Linda Hutcheon
TEORIA DEGLI ADATTAMENTI I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media
ARMANDO EDITORE
Sommario
Prefazione
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Ringraziamenti
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Nota del Traduttore
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1. Per una teoria degli adattamenti: Che cosa? Chi? Perché? Come? Dove? Quando? Familiarità e disprezzo Considerare gli adattamenti adattamenti Che cosa esattamente viene adattato? E in che modo? Una doppia prospettiva: definire gli adattamenti
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L’adattamento in quanto prodotto: una transcodificazione definita, esauriente e dichiarata L’adattamento in quanto processo
Modalità di interazione Inquadrare gli adattamenti
2. Che cosa? (Le forme) Ripensare la specificità dei media Raccontare ← → Mostrare Mostrare ← → Mostrare Interagire ← → Raccontare o Mostrare Cliché #1 Cliché #2 Cliché #3 Cliché #4 Imparare dalla pratica
38 41 46 53 61 61 67 78 84 87 92 101 108 113
3. Chi? Perché? (Gli adattatori) Chi è che adatta? Perché adattare? Le aspettative economiche Le restrizioni legali Il capitale culturale Le motivazioni personali e politiche
Imparare dalla pratica Il concetto di intenzionalità negli adattamenti
121 122 129 130 133 137 138 142 155
4. Come? (I destinatari) Il piacere degli adattamenti Pubblico consapevole e pubblico non consapevole Ancora sulle modalità di interazione Gradi e qualità diverse di immersione
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5. Dove? Quando? (I contesti) La vastità del contesto Adattamenti transculturali Indigenizzazione Imparare dalla pratica
199 199 204 209 216 216 217 221
Perché la Carmen? La storia di Carmen e il suo stereotipo Indigenizzare la Carmen
6. Per concludere Che cosa non è un adattamento? Perché piacciono gli adattamenti?
237 237 241
Bibliografia
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Indice analitico
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Prefazione
Sarebbe sbagliato pensare di poter comprendere gli adattamenti considerando soltanto romanzi e film. Già in epoca vittoriana, ad esempio, si aveva l’abitudine di adattare veramente qualunque cosa, e in qualunque direzione possibile: le storie delle poesie, dei romanzi, delle commedie, dell’opera lirica, dei dipinti, delle canzoni, delle danze e dei tableaux vivants venivano costantemente adattate dall’uno all’altro medium e spesso viceversa. Oggi, noi postmoderni abbiamo chiaramente ereditato la stessa consuetudine, avendo inoltre a nostra disposizione un numero ancora maggiore di nuove materie, non solo il cinema, la televisione, la radio e i vari media elettronici, ma anche i parchi a tema, le ricostruzioni storiche, gli esperimenti di realtà virtuale. Il risultato? Gli adattamenti impazzano. È per questa ragione che non potremmo comprendere il loro fascino né la loro natura se considerassimo soltanto romanzi e film. Chiunque abbia mai avuto esperienza di un adattamento (e chi potrebbe negarlo?) possiede una teoria dell’adattamento, che ne sia consapevole o meno. Né chi scrive fa in questo eccezione. Teoria degli adattamenti è un tentativo di dare conto non solo di tale persistente popolarità, ma anche della costante svalutazione critica del generale fenomeno degli adattamenti, in qualsiasi forma e medium esso si incarni. Che si manifesti in forma di videogioco o di musical, un adattamento ha buone probabilità di essere accolto come opera minore e ancillare e certamente mai tanto buona quanto l’“originale”. Questo arbitrio critico è una delle provocazioni che hanno sollecitato questo studio; la seconda è costituita semplicemente dal numero e dalla varietà degli adattamenti, sia attraverso generi e media diversi che all’interno degli stessi. La maggior parte degli studi sugli adattamenti è stata condotta su trasposizioni cine7
matografiche di opere letterarie, ma una più ampia e approfondita riflessione teorica sembra essere necessaria di fronte alla varietà e all’ubiquità del fenomeno. Gli adattamenti sembrano essere assolutamente comuni, “naturali”, del tutto ovvi, ma lo sono davvero? Su un piano più personale, ho imparato che le ossessioni (intellettuali e non solo) raramente spariscono, per quanto possano effettivamente mutare. Ricompaiono in questo lavoro alcuni filoni comuni alle mie ricerche passate. Innanzitutto, ho sempre avuto un forte interesse in ciò che si è finito per chiamare “intertestualità”, le relazioni dialogiche tra i testi, pur senza mai pensare che essa fosse soltanto una questione di ordine formale. Le opere, in qualsiasi medium, sono create e fruite da persone, ed è solo in questo contesto umano, esperienziale, che è possibile uno studio della politica dell’intertestualità. Questo è sempre stato il mio punto di vista sull’argomento, e tale rimane in questo libro. Una seconda costante è quella di un impulso, forse perverso, volto a contrastare le gerarchie costituite; un desiderio di sfidare la stigmatizzazione culturale esplicita e implicita di oggetti e categorie quali postmodernismo, parodia e, per l’appunto, adattamento, generalmente considerati secondari e inferiori. Ancora una volta ho cercato di far derivare la teoria dalla pratica, e da una pratica culturale quanto più possibile vasta. Lungo l’esposizione ho fatto uso di molti differenti esempi, per rendere più agevole ai lettori la possibilità di “aggrapparsi” a un’opera familiare per poi afferrare la teoria da essa derivabile. Il mio metodo è stato quello di individuare nei testi un argomento o un oggetto di interesse specifico, tale da verificarsi in un’ampia varietà di media diversi; trovare il modo opportuno per approfondirne la conoscenza in chiave comparatistica; trarre in definitiva le implicazioni teoriche deducibili dall’insieme dei diversi esempi testuali considerati. Di volta in volta, dunque, ho assunto punto di vista e metodi della semiotica formalista, della decostruzione postmoderna, della demistificazione femminista e postcoloniale; in nessuna occasione, però, ho mai (almeno consapevolmente) tentato di imporre una di queste teorie alla disamina dei testi e alla valutazione delle questioni generali variamente connesse a quella degli adattamenti. Queste pro8
spettive, ed altre ancora, hanno ad ogni modo inevitabilmente dato forma al mio quadro teorico di riferimento. Allo stesso modo, esso è stato determinato dal fatto peculiare che, come ha notato Robert Stam (2005b: 8-12), le diverse manifestazioni di “teoria” negli ultimi decenni avrebbero dovuto, almeno secondo logica, essere in grado di superare questa visione negativa dell’adattamento. Molti sono, infatti, gli insegnamenti comuni della teoria dell’intertestualità della Kristeva e della decostruzione di Derrida, della critica di Foucault al concetto di soggettività univoca e dell’approccio radicalmente egalitario alle storie (in qualsiasi medium) proprio sia della narratologia che dei cultural studies. Uno di questi insegnamenti è che essere secondi non significa essere secondari o inferiori; e che allo stesso modo non corrispondono necessariamente all’essere primi attributi di originalità e autorevolezza. Eppure, come si vedrà nel seguito, persiste una generale svalutazione degli adattamenti in quanto modalità secondarie, tardive e quindi derivative. È uno degli obiettivi di questo libro quello di sfidare questa denigrazione. Dovrei anche spiegare cosa questo libro non è e quali obiettivi non mira a raggiungere. Non è una serie di case study, nella quale si studino estensivamente alcuni specifici adattamenti. Esistono molti buoni libri di questo tipo, senza dubbio grazie all’impatto dell’opera apripista di Gorge Bluestone del 1957, Novels into Film. Brian McFarlane, nel suo Novel to Film, invoca l’analogia con la pratica critica del close reading dei testi letterari per questo tipo di indagine dettagliata di singole opere in particolare (McFarlane 1996: 201). Pur in accordo con questa affermazione, ritengo però che tali letture individuali raramente offrano, sia nel caso della letteratura che in quello del cinema, quegli spunti generalizzabili a questioni teoriche di ampia portata che con questo libro è mia intenzione esplorare. L’approccio critico dei case study presenta un ulteriore problema riguardo al particolare obiettivo che mi sono posta con questo lavoro: all’atto pratico, esso ha dimostrato di tendere a privilegiare, o per lo meno a dare priorità (e quindi, implicitamente, valore) a ciò che viene sempre chiamato testo “source”, testo di partenza, “originale”. Come esamino diffusamente nel primo capitolo, è l’idea di “fedeltà” a tale testo a guidare ogni studio fondato su un metodo di comparazione diretta. Dietro un adattamento, invece, secondo pro9
prio ciò che con questo libro voglio affermare, possono sussistere molti e diversi moventi, pochi dei quali hanno a che fare con la fedeltà. Precedenti adattamenti possono, per esempio, costituire per un dato adattamento un contesto altrettanto rilevante che qualsivoglia “originale”. Il testo “adattato” – termine puramente descrittivo che preferisco a “source”, “di partenza” o “originale“ – può anche essere più d’uno, come ci hanno insegnato film quali Moulin Rouge di Baz Luhrmann. E c’è ancora un’altra possibilità: quella che, una volta attivato il nostro interesse, il presunto originale possa essere visto o letto solo dopo avere avuto esperienza dell’adattamento, mettendo alla prova in questo modo l’autorevolezza di qualunque nozione di priorità. Versioni diverse esistono lateralmente, non verticalmente. Se questo libro non consiste nell’analisi di esempi specifici, esso non è neanche dedicato all’esame di un medium in particolare. Non è primariamente incentrato sugli adattamenti cinematografici di opere letterarie per la semplice ragione che, come ho già accennato, già esistono molti studi di questo genere; ad ogni modo, mi soffermo però a dovere sulle possibili intuizioni teoriche derivabili da essi. È l’atto in sé dell’adattamento che mi interessa, al di qua della specificazione di un dato medium o genere. I videogiochi, le attrazioni dei parchi tematici, i siti Internet, i graphic novels, le cover musicali, le opere liriche, i musical, i balletti, le rappresentazioni radiofoniche e teatrali sono tanto importanti per la mia riflessione quanto i film e i romanzi, ben più comunemente trattati. La mia ipotesi di lavoro è che i denominatori comuni attraverso media e generi differenti possano essere altrettanto significativi e rivelatori che le differenze. Spostare l’obiettivo dell’indagine da uno specifico medium al più ampio contesto delle tre modalità principali tramite le quali abbiamo a che fare con le storie – il racconto (telling), la mostrazione (showing) e l’interazione – consente di far affiorare tutta una serie di diverse e interessanti questioni. È proprio a partire dalla peculiare coesistenza di popolarità e svalutazione che in Teoria degli adattamenti si affronta lo studio degli adattamenti in quanto adattamenti, e cioè non soltanto in quanto opere dotate di una propria autonomia. Essi verranno invece esa10
minati proprio in quanto deliberate, dichiarate ed estensive rivisitazioni di opere precedenti. Dal momento che utilizziamo la parola adattamento per indicare sia il prodotto che il processo di creazione e di ricezione, ho ritenuto opportuno adottare una prospettiva teorica che operi al tempo stesso sul piano formale e su quello “esperienziale”. In altre parole, i diversi media e generi attraverso i quali le storie vengono transcodificate nei processi di adattamento non sono soltanto entità formali; essi, come viene indagato nel primo capitolo, rappresentano allo stesso tempo modalità diverse di coinvolgere il pubblico cui di volta in volta si rivolgono. Media e generi diversi sono tutti, con varietà di gradi e maniere, “immersivi”, ma alcuni di essi sono utilizzati per raccontare storie (romanzi, novelle e racconti brevi, per esempio); altri le mostrano (tutti i media mostrativi, che prevedono una messa in scena); e altri ancora ci permettono di interagire con essi a livello fisico e cinestetico (come nei videogiochi o nelle giostre dei parchi a tema). Queste tre diverse modalità di coinvolgimento e interazione forniscono la struttura analitica di riferimento per questo tentativo di formulare una teoria di ciò che potrebbe essere definito il che cosa, chi, perché, come e quando degli adattamenti. Si pensi a questa organizzazione come una struttura dedotta dal decalogo del buon giornalista: rispondere alle domande di base è sempre un buon modo di cominciare. Per ben intraprendere l’indagine, il capitolo 2 è dedicato alla rivisitazione, da questa nuova prospettiva incentrata sulle diverse modalità d’interazione, del dibattito sulle specificità dei diversi media tipico delle prime teorie sugli adattamenti, in modo da poter definire i limiti e i vantaggi d’ogni modalità nei diversi tipi di adattamento. Le teorie esistenti sugli adattamenti in particolari media, letteratura e cinema soprattutto, hanno trovato una convergenza su alcuni condivisi postulati di base. Espandendo lo spettro di indagine alle tre modalità di interazione sarà possibile testare sulle pratiche concrete di adattamento alcuni di questi clichè teorici. I postulati teorici che maggiormente urge sottoporre a verifica – per non dire sfatare – saranno quelli in merito alle modalità nelle quali media differenti sono in grado di esprimere elementi quali il punto di vista, l’opposizione interiorità/esteriorità, il tempo, l’ironia, l’ambiguità, le metafore e i simboli, i silenzi e le assenze. 11
