le inefficienze riscontrate senza, tuttavia, determinare una radicale trasformazione della struttura organizzativa. In altri casi, invece, si ritiene più opportuno operare una totale ri-progettazione dei processi aziendali mediante il Business Process Reengineering (BPR) che introduce una forte discontinuità rispetto alla situazione organizzativa precedente, attraverso un radicale ripensamento dei processi chiave finalizzato al miglioramento delle performance critiche dell’azienda, in termini di costi, qualità, servizi e tempistiche. Tali differenze richiamano, per certi versi, la distinzione proposta da Isotta (op. cit.) fra una logica greenfield ed una logica brownfield di progettazione organizzativa, la prima orientata all’innovazione radicale rispetto all’esistente, mentre la seconda fondata sulla modificazione graduale e limitata di scelte e soluzioni organizzative passate. Earl e Khan (1994) propongono di considerare due variabili principali nella individuazione dei processi aziendali: • l’impatto sulle prestazioni dell’impresa, che risulta diretto se il processo influenza le performance competitive dell’azienda, indiretto se agisce su competenze ed aspetti organizzativi interni e trasversali; • la strutturabilità del processo, ovvero, la possibilità più o meno alta di poterlo descrive ed analizzare. In questo modo si possono identificare 4 tipologie principali di processi: 1. Processi core o primari: rappresentano il business primario di una azienda e sono legati direttamente allo sviluppo ed alla realizzazione del prodotto (progettazione, produzione, consegna, ecc.). Mostrano un impatto diretto sulle performance e un’alta strutturabilità. 2. Processi support o trasversali: comprendono generalmente attività amministrative, commerciali, sicurezza qualità, ecc., che sostengono, facilitano e forniscono l’infrastruttura ai processi primari. Sono orientati in senso ortogonale (si veda più avanti la matrice dei processi) rispetto alla direzione della catena del valore e mostrano un impatto indiretto sulle performance dell’azienda ed una alta strutturabilità. 3. Processi business network: riguardano quei processi che si estendono oltre i confini dell’azienda e coinvolgono partner, fornitori e 24
consumatori. Si pensi, ad esempio, alla logistica o ai servizi rivolti al cliente. Presentano un impatto diretto sulle prestazioni aziendali ed una bassa strutturabilità. 4. Processi management: relativi alla pianificazione e gestione strategica dell’impresa e allo sviluppo delle risorse coinvolte. Mostrano un impatto indiretto ed una bassa strutturabilità. Le interazioni fra differenti tipi di processi possono essere rappresentate schematicamente attraverso la costruzione di una matrice dei processi, tecnica utilizzata diffusamente nell’ambito dei sistemi di gestione per la qualità e finalizzata ad offrire una visione chiara dei processi primari (cosa produce l’azienda) e delle relazioni fra questi ed i processi di supporto, ovvero come funzionalmente e strutturalmente è organizzata l’azienda in esame per supportare il core business. Nella figura seguente proponiamo un semplice esempio di matrice dei processi (processi primari: linee orizzontali; processi di supporto: linee verticali) relativo alle attività di un Istituto scolastico superiore: Fig. 4
Nella costruzione di una matrice dei processi, specifica per una data azienda, la Norma ISO 9001:2000 consiglia di tenere presenti i quattro macroprocessi (responsabilità della direzione; gestione risorse; realizzazione prodotto; misurazioni, analisi e miglioramento) proposti dal processo inviluppo (Fig. 5) quale schema di riferimento generale entro cui individuare e ricomporre le varie attività aziendali nei relativi processi produttivi.
