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Javier Gomรก

ESEMPLARITร PUBBLICA Un fondamento della democrazia moderna

ARMANDO EDITORE


SOMMARIO

PREFAZIONE di Alessandro Ferrara

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LA QUESTIONE PALPITANTE; l’ingenuità come metodo; vecchi e nuovi strumenti di socializzazione; il bacio tra la finitudine e l’eguaglianza; trilogia dell’esperienza; teorema dell’esperienza 13 e della speranza; dedica ad una signora PRIMA PARTE: DEMOCRAZIA

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I. NICHILISMO E CIVILTÀ §1. Le génie dell’Occidente §2. Il nichilismo e suo nipote §3. Una conquista per sempre: la finitudine §4. L’esperimento di una civiltà su basi finite

27 30 36 45 53

II. LA BELLA VOLGARITÀ §5. “Deboli e indipendenti”: le due anime dell’homo democraticus §6. Esiste il progresso morale? §7. La volgarità, una questione di rispetto

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III. LA CAUSA DEL NOSTRO ATTUALE MALCONTENTO §8. Carico di anni, stanco della vita §9. Eccentricità massificata §10. Ontologia della dignità §11. “Devi riformare la tua vita”

58 65 75 85 87 92 99 106


SECONDA PARTE: VIRTÙ

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IV. UNA PAIDEIA PER IL POPOLO §12. Una convincente proposta di senso §13. La paideia si scinde §14. Oltre l’etica pubblica: il dovere generale della collaborazione con la pòlis

121 122 128

V. PROPEDEUTICA AUTOBUS §15. Ciò che è personale è politico §16. L’io e le consuetudini comunitarie §17. L’io e la virtù repubblicana

151 152 154 162

VI. L’AUTENTICA FONTE DELLA MORALITÀ SOCIALE §18. Coazione versus persuasione, o dell’articolazione legge/consuetudine §19. Il problema di una democrazia senza “buoni costumi” §20. Ridefinire la virtù: l’esemplarità

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TERZA PARTE: ESEMPLARITÀ

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VII. ESEMPLARITÀ ARISTOCRATICA §21. Exemplum ed exemplar §22. Dal cosmo esemplare alle personalità illustri e alle élites §23. La “minoranza selezionata” in Ortega y Gasset: originalità e critica

217 219

VIII. PRINCIPI DI ESEMPLARITÀ EGUALITARIA §24. Rete di influenze reciproche §25. La responsabilità personale dell’esempio §26. L’universale vivere e invecchiare

247 249 255 264

IX. VOLGARITÀ RIFORMATA §27. La virtù carismatica, creatrice di costumi §28. Intorno ad un’arte pubblica

277 279 290

140

178 188 201

224 235


X. PARTICOLARE RESPONSABILITÀ DELL’ESEMPIO POLITICO §29. Esemplarità elettiva: i politici §30. Esemplarità statutaria: funzionari e Corona

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I. NICHILISMO E CIVILTÀ

In un’epoca, come quella attuale, in cui la critica all’eurocentrismo ha raggiunto il parossismo, continua a risuonare la vox clamans in deserto di Max Weber presente in quella prefazione che egli appose alla raccolta dei propri scritti sulla sociologia della religione. Egli, che era un buon conoscitore delle culture orientali e un pioniere degli studi comparati, seppe mettere in risalto l’originalità della razionalità dell’Occidente in alcune pagine illuminate che godono di una meritata celebrità. Weber aveva consumato la sua gioventù appassionata nello studio, al quale si dedicò sin da giovanissimo con tutta la fierezza propria della sua natura indomita; nella sua eccessiva dedizione alla scienza il giovane tedesco sublimava un inibito e tutto sommato tragico rapporto con il suo dispotico padre. Egli non riuscì ad abbandonare la casa paterna prima del 1893, anno in cui, sfiorando la trentina, dopo numerosi dubbi sulla propria vocazione professionale, ottenne un incarico permanente all’università e contrasse matrimonio con sua cugina Marianne. Tuttavia, il fatto di aver preso partito non migliorò i rapporti con il patriarca della famiglia bensì, al contrario, la tensione latente andò progressivamente aumentando finché, nel 1897, con tutta quella forza che accompagna il riemergere di ciò che è stato a lungo represso, un pomeriggio in cui egli si era recato da lui in visita, lo cacciò in maniera teatrale da casa sua. Con tanta sfortuna che soltanto sette settimane dopo il tiranno morì e suo figlio, scisso tra la “sfrenatezza vitale e la valanga di prodezze”, da una parte, e la ancora forte cattiva coscienza che lo perseguitava come le furie con Oreste per la sua empietà filiale, dall’altra, entrò in una acuta depressione nervosa 27


che si sarebbe prolungata per sei anni e durante la quale, sollevato dai suoi impegni di docenza, fu incapace di intraprendere qualsiasi compito e condusse un’esistenza vegetativa e obnubilata1. Prima della crisi aveva scritto diverse monografie, comunemente relazionate alla questione agraria della Germania del suo tempo, grazie alle quali aveva sin da allora ottenuto una promettente notorietà in ambito scientifico; tuttavia, negli oltre quindici anni successivi a tale crisi, dal 1903 fino alla sua morte, egli fu solamente in grado di pubblicare articoli più o meno specializzati, privi di carattere sistematico, tanto che persino il celeberrimo saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo uscì nel 1905 sotto forma di articolo in una rivista accademica e non già come libro, e lo stesso può dirsi degli altri scritti ad esso contemporanei sulla metodologia delle scienze sociali. Quel vecchio anelito verso le prodezze si orientò, allorquando egli riacquistò il dominio di se stesso e delle proprie energie creatrici, in direzione di due grandi progetti scientifici. Innanzitutto, verso il suo contributo ad un manuale di economia politica che Weber, assieme ad altri colleghi, promosse a partire dal 1909 e che alla sua morte continuava a risultare inedito. Egli preparò due abbozzi, entrambi incompleti e provvisori, per il suo contributo a quel manuale collettaneo che la sua vedova, giustapponendoli alla bell’e meglio, pubbicò postumi con il titolo Economia e società. L’altro grande progetto, che risultava assai più progredito ed era stato anticipato da una serie di articoli apparsi su una stessa rivista, lo «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», consisteva in un grandioso studio che si sarebbe dovuto intitolare L’etica economica delle religioni universali. In un determinato momento, 1 In La jaula de hierro. Una interpretación histórica de Max Weber, Madrid, Alianza Editorial, 1976, A. Mitzman descrive alcuni dei sintomi di tale crisi: «un esaurimento totale si impossessa di lui, con emicranie e forte tensione nervosa»; sente che una mano gelata lo imprigiona, il polso gli trema, qualsiasi suono, per quanto lieve, è per lui un tormento; «non può leggere, scrivere, parlare, camminare o dormire senza sentirsi angosciato. Tutte le funzioni mentali e parte di quelle fisiche gli vengono a mancare. Se, nonostante tutto, le costringe a funzionare, un caos lo minaccia, una sensazione come se stesse per cadere nella voragine di una sovraeccitazione tale da gettare la sua mente nelle tenebre». (Cfr. pp. 141-145).

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egli decise di rielaborare tutti questi lavori parziali apparsi sullo «Archiv» e di pubblicarli in una raccolta intitolata Saggi completi sulla sociologia della religione, prevista in quattro volumi. Pertanto, quando nel 1920, lo stesso anno della sua morte, egli pubblicò il primo dei suddetti quattro volumi, l’unico a vedere la luce durante la sua vita, Max Weber, oramai cinquantaseienne, più prossimo alla vecchiaia che non alla gioventù ma con lo spirito di un profeta dell’Antichità, si trovava a tutti gli effetti di fronte al suo primo libro successivo alla propria depressione, il primo della sua maturità, lungamente rimandato e desiderato da lui, “uomo di volontà che ambisce a grandi responsabilità”, nella definizione della moglie Marianne. Consapevole dell’importanza di quel momento, egli volle anteporgli una prefazione che rendesse l’idea delle direzioni delle sue colossali ricerche nei diversi progetti scientifici e anticipasse alcuni dei principali risultati dei suoi vastissimi studi comparati sulle culture del mondo. Tali studi non lo avevano condotto, come altri prima e dopo Montaigne, a dissolvere ironicamente la singolarità della cultura occidentale in un ulteriore caso all’interno della ricca varietà di popoli e di civiltà storiche, bensì, al contrario, a confermarla con maggiore enfasi a partire dallo stesso slancio della suddetta prefazione, la quale recita in questo modo: In maniera inevitabile e del tutto giustificata, il figlio del mondo culturale europeo moderno tratterà i problemi della storia universale a partire dalla seguente questione: quale concatenazione di circostanze ha fatto sì che proprio in Occidente e soltanto qui facessero la loro comparsa fenomeni culturali che – almeno per come ci piace rappresentarli a noi stessi – si trovavano in una linea di sviluppo dal significato e dalla validità universali?2.