Un adattamento non è d’altronde soltanto un’entità formale, ma anche un processo. Il capitolo 3 si interessa a quelle persone, tanto disprezzate e spesso ignorate, che materialmente producono gli adattamenti. Il primo obiettivo del capitolo sarà quello di determinare con precisione chi è l’autore dell’adattamento, soprattutto nel caso di modalità creative collettive come, per esempio, il cinema; il secondo sarà scoprire la ragione per cui qualcuno possa mai disporsi ad adattare un’opera, sapendo che i risultati del suo impegno saranno con ogni probabilità rigettati in quanto secondari e inferiori rispetto al testo adattato o alla versione che di esso ha autonomamente immaginato il pubblico. Per trovare una risposta, si indagheranno diffusamente le diverse ragioni – personali, politiche, pedagogiche, legali, economiche – che hanno inciso su una particolarissima – e sorprendente – storia che, in un lasso di tempo di circa trent’anni, è stata adattata numerose volte da tutta una serie di autori con motivazioni, abilità e ossessioni molto differenti. Anche il capitolo 4 è incentrato sul processo di adattamento, ma si occupa in particolare di studiare come i fruitori degli adattamenti si intrattengono e interagiscono, nelle tre diverse modalità considerate, con storie che sono il risultato di una “ri-mediazione”. Se conosciamo l’opera adattata, sperimenteremo durante la fruizione una continua oscillazione tra essa e il nuovo adattamento; se non la conosciamo, non avremo esperienza dell’adattamento in quanto adattamento. Com’è già stato notato, però, se ci capita di leggere un dato romanzo dopo aver visto il suo adattamento cinematografico, sperimentiamo ugualmente tale oscillazione, anche se, questa volta, in senso contrario. L’oscillazione non è gerarchica, per quanto più d’una teoria degli adattamenti lo sia. Seppure tutti i tre modi di coinvolgimento prevedono l’“immersione” del pubblico nella storia che viene raccontata, di solito soltanto uno di essi è di fatto detto “interattivo” – l’unico che prevede una partecipazione fisica (normalmente detta “user input”) alla storia. Tale modalità, fino ad ora la meno discussa negli studi sugli adattamenti, è qui l’argomento principale, date le importanti differenze che si verificano a seconda che una data storia venga raccontata o mostrata, e soprattutto tra entrambe queste modalità e l’azione di partecipare fisicamente al suo mondo. 12
Un adattamento, infine, non esiste, né in quanto prodotto, né in quanto processo, nel vuoto, ma sempre in un contesto – un tempo e un luogo, una società e una cultura determinate. Nel capitolo 5, quando e dove sono le parole chiave per l’indagine di cosa può accadere ogni volta che una storia “viaggia” – ogni volta che un testo adattato migra dal contesto in cui è stato creato al contesto di ricezione dell’adattamento. Dal momento che un adattamento è una forma di ripetizione senza reduplicazione, occorrono inevitabilmente dei cambiamenti, anche senza che si proceda ad alcuna consapevole operazione di aggiornamento o di alterazione della sua collocazione. E a questi cambiamenti si legano indissolubilmente corrispettive modifiche nella valenza politica e persino nel significato delle storie narrate. L’analisi approfondita di una scelta di molti diversi adattamenti di una particolare storia – quella della zingara di nome Carmen – suggerisce che, tramite ciò che chiamo transculturalizzazione (transculturation) o indigenizzazione (indigenization) attraverso culture, linguaggi e epoche storiche, anche il significato e l’impatto delle storie può cambiare radicalmente. Dato che il saggio incomincia con una rassegna “della familiarità e del disprezzo” oggi generalmente assegnati agli adattamenti, è parso opportuno terminarlo con alcuni interrogativi finali a proposito del fascino manifesto che oggi come nel passato essi mostrano di possedere. Non che questo libro voglia pretendere di essere una storia degli adattamenti; certamente, però, è stato scritto con la consapevolezza che gli adattamenti possono rivestire e hanno rivestito funzioni diverse in culture e tempi diversi. Teoria degli adattamenti è semplicemente ciò che il titolo dice di essere: un tentativo di riflettere adeguatamente su alcuni aspetti teorici che caratterizzano il fenomeno ubiquitario degli adattamenti in quanto adattamenti. Linda Hutcheon Toronto
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Ringraziamenti
La mia ossessione per gli adattamenti è stata tale da condurre sull’orlo della follia i miei familiari e molti dei miei amici, ai quali devo dunque le mie scuse insieme ai ringraziamenti. A Gary Bortolotti, per i suoi suggerimenti in materia di biologia e in quanto lettore tra i più esigenti, ma anche più ricco d’ispirazione; a Sophie Mayer, patita di cinema e di Buffy The Vampire Slayer (Buffy l’ammazza vampiri) nonché redattrice eccellente; a William Germano, editore ispirato e appassionato lettore; a Scott Rayter, Shannon Mac-Rae, Yves St. Cyr, Jessica Li e Ingrid Delpech, ricercatori impavidi e minuziosi; a Priscilla Galloway e Noel Baker, talentuosi autori di adattamenti; a Siobhan O’Flynn, studiosa dei nuovi media e sopravvissuta agli adattamenti; a Stephanie Chong, vero segugio legale; a Eric Bortolotti, esperto precettore in videogiochi; a Lee Easton, specialista in comunicazione; a Irene Morra, primadonna dei libretti d’opera; e a Lauren Bortolotti, per il suo supporto di lettrice impegnata e entusiasta. Per avermi per primi condotto ad interessarmi agli adattamenti – a partire dalla passione per l’opera lirica – sono grata in particolare a due persone: al mio collaboratore e consorte Michael Hutcheon e alla mia amica e collega Caryl Clark. Non è certo il caso di specificare che ogni errore, sconvenienza o assurdità contenuta nel libro è di mia esclusiva responsabilità. Ho potuto affinare le mie tesi grazie all’aiuto di molti lettori, che mi hanno offerto la loro premurosa attenzione, preziosi consigli di lettura e critiche sempre accorte e avvedute. La mia gratitudine va per questo a molte persone e a molti gruppi dell’Università di Toronto, della Wilfrid Laurier University, della McGill University, della York University, dell’Università di Toulouse, dell’Università di Ghent, dell’Università di Syracuse, del Pomona College, della Stanford University, dell’Università della Virginia, della Johns 15
Hopkins Philological Society, della St. Mary’s University, del Canadian Opera Company’s Opera Exchange, della Canadian Association of Comparative Literature, della Rocky Mountain Modern Language Association e della Modernist Studies Association. Alcune prove parziali della ricerca che mi ha portato a sviluppare le idee contenute in questo libro sono state pubblicate con i titoli: From Page to Screen. The Age of Adaptation, in The University Professor Lecture Series, a cura di Michael Goldberg, Toronto, Faculty of Arts and Science, 2003, pp. 37-54; Why Adapt?, «Postscript», XXIII (2004), 3, pp. 5-18 (numero speciale dedicato agli adattamenti); On the Art of Adaptation, «Daedalus», (2004), pp. 108-111.
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Nota del Traduttore
Caratteristico della prosa accademica e specialistica nordamericana è un tono stilistico più informale e disteso rispetto alla consuetudine italiana, né in questo fa eccezione il saggio di Linda Hutcheon, tanto più in quanto programmaticamente volto al superamento di approcci e limitazioni disciplinari più consueti. Nella traduzione, si è cercato di conservare questo tratto che non è, come si capisce, puramente espressivo, allo stesso tempo però temperandolo in alcuni punti, in modo da non rinunciare del tutto agli standard usuali del discorso scientifico nel sistema d’arrivo. La prima persona singolare, per esempio, ricorrente nel testo originale, è stata conservata soltanto nei luoghi dove è apparsa assumere valori pregnanti, mentre si è fatto ricorso, altrove, a parafrasi in terza persona. Sul piano delle corrispondenze lessicali, l’elasticità e la dinamicità culturale e linguistica del saggio ha imposto in molti casi scelte traduttive non ovvie e impegnative, con una certa varietà di soluzioni. Talvolta si è adottato il termine inglese, secondo la consuetudine invalsa negli specifici contesti comunicativi, dandone in nota una sintetica spiegazione nei casi in cui ciò è apparso più necessario, come, ad esempio, per espressioni quali cut-scene, heritage film, machinima, Internet-connected, mud, fanzine, slash fiction. Altre volte, invece, si è preferito tentare traduzioni in italiano forse un po’ forzate, di recente se non di nuova formazione, con l’intento di prolungare nella traduzione il gesto della Hutcheon di allargamento degli ambiti di interesse della ricerca accademica e dei confini disciplinari. Come sempre avviene in questi casi, servono termini nuovi, o rinnovati, per esprimere i nuovi concetti e le rappresentazioni ottenute nella nuova prospettiva teorica d’indagine; nella traduzione, ciò ha reso necessario uno sforzo particolare nel tentare di ovviare, 17
per quanto possibile, alla minore flessibilità della lingua italiana rispetto a quella inglese di partenza. Così, ad esempio, palinsestous è stato tradotto con “di palinsesto” e novelizers, con maggiore azzardo, con “novellizzatori” (e non con “autori di adattamenti letterari tratti da film o di opere teatrali”). Un ulteriore esempio è quello della parola chiave adaptation, tradotta con un termine, “adattamento”, ormai affermato in italiano per indicare le versioni cinematografiche di opere letterarie e qui adoperato, invece, in senso molto più ampio, uniformemente alla volontà dell’autrice di estendere lo stesso termine a una grande varietà di fenomeni, accomunati nella prospettiva della sua innovativa proposta teorico-metodologica. Infine, la capacità davvero notevole della Hutcheon di far discendere la teoria dall’osservazione e dalla valutazione di decine e forse centinaia di casi concreti – opere diverse per medium, genere, tradizione culturale, lingua, epoca, grado di sperimentazione o di classicità – ha posto il traduttore di fronte all’esigenza di tentare di avvicinare l’agilità con cui l’autrice si muove in un territorio così vasto ed eterogeneo. Per comprendere e riformulare efficacemente le descrizioni, le osservazioni critiche, le generalizzazioni e le implicazioni teoriche che la Hutcheon trae da un numero così vasto di esempi, è stato necessario approfondire almeno un minimo, nei limiti del possibile, la conoscenza di ciascuno di essi. Stante qualche difficoltà di reperimento, la traccia delle opere prese in considerazione dall’autrice si pone come una pista ulteriore di attraversamento e comprensione del suo testo, che si è tentato con la traduzione di portare allo scoperto e di lasciare aperta per il lettore che voglia trarre il massimo dal libro. I titoli delle opere sono stati indicati nella lingua originale – tranne che nel caso di opere classiche particolarmente celebri, come Romeo e Giulietta o Tito Andronico – inserendo tra parentesi l’eventuale titolo italiano. Si è fatto ricorso alle note del traduttore per i casi di distribuzioni e vicissitudini editoriali particolarmente complicate, in modo da garantirne ugualmente la rintracciabilità. I riferimenti bibliografici sono indicati nel testo secondo il sistema anglosassone, con abbreviazioni del tipo Autoreanno di pubblicazione-numero di pagina; nel caso di opere citate in traduzione, l’anno fa riferimento all’edizione originale mentre il numero di pagina è quello dell’edizione italiana utilizzata. Giovanni Vito Distefano 18