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Fig. 5
Il “processo inviluppo” costituisce un modello astratto utile a rappresentare, in maniera schematica e generale, un Sistema di Gestione Aziendale nel quale l’area realizzazione del prodotto conterrà, com’è ovvio, i processi primari dell’azienda, la gestione risorse e la misurazione, analisi e miglioramento saranno prevalentemente aree legate a processi di supporto ed, infine, la responsabilità della direzione (processi management) comprenderà vari tipi di processi relativi alla gestione e pianificazione strategica delle attività imprenditoriali. Analizzare il funzionamento di un’azienda, tuttavia, non significa necessariamente dover individuare e comprendere tutti i processi organizzativi che ne determinano e supportano le attività produttive. Spesso, a seconda degli obiettivi, può essere più utile focalizzare l’analisi solo su alcuni tipi di processi, i cosiddetti processi critici. Generalmente un processo può essere considerato “critico” se il suo output è essenziale all’esistenza e all’eventuale sviluppo dell’azienda nel mercato oppure, utilizzando un’altra prospettiva, se le sue performance sono significativamente al di sotto degli standard produttivi attesi (Oriani, op. cit.). Seguire la prima logica significa, in particolare, circoscrivere i processi critici dell’azienda a partire dai suoi “obiettivi strategici”, ovvero da quelle aree operative, realisticamente definite, sulle quali l’organizzazione intende puntare per creare valore e definire il proprio vantaggio competitivo sulla concorrenza. Gli obiettivi strategici richiedono, pertanto, un’attenta definizione del prodotto che l’azienda intende offrire, in termini di requisiti, modalità e caratteristiche specifiche, a fronte del sistema di attese, esigenze e desideri espressi dal mercato sotto forma di domanda commerciale. I processi critici dell’azienda, d’altra parte, possono essere desunti prendendo in considerazione anche i suoi “fattori critici di successo” (Setti, 2008), intesi come quegli elementi specifici, a livello tecnico, 26
gestionale, commerciale o di immagine, utili ad orientare e supportare gli obiettivi strategici che l’azienda intende perseguire. Generalmente i fattori critici di successo (FCS), secondo la nota regola del 20/80 proposta da Pareto, rappresentano quei pochi aspetti organizzativi sui quali concentrare gli sforzi per ottenere il massimo profitto e, a seconda dei casi, possono essere identificati, ad esempio, con i tempi di consegna, l’assistenza al cliente, l’innovatività, la tecnologia del prodotto, i tempi di sviluppo o il prezzo, ovvero quei fattori competitivi o aree strategiche sulle quali l’azienda in esame punta le maggiori risorse per ottenere successo nel mercato di riferimento. Individuare e ricostruire il flusso delle attività che determinano un FCS consente, pertanto, di identificare i processi organizzativi più rilevanti per l’azienda in esame, in base al settore in cui opera e alle specifiche scelte strategiche adottate. Proviamo a riassumere quanto detto utilizzando, come esempio, il caso di una società di formazione il cui core business è rappresentato dall’offerta di corsi e-learning a professionisti operanti in vari settori produttivi (Fig. 6). La ricerca dei processi critici, dunque, non è altro che la capacità di individuare, in un dato momento storico, quei flussi di attività organizzative che mostrano gli impatti strategici e competitivi più rilevanti per l’azienda in esame. L’attenzione del consulente dovrebbe, pertanto, focalizzarsi sulle sequenze di attività operative direttamente connesse alla progettazione, alla produzione/realizzazione ed alla commercializzazione del prodotto/servizio entro il mercato di riferimento. Fig. 6