2 “Prefazione” (Vorbemerkung) in M. Weber, Sociología de la religión, Madrid, Istmo, 1997, trad. e cura di E. Gavilán, p. 313 [ed. it.: M. Weber, Sociologia della religione, Milano, Edizioni di Comunità, 1982, 2 voll., n.d.t.].

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§1. LE GÉNIE DELL’OCCIDENTE Il significato e la validità universali dei fenomeni che Weber studia in questo testo sono quelli pertinenti alla razionalità. In esso egli si basa sulla descrizione di quei casi di razionalità che si sono presentati “proprio in Occidente e soltanto qui”, come ripete più avanti: «In tutti i casi di particolarità menzionati si tratta evidentemente di un razionalismo di una cultura occidentale di indole specifica»3. Gli avanzamenti della razionalità nell’ambito della cultura costituiscono il grande locus weberiano che soggiace all’integrità delle analisi parziali da lui sviluppate nell’arco di quei fecondi quindici anni, tanto quelli inerenti alla sociologia della religione, quanto quelli contenuti in Economia e società. Questo tema unico viene trattato nel corso di tutta la sua opera, tuttavia, su piani differenti, senza che Weber si soffermi a mettere in guardia il lettore dalla acrobazia logica o storica. Alcune volte egli fa riferimento ad un grande processo storico-religioso di dimensioni planetarie, altre volte, come nella succitata prefazione, ad un fatto specificamente occidentale, e altre ancora, infine, al nocciolo della stessa modernità. Per di più, egli – che aveva dimostrato tutta la propria abilità tassonomica nell’istituzione di tipologie e classificazioni sensazionali, proponendo le più audaci associazioni tra fenomeni apparentemente eterogenei – non giunse mai ad esporre in maniera sistematica il proprio concetto circa il processo generale di razionalizzazione a livello universale, da lui considerato come una fatalità in avanzamento inarrestabile. La razionalizzazione implica sempre un “disincantamento dal mondo” (Entzauberung), vale a dire una eliminazione di quegli elementi magico-carismatici che sono stati in esso presenti sin dall’inizio dei tempi. Tratti di questo disincantamento vengono percepiti da Weber nell’evoluzione di tutte le religioni universali; in tutte quante egli rinviene una transizione dal carisma all’ordine tecnico-razionale. Ad esempio, egli considera come un contrassegno di razionalità le nascenti teodicee che tentano di spiegare la sofferenza umana 3

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Cfr. ivi, p. 325.


allo stesso modo delle teologie di salvezza concepite per superare la sofferenza stessa. I beni promessi in tali teologie variano a seconda dello strato sociale dominante: guerrieri, contadini, intellettuali e commercianti. Gli ultimi due strati rappresentano i principali promotori di un maggiore razionalismo nelle loro rispettive concezioni religiose del mondo, più teorico quello degli intellettuali e più pratico quello dei commercianti. L’opera fondamentale degli intellettuali è stata la sublimazione della salvezza religiosa come fede nella redenzione individuale; la nozione di una redenzione è sempre esistita, afferma Weber, tuttavia «essa ha raggiunto un significato specifico laddove risultava come espressione di una “immagine del mondo” razionalizzata-sistematica e del relativo atteggiamento verso di essa»4. Accanto a questa razionalizzazione teorica ad opera degli intellettuali, quella pratica è venuta dall’ethos quotidiano dei commercianti, degli artigiani e dei borghesi in senso lato, i quali introducono il calcolo nella propria professione, alla quale si dedicano con un ascetismo religioso di nuovo conio. Le note tesi esposte da Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, le quali dimostrano l’influenza, all’epoca della Riforma protestante, di determinate sette ascetiche sull’origine del moderno spirito capitalista, avrebbero trovato la propria collocazione precisamente in questa sede, come caso particolarmente rilevante del tipo più generale di razionalismo pratico-ascetico. Nel corso di altre indagini, Weber studia le forme assunte dalla razionalità in un contesto secolarizzato. In Economia e società, egli fornisce la sua ben nota tipologia delle tre classi di dominazione politica: carismatica, tradizionale e legale-razionale. Le prime due 4 “Introducción” (Einleitung) in M. Weber, Sociología de la religión, cit. p. 342. Si tratta dell’introduzione che Weber redasse per L’etica economica delle religioni universali, quel grandioso progetto comparativista che portò a termine come terzo tomo del primo volume di Saggi sulla sociologia della religione, in seguito completato da due volumi postumi curati dalla sua vedova. Una versione più precoce ma anche più estesa degli stessi argomenti è presente in M. Weber, Economía y sociedad, México, FCE, 1984 [ed. it.: M. Weber, Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1961-1981, n.d.t.] seconda parte, V, “Sociología de la comunidad religiosa (sociología de la religión)”.

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appartengono all’ordine religioso e sebbene, come si è visto, anche in questo si verifichino avanzamenti nella razionalità, esso si mantiene ancora nell’ambito di una immagine mitologica del mondo. Invece, la dominazione legale è interamente, nella sua dimensione politico-amministrativa, espressione eminente di un razionalismo pienamente secolare, oggettivo e astratto, tale da prescindere dalla legittimazione personale, tanto carismatica quanto tradizionale, caratteristica della religiosità antica5. Questo razionalismo giuridicoformalista è da inquadrarsi, in quanto superatore dei modi di dominazione arcaici o antichi, tra le tendenze esplicitamente moderne. Ebbene, modernità significa per Weber la cancellazione di quel carisma o di quell’aura che conferisce alla vita umana il proprio senso – la sua dignità, il suo misticismo, il suo eroismo – e la corrispondente esasperazione del principio collettivista, burocratico, scientifico, ascetico, il quale imprigiona l’individuo in una gabbia di ferro. Dispersa tra testi di epoca e natura assai differenti, si trova abbozzata una critica weberiana alla modernità, nel cui ventre egli crede di riscontrare il seme del nichilismo contemporaneo. Secondo Weber, la scomparsa nell’ambito della cultura dei valori ultimi e più sublimi rappresenta “il destino del nostro tempo”6. Malgrado questa diagnosi oscura, Weber è scevro da qualsiasi parvenza di nostalgia di un’età dell’oro passata ovvero dalla minima tentazione reazionaria, in quanto le sue indagini storiche gli hanno dimostrato come l’evoluzione osservata a partire dall’incantesimo del mondo fino alla razionalità nichilista fosse inevitabile; fosse, per l’appunto, un destino. È ora opportuno tornare a quella prefazione, menzionata all’inizio, introduttiva dei suoi scritti sulla sociologia della religione. In 5 «Il passato antico conosce soltanto, a parte insignificanti tentativi di dominazione “statuita”, che indubbiamente non mancano del tutto, la suddivisione dell’insieme di tutte le relazioni di dominazione in tradizione e carisma». Economía y sociedad, cit., p. 712. In quest’opera, vi sono due versioni della tipologia di dominazione – Prima Parte, III, e Seconda Parte, IX –, ciascuna di esse corrispondente a uno dei due abbozzi giustapposti dalla vedova di Weber. La più recente e, pertanto, quella definitiva, è quella contenuta nella Prima Parte. 6 M. Weber, “La ciencia como vocación”, in El politico y el cientifico, Madrid, Alianza Editorial, 1967, trad. di F. Rubio Llorente, p. 229.

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essa, Weber compila un elenco dei grandi contributi culturali o spirituali apportati dalla razionalità occidentale nel corso del suo divenire storico, i quali, sostiene l’autore, si sono verificati “proprio in Occidente, e soltanto qui”. L’elenco è esteso, tuttavia esso ammette di essere interamente ordinato secondo tre delle straordinarie invenzioni esclusive del genio occidentale: il capitalismo, la scienza e lo Stato di Diritto, in modo tale che le ultime due risultino essere prerequisiti della prima. Di fatto, Weber sostiene che il desiderio di lucro sia sempre esistito, ma che tuttavia in nessun altro luogo tale cieco impulso sia stato assoggettato a determinate regole razionali allo scopo di conseguire un beneficio eternamente rinnovato e potenzialmente illimitato; e, di pari passo, egli pone in evidenza, quali ingredienti di tale capitalismo tipicamente atlantico, la creazione dell’azienda moderna (giuridicamente separata dall’abitazione), l’applicazione alla sua attività mercantile di una contabilità scientifica e l’organizzazione razionale del desiderio collettivo di lucro all’interno dell’istituzione del mercato, il quale si sostituisce come modo di acquisizione di ricchezza alla tradizionale violenza fisica. «Soltanto in Occidente la scienza è stata messa al servizio del capitalismo in fase di sviluppo»7, afferma Weber, e alla voce “scienza”, la seconda delle tre invenzioni in questione, egli sottolinea l’originalità occidentale di conferire un fondamento matematico alle ipotesi sulla natura e di verificarle mediante esperimenti; l’istituzione di sedi universitarie, accademiche e di ricerca; e i progressi conseguiti in diverse arti e discipline, come la musica, l’arte plastica, la storiografia, la teoria dello Stato e il Diritto, in particolar modo quello romano e quello canonico. Quest’ultima considerazione si allaccia alla terza invenzione autenticamente europea e altrettanto necessaria al fine dello sviluppo del capitalismo, il quale nella sua forma più avanzata richiedeva l’esistenza di uno Stato dotato di una costituzione stabilita attraverso un procedimento valido, un Diritto prevedibile 7

“Prefazione” (Vorbemerkung) in M. Weber, Sociología de la religión, cit., p.