1. Per una teoria degli adattamenti: Che cosa? Chi? Perché? Come? Dove? Quando?
Il cinema ha ancora un ruolo di secondo piano rispetto alla letteratura. Rabindranath Tagore (1929) Scrivere una sceneggiatura tratta da un romanzo famoso [Daniel Deronda di George Eliot] è in primo luogo una questione di semplificazione. Non mi riferisco soltanto alla trama, per quanto in particolare nel caso di un romanzo vittoriano zeppo di personaggi e narrazioni secondarie una rigorosa potatura sia necessaria, ma anche ai contenuti intellettuali. Un film deve trasmettere il proprio messaggio attraverso le immagini e relativamente poche parole e sopporta con difficoltà la complessità, l’ironia o il tergiversare. È stato per me un lavoro straordinariamente difficile, ben al di là di quanto non avessi immaginato. E, devo proprio aggiungere, un lavoro deprimente: per quanto mi stiano più a cuore che non le immagini, ogni volta mi ritrovavo a sacrificare le parole e i loro significati. Potreste dirmi che il cinema è in grado di trasmettere attraverso le immagini una grande quantità di informazioni, tale che le parole possono solo tentare di approssimare; avreste ragione, ma proprio quella approssimazione è preziosa in se stessa, perché porta con sé il marchio dell’autore. Tutto sommato, ero convinto che la mia sceneggiatura valesse molto meno del libro, e che lo stesso sarebbe valso per il film. Lo scrittore John North in Shipwreck (2003) di Louis Begley 19
Familiarità e disprezzo Oggi gli adattamenti sono dovunque: in televisione e al cinema, sul palcoscenico dei musical e delle rappresentazioni drammatiche, su Internet, nei romanzi e nei fumetti, nel parco di divertimenti e nella sala giochi più vicino a casa vostra. Un certo grado di consapevolezza – e forse persino di accettazione – di tale ubiquità è suggerito dal fatto che siano stati realizzati alcuni film incentrati specificatamente sul processo stesso di adattamento, come Adaptation (Il ladro di Orchidee) di Spike Jonze o Lost in La Mancha di Terry Gilliam, entrambi del 2002. Anche alcune serie televisive hanno indagato le procedure degli adattamenti, come ad esempio Page to Screen, documentario in undici puntate realizzato dal canale americano BRAVO. D’altronde, com’è abbastanza evidente, gli adattamenti non sono certo una novità del nostro tempo; Shakespeare trasferiva le storie della sua cultura dalla pagina al palcoscenico, mettendole così a disposizione di un pubblico completamente nuovo. Allo stesso modo, Eschilo, Racine, Goethe, Da Ponte raccontavano in nuove forme storie già familiari. Gli adattamenti sono tanto radicati nella cultura occidentale da poter giustificare l’intuizione di Walter Benjamin secondo cui «l’arte di narrare storie è sempre quella di saperle rinarrare ad altri» (Benjamin 1936: 327). Le prese di posizione critiche di T.S. Eliot o di Northrop Frye non sono certo state necessarie per convincere nel corso dei secoli gli appassionati realizzatori di adattamenti di quella che per loro è stata sempre un’evidente verità: l’arte deriva da altra arte, le storie nascono da altre storie. Ciononostante, gli adattamenti popolari dell’odierna produzione di consumo sono molto spesso giudicati negativamente, sia dalla critica accademica che da quella giornalistica, in quanto secondari, derivati, «tardivi, scontati, e culturalmente inferiori» (Naremore 2000b: 6). È questo che esprime Louis Begley, romanziere e adattatore di romanzi, nella citazione in epigrafe; e parole ancor più dure e decisamente più moralistiche sono state usate per attaccare gli adattamenti cinematografici di opere letterarie: «manomissione», «interferenza», «violazione» (McFarlane 1996: 12), «tradimento», «deformazione», «perversione», «infedeltà» e «dissacrazione» 20
(Stam 2000: 54). Il passaggio dal letterario al filmico o al televisivo è stato persino definito un passaggio a «una forma di cognizione deliberatamente inferiore» (Newman 1985: 129). Per quanto i detrattori degli adattamenti sostengano che «tutte le Sheherazades registiche del mondo non possano aggiungere niente ad un Dostoevsky» (Peary, Shatzkin 1977: 2), sembra in realtà che tutto sommato sia considerato accettabile adattare Romeo e Giulietta in una qualche rispettata forma d’arte maggiore, come l’opera o il balletto, ma assolutamente non per il cinema, e soprattutto non in una versione aggiornata ai nostri giorni come nel film del 1996 di Baz Luhrmann William Shakespeare’s Romeo + Giulietta. Se un adattamento è percepito in partenza come un “abbassamento” della storia che viene raccontata (sulla base di un’immaginaria gerarchia dei media o dei generi), anche la risposta del pubblico sarà probabilmente negativa. Un residuo di sospetto rimane persino negli elogi dispensati per un’opera, capace di riscuotere un grande successo presso la critica, quale Titus (1999) di Julie Taymor, adattamento del Tito Andronico di Shakespeare. Anche in questa nostra epoca postmoderna di continuo riciclo culturale, qualcosa – forse il successo commerciale degli adattamenti – sembrerebbe ancora metterci a disagio. Già nel 1926, Virginia Woolf, in un suo commento sull’arte ancora alle prime armi del cinema, deplorava la semplificazione dell’opera letteraria che inevitabilmente si verificherebbe con la sua trasposizione nel nuovo medium visuale e considerava il cinema un «parassita» e la letteratura sua «vittima» e «preda» (1926: n.p.). Allo stesso tempo, però, aveva previsto le potenzialità del cinema di sviluppare autonomamente un proprio linguaggio, testualmente: «il cinema possied[e] innumerevoli simboli per tutte quelle emozioni che finora non hanno mai trovato il modo d’esprimersi» (ibidem). E questo è proprio quello che fa. Secondo Christian Metz, alla luce delle sue ricerche sulla semiotica del cinema, «il film ci racconta storie conseguenti; ci “dice” molte cose che potrebbero anche essere affidate al linguaggio delle parole; le dice in altro modo: la possibilità, come la necessità, degli “adattamenti” non ha altra origine» (Metz 1968: 80). Ad ogni modo, lo stesso potrebbe essere detto degli adattamenti in forma di musical, opera lirica, balletto o canzone. In ognuno di questi casi, gli adattatori raccontano una storia, in una 21
specifica maniera. Usano gli stessi strumenti che i narratori usano da sempre: rappresentano e rendono concreti dei concetti; operano delle selezioni per semplificare il racconto oppure lo amplificano e ne traggono delle conclusioni di portata più ampia; stabiliscono analogie, criticano o mostrano di approvare, e così via. Le storie che raccontano, però, sono tratte da qualche altra parte e non sono inventate per l’occasione. Come le parodie, gli adattamenti hanno un evidente rapporto con i testi che li precedono, tale da definirne i contorni; testi che, per l’appunto, sono di solito, non a caso, definiti “sorgente” (source). A differenza delle parodie, però, normalmente gli adattamenti dichiarano esplicitamente tale relazione. È chiaramente la valorizzazione (post-)romantica della creazione originale, e del genio creativo in grado di darle origine, una delle ragioni del discredito degli adattamenti e degli adattatori. Questa visione negativa è però nella cultura occidentale soltanto l’evoluzione recente di una lunga e felice storia di libero commercio, di prestiti e di furti o, più precisamente, di condivisione di storie. Nel giudizio di alcuni la letteratura godrà sempre, come ha affermato Robert Stam, di un’evidente e insindacabile superiorità rispetto a qualsiasi adattamento tratto da essa, in virtù della sua maggiore anzianità di servizio tra le forme d’arte. Una gerarchia di questo tipo implica però anche ciò che Stam definisce iconofobia (un preconcetto negativo nei confronti del visuale) e logofilia (una passione per la parola in quanto sacra) (cfr. Stam 2000: 58). Naturalmente, un giudizio negativo sugli adattamenti può semplicemente risultare dalla frustrazione delle aspettative di un lettore appassionato, che avrebbe desiderato una maggiore fedeltà nell’adattamento del suo testo preferito, o di un insegnante di letteratura, che a scopi didattici avrebbe avuto bisogno di maggiore vicinanza al testo letterario e forse di un più spiccato carattere di intrattenimento. Se, sulla base di queste considerazioni, gli adattamenti sono creazioni tanto inferiori e secondarie, allora perché essi sono così onnipresenti nella nostra cultura e persino numericamente in continua crescita? Perché, secondo statistiche aggiornate al 1992, l’85 % dei film vincitori del premio Oscar come miglior film sono adattamenti? Perché gli adattamenti raggiungono il 95 % del totale delle mini22
serie televisive e il 70% dei film TV “della settimana” che abbiano vinto gli Emmy Awards? Una parte della risposta ha certamente a che fare con l’incessante comparsa di nuovi canali di diffusione di massa (Groensteen 1998b: 9). Essi hanno chiaramente alimentato un’enorme domanda di ogni tipo di storie. Non di meno, deve esistere qualcosa di particolarmente attraente proprio specificatamente degli adattamenti in quanto adattamenti. Una parte di questa capacità di attrazione deriva, come mi appresto ad argomentare, semplicemente dal fatto di ripetere variando, dal piacere confortante di un rituale unito al sapore piccante della sorpresa. Il riconoscimento e il ricordo sono parte del piacere (e del rischio) della fruizione di un adattamento; allo stesso modo lo è il cambiamento. Un’invarianza tematica e narrativa si combina con una variazione materiale (cfr. Ropars-Weuilleumier 1998: 131), con il risultato che gli adattamenti non sono mai soltanto delle riproduzioni, prive in quanto tali dell’aura benjaminiana. Al contrario, portano una propria aura con sé. Ma, come suggerisce John Ellis, c’è a prima vista qualcosa di poco comprensibile in questo desiderio d’invarianza in un mondo post-romantico e capitalista che valorizza sopra ogni altra cosa la novità: il «processo di adattamento deve quindi essere visto come un investimento di ampia portata (sia sul piano finanziario che su quello psichico) finalizzato al desiderio di ripetere un particolare atto di consumo entro una forma di rappresentazione [il cinema in questo caso] che scoraggerebbe una tale ripetizione» (Ellis 1982: 4-5). Come suggerisce il registro commerciale delle affermazioni di Ellis, gli adattamenti esercitano anche un’evidente attrazione di tipo economico. Non è solo in tempi di declino economico che gli adattatori si rifugiano in alternative più sicure: nell’Italia del Diciannovesimo secolo i compositori di opere liriche, forma d’arte com’è noto molto costosa, sceglievano di solito di adattare drammi teatrali o romanzi affidabili – vale a dire già di grande successo commerciale – per evitare il rischio di insuccessi finanziari o l’intervento della censura (cfr. Trowell 1992: 1198, 1219). Il cinema hollywoodiano del periodo classico si affidava agli adattamenti dei romanzi popolari, ciò che Ellis definisce «provato e sperimentato», mentre la televi23
sione inglese si è specializzata negli adattamenti dei romanzi culturalmente più qualificati del Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, il «provato e garantito»1 (Ellis 1982: 3), con le parole dello stesso Ellis. Ad ogni modo, il punto non è mai soltanto evitare il rischio, ma guadagnare denaro. Un best seller può raggiungere un milione di lettori; uno spettacolo di successo a Broadway può essere visto da un numero di persone che oscilla tra il milione e gli otto milioni; solo un film o un adattamento televisivo, però, avrà potenzialmente un pubblico di molti milioni più ampio (cfr. Seger 1992: 5). Il recente fenomeno dei film “musicalizzati” per il palcoscenico è ovviamente guidato da ragioni economiche. Film come The Lion King (Il re leone) o The Producers (Per favore non toccate le vecchiette) dispongono in partenza di un’immediata riconoscibilità presso il pubblico e sollevano così non poco dalle loro preoccupazioni i produttori dei costosissimi musical di Broadway. Come i sequel e i prequel, i “director’s cut” e gli spin-off, i videogame basati su film non sono che un modo ulteriore di acquisire una “proprietà” in “franchising” e riusarla in un altro medium. In questo modo, non soltanto si attrae con il «riposizionamento» (Bolter, Grusin 1999: 72) più recente il pubblico al quale quel dato “marchio” è già familiare, ma si creano anche dei nuovi consumatori. Le multinazionali proprietarie degli studios cinematografici spesso acquisiscono in partenza al giorno d’oggi anche i diritti delle storie in altri media, in modo da poterle ad esempio riciclare sotto forma di videogiochi e poi ancora commercializzarle attraverso le stazioni televisive che loro stesse possiedono (cfr. Thompson 2003: 81-82). L’evidente successo commerciale degli adattamenti può forse aiutarci a comprendere perché un film come The Royal Tenenbaums (I Tenenbaum, 2002), diretto da Wes Anderson sulla sceneggiatura di Owen Wilson, inizia con un libro che viene preso in prestito in una biblioteca – il libro sul quale il film dichiara implicitamente di essere basato? Richiamandosi a film come Great Expectations (1946) di David Lean, che comincia con un’inquadratura del roman1
Ai virgolettati corrispondono le frasi idiomatiche inglesi «tried and tested» e «tried and trusted» [N.d.T.].