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I business process aziendali possono essere rappresentati graficamente mediante l’utilizzo di specifiche “tecniche di modellizzazione” fra le quali, di seguito, verrà dato spazio, in particolare, al linguaggio IDEF 0. 3. Il linguaggio di modellizzazione aziendale IDEF 0 In ambito aziendale è prassi diffusa fare ricorso a modelli descrittivi utili a rappresentare, in maniera semplificata e mirata, l’organizzazione dei sistemi produttivi complessi sui quali si intende intervenire. Le tecniche di modelling orientato ai processi consentono, in particolare, di costruire delle rappresentazioni grafiche articolate e coerenti a livello formale, utilizzabili per leggere e descrivere al meglio lo svolgersi dei flussi di attività coinvolti nei vari processi produttivi dell’azienda. Realizzare un modello conoscitivo utile a rappresentare una realtà organizzativa significa, pertanto, fare riferimento a dei codici formalizzati (Carli, Paniccia, 2003) che richiedono la scelta di un linguaggio di modellizzazione e di una metodologia adeguata agli obiettivi dell’analisi. Attualmente non esiste una visione unanime sul modo di rappresentare i processi aziendali e le varie tecniche utilizzate (IDEF 0; Role Activity Diagrams; Flowcharts; Data Flow Diagrams; Reti di Petri; ecc.), spesso nate per scopi differenti, sono in grado, per le loro caratteristiche, di descrivere solo aspetti specifici delle realtà organizzative oggetto d’indagine. Queste tecniche, generalmente, propongono una visione sistemica o d’insieme dei processi aziendali accanto alla possibilità di operare successive scomposizioni più specifiche dei flussi di attività che compongono un determinato processo. Vista la complessità dei sistemi aziendali, tuttavia, viene spesso consigliato di integrare l’utilizzo di diverse tecniche di modelling per “migliorare la messa a fuoco” del modello, riuscendo a cogliere aspetti differenti della stessa realtà organizzativa. La realizzazione di una rappresentazione diagrammatica dei processi aziendali richiede, a livello preliminare, un’attenta considerazione dei seguenti aspetti: • lo scopo della procedura di analisi, ovvero quali obiettivi organizzativi motivano l’elaborazione del modello; • la prospettiva temporale assunta, che distingue modelli AS-IS (come i processi si svolgono correntemente), modelli AS Intended (come i processi dovrebbero svolgersi) e modelli TO-BE (come i processi si svolgeranno una volta ridisegnati e migliorati); 28
• il punto di vista utilizzato per dare priorità a certi aspetti anziché ad altri, a seconda di coloro che, all’interno dell’azienda, fruiranno del modello. IDEF 0 è una fra le tecniche di modelling aziendale più utilizzata e conosciuta a livello mondiale, vista la sua flessibilità applicativa e la moderata complessità. Il termine IDEF, richiama un insieme di tecniche di modellizzazione distinte, attualmente ben 16, messe a punto a partire dagli anni ’70 dall’Aeronautica USA nell’ambito del progetto ICAM (Integrated Computer Aided Manufacturing) con lo scopo di coinvolgere i propri fornitori nella elaborazione di linguaggi di rappresentazione comuni delle realtà organizzative nelle quali implementare nuove soluzioni tecnologiche. All’interno della famiglia di tecniche IDEF, la IDEF 0 è, in particolare, una metodologia che si concentra sull’analisi delle attività svolte entro l’organizzazione. Essa si basa su una combinazione sistematica di diagrammi e testo, finalizzata a descrivere operativamente i processi e specificarne requisiti e caratteristiche, consentendo di analizzare, modificare e, persino, disegnare “ex novo” dei sistemi organizzativi come avviene, ad esempio, per esigenze di Business Process Reengineering. Le regole del linguaggio IDEF 0, qui proposte in maniera piuttosto sintetica, sono state tratte dal documento ufficiale di riferimento, denominato Draft Federal Information Processing Standards Pubblication 183: Integration Definition for Function Modelling (IDEF 0), FIPS, 21/12/1993, consultabile all’indirizzo internet: www.idef. com, cui rimandiamo il lettore interessato ad approfondire aspetti ed indicazioni specifiche della norma. Per quanto concerne le regole di base, un modello IDEF 0 è, generalmente, composto da 3 tipi di informazioni: 1. diagrammi grafici: sono la componente principale del modello, costituiti da rettangoli (box), frecce e dai vari collegamenti che pongono in relazione queste due classi di elementi. Il primo grafico, detto diagramma di top-level (A-0), fornisce la visione più generale e d’insieme della realtà organizzativa che il modello intende rappresentare. A partire da questo primo diagramma seguono poi una serie di grafici “figli” che procedono a scomporre e descrivere la situazione in esame o alcuni suoi aspetti, con un livello di dettaglio variabile a seconda degli obiettivi del progetto; 2. testo: sotto forma di etichette o nomi, viene usato per specificare caratteristiche ed interazioni fra funzioni (box) evitando di svolgere una funzione ridondante rispetto a quanto già espresso graficamente attraverso i diagrammi; 29