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e sistematico ed una Amministrazione che operasse in conformità a regole formali per mezzo di funzionari specializzati, e soltanto l’Occidente, ribadisce Weber, poteva disporre di tali istituzioni così come di un Diritto formalizzato caratterizzato da un’elevata perfezione tecnica. Tutte le anticipazioni della cultura occidentale sopra descritte sono implicitamente oggetto di una valutazione positiva da parte di Weber e da ciò consegue il fatto che egli le consideri come fenomeni inseriti «in una linea di sviluppo dal significato e dalla validità universali». Per quanto scoperti a livello regionale, si tratta di contributi altamente stimabili alla storia dello spirito umano universale. Tuttavia, il discorso sulle grandezze della civiltà occidentale si combina in Weber con un altro discorso ben più pessimista inerente alla modernità, ultima fase di tale civiltà, e alla gabbia di ferro che questa costruisce per catturare l’individuo disumanizzato, tramutato in massa. Nella stessa prefazione del 1920, per il resto impostata in termini atemporali, senza distinzione tra un prima e un dopo all’interno dello stesso concetto di “ciò che è occidentale”, nel riferirsi concretamente al funzionario specializzato, “pietra angolare dello Stato moderno e dell’economia moderna”, egli compie un salto a sorpresa da un’analisi atemporale ad un’altra sulla società contemporanea, e in tale frangente il suo precedente discorso compiacente cede il passo ad un altro discorso di segno opposto e dal tono elegiaco, allorché aggiunge che la figura del funzionario è naturalmente esistita in tutte le epoche e in ogni luogo, «ma non l’inquadramento assolutamente ineludibile di tutta la nostra vita, delle condizioni elementari tecniche ed economiche della nostra esistenza nella gabbia di una organizzazione di funzionari specializzati»8. 8

Cfr. ivi, p. 316. La locuzione “ein stalhartes Gehäuse”, impiegata nelle ultime pagine di L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, è stata resa nella nostra lingua in diverse forme: “ferrea envoltura” [involucro di ferro, n.d.t.], “ferreo estuche” [astuccio di ferro, n.d.t.] o “carcasa dura come el acero” [carcassa dura come l’acciaio, n.d.t.]. Ma la traduzione di Talcott Parsons in inglese come “iron cage” (in spagnolo, “jaula de hierro” [gabbia di ferro, n.d.t.]), sebbene meno fedele all’originale, ha incontrato miglior fortuna delle precedenti ed appartiene attualmente al lessico weberiano comune in tutte le lingue. Pertanto, in questa citazione

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Le complesse società di massa moderne richiedono una razionalità specifica che sia in grado di amministrarle, persino a prezzo di una burocratizzazione totale della vita e dell’eliminazione in essa “dei valori ultimi e più sublimi”. Detto in altri termini, modernità e nichilismo vanno di pari passo e si esigono reciprocamente; e se vediamo nella modernità nichilista l’ultima fase della storia dello spirito occidentale, risulta inevitabile domandarsi, come conclusione del precedente giro argomentativo, in quale relazione si trovi questa ultima fase rispetto al resto della storia. Tale giro argomentativo, il quale ha dato uno sguardo ai differenti piani del concetto weberiano di razionalità e alle particolarità di quella occidentale, era necessario al fine di rendere giustizia alle proporzioni della questione che ora viene sollevata e che è la seguente: il nichilismo attuale costituisce un frutto avvelenato maturato nell’ambito della decadenza della storia europea, un nefasto punto d’arrivo alla fine di un vasto processo di grandi invenzioni culturali, un tragico destino il quale, in qualche modo, invalida o logora i successi precedenti in quanto rivelerebbe l’intima essenza perversa di tutta la cultura occidentale? Oppure, al contrario, il nichilismo rappresenta uno di quei contributi o invenzioni eminenti di tale cultura, il fiore più squisito del génie dell’Occidente? Altre culture hanno conosciuto, a qualche livello, elementi di creazioni occidentali, quali la scienza matematica, le istituzioni universitarie, l’ogiva architettonica o la musica polifonica, il funzionario giurista o il mandato rappresentativo, tuttavia, quale altra cultura, che non sia quella occidentale, ha saputo nemmeno remotamente condurre tanto lontano la critica di se stessa e delle proprie tradizioni, la radicale messa in discussione dei propri fondamenti, la relativizzazione scettica delle proprie narrazioni legittimatrici, alcune di esse millenarie; insomma, la perdita di efficacia dei propri princìpi fondatori, e tutto ciò senza pregiudicare la conservazione di tale tradizione e di tali princìpi in una forma pratica e convenviene mantenuto il sostantivo “gabbia”, alterando il testo dell’edizione citata, al fine di tradurre il vocabolo tedesco Gehäuse.

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zionale? Non è un merito da poco, per di più tenendo conto che tale autocritica dissolvente non può essere imputata a una debolezza della civiltà – come se si trattasse di uno di quei momenti di lucidità e amara coscienza di sé che ci accompagnano nell’autunno della nostra vita – poiché essa si è trovata ad esercitarla, e certamente con estremo rigore, in un’epoca in cui invece si osserva ovunque una globalizzazione della cultura che in gran parte è lecito interpretare come una forma di occidentalizzazione del mondo. Questo è il punto di partenza del presente saggio. Il nichilismo non è una gabbia di ferro, bensì una porta verso l’uscita dal labirinto, una nuova e audace stazione in quell’incessante ripensare verità in cui consiste la storia dello spirito umano. Ogni epoca deve cercare il proprio kairós e la nostra deve imparare a trovare nel nichilismo una occasione di civilizzazione. §2. IL NICHILISMO E SUO NIPOTE Al fine di una corretta delucidazione dell’argomento proposto risulta ora importante distinguere tra il nichilismo, quale è stato formulato da parte dei suoi interpreti maggiormente riconosciuti, ed un concetto con esso imparentato e tuttavia differente, il quale in qualche modo lo corregge e lo trasforma in una categoria utile per la causa della civiltà, in quanto la formulazione più comunemente accettata del primo – in Hegel e in Nietzsche – ha a lungo oscurato la comprensione dell’essenza autentica di tale concetto imparentato, la cui effettiva incorporazione nelle istituzioni politiche e sociali costituisce l’esperienza principale sperimentata dalla cultura contemporanea, non senza assumere rischi di una certa gravità. Il nucleo del nichilismo si riassume nel noto concetto della “morte di Dio”. La storia della nascita degli dèi è stata raccontata in molteplici ed eterogenee teogonie, e alcuni di tali dèi in seguito morivano, sebbene l’immortalità fosse solitamente uno degli attributi della divinità, che la separava attraverso una barriera insormontabile dagli eroi e dalle altre creature corruttibili. La morte sulla 36


croce di Gesù di Nazaret ispirò le elucubrazioni della prima teologia cristiana, quella di Paolo di Tarso, sulla kénosis di Dio9, il suo radicale abbassamento, il primo e il principale ad assumere la condizione mortale, superando in tal modo una distanza infinita tra Dio e gli uomini e, una volta incarnato, in una diminuzione secondaria rispetto al primo e tuttavia carica di drammaticità, scegliere una morte da schiavo in mezzo all’abbandono e all’ignominia, per poi, come atto finale, continuare a discendere ad inferos. Quel sabato santo, compreso tra la morte del venerdì e la resurrezione della domenica, nel quale Dio stesso, dopo essere spirato sulla croce, giace sepolto, inerte e muto come un cadavere, simbolizza la precipitazione dell’essere – e soprattutto dell’Essere Supremo, suo creatore – nel nulla, e racchiude l’immagine più desolante che sia possibile immaginare di un nichilismo cosmico, nel quale la sussistenza di ogni cosa rimane in sospeso. Dopo la discesa, l’elevazione inversa: resurrezione, ascensione, esaltazione e dominio di Dio su tutta la creazione. Tale decesso divino si inserisce in un ritmo triadico di nascita, morte e rinascita, e grazie a questo schema quel nichilismo acquisisce un senso all’interno di un progetto soteriologico da lungo tempo tracciato da Dio per la salvezza degli uomini e per l’esibizione del proprio potere, del proprio amore e della propria gloria10. Nel corso del XIX secolo il motto della morte di Dio acquista nuove connotazioni all’interno di due testi classici della filosofia, i quali hanno in comune il fatto di impiegare l’impressionante metafora, nell’uno e nell’altro estremo di tale secolo. Nel 1802, Hegel pubblicò il controverso articolo “Fede e conoscenza”, il cui ultimo paragrafo evoca un canto di Lutero nel fare riferimento al “sentimento che Dio stesso è morto”. E il paragrafo 125 di La gaia scienza di Nietzsche, del 1882, intitolato “L’uomo folle”, racconta la parabola di un demente che si aggira per la piazza del villaggio gridando che “anche gli dèi si corrompono, Dio è morto! Dio giace morto!”. 9