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zo di Dickens aperto al primo capitolo, nel film di Anderson i cambi di scena sono marcati dall’inquadratura del “libro” dei Tenenbaum aperto al capitolo corrispondente, la prima frase del quale descrive ciò che comincia a vedersi sullo schermo. Dal momento che, per quanto mi è noto, questo film non è l’adattamento di nessun testo letterario, l’uso di questa soluzione è un richiamo diretto, e parodico, alla sua adozione in film precedenti, ma con una differenza: ciò che in questo caso sembra essere invocato ed enfatizzato è l’autorità istituzionale della letteratura e conseguentemente dell’operazione di adattarla. Ma perché un film dovrebbe voler essere considerato un adattamento? E cosa intendiamo dicendo che una data opera viene considerata un adattamento? Considerare gli adattamenti adattamenti Confrontarsi con gli adattamenti in quanto adattamenti vuol dire pensarli, per usare la rimarchevole espressione del poeta e studioso scozzese Michael Alexander, come opere inerentemente “di palinsesto”, perseguitate ogni istante dal testo che in esse è stato adattato (cfr. Ermarth 2001: 47). Se conosciamo questo testo precedente, sentiamo sempre la sua presenza accompagnare quello che siamo impegnati a fruire. Quando definiamo adattamento una data opera, affermiamo esplicitamente la sua scoperta relazione con un’altra opera, o con più d’una. È quello che Gérard Genette chiamerebbe un testo «di secondo grado» (Genette 1982: 8), la cui creazione e successiva ricezione avvengono in relazione a un testo precedente. È per questo motivo che gli studi sugli adattamenti sono spesso anche studi comparatistici (cfr. Cardwell 2002: 9). Questo non vuol dire che gli adattamenti non siano anche opere autonome che possono essere interpretate e valutate in quanto tali; ovviamente lo sono, come molti studiosi hanno sostenuto (cfr. Bluestone 1971; Ropars 1970). È, invece, una delle ragioni per cui ogni adattamento ha una propria aura, un proprio «hic et nunc […] la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova» (Benjamin 1955: 303). Questa affermazione costituisce un vero e proprio assioma della mia riflessione, ma non il punto focale della mia elaborazione teorica. Considerare gli adattamenti in quanto adattamenti vuol dire, in un certo 25
senso, considerarli, con le parole di Roland Barthes, non in quanto «opere» ma in quanto «testi», «stereofoni[e]» plurali intessute «di citazioni, di riferimenti, di echi» (Barthes 1971: 61). Per quanto gli adattamenti siano con ogni diritto oggetti dotati autonomamente di qualità estetiche, è solo in quanto opere inerentemente bi- o multistrato che essi possono essere studiati in quanto adattamenti. La duplice natura degli adattamenti non implica ad ogni modo che la loro prossimità o fedeltà alla fonte debba necessariamente essere considerata un valido criterio di giudizio o il focus di ogni loro analisi. A lungo l’ortodossia nel campo degli studi critici sugli adattamenti è stato il cosiddetto “fidelity criticism”, soprattutto quando si aveva a che fare con opere canoniche quali quelle di Dante o di Puškin. Oggi questo dominio è stato apertamente messo in discussione da un’ampia varietà di prospettive critiche (cfr. McFarlane 1996: 194; Cardwell 2001: 19) e con una vasta molteplicità di risultati. Inoltre, come George Bluestone ha da tempo segnalato, quando un film diventa un successo commerciale o della critica, la questione della sua fedeltà perde il più delle volte gran parte della sua importanza (cfr. Bluestone 1971:114). La decisione di non concentrarmi in particolare sul rapporto tra adattamento e testo adattato vuole significare il fatto che appare davvero poco necessario dedicarsi direttamente al dibattito sempiterno sui possibili gradi di prossimità all’“originale”, dal quale già molte tipologie di processi di adattamento sono state ricavate: prestito in opposizione a intersezione, in opposizione a trasformazione (cfr. Andrew 1980: 10-12); analogia in opposizione a commento, in opposizione a trasposizione (cfr. Wagner 1975: 222-231); uso della fonte come materiale grezzo in opposizione a reinterpretazione del solo nucleo narrativo, in opposizione a traduzione letterale (cfr. Klein, Parker 1981b: 10). Di maggiore interesse è per me il fatto che il discorso, moralmente connotato, sulla fedeltà degli adattamenti si basi sull’implicita assunzione che essi siano finalizzati semplicemente alla riproduzione del testo adattato (cfr. Orr 1984: 72-76). Un adattamento è una ripetizione, ma è una ripetizione che non vuol dire replicazione. È di tutta evidenza, d’altronde, il fatto che un adattamento possa essere motivato da molte e diverse finalità: l’intenzione di disperdere 26
e cancellare la memoria del testo adattato è tanto plausibile quanto il desiderio di tributargli omaggio copiandolo. Adattamenti come i remake cinematografici possono addirittura essere considerati un mix di diversi intenti: un «omaggio conteso» (Greenberg 1998: 115), come Edipo invidioso e reverente allo stesso tempo (cfr. Horton, McDougal 1998: 8). Esclusa l’idea di fedeltà, quale principio paradigmatico dovrebbe allora essere messo alla base di un’odierna teoria degli adattamenti? Secondo il dizionario “adattare” significa sistemare, alterare, rendere idoneo. Ciò può essere fatto in qualsivoglia maniera. Come si vedrà più approfonditamente nella prossima sezione, un adattamento è un fenomeno che può essere definito sulla base di tre distinte ma interconnesse prospettive; non è un caso pertanto se la stessa parola, adattamento, viene adoperata per riferirsi sia al processo che al prodotto. Considerato nei termini di un’entità formale o di un prodotto, un adattamento è una trasposizione dichiarata ed esauriente di una data opera o di più opere. Tale “transcodificazione” può comprendere un cambio di medium (per esempio una poesia volta in film) o di genere (un poema epico in romanzo) o della struttura complessiva del racconto e quindi del suo contesto: raccontare la stessa storia da un diverso punto di vista, ad esempio, può determinare un’interpretazione palesemente differente. Una trasposizione può anche determinare un cambiamento dello status ontologico di un racconto da reale a finzionale, da una ricostruzione storica o biografica, al dramma o a una narrazione di tipo finzionale. Il libro del 1994 di suor Helen Prejean, Dead Man Walking (Condannato a morte), è stato trasformato prima in un film (di Tim Robbins, 1995) e poi, pochi anni più tardi, in un’opera lirica (scritta da Terrence McNally e Jake Heggie). Ancora, in quanto specifico processo creativo, realizzare un adattamento implica sempre sia una (re)interpretazione che una (ri) creazione; a ciò si è fatto riferimento, a seconda della prospettiva adottata, nei termini di un’appropriazione o di una conservazione. Per quanti esempi di appropriazione irrispettosa e aggressiva, smascherati dall’oppositore politico di turno, si possano trovare, altret27
tanti ne esistono di adattamenti motivati da una dedita e paziente opera di preservazione. Priscilla Galloway, una scrittrice specializzata in adattamenti di miti e racconti storici rivolti a bambini e adolescenti, ha dichiarato di essere mossa dal desiderio di preservare storie che, per quanto utili da conoscere, non avrebbero oggi la capacità di parlare al loro nuovo pubblico se non fossero prima creativamente «rianimate» (Galloway 2004), azione in cui consiste precisamente il suo compito. Gli adattamenti cinematografici africani di leggende tradizionali tramandate oralmente sono anch’essi considerati uno strumento utile per preservare in modalità audiovisiva una ricca eredità culturale (cfr. Cham 2005: 300). Infine, valutato nella prospettiva del proprio processo di ricezione, gli adattamenti sono una forma di intertestualità: abbiamo esperienza (in quanto adattamento) di un adattamento come di un palinsesto che lascia trasparire nella nostra memoria opere precedenti, rievocate per mezzo di iterati processi di ripetizione con variazione. Per un pubblico adeguato, allora, la “messa in romanzo” di Hellboy (2004) realizzata da Yvonne Navarro può evocare non soltanto il film di Guillermo del Toro, ma anche la serie a fumetti della Dark Horse, dalla quale quest’ultimo è stato adattato. Analogamente, Resident Evil, il film di Paul Anderson del 2002, sarà fruito in modo diverso a seconda che lo spettatore abbia o meno giocato al videogioco omonimo, dal quale il film è tratto. In sintesi, un adattamento può essere descritto: • Come la trasposizione dichiarata di una o più opere che è possibile riconoscere; • Come un atto creativo e interpretativo di appropriazione/conservazione; • Come un ampio confronto intertestuale con l’opera adattata. Per queste ragioni, un adattamento è una derivazione non derivativa, un’opera seconda che non è però secondaria. In questo consiste la sua specifica qualità di palinsesto. Apparentemente non è da rigettare del tutto l’affermazione generale secondo la quale il concetto di adattamento possa «espan28
dersi o contrarsi. Al limite, [esso] può includere praticamente ogni processo di modificazione di un dato oggetto culturale del passato e combaciare perfettamente con l’idea di generico processo di ricreazione culturale» (Fischlin, Fortier 2000: 4). In concreto, però, una definizione così vasta renderebbe evidentemente piuttosto difficile formulare una teoria degli adattamenti. La duplice definizione, più ristretta, che ho proposto in termini di processo e prodotto è più vicina all’uso comune del termine adattamento ed è sufficientemente ampia da consentirmi di considerare non solo produzioni cinematografiche e teatrali, ma anche gli arrangiamenti e le cover di brani musicali, rivisitazioni visuali di opere precedenti e versioni a fumetti di brani di storia, poesie volte in musica e remake cinematografici, e ancora i videogiochi e le opere d’arte interattiva. Essa permette anche di tracciare delle distinzioni; per esempio, allusioni o brevi richiami intertestuali ad altre opere non potrebbero essere considerati ampi confronti, e lo stesso dicasi della maggior parte dei campionamenti musicali, dal momento che essi ricontestualizzano solo brevi frammenti musicali. I plagi non sono trasposizioni dichiarate, e neanche i sequel e i prequel, né le fan fiction, sono propriamente adattamenti. C’è una chiara differenza, infatti, tra il non volere che una storia finisca – la ragione che sta dietro i prequel e i sequel secondo Marjorie Garber (cfr. Garber 2003: 73-74) – e il desiderio di raccontare nuovamente la stessa storia più e più volte in modi differenti. Nel caso degli adattamenti, la ripetizione sembra essere desiderata tanto quanto il cambiamento. Probabilmente è questa la ragione perché, agli occhi della legge, gli adattamenti sono «opere derivative» – basate cioè su una o più opere precedenti ma «rimodellate, trasformate» (United States Code, titolo XVII, par. 101). Questa definizione, apparentemente semplice, è in realtà un vero e proprio ginepraio. Che cosa esattamente viene adattato? E in che modo? Che cosa di preciso viene «rimodellato» e «trasformato»? Secondo la legge, le idee in quanto tali non possono essere coperte dal copyright, soltanto la loro espressione può essere riconosciuta in tribunale. Ed è qui precisamente che sorge l’intera questione. Come 29