3. glossario: usato per definire acronimi, parole chiave o frasi inserite nei diagrammi grafici. Accanto a questi tre componenti essenziali possono essere, inoltre, presenti le cosiddette pagine FEO (for exposition only) rappresentate, ad esempio, da diagrammi di flusso o disegni tecnici di vario tipo che non devono, per forza, sottostare alle regole del linguaggio IDEF 0 ma hanno la funzione di illustrare e specificare meglio i contenuti espressi dal modello. 3.1. Sintassi e semantica del linguaggio IDEF 0 La costruzione dei diagrammi grafici, come detto, si fonda sull’utilizzo di due elementi, i rettangoli e le frecce, il cui significato dipende dal loro reciproco posizionamento e dalle etichette, le brevi descrizioni testuali ad essi connesse. In particolare i rettangoli rappresentano funzioni di un sistema, definite come attività, processi o trasformazioni. Essi contengono al loro interno un nome, generalmente un verbo o una frase sintetica che indica lo svolgimento dell’azione corrispondente a quel dato rettangolo/ box, ed un numero, posizionato nell’angolo in basso a destra, come riferimento univoco, per quella pagina, che permette di identificare quel box in una eventuale successiva descrizione verbale. A livello grafico, i rettangoli devono essere disegnati con tratto continuo ed avere angoli squadrati. Le frecce rappresentano, invece, informazioni o oggetti collegati alle funzioni (box) e sono generalmente composte da uno o più segmenti (configurazione ramificata) con all’estremo una punta. Esse possono dirigersi verso un rettangolo/funzione o uscire da questo, nel primo caso rappresentano elementi necessari allo svolgimento di una certa funzione mentre, nel secondo, costituiscono il prodotto (output) di quella data funzione. Ogni freccia riceve un’etichetta, che contiene un sostantivo o una frase descrittiva e può assumere una direzione verticale o orizzontale ma non può procedere in maniera diagonale (obliquamente) e nel caso cambi direzione può farlo solo formando angoli di 90°. A livello grafico, infine, le frecce devono connettersi ai lati e non agli spigoli dei rettangoli e non devono sconfinare all’interno del perimetro dei box. Ciascun lato di un rettangolo assume un significato standard ed evidenzia, in questo modo, il ruolo delle frecce che in esso si interfacciano in entrata o uscita. Vengono, pertanto, a delinearsi 4 tipi principali di interazioni fra rettangoli e frecce, denominate INPUT, 30
OUTPUT, CONTROLLO e MECCANISMO, dalle loro iniziali deriva l’acronimo ICOM (Input, Output, Control, Mechanism) utilizzato come sinonimo per indicare quelle che finora sono state chiamate semplicemente “frecce”. Fig. 7
Vediamo più in dettaglio le tipologie di frecce (ICOM): • INPUT: entrano dal lato sinistro dei rettangoli e rappresentano dati o oggetti che vengono utilizzati e trasformati all’interno della specifica funzione/attività per produrre l’output previsto; • OUTPUT: escono dal lato destro dei rettangoli e indicano il risultato/prodotto della funzione/attività in esame; • CONTROLLI: entrano dal lato superiore dei rettangoli e specificano le condizioni (norme, vincoli, procedure, regolamenti, ecc.) richieste dalla funzione per produrre correttamente l’output; • MECCANISMI (RISORSE): entrano dal lato inferiore dei rettangoli e rappresentano i mezzi o le risorse (macchinari, sistemi informatici, attrezzature, risorse umane, ecc.) necessarie all’esecuzione della funzione in esame. Il primo diagramma, detto “top-level”, “context-diagram” o A-0, fornisce la descrizione più generale, una sorta di “quadro d’insieme” del sistema organizzativo in esame e costituisce il punto di partenza obbligato di qualsiasi processo di modellazione grafica di una realtà aziendale. Questo diagramma di livello più alto viene progressivamente scomposto in una serie di pagine “figlie” (“child diagrams”) che approfondiscono la rappresentazione grafica del sistema aziendale fino al livello di analisi desiderato. Proponiamo, come esempio introduttivo all’utilizzo della metodologia 31