Cfr. l’inno contenuto nella Lettera ai Filippesi 2, 6-11. Cfr. “Entre los muertos (sábado santo)”, quarta sezione de “El misterio pascual”, contributo di Hans Urs von Balthasar all’opera collettanea Mysterium Salutis, III, Madrid, Cristianidad, 1980. 10

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Esiste una differenza in termini di portata tra i due testi in questione. Quello di Hegel si limita ad una polemica all’interno dell’idealismo tedesco che coinvolge Kant, Jacobi e Fichte. Il Dio che muore rappresenta in Hegel l’oggettività ingenua del mondo. Jacobi accusò Fichte di nichilismo poiché nel sistema di questi viene distrutta la certezza dei dati immediati provenienti dai sensi, i quali sono per il filosofo idealista il prodotto della spontaneità creatrice del soggetto. Hegel difende con Fichte la necessità di tale momento nichilista al fine di consentire la transizione ultima alla soggettività moderna, sebbene in seguito rimproveri a Fichte di non aver oltrepassato il proprio nichilismo laddove il pensiero riesce a superare dialetticamente la scissione soggetto-oggetto nella quale si trova imprigionato il soggettivismo idealista. Nel frammento di Nietzsche, dal canto suo, il Dio che muore denota un concetto assai più vasto, non un semplice passaggio dello spirito hegeliano che attraversa diverse esperienze nel suo viaggio verso il suo stadio ultimo e definitivo, bensì tutta la cultura occidentale a partire da Socrate, vale a dire, una miscela di ontologia platonica e teologia cristiana che in seguito Heidegger avrebbe apostrofato come “ontoteologia”. A differenza di Hegel, in Nietzsche, soprattutto nei suoi scritti postumi, il nichilismo si trasforma in un argomento esplicito e centrale, espressione raffinata della sua filosofia tardiva. Tuttavia ciò che ora interessa mettere in risalto è il fatto che – nonostante le differenze sopra menzionate, che non possono essere ignorate – entrambi i pensatori condividono con la teologia di Paolo e, di conseguenza, tra loro stessi, un identico schema ternario di nascita, morte e resurrezione il quale, come verrà mostrato in seguito, finisce con il conservare inaspettatamente, sotto altra forma, ciò che si era tentato di superare. Se il nichilismo ha significato qualcosa, ciò è la critica più radicale che una cultura abbia mai scagliato contro se stessa. Uomini di lettere appartenenti al ceto privilegiato della società, eredi formatisi all’interno di una tradizione millenaria, trionfante nel mondo, le si rivoltano contro e denunciano la sua profonda falsità, la sua immoralità e la sua decadenza. L’interpretazione del mondo che ora 38


si tratta di distruggere riposa su due principi elementari: l’uomo possiede un fondamento estraneo a se stesso e tale fondamento è assoluto. Questo etero-fondamento dalle pretese assolute avrebbe creato nella tradizione filosofica il suo stesso lessico: essere, verità, valori, cosa-in-sé, senso, categorie della ragione e, come sintesi suprema di quanto precede, Dio, causa sui e fondamento infondato. Ma ecco che tale fondamento assoluto al di là dell’uomo si è dimostrato essere una colossale menzogna, poiché l’uomo si fonda su se stesso, sulla propria vita, sulla propria libertà, sulla propria volontà. La annihilatio mundi presuppone il necessario smascheramento di questo errore protratto nel tempo. A partire dal 1885, Nietzsche progetta di scrivere un saggio dal titolo La volontà di potenza. Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori, e nell’estate del 1887 decide di porre freno all’intenso ritmo delle proprie pubblicazioni e di concentrarsi sul suo opus magnum. Si tratta di variazioni dello stesso annuncio del folle: la morte di Dio, la definitiva demolizione del fondamento assoluto e trascendente dell’uomo11. 11

Come è noto, nel settembre del 1888 Nietzsche abbandonò il progetto della sua Hauptwerk e al suo posto pubblicò L’Anticristo e un singolare compendio della propria filosofia, Il crepuscolo degli idoli. Nel gennaio del 1889 perdette la propria lucidità. Nel 1901, sua sorella dette alle stampe una raccolta di suoi frammenti postumi con la pretesa che si trattasse di uno studio concepito in modo unitario dal filosofo con il titolo La volontà di potenza, in edizione arricchita nel 1906 e quasi identica nel 1911. Intitolò Il nichilismo europeo il primo libro di quel saggio, il quale conobbe una straordinaria influenza nell’Europa del principio del XX secolo. L’edizione critica delle opere di Nietzsche intrapresa anni dopo da Giorgio Colli e Mazzino Montinari finì per dimostrare l’enorme mistificazione in cui era incorsa la sorella, amalgamando arbitrariamente frammenti di periodi e provenienze differenti e occultando il carattere frammentario e provvisorio dei pensieri del filosofo [F. Nietzsche, Werke. Kritische Gesaumtausgabe, Berlin, de Gruyter, 1967 e ss.; ed. it.: F. Nietzsche, Opere di Friedrich Nietzsche, Milano, Adelphi, 1964 e ss., n.d.t.]. In tale edizione critica scompare il saggio La volontà di potenza ed il suo contenuto viene distribuito, essenzialmente, nei volumi dedicati ai frammenti postumi scritti tra il 1885 e il 1889. La traduzione spagnola di questi ultimi è stata curata da J.L. Vermal e J.B. Llinares, in Fragmentos póstumos, IV (1885-1889) (edizione diretta da D. Sanchéz Meca), Madrid, Tecnos, 2006. Tra i vari frammenti dedicati alla questione del nichilismo, meritano di essere messi in risalto per la loro elevata intenzione: 5 (71), con il titolo “Nihilismo europeo”; 9 (35), che contiene le distinzioni di Nietzsche tra nichilismo attivo, passivo ed estremo; e 11 (99),

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Con linguaggio espressivo, Hegel segnala la necessità della «sofferenza assoluta o venerdì santo speculativo, che fu per il resto storico, e ciò persino in tutta la durezza e la verità del suo atesimo» (Gottlosigkeit)12. E adesso la domanda essenziale: qual è la profonda verità dell’ateismo o perdita di Dio? Lo si è già anticipato, ma è opportuno ripeterlo: la messa in discussione liberatrice, la salutare relativizzazione, la sospensione preventiva delle pretese assolute dell’etero-fondamento onto-teologico dominante nella tradizione occidentale. Oramai è possibile radicare ciò che è nuovo nello spirito umano immanente, nell’uomo stesso. Le antiche nozioni erano talmente radicate nella coscienza – segnala Hegel – che la verità dell’ateismo, la quale ci emancipa da esse, risulta ora dura da sopportare da parte l’uomo. Ciononostante, Hegel, una volta avvenuto il venerdì santo speculativo, non chiede tuttavia di rimanere per molto tempo nel nichilismo del sabato santo, poiché, recuperando la triade paolina, non tarda ad annunciare la domenica di resurrezione: «Soltanto da questa durezza può e deve resuscitare la totalità suprema in tutta la sua serietà e a partire dal suo più profondo fondamento, abbracciandolo nel contempo per intero e nel suo aspetto di libertà più radiosa»13. Insomma, quel “sentimento che Dio è morto” è “un momento e soltanto un momento dell’Idea suprema”, poiché subito dopo viene proclamata la resurrezione di un nuovo assoluto, questa volta auto-fondato sull’umano; vale a dire, “la totalità suprema” ovvero, come aveva un po’ prima affermato, “l’Idea della libertà assoluta”. Lo stesso schema risulta confermato nel pensiero di Nietzsche. “Crítica del nihilismo”. Altri frammenti: 2 (127), sul declino della interpretazione morale del mondo; 2 (121), in cui Nietzsche propone una svalutazione di tutti i valori supremi; 7 (8); 7 (43); 7 (64); 9 (60); 9 (123), nel quale egli afferma che “fino ad oggi sono stato fondalmente nichilista”; 10 (42 e 43) in cui si allude al nichilismo incompleto e perfetto; 10 (92), sul nichilismo radicale; 11 (119) in cui si descrive l’ascesa del nichilismo come un “processo necessario”; e 11 (149 e 150) in cui si definisce il nichilismo come la coscienza del fatto che tutti i vecchi ideali siano ostili alla vita. 12 G.W. Hegel, Fe y saber, Madrid, Biblioteca Nueva, 2000, trad. di V. Serrano, p. 164. 13 Ibidem.