ha astutamente fatto notare Kamilla Elliott, ogni adattamento commette l’eresia di mostrare che la forma (l’espressione) può essere separata dal contenuto (le idee) – un fatto che tanto l’estetica dominante quanto le teorie semiotiche hanno trascurato o apertamente negato (cfr. Elliott 2003: 133), nonostante sia contemplato dalla giurisprudenza. In un adattamento si cambia la forma (risparmiandosi in questo modo l’eventualità di una denuncia), mentre permane il contenuto. Ma in cosa consiste esattamente questo “contenuto” che viene trasferito e modificato? Molti critici di professione e gran parte del pubblico ricorrono all’elusiva nozione di “spirito” di una data opera o di un dato autore, che sarebbe doverosamente “catturato”o “reso efficacemente” in un adattamento che si possa considerare riuscito. Si evoca lo “spirito” di Dickens o di Wagner, spesso più che altro per giustificare cambi radicali nella “lettera” dell’opera o nella forma. Altre volte è il «tono», per quanto raramente definito in maniera esaustiva, ad essere considerato di cruciale importanza (cfr. Linden 1971: 158, 163); altre ancora lo «stile» (Seger 1992: 157). Ma tali concetti risultano in definitiva tutti e tre egualmente soggettivi e sotto ogni aspetto difficili da esaminare e tanto più da fissare in una teoria. La maggior parte delle teorie sugli adattamenti assumono, ad ogni modo, che sia la storia, la vicenda narrata, il comune denominatore, il nocciolo di ciò che viene trasposto attraverso media e generi differenti, ciascuno dei quali si relaziona ad essa in modi diversi sul piano formale e, vorrei aggiungere, con diverse modalità di coinvolgimento – il racconto, la mostrazione, l’interazione. Secondo questo approccio, realizzare un adattamento corrisponde a ricercare le “equivalenze” in sistemi semiotici diversi degli elementi di una data storia: temi, eventi, mondi, personaggi, moventi, punti di vista, conseguenze, contesti, simboli, immagini e via di seguito. Come ha spiegato Millicent Marcus, però, due distinte scuole di pensiero si dividono su questo punto: o una storia può esistere indipendentemente dal fatto di essere incarnata in un dato sistema di significazione, oppure, al contrario, nessuna storia può essere considerata astraendola dal modo col quale essa è materialmente comunicata (cfr. Marcus 1993: 14). Ciò che il fenomeno degli adat30
tamenti sembra suggerire in merito è che, per quanto la seconda possibilità sia ovviamente vera per il pubblico che necessariamente fa esperienza di una storia in una specifica forma materiale, i vari elementi di una storia possono essere, e sono, considerati separatamente sia in sede teorica che nella realizzazione degli adattamenti, se non altro perché le restrizioni tecniche specifiche dei diversi media ne illuminano inevitabilmente aspetti differenti (cfr. Gaudreault, Marion 1998: 45). I temi sono probabilmente gli elementi di una storia che più facilmente si possono considerare adattabili al cambiamento dei media e dei contesti di genere e strutturali. In questo senso, ad esempio, si è pronunciato Louis Begley a proposito del trattamento dei temi del suo romanzo About Schmidt (Parlando di Schmidt, 1996) nella riscrittura cinematografica di Alexander Payne e Jim Taylor: «potevo sentirli, come accade con una melodia trasposta a una diversa tonalità» (Begley 2003: 1, 22). Molti balletti romantici sono stati tratti dalle opere di Hans Christian Andersen semplicemente, a detta di alcuni, per i temi aderenti alla tradizione e facilmente accessibili che li caratterizzano, come la quest esistenziale, i poteri magici, gli svelamenti e le rivelazioni, il contrasto tra l’innocenza e il male (cfr. Mackrell 2004). Alexandere Zemlinsky ha composto una “fantasia sinfonica”, adattamento di Den lille Havfrue (La Sirenetta, 1836) di Andersen, intitolata Die Seejungfrau (1905), che programmaticamente mette insieme descrizioni in musica di elementi come la tempesta, leitmotif musicali che raccontano la storia e i temi di cui è intessuta – l’amore, la sofferenza, la natura – e ancora musiche evocanti atmosfere ed emozioni adeguate alla vicenda narrata. Ad ogni buon conto, un moderno manuale di adattamenti spiega come di fatto i temi siano della massima importanza nel caso dei romanzi e delle rappresentazioni teatrali e che, invece, al cinema e in televisione essi debbano sempre essere resi funzionali all’azione della storia in modo da “dargli forza e dimensioni”, perché solo la trama è essenziale in queste forme di comunicazione – fatta eccezione per i film “d’arte” europei (cfr. Seger 1992: 14). Anche i personaggi possono ovviamente essere trasposti da un testo all’altro, tanto più che, come ha mostrato Murray Smith, essi 31
sono davvero cruciali sia per i testi narrativi che per quelli mostrativi, in quanto sono in grado di suscitare l’immaginazione dei fruitori attraverso meccanismi di riconoscimento, accordo, lealtà (cfr. Smith 1995: 4-6). Il teatro e il romanzo sono di solito considerati forme nelle quali è centrale la figura umana. Valenze psicologiche (e di conseguenza l’empatia dei fruitori) possono svilupparsi entro l’arco narrativo e drammatico quando i personaggi costituiscono il focus di un adattamento. Giocando con il videogioco tratto da un film, d’altronde, possiamo effettivamente “diventare” uno dei suoi personaggi e agire nel loro mondo finzionale. Le diverse unità di cui si compone una storia (o meglio la sua fabula) possono anch’esse essere trasposte da un codice all’altro – in maniera del tutto analoga a come possono essere sintetizzate in una versione non integrale o tradotte in una lingua straniera (cfr. Hamon 1977: 264). Nel processo di adattamento esse possono però facilmente – e spesso radicalmente – modificarsi, e non soltanto nell’ordine dell’intreccio. Il ritmo può essere trasformato e il tempo può essere compresso o espanso. Cambi nella focalizzazione o nel punto di vista della storia adattata possono determinare differenze di rilievo. Nella versione cinematografica di A Passage to India (1924) scritta, diretta e prodotta da David Lean nel 1984, la focalizzazione del romanzo di E.M. Forster sui due protagonisti maschili, Fielding e Aziz, e sul loro incontro attraverso culture diverse e lontane è decisamente alterata. Il film, infatti, a differenza del romanzo, racconta la storia di Adela, e prevede l’aggiunta di nuove scene finalizzate ad ispessire il personaggio della protagonista rendendolo più complesso e interessante di quanto esso non sia nell’opera letteraria di partenza. Ancor più radicalmente, Miss Havisham’s Fire (1979/1996) di Dominick Argento e John Olon-Scrymgeour, adattamento operistico di Great Expectations (Grandi speranze, 1860/61) di Dickens, ignora del tutto la storia del protagonista del romanzo, Pip, per raccontare quella dell’eccentrica miss Havisham. In altri casi, possono essere il punto di partenza oppure la conclusione ad essere completamente trasfigurati nell’adattamento. Anthony Minghella, ad esempio, proponendo nella versione cinematografica da lui sceneggiata e diretta de Il Paziente inglese un fi32
nale diverso da quello del romanzo di Michael Ondaatje, ha rimosso l’elemento di politica postcoloniale legato alla reazione di Kip, un indiano, al bombardamento di Hiroshima, inserendo al posto dell’atomica la bomba, ben più piccola, che uccise il suo collega di lavoro e amico. In altre parole, a una crisi politica si sostituisce nel film una crisi individuale. Così ha spiegato la decisione il produttore del film Walter Murch: «Il film [a differenza del romanzo] era talmente imperniato su quei cinque personaggi – il paziente, Hana, Kip, Katherine e Caravaggio – che l’idea di aprirlo così all’improvviso, verso la fine, chiedendo al pubblico di immaginare la morte di centinaia di migliaia di persone ignote… sarebbe stata troppo astratta. Perciò la bomba di Hiroshima fu trasformata nella bomba che aveva ucciso Hardy, un personaggio che lo spettatore conosce benissimo» (in Ondaatje 2002: 179). Ancora, nel film (ma non nel romanzo) è Hana, l’infermiera, a dare al paziente l’iniezione fatale di morfina alla fine della vicenda, in modo da far sì che nella sua memoria – così come nella nostra – lei possa confondersi con l’immagine della sua amata, Katherine. Analogamente, nella colonna sonora si confondono e si mischiano le voci delle due donne. Il focus del film si limita esclusivamente all’infelice storia d’amore, segnata dal fato. Un cambio di finale come questo può forse non essere allo stesso livello di quello della tristemente nota versione del King Lear shakespeariano – datata 1861– di Nahum Tate, nella quale Cordelia veniva fatta sopravvivere e sposava Edgar, ma determina ugualmente uno scarto di grande importanza nella rilevanza assegnata ai diversi elementi della storia. Se dal considerare soltanto il cambio di medium, come finora abbiamo fatto, si passa alla valutazione delle trasformazioni riguardanti a un livello più generale i diversi modi di presentare una storia, ecco che appaiono ulteriori differenze. Ciò dipende dal fatto che ogni modo implica una diversa modalità di interazione da parte sia del pubblico che dell’autore dell’adattamento. Come approfondiremo a breve nei dettagli, mostrare una storia non è la stessa cosa che raccontarla, e tanto meno che parteciparvi e interagire con essa attivamente, avendone cioè un’esperienza diretta che preveda la partecipazione cinestetica del fruitore. A seconda del modo generale di presentazione di una storia, elementi diversi vengono adattati 33
e in diversa maniera. Come suggeriscono i casi esaminati finora, raccontare una storia, come accade in un romanzo, in una novella o anche in una ricostruzione storica, vuol dire descrivere, spiegare, sintetizzare, espandere; il narratore dispone di un proprio punto di vista e della facoltà di balzare a piacimento avanti e indietro nel tempo e nello spazio e di avventurarsi di tanto in tanto nelle menti dei personaggi. Mostrare una storia, invece, come nei film, nei balletti, nei drammi radiofonici e teatrali, nei musical e all’opera, implica l’esperienza diretta, in tempo reale, di una performance fruibile a livello uditivo o, più spesso, audiovisivo. Per quanto in ultima analisi né raccontare né mostrare le storie limitino il pubblico ad una condizione di passività, tali modalità di fatto non impegnano chi ne fruisce in maniera così immediata e viscerale come fanno gli ambienti virtuali, i videogiochi (in qualsivoglia piattaforma), e persino le giostre e le attrazioni dei parchi a tema, anch’esse a loro modo adattamenti o «rimediazioni» (Bolter, Grusin 1999). La natura interattiva, fisica di questo tipo di rapporto tra opera e fruitore determina cambiamenti che riguardano sia la storia in sé che la sua importanza nell’adattamento. Se in generale si può dire che un film è organizzato internamente in tre atti – un inizio nel quale si stabilisce una situazione di conflitto; una parte centrale nella quale le implicazioni del conflitto sono messe in scena; una conclusione con la quale il conflitto si risolve – anche per l’adattamento in videogioco di un film si può parlare di una struttura in tre atti, ma con importanti differenze. Le informazioni introduttive, presentate spesso in apposite cut-scene2, corrispondono al primo atto; il secondo è la vera e propria esperienza di gioco; il terzo è la conclusione, una volta “finito” il gioco, ancora una volta spesso costituita da cut-scene filmate (cfr. Lindley 2002: 206). Il primo e il terzo atto svolgono ovviamente una funzione narrativa – per mezzo di una mostrazione – e provvedono a definire la cornice della storia; entrambi però sono di fatto marginali rispetto al nucleo principale: la dinamica di gioco del secondo atto, con l’intensità 2
Nel linguaggio degli appassionati e degli studiosi di videogiochi, si definiscono cut-scene le fasi di un videogioco nelle quali l’interazione diretta con il giocatore è momentaneamente sospesa al fine di raccontare qualcosa o di creare una determinata atmosfera o il contesto di una scena particolare [N.d.T.].