IDEF 0, la rappresentazione grafica dei processi aziendali relativi al funzionamento della società di formazione e-learning, cui si è precedentemente accennato. La figura seguente presenta il Context-diagram o A-0 del sistema organizzativo oggetto d’indagine: Fig. 8
La pagina di partenza contiene sempre e solo un rettangolo (box), come rappresentazione più generale ed astratta del sistema aziendale, con i suoi input, controlli, risorse ed output. Nel diagramma di top-level è importante esplicitare i parametri relativi allo SCOPO ed al PUNTO di VISTA, il primo consente di definire gli obiettivi che si intendono raggiungere con il modello e controllare che ogni diagramma realizzato sia coerente e funzionale allo scopo previsto, mentre il “punto di vista” indica le priorità di analisi del sistema in esame in relazione a chi si servirà del lavoro svolto. L’oggetto d’analisi rappresentato in A-0 viene, quindi, scomposto nelle sue principali sotto-attività creando un primo diagramma figlio che viene siglato come A0 (Fig. 9). In ciascuna delle pagine figlie il numero dei box (rettangoli), frutto della scomposizione delle macro-attività, è solitamente contenuto fra i 3 e i 6. La disposizione dei rettangoli è diagonale, dall’angolo alto a 32
sinistra del foglio a quello basso a destra, seguendo l’ordine di sviluppo temporale delle attività. Ogni box può utilizzare differenti combinazioni di input, controlli e meccanismi per produrre i vari output: tali configurazioni nello svolgimento delle attività sono dette attivazioni. Il linguaggio IDEF 0 consente, inoltre, di gestire e rappresentare operazioni contemporanee che coinvolgono differenti funzioni (box). È il caso, ad esempio, dell’output di un dato rettangolo che può provvedere ad alcuni o a tutti gli input necessari all’attivazione di una o più funzioni successive. Ciascuna freccia (ICOM) può, dunque, dividersi e collegare differenti box ed, allo stesso modo, più frecce possono riunirsi in una sola, indicando che lo stesso tipo di elemento può servire più funzioni o che differenti funzioni possono contribuire alla realizzazione di un certo risultato. Le frecce ICOM, inoltre, possono essere interne al diagramma o di confine (boundary arrow), queste ultime rappresentano input, controlli, meccanismi o output che provengono da una o più funzioni (box) del diagramma di livello gerarchico superiore (parent diagram). Generalmente le frecce di confine contengono delle notazioni rappresentate dalle lettere “I”, “C”, “M”, “O”, utili a capirne la funzione (Input, Controlli, Meccanismi o Output) nel “parent diagram”. Fig. 9
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Le attività individuate da A0 (Fig. 9) possono essere ulteriormente scomposte e dettagliate, a seconda degli obiettivi dell’analisi, in modo tale da ottenere diagrammi di livello inferiore che ne precisano/descrivono le sotto-attività. Il fatto che una certa funzione (box) sia successivamente scomposta viene indicato dalla presenza di un DRE (Detail Reference Expression), un corto codice alfanumerico presente sotto l’angolo basso a destra del rettangolo “parentale”, con lo scopo di indirizzare al relativo diagramma “figlio” di descrizione. Il sistema di codificazione DRE rappresenta il cuore del processo di progressiva scomposizione delle attività proposto dal linguaggio IDEF 0 e si fonda sull’attribuzione di un numero di nodo (node number) univoco, posizionato sotto l’angolo in basso a destra del box “parentale” di livello gerarchico superiore e nell’angolo in basso a sinistra della pagina “figlia” di livello inferiore. Se, ad esempio, intendiamo dettagliare le attività contenute nel box “Attività della direzione” (A1), elaboreremo un nuovo diagramma “figlio” di A0 che, nell’angolo in basso a sinistra della pagina contenga il codice A1, identificativo specifico del box in esame. Tali grafici che si ottengono dalla scomposizione di A-0 sono detti Diagrammi di primo sotto-livello. Nella figura sottostante seguiamo il risultato di questa ulteriore scomposizione: Fig. 10