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La morte di Dio rappresenta un evento grandioso per il folle del paragrafo 125 di La gaia scienza14, tuttavia nei frammenti postumi essa appare piuttosto come qualcosa di terribile, tale da esigere una particolare audacia da parte dello spirito. Egli afferma nel frammento 5 (71), intitolato “Il nichilismo europeo”: «È venuta meno una interpretazione; tuttavia, posto che essa era considerata come la interpretazione, appare come se non ci fosse stato assolutamente alcun senso nell’esistenza, come se tutto fosse invano». “Il pensiero più paralizzante”, afferma in seguito, è l’idea di una “durata, accompagnata da un “invano”, senza meta né fine”. La ben nota idea, difficile da sopportare, dell’eterno ritorno dell’identico: «Consideriamo questo pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, quale essa è, senza senso e senza meta, e tuttavia eternamente ritornando su se stessa, senza un finale15 nel nulla: “l’eterno ritorno”. Questa è la forma più estrema del nichilismo: il nulla (“ciò che manca di senso”) eternamente!». Tuttavia, anche per Nietzsche il nichilismo rappresenta un momento provvisorio o uno stadio intermedio16 e alla devastazione che esso ha provocato fa seguito un nuovo fondamento, terreno, di pretese però altrettanto totalizzanti quanto il precedente. In effetti, anche qui, dopo la morte di Dio, è lecito aspettarsi una resurrezione: «Voi, uomini superiori, quel Dio era il vostro supremo pericolo. Soltanto da quando egli giace nella sua tomba, voi siete di nuovo resuscitati»17. Essi resuscitano allorquando hanno la forza, la volontà e la libertà 14 «Non vi fu mai evento più grande, e quanti nasceranno dopo di noi apparterranno ad una storia superiore a tutta la storia precedente a causa di questo evento», in F. Nietzsche, El gay saber, Madrid, Austral, 2000, trad. di L. Jiménez Morreno, p. 185 [ed. it.: F. Nietzsche, La gaia scienza, a cura di G. Colli e M. Montinari, trad. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. V, tomo II, Milano, Adelphi, 1965, 2a ed. riveduta a cura di M. Carpitella, 1991, n.d.t.]. 15 In italiano nel testo [n.d.t.]. 16 Cfr. frammento 11 (100). 17 F. Nietzsche, Así habló Zarathustra, Madrid, Alianza editorial, 1985, trad. di A. Sánchez Pascual, quarta parte, “Del hombre superior”, p. 383 [ed. it.: F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura di G. Colli e M. Montinari, trad. di F. Masini, quarta parte, “Dell’uomo superiore”, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo III, Milano, Adelphi, 1970, n.d.t.]. Nell’introduzione a quest’opera, il profeta pre-

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sufficienti per sostituire i precedenti valori supremi, oramai svalutati, con il nichilismo, ed istituirne di nuovi creati da loro stessi18. Nietzsche definisce “contromovimento” quel futuro superamento del nichilismo perfetto in virtù del sorgere di nuovi valori19. Suo promotore è l’“uomo del futuro” che egli descrive in Genealogia della morale, in parte scritto con materiali provenienti dai frammenti postumi: un “uomo redentore” il quale libera “dalla volontà del nulla, dal nichilismo” e «restituisce alla terra il suo scopo e all’uomo la sua speranza, quell’anticristo e antinichilista, quel vincitore di Dio e del nulla»20. La forma più compiuta di questo uomo post-nichilista è rappresentata dall’artista, in quanto soggettività che detiene il potere di creare ex nihilo un nuovo mondo di valori, impregnato di essere, e l’audacia, l’energia e la vitalità con cui lo fa costituisce la migliore rappresentazione della volontà di potenza21. In definitiva, entrambi i pensatori della morte di Dio, nel seguire il ritmo ternario di nascita, morte e resurrezione, non si sottraggono, in fondo, dallo schema di Paolo e pertanto prolungano, senza volerlo, quella stessa tradizione che intendevano distruggere. Questo senta il superuomo come “il senso della terra” (p. 34). Il citato frammento postumo “Il nichilismo europeo” dedica un eloquente penultimo paragrafo ai “più forti”. 18 Cfr. 9 (35) 2: «Che non vi sia verità; che non vi sia costituzione assoluta delle cose, che non vi sia “cosa in sé”. Questo è un nichilismo, e il più estremo. Esso colloca il valore delle cose proprio nel fatto che a tale valore non corrisponde nessuna verità, ma che è soltanto un sintomo di forza da parte di chi istituisce il valore, una semplificazione con il fine della vita». 19 Cfr. 11 (411) 4. 20 F. Nietzsche, La genealogía de la moral, Madrid, Alianza Editorial, 1993, trad. di A. Sánchez Pascual, fine del secondo trattato, p. 110 [ed. it.: F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, a cura di G. Colli e M. Montinari, trad. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo II, Milano, Adelphi, 1968, n.d.t.]. 21 Per quanto riguarda la volontà di potenza come arte, la citazione capitale, di vasta ricezione nella prima metà del XX secolo, era rappresentata dal paragrafo 854 del citato libro pubblicato dalla sorella La volontà di potenza, in cui Nietzsche torna su alcuni concetti del suo libro La nascita della tragedia e sostiene, tra le altre cose, che l’arte “è di valore maggiore rispetto alla verità” e la reputa come “missione suprema e attività propriamente metafisica della nostra vita”. Attualmente i frammenti postumi 11 (415) e 14 (21), della primavera del 1888, si trovano restituiti al loro legittimo posto.

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perché da tale schema si deduce che vi sia una continuità soggiacente ai tre momenti, che qualcosa muoia e quello stesso qualcosa, o un elemento ad esso intimamente e sostanzialmente connesso, risusciti e, con il suo elevarsi dai morti, ascenda in qualche modo ad una nuova esistenza, più piena, più potente, ancora più infinita, se possibile, rispetto a prima. Certamente in Paolo è Dio a morire ed è Dio in seguito a resuscitare, mentre invece per Hegel e per Nietzsche Dio muore e resuscita in un’altra entità trasfigurata – lo Spirito Assoluto, il superuomo –, ma non si può ignorare che ciò che risorge, nel momento in cui viene rimossa la pietra che copre la sepoltura, per quanto ora immanente all’uomo e terreno, sia altrettanto infinito ed eterno, ragion per cui il senso di ciò che è veramente nuovo ed originale del nostro tempo, cioè la finitudine, la contingenza e la mortalità – l’apice della civiltà più elevata, secondo la tesi del presente saggio – è andato in essi nuovamente perduto. Hegel, del resto, lo afferma esplicitamente: «La valutazione filosofica non possiede altro intento se non quello di eliminare il contingente»22. E il suo intero sistema si riassume nell’impresa di sottomettere il finito all’infinito, essendo il divenire della storia universale, come egli dichiara alla fine di La fenomenologia dello Spirito, il calvario che lo Spirito deve attraversare per raggiungere nell’ultima fase la maestà dell’Idea assoluta, infinita ed eterna – attributi, questi, caratteristici della divinità –, incorrendo in tal modo in una apocatastasi o conciliazione di tutti gli opposti che nel nostro tempo attuale suona stranamente anacronistica. Quello Spirito hegeliano che rinasce in seguito alla crocifissione di Dio oramai non comporta più un etero-fondamento per l’uomo come l’onto-teologia che esso sostituisce, non è trascendente rispetto a questi bensì immanenza allo stato puro: l’umana autocoscienza ritrova in se stessa la propria origine o principio assoluto, sebbene con una tendenza all’autodivinizzazione che è comune anche a 22

G.W.F. Hegel, Lecciones sobre la filosofia della storia universal, Madrid, Alianza Editorial, 1994, trad. di J. Gaos, p. 43 [ed. it.: G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1941-1963, 4 voll., n.d.t.].

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Nietzsche, manifestata nell’opera di quest’ultimo sotto forma di un soggettivismo parossistico, decisamente privo di limiti. Vi è da dire, innanzitutto, che la concezione del tempo di Nietzsche rimane ancorata alle antiche categorie del senza-fine (in-finito), dell’eterno: “il nulla (‘ciò che manca di senso’) eternamente!”, nella citazione sopra riportata. La sua concezione dell’eterno ritorno suggerisce un abbandono dell’idea giudeo-cristiana del tempo lineare e progressivo, e un ritorno, anch’esso piuttosto inattuale, ad una temporalità ciclica, circolare, che l’alternanza delle stagione aveva ispirato alle culture agricole primitive. Ad ogni modo, è quell’uomo superiore, quell’uomo redentore, quell’uomo “forte”, insomma, è quel “superuomo” ad assumere, nella sua tarda filosofia, i tratti di un nuovo assoluto. Dice Zarathustra: «Morti sono tutti gli dèi; ora vogliamo che viva il superuomo. Questa sia la vostra ultima volontà nell’ora del grande meriggio!»23. Gli dèi cedono il passo al superuomo e la tendenza a rivestire quest’ultimo degli attributi della divinità risulta irreprimibile. Indubbiamente, sarà opportuno insistere, questo nuovo fondamento è autoreferente, integralmente terreno: «Vi scongiuro, fratelli miei, rimanete fedeli al senso della terra e non credete a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene»24. Tuttavia nulla in esso ricorda il contingente, l’effimero ed il limitato della comune condizione mortale. Al contrario, esso appare sotto la forma del redentore del tempo, il quale vive un’ora di pienezza perfetta ed è capace di dire un «sì dionisiaco al mondo quale esso è: fino al desiderio del suo assoluto ritorno ed eternità»25. Considerando la natura di questo desiderio di assoluto e di eternità, appare pienamente pertinente la domanda che si pone il folle, annunciatore del grandioso avvenimento della morte di Dio: «Non dovremmo forse trasformarci in dèi noi stessi, soltanto per apparire degni di ciò?»26. Fin qui la formulazione storica del nichilismo nel XIX secolo, 23