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dell’interazione fisica e cognitiva che gli è propria, porta avanti la narrazione attraverso la spettacolarità delle immagini e degli effetti audio (comprese le musiche) e attraverso imprese successive di problem-solving. Come ha affermato Marie-Laure Ryan: «il segreto del successo sul piano narrativo dei giochi sta nella loro capacità di dare fondo alle possibilità della forza più basilare tra quelle che possono animare e sostenere una trama: risolvere problemi» (Ryan 2004a: 349). La storia, in questo caso, non è più l’elemento centrale o per lo meno non è più un fine in se stessa, per quanto resti ancora presente come strumento utile in vista di un determinato obiettivo (cfr. King 2002c: 51). Al di là del corposo dibattito sviluppatosi recentemente sul fatto che interattività e narrazione siano o meno incompatibili tra loro (cfr. Ryan 2001: 244; 2004b: 337), ciò che è certamente più rilevante in un adattamento in videogioco è il fatto che i giocatori possano abitare un mondo visuale deliberatamente finzionale, e spesso stupefacente, creato ricorrendo all’animazione digitale. Il mondo tridimensionale di Zelda, noto videogioco della Nintendo, per esempio, è stato descritto nei termini di «un ambiente con un alto grado di complessità, con una complicata economia, un’incredibile schiera di creature, un vasto campionario di paesaggi e di interni e una chimica, una biologia, una geologia e un’ecologia elaborate al punto che il suo mondo possa essere effettivamente studiato come una versione alternativa della natura» (Weinbren 2002: 180). Anche se Zelda non è un adattamento, la descrizione del suo mondo ben si adegua a moltissimi altri videogiochi che lo sono. Similmente, i visitatori di Disney World che vanno sopra il tappeto volante di Aladdin possono fisicamente entrare e muoversi a piacimento in un universo che originariamente è stato presentato attraverso il film nei termini di un’esperienza lineare. Ciò che viene adattato in questo caso è un heterokosmos, un mondo possibile, letteralmente un “altro mondo”, completo, ovviamente, di tutto ciò che appartiene alla storia adattata – ambientazioni, personaggi, eventi, situazioni. Per essere più precisi, è la res extensa – per esprimerci con la terminologia di Descartes – di quel mondo, la sua dimensione materiale e fisica, che viene trasposta 35
e della quale è poi possibile avere esperienza attraverso un’interattività multisensoriale (Grau 2001: 3). Un mondo possibile come questo possiede ciò che gli studiosi chiamano «verità come coerenza» (Ruthven 1979: 11) – in questo caso, plausibilità e consistenza dei movimenti e della grafica entro il contesto del gioco (cfr. Ward 2002: 129) – analogamente ai mondi raccontati o messi in scena, ma esso possiede anche un particolare tipo di “verità come corrispondenza”, a nessun “mondo reale” e bensì all’universo dello specifico testo adattato. Il videogioco di The Godfather (Il padrino), usa le voci e l’immagine di alcuni fra gli attori del film, compreso Marlon Brando, ma la struttura lineare del film è mutata in quella di un modello flessibile di gioco, nel quale il giocatore assume le veci di un anonimo uomo di mafia, intento a conquistare per sé il rispetto dei personaggi principali facendosi carico dei loro affari, uccidendo persone e così via. In altre parole, il punto di vista è passato da quello dei capimafia a quello dei sottoposti, i quali ci permettono di assistere alle scene familiari del mondo del film da una diversa prospettiva, e con la possibilità di determinare un diverso esito. Ciò che con i videogiochi e con tutti gli esperimenti di realtà virtuale non è possibile adattare con facilità è invece proprio ciò che nei romanzi può essere rappresentato davvero bene: la res cogitans, lo spazio della mente. Tutti i media “di schermo” e “di palcoscenico” operano con difficoltà su questa dimensione, per il fatto che quando una realtà psichica deve essere mostrata piuttosto che esposta a parole, essa deve essere resa visibile nel dominio della materialità per poter essere percepita dal pubblico. Ad ogni modo, espandere l’idea di ciò che può essere adattato fino a includere l’idea di mondo possibile o di mondo visuale ed altri aspetti ancora di una data storia apre, per esempio, alla possibilità di considerare come un adattamento le famose illustrazioni della Salomé di Oscar Wilde realizzate da Aubrey Beardsley, o persino di valutare le opere cubiste di Picasso delle ricodificazioni di precedenti dipinti canonici di Velásquez. Esistono tipi particolari di storie, con i rispettivi mondi possibili, più facilmente adattabili di altri? Nel film Adaptation, il libro di Susan Orlean, The Orchid Thief, si dimostra impossibile da 36
rielaborare per lo sceneggiatore “Charlie Kaufman”. Oppure no? Apparentemente, i romanzi realistici e lineari sono più facilmente adattati per lo schermo che non quelli sperimentali, almeno a giudicare dai dati concreti: ben più adattamenti sono stati tratti dalle opere di Charles Dickens, Ian Fleming e Agatha Christie che non da quelle di Samuel Beckett, James Joyce o Robert Coover. Si è affermato che negli adattamenti dei testi più «radicali», essi vengano «ridotti secondo una sorta di omogeneizzazione filmica» (Axelrod 1996: 204). Al contrario, i romanzi di Dickens sono stati detti “teatrali” per l’energia dei loro dialoghi e la forte individualizzazione dei personaggi, tratteggiati a fondo e spesso dotati di modi di parlare e accenti peculiari. Ancora, le tipiche descrizioni fortemente pittoriche e la disponibilità di frequenti sviluppi in scene di grande impatto contribuiscono a rendere queste opere prontamente adattabili, o per lo meno «adattogeniche» (Groensteen 1998a: 270), per il palcoscenico e per lo schermo. Storicamente, sono stati le storie e i mondi melodrammatici a prestarsi ad essere adattati nella forma dell’opera lirica o dei drammi in musica, forme nelle quali la presenza della musica permette di dare maggiore forza ai semplici contrasti emozionali e alle tensioni generate dalla compressione generale (dovuta al fatto che è necessario più tempo per cantare un verso che per recitarlo). Al giorno d’oggi, sono i film dotati di un imponente e spettacolare apparato di effetti speciali, come i vari Matrix e Star Wars (Guerre stellari), ad essere più frequentemente volti in videogiochi di successo, nei quali i giocatori possono divertirsi a entrare nel mondo dell’invenzione cinematografica e manipolarlo liberamente. Una doppia prospettiva: definire gli adattamenti Data la complessità propria di ciò che può essere adattato e dei metodi con cui ciò può avvenire, accade che si continui a inventare e proporre nuove espressioni per rimpiazzare la confusa semplicità della parola “adattamento” (cfr. Gaudreault 1998: 268). La maggior parte di questi tentativi, però, sono risultati vani: la parola “adattamento” ha dimostrato di avere le sue buone ragioni. Occorre dire che per quanto semplice e diretta possa a prima vista appari37
re, l’idea di adattamento è in realtà molto difficile da definire. Ciò dipende in parte dal fatto che, come abbiamo visto, si usa normalmente la stessa parola per indicare sia il processo che il prodotto. In quanto prodotto, è possibile fornire una definizione formale di adattamento, ma in quanto processo – di creazione e di ricezione – è necessario invece valutare altri aspetti. Per questo è necessario far riferimento a queste due distinte prospettive per discutere e definire efficacemente gli adattamenti. L’adattamento in quanto prodotto: una transcodificazione definita, esauriente e dichiarata In quanto rielaborazioni dichiarate ed estese di altri testi, gli adattamenti sono spesso accomunati alle traduzioni. Così come non è possibile una traduzione letterale, non è possibile un adattamento letterale. Ciononostante, lo studio delle traduzioni e degli adattamenti è stato a lungo condizionato dalla prevalenza di «approcci normativi e source-oriented» (Hermans 1985b: 9). Una trasposizione da un medium a un altro, o anche all’interno dello stesso medium, implica sempre un cambiamento o, nel linguaggio dei moderni mezzi di comunicazione, una «riformattazione». E ciò comporta inevitabilmente sia perdite che guadagni (cfr. Stam 2000: 62). Per quanto possa apparire sufficientemente in linea con il senso comune, è importante avere presente il fatto che entro un approccio di questo tipo alla traduzione vengono assegnati aprioristicamente al testo source autorità e diritti di primazia, e la retorica del confronto si riduce il più delle volte a quella della fedeltà e dell’equivalenza. Walter Benjamin ha modificato questo paradigma ne Il compito del traduttore, affermando che una traduzione non è l’espressione di un qualche significato fisso e esterno al testo che deve essere copiato o parafrasato o riprodotto; essa è invece un confronto con il testo originario, che ci permette di vederlo in una pluralità di modi diversi (Benjamin 1923: 505-507). Posizioni teoriche più recenti nel campo dei translation studies affermano che la traduzione comporta una transazione attraverso testi e linguaggi ed è perciò «un atto comunicativo al tempo stesso interculturale e intertemporale» (Bassnett 2002: 9). 38
Questa definizione aggiornata di traduzione si presta ad essere estesa anche agli adattamenti. In molti casi, dato che gli adattamenti consistono in passaggi a media diversi, essi sono anche delle ri-mediazioni, e cioè specificatamente traduzioni nella forma di trasposizioni intersemiotiche da un dato sistema di segni ad un altro (per esempio, da quello verbale a quello visuale). Questo è certamente un tipo di traduzione, ma nel senso specifico di trasmutazione o transcodificazione, la quale comporta necessariamente, con il passaggio al nuovo sistema di segni, una contestuale ricodificazione in un nuovo sistema di convenzioni. Nella sceneggiatura realizzata da Harold Pinter del film di Karel Reisz The French Lieutenant’s Woman (La donna del tenente francese, 1981), la diegesi del romanzo omonimo di John Fowles (1969) è trasposta in un codice integralmente cinematografico. Nel romanzo vengono giustapposti un narratore moderno e una storia ambientata in epoca vittoriana; corrispondentemente nel film, egualmente connotato in chiave autoreferenziale, una sceneggiatura vittoriana è contenuta in un film moderno che racconta la produzione di un film della storia ottocentesca. L’autoconsapevolezza del narratore del romanzo è stata tradotta in un riflesso cinematografico, quello degli attori che recitano la parte dei personaggi vittoriani del dramma e finiscono per vivere nella loro vita il romanticismo della sceneggiatura. Il motivo dell’assunzione di un dato ruolo nelle riprese di un film richiama efficacemente l’ipocrisia e la moralità schizoide del mondo vittoriano del romanzo (cfr. Sinyard 1986: 135-140). Il concetto di parafrasi (cfr. Bluestone 1971: 62) è spesso stato proposto in alternativa all’analogia con la traduzione. Etimologicamente, una parafrasi è un modo di raccontare “accanto” (para) e, secondo l’Oxford English Dictionary, uno dei suoi significati principali è quello di «libera esposizione o amplificazione di un passaggio» innanzitutto verbale e, per estensione, musicale. Una definizione spesso citata è quella proposta da John Dryden, secondo il quale una parafrasi è «una traduzione di una certa ampiezza, nella quale l’autore rimane in vista […] ma le sue parole sono seguite meno fedelmente che non il senso, che a sua volta può essere amplificato». Probabilmente ciò descrive nel modo migliore l’operazione compiuta dallo sceneggiatore Robert Nelson Jacobs e dal regista 39
Lasse Hallstrom nel loro adattamento (2001) del romanzo di E. Annie Proulx The Shipping News3 (Avviso ai naviganti, 1993). La resa del mondo psichico del protagonista, ampliamente garantita nel romanzo dal narratore omnisciente, viene attuata liberamente nel film tramite la soluzione, in un certo senso realistica per un giornalista, di rendere visibili i suoi pensieri nella forma di titoli di giornale. In un certo senso, anche lo stile metaforico della scrittura del romanzo è parafrasato nel ricorrente immaginario visivo collegato alla paura del protagonista di affogare. Similmente, nell’adattamento cinematografico del 1998 diretto da Marleen Gorris, la ricca densità associativa del linguaggio usato da Virginia Woolf in Mrs. Dalloway è volta o parafrasata in un «immaginario visuale di tipo associativo» (Cuddy-Keane 1998: 173-174). Le analogie con la traduzione e con la parafrasi possono essere utili anche per valutare quanto ho precedentemente definito lo scarto ontologico, che si verifica quando un evento storico o della vita reale di una persona vengono adattati in una rielaborata forma finzionale. Il testo che viene adattato può essere un autorevole resoconto storico o una fonte meno definita di documentazione (cfr. Andrew 2004: 200) e la forma dell’adattamento può variare dal film biografico all’“heritage film”4, dal docudramma televisivo al videogioco, come in JFK Reloaded (della scozzese Traffic Games), basato sull’assassinio di Kennedy. A volte il testo che viene parafrasato o tradotto è immediatamente disponibile per l’adattamento. È il caso, per esempio, del film TV tedesco di 85 minuti Wannseekonferenz (La conferenza di Wannsee), tratto dai verbali originali dell’incontro, durato effettivamente 85 minuti, tenutosi nel 1942 sotto la guida di Reinhard Heydrich, il capo della polizia tedesca, nel quale fu stabilita la «soluzione finale della questione ebrea». Nel 2001, Loring Mandel ne ha tratto un ulteriore adattamento in inglese destinato alla BBC e alla HBO, intitolato Conspiracy. 3 Il film è stato distribuito in Italia nel 2002 con il titolo The Shipping News Ombre dal passato [N.d.T.]. 4 Con heritage film si indica la produzione, fiorente negli ultimi anni del Ventesimo secolo, di film storici ambientati, con tono prevalentemente affascinato e nostalgico, nella Gran Bretagna del passato [N.d.T.].