Proseguendo il lavoro di modellazione del sistema aziendale in esame osserviamo, nella figura sottostante (Fig. 11), il risultato della scomposizione del box “progettazione Corsi” (A2) e, a seguire, gli altri diagrammi 34
di primo sotto-livello relativi, nello specifico, alla “Ammissione Partecipanti” (A3) (Fig. 12) ed alla “Erogazione Corsi” (A4) (Fig. 13): Fig. 11
I diagrammi di primo sottolivello presentati possono essere ulteriormente scomposti e dettagliati, in funzione delle esigenze dell’indagine, elaborando diagrammi di secondo sottolivello ed anche di terzo sottolivello. Nel caso, ad esempio, decidessimo di analizzare nello specifico il “box A4 3” relativo alla “Valutazione Percorso”, parte della funzione “Erogazione corsi” (A4), dovremmo individuare le varie sotto attività che contribuiscono ad organizzare la valutazione del percorso formativo che saranno rappresentate graficamente utilizzando le regole di modellizzazione esposte ed applicate per i livelli funzionali superiori. In questo ipotetico diagramma di secondo sottolivello le varie sotto attività individuate (ad esempio, “definizione modalità esami”; “valutazione indicatori di apprendimento”; “correzione elaborati”; “discussione feedback”; ecc.) avranno un codice DRE corrispondente, in questo caso, ad “A4 3 1”, “A4 3 2”, “A4 3 3”, “A4 3 4”, ecc. È chiaro che, dopo il primo sottolivello, non tutti i rettangoli verranno ulteriormente scomposti ma il livello di dettaglio e l’eventuale elaborazione di diagrammi di sottolivello inferiore al primo dipenderà da obiettivi e priorità del progetto in corso. 35
Fig. 12
Fig. 13
Il linguaggio di modellazione IDEF 0 rappresenta uno strumento operativo valido e flessibile attraverso cui osservare e descrivere efficacemente l’organizzazione funzionale e produttiva delle più svariate realtà aziendali e focalizzare l’attenzione sui processi critici e strategici o su eventuali 36
difetti e incongruenze del sistema in esame (Check). La sua veste grafica intuitiva e l’utilizzo di regole semantiche di semplice comprensione, inoltre, consentono di trasmettere e condividere agevolmente informazioni, progetti e obiettivi fra i partecipanti al team di lavoro. La costruzione di diagrammi può essere supportata anche dall’utilizzo di specifici strumenti software (tool) che rispondono a bisogni di maggiore rapidità e precisione nell’applicazione del modello IDEF 0 a realtà aziendali, spesso, piuttosto complesse. 4. Ricomporre il nesso fra azione e organizzazione Le configurazioni organizzative proposte, ovvero la struttura gerarchico-funzionale e l’approccio per processi, in fondo rappresentano due differenti modalità di affrontare il problema del rapporto fra l’azione tecnica individuale dei singoli soggetti o gruppi coinvolti ed il contesto organizzativo nel quale questa si inserisce (Salvatore, op. cit.; Grasso, Salvatore, 1997). Da una parte, infatti, possiamo considerare l’azione come un comportamento organizzativo atteso, programmato, socialmente mediato da un sistema condiviso di regole e ruoli (Von Cranach, Harré, 1982; Harré, Gillett, 1996) e funzionale al conseguimento di un dato prodotto, messo in atto dal singolo, sia esso individuo o gruppo, che partecipa obiettivi e finalità aziendali. L’organizzazione, d’altro canto, fa riferimento ad un processo di interazione e di integrazione delle varie parti da cui essa è composta, dunque, richiama al funzionamento globale e alle specifiche declinazioni di un dato sistema produttivo ed al suo rapporto con il mercato di riferimento. In questo senso, il concetto di struttura organizzativa, relativo al modello di divisione del lavoro scelto da una data impresa (Isotta, op. cit.), delinea in che modo l’azione, quale prassi operativa specifica, si inscrive entro la dimensione organizzativa dell’azienda