F. Nietzsche, Así habló Zarathustra, cit., fine del libro I. Ivi, p. 34. 25 Cfr. 10 (3). 26 F. Nietzsche, El gay saber, cit., p. 185. 24

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che già si vede propendere verso un eccesso di fondamento, per quanto invertito, simile a quello che intende criticare. Purtroppo, i figli del vangelo nichilista non si sono sempre rivelati all’altezza della missione civilizzatrice in esso implicita, quella che non ignora, bensì edifica sui limiti dell’umano, e che nel XX secolo, al di là dell’ingegno e dell’eloquenza di alcuni suoi interpreti, si è positivamente concretizzata in istituzioni politiche e sociali ben riconoscibili. Tuttavia, queste ultime non sarebbero state possibili senza la formazione di una particolare sensibilità per un altro elemento, il quale non è discendente diretto del nichilismo, bensì un suo modesto parente in linea collaterale, sebbene con un’inconfondibile aria familiare: il concetto di finitudine. §3. UNA CONQUISTA PER SEMPRE: LA FINITUDINE L’Antico Testamento27 racconta la storia di alcuni uomini che erano uniti dalla stessa lingua e cultura e che si misero d’accordo per fondare una città. Essi tuttavia non si accontentarono di ciò e, animati da una pretesa eccessiva, idearono il progetto di elevare al suo interno una torre che giungesse fino in cielo. Jahvè, al fine di punire quella hybris consistente nel disconoscere i limiti imposti all’uomo e nel tentare di rendersi uguali alla divinità, confuse quel popolo moltiplicandone le lingue e ne disperse gli appartenenti. La città, che si chiamava Babele, rimase abbandonata e ancora in fase di costruzione. Nulla si è dimostrato essere più effimero delle pretese eterne. Soltanto entro i limiti dati possono essere gettate le fondamenta di una Babele duratura. Tali limiti sono stati quelli enunciati da Calvino, i quali ora si presentano come assioma di tutta la civiltà futura: “Finitum non capax infiniti”. La tendenza a disconoscerli, ad immaginare una realtà ipostatizzata, a sublimare una ideologia che tenti di superarli, di disprezzarli, di annullarli, costituisce la storia 27

Genesi 11, 1-9.

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di ogni cultura. L’esperienza della vita fornisce agli individui che la possiedono una conoscenza sull’assortimento di possibilità effettive offerte dal mondo nella sua reale costituzione, una familiarità con la linea tracciata dal destino per separare ciò che è possibile da ciò che è impossibile per l’uomo, per il quale tale coscienza delle proprie possibilità comporta un’opportunità di vivere entro quei limiti oggettivi e di moltiplicare la propria capacità ed il proprio profitto28. Accanto all’esperienza della vita, e in analogia con essa, si debbono collocare le esperienze realizzate dall’umanità nel corso della storia universale, poiché questa, in quanto magistra vitae, ha parimenti insegnato alle nazioni ciò che è o non è possibile per esse. La lezione principale che impara l’umanità nel considerare la propria storia è che il vero universale antropologico si trova nella finitudine e, di conseguenza, qualsiasi impresa umana che intenda essere duratura deve paradossalmente accettare la realtà limitata di ciò che è dato. Odo Marquard riassume questo concetto nelle seguenti parole: Penso semplicemente che sarebbe un segno di mancanza di libertà il fatto che l’essere umano vivesse al di sopra delle proprie possibilità, delle possibilità proprie della sua finitudine. Se non vuole comportarsi in questo modo, l’essere umano deve saper riconoscere il contingente: attraverso un’apologia di ciò che è contingente29. 28

Cfr. il mio Aquiles en el gineceo, cit., pp. 147-148 e anche la nota a p. 130. O. Marquard, Apología del contingente, Valencia, Institució Alfons el Magnànim, 2000, trad. di J. Navarro, p. 127. Egli distingue tra due classi di contingenza: “contingenza per arbitrarietà”, cioè quell’elemento della vita che potrebbe essere diversamente e potrebbe essere cambiato a discrezione, ad esempio, il fatto di scrivere o meno un libro; e “contingenza per destino”, la quale, essendo contigente per natura, è di fatto necessaria per l’uomo, in quanto non può essere cambiata, come la nascita, il corpo o le capacità. «La mia tesi è, dunque, – aggiunge Marquard – che nella filosofia il contingente per arbitrarietà ha fatto sì che venisse dimenticato il contingente per destino, con l’obiettivo di porre rapidamente fine a ciò che è contingente e poter così facilmente “allontanarlo”» (ivi, p. 141). La contingenza per destino è un buon modo di presentare la nozione di esperienza della vita (cfr. nota precedente), intesa come la conoscenza relativa ai limiti che la finitudine impone alle possibilità umane; se fosse esatta, l’osservazione di Marquard 29

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La finitudine del mondo rappresenta una nuova e decisiva invenzione occidentale da aggiungere all’elenco di Weber, corollario dell’idea giudaico-cristiana di creazione ex nihilo30. I greci concepirono il cosmo come un’entità necessaria, atemporale. Le cosmogonie e le metafisiche greche, ivi compreso il Timeo di Platone, spiegano perché l’universo è quello che è, ma non perché è, perché esiste. Secondo tale metafisica, le sostanze si corrompono, ma gli elementi che le compongono, la materia, la forma ed il movimento, sono incorruttibili. La materia, che per gli esseri corporei conferisce l’esistenza, non appartiene ad un grado di essere inferiore alla forma eidetica: essa è contingente soltanto sul piano dell’intelligibilità – si conosce in maniera peggiore, è più opaca della forma –, ma non sul piano dell’essere. In questa metafisica greco-romana della necessità, irrompe come un innesto estraneo, proveniente dalla tradizione giudaica e successivamente incorporato al cristianesimo nei commentari allo Hexameron e nel trattato teologico De Deo creante et elevante, la credenza in un Dio, essere supremo e necessario, il quale in un atto di libertà sovrana crea dal nulla un mondo finito. A partire da quel momento, nella teorizzazione di San Tommaso d’Aquino, viene stabilita la cosiddetta distinzione reale tra essenza ed esistenza, la quale implica la separazione insormontabile tra l’ordine infinito e quello finito. L’uomo ed il mondo sotto i suoi piedi sono venati di contingenza. Quella presentazione di se stesso per bocca di Jahvè: “Io sono colui che sono”31, fu interpretata dalla teologia come una spiegherebbe perché questa nozione sia rimasta così a lungo senza essere sviluppata, malgrado essa sia comunemente nota almeno sin dagli albori della letteratura sapienzale. Marquard non si orienta comunque verso tale direzione ontologica e le sue riflessioni, di filiazione scettica e con conclusioni conservatrici, si rivolgono piuttosto a dedurre dalla brevità della vita, che non consente di iniziare ogni esistenza a partire da zero, l’inevitabilità delle usanze, dei costumi e delle tradizioni ereditati dal passato, una sorta di contingenza di destino morale e cognitiva per il singolo uomo. 30 E. Gilson, El espiritu de la filosofia medieval, Madrid, Rialp, 1981, capítulo 4, “Los seres y su contingencia”; e El ser y los filósofos, Eunsa, Pamplona, 1985, capítulo 5, “El ser y la existencia”. 31 Esodo 3, 14.