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In altri casi, il testo che viene adattato è più complesso o addirittura multiplo. Il film di Sidney Lumet Dog Day Afternoon (Quel pomeriggio di un giorno da cani, 1975) è l’adattamento finzionale di una vera rapina con ostaggi avvenuta a Brooklyn nel 1972, ampliamente documentata in diretta dalla televisione e successivamente molto discussa e commentata nei vari organi di comunicazione. In effetti, la base per la sceneggiatura del film fu un articolo scritto sul fatto da P.F. Kluge per la rivista «Life». Ora, nel 2002 l’artista Pierre Huyghe chiese al vero rapinatore, di nome John Wojtowicz, di rievocare e narrare – cioè di tradurre o parafrasare – di fronte alla sua cinepresa la propria versione dell’evento. Nel farlo, ci si trovò di fronte ad un fenomeno di adattamento di secondo grado: man mano che l’esecutore del crimine riviveva il proprio passato apparve progressivamente con chiarezza il fatto che egli stesso non poteva fare ciò se non attraverso la lente della versione cinematografica che da quel passato era stata derivata. Di fatto il film era diventato per lui il testo da adattare tanto quanto lo erano gli eventi reali preservati nella sua memoria o nella registrazione che ne avevano assicurato i media. Di fronte a tali scarti ontologici, perde di significato valutare se un adattamento sia “storicamente accurato” o “storicamente inaccurato” nel senso comune. Schindler’s List non è Shoah (cfr. Hansen 2001) anche perché è l’adattamento di un romanzo di Thomas Keneally, che a sua volta si basa sulla testimonianza di alcuni sopravvissuti. In altre parole, esso è la parafrasi o la traduzione di un particolare altro testo, di una particolare interpretazione della storia. L’apparente semplicità della familiare dicitura “basato su una storia vera” nasconde un inganno: in realtà, gli adattamenti storici cui essa si applica sono tanto complessi quanto la stessa storiografia. L’adattamento in quanto processo L’interpretazione creativa/la creazione interpretativa dell’autore di un adattamento Nelle prime scene di Adaptation, lo sceneggiatore “Charlie Kaufman” deve far fronte a un penoso dilemma: lo preoccupa, nel momento in cui è in procinto di trarne un adattamento, la sua re41
sponsabilità nei confronti di un autore e di un libro per i quali nutre rispetto. Nella sua percezione, adattare qualcosa comporta un processo di appropriazione, di presa di possesso della storia di un altro, e in un certo senso come un filtraggio di questa storia attraverso la propria sensibilità, i propri interessi, il proprio talento. Quindi, realizzare un adattamento vuol dire prima interpretare e poi creare. È questa una delle ragioni per cui Morte a Venezia di Luchino Visconti, adattamento cinematografico d’autore del racconto di Thomas Mann Der Tod in Venedig (1911), è così diverso nel suo focus e nell’impatto con il pubblico dall’opera lirica inglese Death in Venice, di Benjamin Britten e Myfanwy Piper, la cui prima, del 1973, è solo di pochissimi anni successiva all’uscita del film. L’altra ragione, ovviamente, è la diversa scelta del medium. A questo riguardo, E.H. Gombrich ha proposto un’utile analogia nella figura del pittore che se contempla un panorama con una matita in mano, «cercherà gli aspetti che si possono rendere con le linee» e che se, invece, tiene in mano un pennello, opererà una visione dello stesso soggetto in termini di masse e non di linee (Gombrich 1959: 77). Generalizzando, se ci si avvicina a una storia con l’idea di realizzare un adattamento cinematografico si sarà attratti da aspetti diversi da quelli sui quali si concentrerebbe l’attenzione di un librettista d’opera. Di solito gli adattamenti, specie nel caso in cui siano tratti da romanzi di una certa lunghezza, implicano alla base un lavoro di sottrazione e contrazione; a buon titolo in questi casi si è parlato di «arte chirurgica» (Abbott 2002: 108). L’adattamento teatrale dei romanzi della trilogia di Philip Pullman His Dark Materials (Queste oscure materie) ha comportato il passaggio da circa 1300 pagine di stampa a due rappresentazioni di tre ore ciascuna; per riuscirvi, Nicholas Wright ha dovuto tagliare alcuni personaggi principali (per esempio, la studiosa di Oxford Mary Malone) e di conseguenza interi mondi da loro abitati nel romanzo (per esempio, la terra dei mulefas); ha dovuto velocizzare l’azione e anticipare fin dall’inizio il coinvolgimento della Chiesa. Naturalmente, ha dovuto anche elaborare due principali climax narrativi in sostituzione dei tre della trilogia. Ancora, ha dovuto inserire le spiegazioni esplicite di alcuni temi e persino di alcuni dettagli della trama, perché il pubblico a 42
teatro non avrebbe avuto a disposizione lo stesso tempo dei lettori del romanzo per mettere insieme le informazioni disseminate lungo la storia. Naturalmente, non tutti gli adattamenti sono semplicemente il risultato di tagli. Racconti brevi sono stati spesso fonte di ispirazione per il cinema; da The Tin Star (1947) di John M. Cunningham, per esempio, è stato tratto il film di Fred Zinneman e Carl Forman High Noon (Mezzogiorno di fuoco, 1952). In casi come questo è stato necessario espandere in misura considerevole il materiale di partenza. Quando nel 1984 il regista Neil Jordan e la scrittrice Angela Carter hanno realizzato l’adattamento cinematografico del racconto di quest’ultima The Company of Wolves (In compagnia dei lupi), hanno aggiunto alcuni dettagli tratti da altri due racconti contenuti nella stessa raccolta The Bloody Chamber (1979), The Werewolf e Wolf-Alice. Per creare in partenza i presupposti della logica onirica del racconto hanno utilizzato il prologo, ambientato ai nostri giorni, dell’adattamento radiofonico precedentemente realizzato dalla stessa Carter. Lo sceneggiatore Noel Baker ha descritto in modo analogo il suo tentativo di cogliere «il sospiro di un’idea di film» e trasformarlo in un lungometraggio. Gli era stato richiesto di adattare per il cinema un’opera, Hard Core Logo (1993) di Michael Turner, che non può essere definita breve, ma che si tratta della frammentaria ricostruzione della storia della reunion di un gruppo punk degli anni Ottanta, attraverso lettere, canzoni, messaggi di segreteria telefonica, fatture, fotografie, appunti scritti a mano, pagine di diario, contratti e via di seguito. Baker ha dichiarato che la sua prima reazione è stata quella di affrontare la sfida della frammentarietà in quanto tale e che solo in un secondo momento ha percepito come essa fosse «scarna ed essenziale, piena di buchi e di reticenze, tale da impedire che l’eloquenza delle cose avesse luogo» (Baker 1997: 10). Le parole del suo diario testimoniano come, alla fine, proprio quest’ultimo aspetto abbia invece reso il suo compito più divertente e creativo: «devo ringraziare Turner per aver scritto così poco pur suggerendo e lasciando intravedere così tanto» (14). Naturalmente, le ragioni possibili per le quali si sceglie di adattare una data storia trascodificandola in un medium o in un genere 43
particolare formano un ampio ventaglio. Come si è già notato, lo scopo di un adattamento può spesso essere quello di soppiantare sul piano economico e su quello artistico l’opera di partenza. Con uguale probabilità è possibile che con esso si voglia lanciare una sfida ai valori estetici o politici del testo adattato, o che si voglia rendergli omaggio. È questa evidentemente una delle ragioni per cui la retorica della “fedeltà” risulta inadeguata a discutere il processo di adattamento. Qualsiasi sia il movente, dal punto di vista dell’adattatore un adattamento è sempre un processo doppio di interpretazione e successiva creazione di qualcosa di nuovo. Non c’è ragione di stupirsi se queste parole suonano in qualche modo familiari, basti soltanto prendere in considerazione la lunga storia nella cultura occidentale dell’imitatio o mimesis (imitazione), che già Aristotele considerava essere parte del comportamento istintuale degli uomini e fonte del loro piacere nell’arte (cfr. Wittkower 1965: 143). In particolare, l’imitazione dei capolavori dell’arte non era intesa solo come un modo per trarre vantaggio dal prestigio e dall’autorità degli antichi o come modello pedagogico (come nella Rhetorica ad Herennium, I.ii.3 e IV.i.2), per quanto entrambi gli aspetti abbiano senz’altro una loro validità. Era anche una forma di creatività: «l’imitatio non è un plagio né una macchia nella fondazione della letteratura latina. È piuttosto una legge dinamica della sua esistenza» (West, Woodman 1979: ix). Così come l’imitazione classica, anche gli adattamenti non sono una copiatura servile, ma piuttosto un processo che rende ciò che viene adattato un’opera propria. In entrambi la novità sta in ciò che si fa con l’altro testo. Non a caso per “Longinus” l’imitatio si lega all’aemulatio, unendo insieme imitazione e creatività (cfr. Russell 1979: 10). Probabilmente il giusto modo per spiegarsi gli adattamenti di scarso successo non è tanto in termini di infedeltà al testo di partenza, quanto di mancanza di creatività e di abilità nel rendere l’opera adattata il proprio testo e quindi un testo autonomo. Per il lettore, lo spettatore o l’ascoltatore un adattamento in quanto adattamento è inevitabilmente un caso di intertestualità, a condizione che il testo adattato gli sia familiare. È un continuo processo dialogico, come avrebbe detto Michail Bakhtin, nel quale l’opera 44
che già si conosce viene confrontata con quella di cui si sta avendo fruizione (cfr. Stam 2000: 64). Sottolineando il rapporto delle singole opere con le altre opere e con un intero sistema culturale, le teorie dell’intertestualità sviluppate nell’ambito della semiotica e del post-strutturalismo francesi (cfr. Barthes 1971: 57-64; Kristeva 1986) hanno avuto un ruolo importante nel superamento delle nozioni post-romantiche di originalità, unicità e autonomia. Al contrario, i testi vengono considerati mosaici di citazioni sia visibili che invisibili, udite e silenti, e sono sempre stati già scritti e già letti. Così sono anche gli adattamenti, ma con la condizione ulteriore di essere riconoscibili in quanto adattamenti di testi specifici. Spesso il pubblico è in grado di riconoscere il fatto che un’opera sia l’adattamento di più di un testo specifico. Per esempio, gli scrittori che hanno più di recente rielaborato – per la radio, il palcoscenico o per il cinema stesso – il romanzo di John Buchan The Thirty-Nine Steps (I trentanove gradini, 1914) hanno spesso adattato insieme al libro anche il film oscuro e cinico tratto dallo stesso romanzo da Alfred Hitchcock nel 1935 (cfr. Glancy 2003: 99-100). E ancora, i film su Dracula possono spesso oggi essere considerati adattamenti tanto del romanzo di Bram Stoker quanto di film precedenti sullo stesso argomento. L’intertestualità “di palinsesto” del pubblico Dal punto di vista del pubblico, adattamenti come questo sono naturalmente “multistrato”; essi sono direttamente e apertamente connessi con altre opere ben riconoscibili, e tale connessione è parte della loro identità formale, ma anche di ciò che potrebbe essere definita la loro identità ermeneutica. È questo elemento a tenere sotto controllo il «rumore di fondo» (Hinds 1998:19) di tutti gli altri possibili paralleli intertestuali, che un fruitore può stabilire sulla base di somiglianze che si collocano al livello delle generali convezioni artistiche e sociali, piuttosto che delle caratteristiche di opere specifiche. In ogni caso, il rapporto di un adattamento con queste altre opere è di tipo più ampio, quando non semplicemente allusivo. Motivo tanto di piacere quanto di frustrazione nell’esperienza di fruizione di un adattamento è il senso di familiarità che si genera dalla ripetizione e dalla memoria. A seconda del nostro rappor45
to con le soluzioni coreografiche tradizionali nella messa in scena del Lago dei cigni (1877) di Čajkovskij (e ce ne sono non poche, da quella di Petita/Ivanov alle sue rielaborazioni curate da Ashton e Dowell) potremmo provare delizia oppure irritazione di fronte all’adattamento realizzato da Matthew Bourne e alla sua operazione di modernizzazione e ironia in chiave queer del popolare balletto classico. La parte dei cigni affidata a ballerini maschi e muscolari e la loro coreografia esplicitamente omoerotica, violenta, carica di valenze sessuali fanno sì, tra le altre cose, che il tradizionale pas de deux del principe insieme al cigno sia – forse per la prima volta – una danza tra eguali. Il principe non è più il semplice assistente atletico dell’étoile. Non tutti nel pubblico apprezzeranno questa trasgressione e la critica rivolta alle convenzioni sessuali implicite nella tradizione del balletto. Ma indipendentemente dalla nostra reazione, l’adattamento richiama la nostra attenzione sulle attese intertestuali specifiche del medium e del genere, così come di quella data opera in particolare, portate in primo piano nella versione di Bourne. Considerazioni analoghe possono valere per la versione dello stesso balletto realizzata dall’Australian Dance Theatre, intitolata Birdbrain (2001), caratterizzata da una coreografia tagliente e superveloce e dall’inserimento di musica meccanizzata e di videoclip. Dal punto di vista del pubblico, la memoria è necessaria per avere esperienza tanto della differenza quanto della somiglianza. Modalità di interazione La doppia definizione proposta di adattamento in termini di prodotto (la transcodificazione di una data opera) e di processo (reinterpretazione creativa e intertestualità “di palinsesto”) è un modo per rivolgersi alle tante dimensioni d’analisi proprie del vasto fenomeno degli adattamenti. Porre l’accento sulla natura di processo degli adattamenti permette di espandere l’approccio critico tradizionale, tipicamente concentrato sullo studio delle specificità dei media e su case-studies operanti confronti tra singole opere, per prendere in considerazione le relazioni che intercorrono tra i principali modi di interazione: ci permette, in altre parole, di ragionare sul modo in cui gli adattamenti mettono le persone in condizione di raccontare, 46
mostrare o interagire attivamente con una storia. Una storia può essere raccontata o mostrata, e in entrambi i casi ciò può avvenire tramite molti media diversi. A maggior ragione, la prospettiva e quindi la grammatica cambiano con la terza modalità di coinvolgimento, nella quale i membri del pubblico interagiscono attivamente con le storie; così accade con i nuovi mezzi di comunicazione, dalla realtà virtuale ai machinima5. I tre modi di interazione sono tutti decisamente “immersivi”, anche se con gradi e modalità differenti: la narrazione (un romanzo, ad esempio) ci porta a immergerci attraverso la nostra immaginazione in un mondo finzionale; la mostrazione (opere teatrali e cinematografiche) ci fa immergere attraverso la percezione audiovisiva – un po’, quanto al piano visuale, come accade in pittura con la prospettiva rinascimentale o con il trompe l’œil barocco (cfr. Ryan 2001: 3); la modalità partecipativa (i videogiochi) ci coinvolge sul piano fisico e cinestetico. Per quanto le tre modalità siano tutte in senso lato “immersive”, soltanto la terza viene però normalmente definita “interattiva”. Né l’atto di osservare e interpretare segni scritti – parole o note – su una pagina bianca, né quello di percepire e interpretare la rappresentazione diretta di una storia sul palcoscenico o sullo schermo sono in nessun modo passivi; entrambi implicano un partecipazione attiva di tipo immaginativo, cognitivo e emotivo. Passare al modo partecipativo di interazione, però, nel quale si è fisicamente coinvolti con la storia e il suo mondo – che sia un violento gioco d’azione o un gioco di ruolo o un rompicapo – vuol dire muovere in direzione di un qualcosa che se non è più attivo è certamente attivo in maniera diversa. In un racconto – ad esempio nella letteratura narrativa – il nostro coinvolgimento ha origine nell’immaginazione, che da un lato è tenuta sotto controllo e guidata dalle parole, selezionate, del testo, e dall’altro è libera dai limiti imposti da una percezione audiovisiva. Possiamo fermare a piacimento la lettura; leggere più di una volta un passo o saltarlo del tutto; teniamo il libro fra le nostre mani e possiamo sapere in ogni momento, sia attraverso il tatto che attra5
Il termine machinima, dalla forma abbreviata per machine cinema o machine animation, si riferisce all’utilizzo dei motori grafici dei videogiochi, in particolare di quelli in 3D, al fine di realizzare film d’animazione. Si usa per indicare sia la tecnica sia i prodotti realizzati con essa [N.d.T.].