in funzione degli obiettivi e delle scelte strategiche e adattive da questa espresse. Il modello gerarchico-funzionale, nello specifico, ha affrontato il problema della complessità organizzativa necessaria a far fronte a determinate sfide produttive, operando una scomposizione gerarchica degli obiettivi generali dell’azienda secondo una concezione di stampo tayloristico finalizzata ad individuare un’insieme di funzioni operative specializzate e a definire i relativi meccanismi gerarchici e di controllo utili a monitorare le performance delle singole parti (sub-ottimizzazione) del sistema. In questo senso, l’azione ope37
rativa propria di una data funzione organizzativa, nel modello in esame, si è spesso venuta delineandosi in termini di comportamenti standardizzati, governati da norme e procedure rigide e sempre più specifiche e dotati di minima discrezionalità. Non a caso la configurazione organizzativa di tipo gerarchico-funzionale ha, di frequente, contribuito a generare quelle forme di “cultura adempitiva” (Carli, Paniccia, 1999) caratteristiche, ad esempio, di certi settori della Pubblica Amministrazione come anche di talune aziende in regime di monopolio e poco abituate a confrontarsi con la variabilità dei mercati commerciali. L’esigenza di sviluppare una maggiore flessibilità produttiva, di economizzare i costi di gestione, di preservare le capacità competitive e di adattamento dell’azienda di fronte alla crescente turbolenza dei mercati ha imposto, più di recente, una profonda revisione dei modelli organizzativi tradizionali, operando una vera e propria metamorfosi strutturale del sistema impresa (Butera, 1991). In quest’ottica, l’approccio per processi ha focalizzato l’attenzione prevalentemente su quei flussi di attività significative nella predisposizione ed erogazione del prodotto e, in quanto tali, generatrici di valore per l’impresa. Questo cambio di prospettiva ha rappresentato un salto culturale notevole nel modo di vedere l’organizzazione, una sorta di anamorfosi (Frau, 2002) nella quale il cliente, le sue esigenze e la sua soddisfazione hanno riacquistato una posizione centrale nel rapporto con l’azienda. Il focus si sposta, in questo modo, dall’esigenza organizzativa di operare un controllo gerarchico sulle performance delle singole attività/funzioni aziendali, al tentativo di potenziare le capacità di coordinamento sistemico di quelle attività strategiche funzionalmente coinvolte nella realizzazione di un prodotto/servizio adeguato alle esigenze del cliente. Questo discorso acquista particolare valore non solo in ambito gestionale e di management d’impresa ma anche nel campo della consulenza organizzativa. Per uno psicologo, infatti, la possibilità di sviluppare un “pensiero per processi” rispetto al contesto organizzativo nel quale è chiamato ad intervenire significa, nello specifico, passare da una visione “tradizionale” dell’azienda a “sviluppo verticale” e composta “per sommatoria” di singoli reparti/funzioni relativamente autonomi, ad una logica di funzionamento “orizzontale”, fondata sul coordinamento sinergico e strategico di quelle attività interfunzionali orientate alla soddisfazione del cliente ed all’acquisizione di un vantaggio competitivo. Un’organizzazione pensata dal consulente in termini di processi e di attività generatrici di valore riacquista, pertanto, la sua funzione primaria di contesto produttivo orientato al conseguimento di obiettivi competitivi di 38
crescita e sviluppo ed in continuo rapporto dialettico con l’ambiente esterno, il mercato ed il proprio cliente. Ma ciò che viene messo in discussione attraverso questo passaggio logico ad un “pensiero per processi” è, soprattutto, la visione stessa della competenza psicologica, da tecnica confinata al trattamento di eventi/comportamenti “anormali” o di fattori di disturbo che possono turbare la vita organizzativa, a teoria d’intervento in grado di operare una lettura di più ampio respiro dei problemi aziendali, a partire dalle dimensioni operative ed affettive che legano l’azione al proprio contesto produttivo (Salvatore, op. cit.).
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