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definizione di Dio, nel quale coincidono necessariamente l’essenza (“Io sono”) e l’esistenza (“colui che sono”, “colui che esiste”), nel senso che l’essenza di Dio è esistere. Invece, nell’entità creata, nella creatura, essenza ed esistenza possono essere distinte tra loro, in quanto non soltanto essa potrebbe non essere ciò che è, ma potrebbe anche non esistere, e tale divisione trae con sé anche una distinzione nell’ordine reale tra la creatura ed il creatore. L’assimilazione dell’idea giudaica della creazione alla metafisica greca attraverso la teologia cristiana provoca dunque, da un lato, la tragedia nel seno stesso dell’essere finito, ontologicamente scisso tra essenza ed esistenza; e dall’altro, una scossa all’interno di quel cosmo armonico, necessario ed eterno proprio dell’Antichità classica, improvvisamente trasformato in un’entità provvisoria e gratuita, prodotto di un decreto libero e volontario, il quale potrebbe, almeno ipoteticamente, essere revocato. A Talete di Mileto viene attribuita la sentenza: “Tutte le cose sono piene degli dèi”. Per la mentalità greca, il cielo e la terra formavano parte di un’unità armonica superiore, denominata cosmo, nella quale uomini e dèi vivevano in quella prossimità così espressivamente ricreata dalla mitologia, e la natura era animata da un principio vivo, spirituale e divino; la filosofia platonica e plotiniana, ad esempio, con le sue idee di partecipazione ed emanazione da e verso il sensibile nell’intelligibile, sono soltanto una dimostrazione di questo felice matrimonio. La separazione, nella metafisica cristiana, dell’ordine finito da quello infinito diede luogo ad una de-divinizzazione del mondo che favorì il compimento del mandato biblico di dominare la terra. Max Scheler ha eloquentemente insistito su quel processo di secolarizzazione della natura che è stato promosso dalla visione del mondo cristiana, privata di dèi e dell’elemento spirituale in generale, ridotta a inerte meccanicismo e a res extensa. Contrariamente a quanto si è soliti ritenere, è nel Medioevo, epoca del razionalismo esacerbato, che si possono riscontrare i presupposti teorici dei successivi progressi scientifici. La drastica de-vitalizzazione e dis-animazione del mondo scatenate dalla “distinzione reale”, che demolisce la unio mystica dell’ontolo48


gia arcaica e di quella classica tra il cielo e la terra, lasciarono libero il passo al razionalismo scientifico e allo studio, alla trasformazione e al dominio della natura32. Con ciò il mondo acquisì una certa autonomia rispetto al proprio fondamento assoluto e da tale autonomia appena inaugurata germogliò l’umanesimo rinascimentale, e da questo, a sua volta, dopo determinati sviluppi, l’intera modernità. Per secoli, per lo meno fino al XIX secolo, la cultura continuò ad essere illuminata, tutelata, legittimata, sanzionata, in una parola, fondata dall’Essere Supremo, per cui il vecchio fondamento veniva mantenuto, sebbene sempre più messo in discussione. D’altra parte, l’ereditata coscienza della precarietà del mondo finito, della sua misera contingenza originaria, della sua imperfezione, finì con il risvegliare la necessità di salvare la contingenza mediante uno sforzo collettivo, al riparo dell’idea moderna del progresso universale, potenzialmente infinito. Questa idea di progresso universal-infinito viene ad assumere la funzione di nuovo fondamento assoluto, sotto forma di reincarnazione di Dio nell’eone moderno, e può essere quindi considerata come la reazione inventata dall’uomo di fronte all’inconsistenza della finitudine. Quando Nietzsche conclude il futuro proponendo un “eterno ritorno” senza possibilità di progresso, e ciò al grido nichilista della 32 Max Scheler argomenta così la propria tesi: «Il monoteismo giudeo-cristiano del Creatore ed il suo trionfo sulla religione e sulla metafisica del mondo antico rappresentò, senza dubbio, la prima possibilità fondamentale che rimanesse disponibile l’indagine sistematica della natura in Occidente. Si trattò di un rimanere disponibile della natura nei confronti della scienza in un ordine di dimensioni che forse sopravanza quanto è accaduto in Occidente fino ad oggi. Il Dio spirituale di volontà e lavoro, il Creatore, che non fu conosciuto da alcun greco o romano, da nessun Platone o Aristotele, ha rappresentato – sia che il fatto di ammetterlo sia verità o errore – la maggiore santificazione dell’idea del lavoro e del dominio sulle cose infraumane, e al tempo stesso ha operato la maggiore dis-animazione, morti-ficazione, distanziamento e razionalizzazione della natura che sia mai avvenuta in confronto alle culture asiatiche e all’Antichità», in M. Scheler, Sociología del saber, Buenos Aires, Ediciones Siglo Veinte, 1973, trad. di J. Gaos, pp. 93 e 94 [ed. it.: M. Scheler, Sociologia del sapere, Roma, Abete, 1966 e 1977, trad. di D. Antiseri, n.d.t.]. Cfr. anche M. Scheler, Esencia y formas de la simpatía, Salamanca, Siguente, 2005, trad. di J. Gaos, p. 133 e ss. [ed. it.: M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, Roma, Città Nuova, 1980, trad. di L. Pusci, n.d.t.].

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“morte di Dio”, la cultura si trova a confrontarsi con un problema rigorosamente nuovo: quello di un mondo privo di fondamento trascendente e allo stesso tempo privo di qualsiasi consistenza. Da questo punto di vista, avrebbe ragione quel gentleman russo di una certa età – “qui frisait la cinquantaine” –, capelli lunghi e barba appuntita, che fa la sua apparizione di sorpresa nella stanza in cui Ivan Karamàzov sta soffrendo di un delirium tremens, intavolando con lui una conversazione. In una atmosfera allucinata, il diabolico visitatore, sotto le sembianze del nichilista, adduce in un momento culminante del dialogo il noto argomento secondo il quale, se Dio non esiste, tutto è permesso33. Tale inferenza, per quanto apparentemente trasgressiva, appartiene, a guardar bene, all’antica concezione del mondo, poiché condivide con la onto-teologia del passato il presupposto qui sopra già esplicitato: quello secondo cui, senza un fondamento trascendente, la finitudine affonda nel nulla; quello secondo cui una civiltà fondata esclusivamente su basi contingenti finisce necessariamente con il precipitare nell’immoralità, nell’abominio e nell’anarchia. Sotto i nostri occhi, il mondo occidentale, l’unico ad essere veramente secolarizzato, sta compiendo in questo periodo l’esperimento consistente nel rifiutare definitivamente la suddetta inferenza e fondare una civiltà aderente all’assioma di Grozio, il quale nel suo trattato De iure belli ac pacis libri tres intende costruire un nuovo Diritto delle genti etsi Deus non daretur, vale a dire, senza un fondamento trascendente e, di conseguenza, valido per un’epoca, come la nostra, post-mitica, post-teologica, post-ideologica e, in definitiva, 33

«Tutto ciò che sin da ora possiede coscienza di verità può essere organizzato interamente come più le aggrada secondo i nuovi princìpi. In questo senso “tutto è permesso” […]. L’uomo nuovo può trasformarsi in Uomo-Dio, anche se fosse l’unico al mondo a farlo e, si capisce, nella sua nuova gerarchia potranno essere tranquillamente oltrepassate tutte le preesistenti barriere morali del precedente uomo schiavo laddove ciò gli sia necessario. Per Dio la legge non esiste! Laddove si trovi Dio, quello sarà un luogo divino. Laddove mi trovi io, il primo posto spetterà al “tutto è permesso”, e basta», in F. Dostoevskij, Los hermanos Karamázov, Madrid, Debate, 2000, trad. di J. Laín Entralgo, pp. 922-923 [ed. it.: F. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, Milano, Garzanti, 1974, 2 voll., trad. di A. Polledro, n.d.t.].

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disincantata, epoca nella quale, di certo, hanno raggiunto il proprio più ampio sviluppo conquiste civiche indiscutibili quali la democrazia, i diritti umani, lo Stato sociale o la giustizia nell’ordine internazionale. La dignità che la finitudine ha acquisito grazie a queste e ad altre conquiste non può essere disconosciuta. Si tratta ora di conferire alla finitudine il suo stesso fondamento autoctono, e di dotarlo di tutto il carico metafisico ed etico che gli spetta, senza permettere che essa rimanga ridotta a pallido riflesso di un’infinità opprimente e onnipresente che ha perduto di validità. Questo, perché la natura della finitudine è ambigua. Da un lato, in essa conosciamo il nostro stesso nulla e quello delle cose che ci circondano: siamo così e potremmo essere diversamente; siamo e potremmo non essere. Dall’altro, però, nell’esperienza reale ed effettiva di ciascuno, quella vissuta quotidianamente, questa stessa finitudine acquista una gravità, una consistenza ed uno spessore specifici e appare essenzialmente al nostro io come resistenza cruenta, come densità, che si oppone energicamente al nostro desiderio così come non sarebbero in grado di farlo un miraggio fugace o una vana allucinazione. Nell’esperienza si rende manifesto che la finitudine possiede veramente il proprio essere. Heidegger ebbe l’abilità di incentrare la propria grande opera Essere e tempo su di un’ampia verifica circa il tempo finito e di saper elevare quest’ultimo a questione fondamentale della metafisica34. Nella sua concezione, tuttavia, la finitudine era suscettibile di 34 Cfr. M. Heidegger, Ser y tiempo, Madrid, FCE, 1987, trad. di J. Gaos [ed. it.: M. Heidegger, Essere e tempo, Torino, UTET, 1969, n.d.t.]. L’essere è temporalità, è storicità; esso non vive nel tempo, bensì è tempo. Tuttavia, non un tempo infinito – esegesi volgare del tempo (456) – ma uno finito: “Il tempo originale è finito” (358), è necessario sceglierlo per poter giungere a conquistarsi un “destino individuale” (416). La possibilità umana è propria, genuina, autentica, è intendere se stessi come finiti. Tuttavia, il concetto volgare del mondo ha ispirato la storia della tradizione filosofica fino a Hegel. Perciò, al fine di rivelare una nuova ontologia basata sul tempo originale, si rende necessaria una “distruzione della storia dell’ontologia” (Introduzione, II, 6). Nei paragrafi 50-53 della seconda sezione, Heidegger propone un “progetto della struttura ontologica-esistenziale della morte”, nel quale egli mostra il carattere essenzialmente finito del Dasein, inteso come “essere relativamente alla morte”, vale a dire, alla mortalità.

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comprensione soltanto da parte di determinate individualità privilegiate, eccezionalmente inebriate da uno stato d’animo escatologico. In un altro studio è stato dimostrato che la finitudine non è una prerogativa di classe, bensì il concetto più democratico in assoluto, in quanto essa è comune a tutti quanti vivono e invecchiano, e che la pòlis collettiva è il suo unico scenario. Non si giunge a conoscere la temporalità finita nell’astrazione aristocratica o nell’intimità dell’anima solitaria, in cui ciascuno culla i desideri infiniti del cuore, ma nell’esperienza oggettiva della pòlis, al cui interno l’io scopre la propria innecessarietà e la propria fungibilità come entità essenzialmente scambiabile, vale a dire finita. Per tale motivo, in quella sede si affermava: ogni esperienza effettiva della finitudine è essenzialmente politica35. E, per lo stesso motivo, l’esistenza autentica del Dasein si rivela propriamente soltanto come essereper-la-pòlis. Ragion per cui si rende indispensabile reinterpretare la suddetta ontologia della finitudine di carattere estetico-soggettivista in termini di una ontologia politica civilizzatrice. Senza pretendere altro se non suggerire una direzione e a mo’ di esercizio elementare di ermeneutica, si prenda, ad esempio, l’ultimo paragrafo del saggio di Heidegger Che cos’è la metafisica? – contemporaneo di Essere e tempo –, che recita così: E la filosofia si mette in movimento soltanto attraverso il modo caratteristico di mettere in gioco la propria esistenza nel mezzo delle possibilità radicali dell’esistenza nella sua totalità. Per tale atteggiamento è decisivo: innanzitutto, fare spazio all’ente nella sua totalità; successivamente, mollare gli ormeggi, abbandonandosi al nulla, vale a dire, liberandosi degli idoli che noi tutti abbiamo e ai quali tentiamo di affidarci in maniera surrettizia; infine, rimanere sospesi affinché risuoni costantemente la questione fondamentale 35

Questa è una delle idee-forza del mio Aquiles en el gineceo, cit., sin dalle sue prime pagine (p. 17). Sulla pòlis come teatro della finitudine, cfr. p. 104 e ss.; e la critica della nozione heideggeriana di finitudine, elitista, privata e, in ultima analisi, romantica, nella p. 130 e ss.

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della metafisica, verso la quale ci spinge il nulla stesso: perché esiste l’ente e non piuttosto il nulla?36.

Una concezione politica della finitudine come quella qui propugnata interpreterebbe questa raccomandazione di “fare spazio all’ente nella sua totalità” come un’esortazione a cooperare affinché l’essere venga ad occupare il proprio posto nell’oggettività contingente della pòlis; a consentire successivamente che un nulla completamente liberato funga da dissolvente nei confronti della teologia politica propria della tradizione e ci prevenga dalla tentazione di erigere torri che intendano sollevarsi al di sopra delle nostre possibilità; e, senza esulare da tali limiti, a riformulare la questione metafisica essenziale che domanda perché esista l’ente e non il nulla, per interrogarsi ora, con lo stesso stupore e la stessa, o addirittura maggiore, aspettativa, sul perché si debba scegliere la civiltà e non piuttosto la barbarie. §4. L’ESPERIMENTO DI UNA CIVILTÀ SU BASI FINITE Il nichilismo ha compiuto metà dell’opera contribuendo ad abbattere alcuni degli idoli che erano stati anticamente eretti, tuttavia gli apostoli del nichilismo non furono in realtà sufficientemente nichilisti in quanto si affrettarono a sostituire i vecchi idoli con altri nuovi, oramai immanenti, è vero, ma di simile intenzione ideologica, permettendo che crescesse e si radicasse quel desiderio di totalità insita nell’essere, quel conatus di trasformare il frammento realmente esistente in un nuovo assoluto, di associare il finito all’infinito, contravvenendo in tal modo all’inderogabile principio calvinista: “finitum non capax infiniti”. Di contro alla pulsione di “trascendere”, il nichilismo si è dimostrato un agente di civilizzazione di prim’ordine. Tuttavia, è opportuno insistere, bisogna condurlo più lontano: consentire che il 36 M. Heidegger, ¿Que es metafisica? y otros ensayos, Buenos Aires, Ediciones Fausto, Siglo Veinte, 1992, trad. di X. Zubiri, p. 56 [ed. it.: M. Heidegger, Che cos’è la metafisica? trad. di A. Carlini, Firenze, La Nuova Italia, 1953, n.d.t.].

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nulla liberi tutto il proprio potere illuminante e che le possibilità del nichilismo si esauriscano fino al suo totale compimento; abbracciare gioiosamente il nulla non soltanto come repellente contro quell’ansia di nuovi fondamenti, ma anche come pegno di un ordine civile completamente rinnovato, creato dall’uomo su presupposti meramente convenzionali. Il grande esperimento, finora mai tentato, che sta portando a termine la nostra epoca riceve qui il nome di democrazia, intesa come l’impresa di innalzare una civiltà su fondamenti finiti. Sono escluse dalla presente considerazione quelle forme politiche che hanno utilizzato questo nome senza corrisponderne all’essenza. La democrazia, in qualità di manifestazione politica della finitudine, è un’invenzione contemporanea, post-nichilista e pertanto originariamente occidentale, la quale manca di precedenti e di tradizioni su cui poggiarsi ed è per tale motivo destinata a procedere per tentativi, in mezzo a grandi incertezze. Si afferma che la democrazia si innalza su fondamenti finiti in quanto essa riposa nella finitudine stessa dell’uomo. Refrattaria a qualsiasi hybris, essa rifiuta qualsiasi tentativo di eccedere dai confini dell’umano in fuga verso il tutto o verso il nulla. L’opposto del nulla non è per l’uomo il tutto irraggiungibile, bensì la contingenza dell’ente; in termini politici, l’opposto della barbarie non è l’assolutismo ma la democrazia. Di fatto, questa prescinde da ogni assolutismo, anche dall’assolutismo della verità. La verità democratica è prodotta dal genio dell’uomo, è la sua massima opera d’arte. Essa non viene data dalla natura né si scopre mediante rivelazione; è convenzionale, pragmatica, e, in quanto tale, fallibile, cangiante e verificabile, come l’insieme delle cose umane. Dal fatto che il fondamento della democrazia sia contingente e autoreferenziale non consegue tuttavia che esso sia privo di eticità. Tutt’altro: se prima si è detto che la finitudine è densa di consistenza metafisica, bisogna ora aggiungere che tale metafisica, l’entità stessa del reale e dell’esistente, il mondo intero, rimane in bilico e alla mercé del risultato dell’esperimento democratico. Nel destino della democrazia è racchiusa l’intera causa della civiltà, come se la 54


vittoria dell’ente sul nulla minaccioso dipendesse, in quella fase, dalla capacità dei cittadini di allontanarlo e di proteggersi da esso innalzando una muraglia provvisoria intorno al nuovo ordine etico in costruzione. Di certo, la verità democratica si trova socio-storicamente determinata, malgrado ciò essa racchiude però un mandato incondizionale e vincolante per ciascun membro della comunità, in quanto pretende da lui l’impegno attivo e militante nella creazione delle condizioni finite della civiltà e nel preservarle in seguito alla loro naturale corruzione e caduta nel nulla, riscontrando in tale cooperazione con l’ente la constatazione della sua predisposizione ad essere cittadino37. Una condizione di cittadino che, prendendo in prestito la descrizione che Rorty fa dell’ironista, si addice più propriamente a quelle «persone che uniscano il proprio impegno ad una comprensione della contingenza del loro stesso impegno»38. Come può essere allora che una verità possieda per propria origine e natura una validità relativa, condizionata, per così dire ipotetica, e, nonostante ciò, proietti sui cittadini un mandato incondizionale e categorico fondato sull’essere stesso dell’uomo? Siamo qui in presenza del delicato equilibrio che molto è costato comprendere all’uomo collettivo: nessun fondamento assoluto e trascendente – personale o ideologico – obbliga l’uomo ad astenersi dall’essere bestiale, ma la contingenza dell’impegno democratico è necessaria all’uomo se egli desidera perseverare nel proprio essere.

37 R. Rorty, Contingencia, ironía y solidaridad, Barcelona, Paidós, 1991, trad. di A. Sinnot, p. 80 [ed. it.: R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Roma-Bari, Laterza, 2008, trad. di G. Boringhieri, n.d.t.]: «Concepire il proprio linguaggio, la propria coscienza, la propria moralità e le speranze più elevate che si possiedono, come prodotti contingenti, come trasposizione letteraria di ciò che una volta furono metafore prodotte accidentalmente, equivale ad assumere un’identità tale da trasformare qualcuno in una persona adatta ad essere cittadino di uno Stato idealmente liberale». 38 Ibidem.

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