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verso la vista, quanto manca alla fine della storia. Passando alla mostrazione, invece, come accade con gli adattamenti teatrali e cinematografici, ci troviamo di fronte a una storia impassibile nella progressione del suo svolgimento. Si passa dall’immaginazione alla percezione diretta, la quale accomuna tanto le visioni d’insieme che quelle di dettaglio. La modalità rappresentativa dimostra che il linguaggio verbale non è l’unico modo di esprimere qualcosa o raccontare una storia. Le rappresentazioni visive e gestuali possono essere ricche di associazioni complesse; la musica può offrire “equivalenti” sonori per le emozioni dei personaggi e corrispondentemente suscitare nel pubblico le debite reazioni emotive; il suono, in generale, può intensificare, rinforzare o persino contraddire le informazioni visive e verbali. D’altro canto, una rappresentazione mostrata non è in grado di raggiungere la complessità dei giochi verbali della poesia a parole o il grado di interconnessione tra descrizione, narrazione e spiegazione che la narrativa in prosa può realizzare tanto facilmente. Raccontare una storia a parole, sia oralmente che per iscritto, non è mai la stessa cosa che mostrarla visivamente e uditivamente in uno qualsiasi dei tanti media rappresentativi. Alcuni studiosi ritengono che non ci sarebbe di base una significativa differenza tra un testo verbale e delle immagini visive, sostenendo l’opinione secondo la quale «atti comunicativi ed espressivi, la narrazione, l’argomentazione, la descrizione, l’esposizione e gli altri cosiddetti “atti linguistici” non dipendono dal medium, non sono “propri” di un dato medium in particolare» (Mitchell 1994: 160; cfr. anche Cohen 1991). Considerare le differenze tra la narrazione e la mostrazione, però, induce di fatto a una conclusione pressoché opposta: ciascuna modalità di coinvolgimento, come ciascun medium, ha una propria specificità, se non una sua essenza. In altre parole, nessuna modalità è inerentemente opportuna per fare una cosa invece che un’altra; ma ciascuna di esse ha a propria disposizione mezzi espressivi diversi – media e generi – e può quindi volgersi, e riuscire, meglio ad alcune cose che ad altre. Si consideri, per esempio, l’interessante esercizio tecnico con il quale si confronta a un certo punto del suo romanzo Howards End (1910) lo scrittore inglese E.M. Forster: come rappresentare 48
a parole gli effetti e i significati suscitati dall’ascolto di una musica, che ovviamente i suoi lettori saranno nelle condizioni di immaginare ma non di ascoltare? Così comincia il quinto capitolo del romanzo: «Tutti ammetteranno che la Quinta Sinfonia di Beethoven è il suono più sublime che sia mai pervenuto all’orecchio umano» (Forster 1910: 39). Forster prosegue descrivendo gli effetti di questo «sublime suono» alle orecchie di ciascun membro della famiglia Schlegel. Essendo una modalità narrativa, il romanzo ci permette di entrare a piacimento nella mente di tutti i personaggi e di conoscere i loro sentimenti. Al contempo l’episodio, che vede l’intera famiglia assistere a un concerto sinfonico presso la Queen’s Hall di Londra, è focalizzato in particolare sul personaggio di Helen Schlegel – una giovane donna per la quale ben vivi sono i tormenti d’amore, qualcuno, cioè, la cui reazione alla musica è estremamente personale e profondamente legata alle tribolazioni sentimentali del momento. Nel mentre che l’orchestra suona il terzo movimento, ci viene detto che Helen sentiva «un folletto che scorrazzava tranquillamente sull’universo, in lungo e in largo» (40). Durante il primo movimento, aveva sentito «eroi e naufraghi», mentre qui è un terribile folletto quello che sente, insieme con un « interludio di elefanti che danzavano» (ibidem). Queste creature incutono turbamento per il senso di ordinarietà che trasmettono a Helen: «si limitavano ad osservare, passando, che nel mondo non c’era niente che somigliasse allo splendore o all’eroismo» (ibidem). Forster prosegue dicendoci che «Helen non poteva contraddirli, perché, una volta tanto, aveva avuto la stessa sensazione, ed aveva persino visto le solide mura della giovinezza crollare. Panico e vuoto! Panico e vuoto! I folletti avevano ragione» (ibidem). Profondamente scossa, per non dire sconvolta, decide alla fine dell’esecuzione di lasciare la famiglia per restare da sola. Con le parole del romanzo: «La musica le aveva riassunto tutto ciò che le era accaduto o poteva accaderle nel corso della vita. Essa la interpretò come un’informazione tangibile, che non avrebbe mai potuto essere superata» (41). Così la donna abbandona la sala, prendendo per errore l’ombrello di uno sconosciuto, Leonard Bast, il quale giocherà un ruolo importante nel seguito della sua vita e del romanzo stesso. 49
Che cosa accade con la trasposizione in modalità rappresentativa – un film, nel caso specifico – della scena appena raccontata nell’adattamento curato da Ruth Prawer Jhabvala e prodotto dalla Merchant/Ivory? Il concerto di fatto rimane ma Helen vi assiste da sola. Non è più il concerto di un’orchestra al completo, ma un’esecuzione pianistica a quattro mani, che accompagna una lezione sulla Quinta Sinfonia di Beethoven. Qualcuna delle originarie parole di Forster rimane, ma ben poche. Dal momento che in un film possiamo soltanto vedere Helen e non possiamo entrare nella sua testa, ci è possibile soltanto tentare di indovinare i suoi pensieri. Così, nella versione cinematografica della scena, non è il personaggio a provare «panico e vuoto» di fronte ai folletti, ma è soltanto nella spiegazione fornita dal docente in risposta a una domanda del pubblico che viene fatto uso di questa immagine. Da ciò che nel film si può vedere, Helen appare più annoiata che sconvolta dall’intera esperienza. Infine, la colonna sonora (extradiegetica) del film ci permette di ascoltare effettivamente la versione orchestrale della sinfonia, ma soltanto dopo che Helen lascia la sala, inseguita dal giovane del quale ha per errore preso l’ombrello. Per quanto Forster abbia usato questa scena al fine di raccontarci il mondo emozionale e immaginario di Helen Schlegel, il film ne ha fatto semplicemente l’occasione per mostrarci l’incontro, in un contesto appropriato e culturalmente caratterizzato, tra Helen e Leonard Bast. A livello dell’intreccio niente più di questo succede nella scena, ed è precisamente ciò che il film si prefigge di esprimere. È interessante notare come la modalità rappresentativa possa, a differenza di quella narrativa, farci effettivamente ascoltare la musica di Beethoven. Non ci permette, invece, di accedere all’interno della mente dei personaggi intenti all’ascolto; affinché possano essere registrate dalla cinepresa, essi devono rendere visibili le loro reazioni, impersonificandole fisicamente, o devono, in alternativa, parlarne. Nel film in questione, d’altronde, vengono messi in scena molti discorsi a proposito della musica, dell’arte e di molte altre cose, e non soltanto nella forma, decisamente scoperta ed evidente, della lezione che ricorre nell’esempio citato.
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La modalità di interazione attiva con una storia è un caso ancora diverso da quando essa ci viene raccontata o mostrata – e non soltanto per il fatto di permettere una maggiore immediatezza di immersione. Così come accade in un dramma o in un film, in una realtà virtuale o in un videogioco non si deve evocare un intero mondo con il solo linguaggio verbale, dato che esso è presente davanti ai nostri occhi e alle nostre orecchie. Nelle modalità puramente mostrative, però, non possiamo entrare fisicamente nel mondo della storia e metterci ad agire concretamente al suo interno. Sulla base del suo impatto viscerale, un gioco di guerra simulata costruito attorno a una sceneggiatura potrebbe essere considerato un adattamento di una storia di guerra di tipo diverso da quello, per esempio, di un film pur visivamente violento come Saving Private Ryan (Salvate il soldato Ryan, 1998). Le ricostruzioni storiche della guerra civile americana possono includere dinamiche proprie dei giochi di ruolo e le opere dei nuovi media narrativi richiedere database fondati sul calcolo combinatorio; in entrambi i casi, però, il coinvolgimento del pubblico è di un tipo diverso da quello che si verifica quando la stessa storia viene raccontata o rappresentata. Le storie, ovviamente, non consistono solo dei mezzi materiali attraverso i quali avviene la loro trasmissione (i media) o delle regole che ne determinano la struttura (i generi). Mezzi di trasmissione e regole suscitano e incanalano attese di tipo narrativo, comunicano significati narrativi a qualcuno in un qualche contesto e sono creati da qualcuno a questo preciso scopo. C’è, in breve, un più ampio contesto comunicativo che qualsivoglia teoria degli adattamenti deve opportunamente considerare. Il contesto di riferimento può cambiare se cambia il modo di presentazione o di coinvolgimento delle storie: il modo narrativo può disporre di una varietà di media materialmente distinti, così come quello mostrativo, sia dal vivo che mediato, e allo stesso tempo ogni medium può supportare molti generi diversi. Ma considerare soltanto le differenze tra i media può non essere abbastanza per dare conto della diversificazione che i fenomeni di adattamento pongono alla nostra attenzione. I machinima, per esempio, sono una forma di animazione cinematografica che fa uso della tecnologia informatica sviluppata per i videogiochi per creare dei film all’interno della realtà virtuale generata dal mo51
tore grafico del gioco. In quanto tale, è una forma ibrida, ma di base il medium è di tipo elettronico. L’adattamento in machinima della poesia di Percy Bysshe Shelley Ozymandias (1817), realizzato da Hugh Hancock per Strange Company, è in effetti la visualizzazione digitalizzata della storia raccontata nella poesia, quella di un uomo che attraversa un deserto solitario e giunge a scoprire la statua in rovina di un antico re, la cui inscrizione contiene un ironico agghiacciante messaggio sulla gloria mondana e il potere del tempo. Anche se la figura dell’uomo sullo schermo crea un po’ di suspense per il fatto di dover soffiare via la sabbia dall’ultima riga dell’iscrizione («Guardate alle mie opere, o Potenti, e disperate!»6), con la versione digitale si prova davvero ben poco del brivido che suscita alla lettura la devastante ironia del poema. Considerare esclusivamente il medium non sarebbe utile per comprendere le ragioni del successo (o del fallimento) di questo adattamento: nonostante si utilizzi un medium digitale, il machinima non è interattivo. In questo caso, la fruizione della storia tramite quella che è a tutti gli effetti una sua rappresentazione è coinvolgente in modo ancor meno attivo di quanto avvenga con la lettura della versione raccontata. Con questo non si vuole affermare che a media diversi non corrispondano diverse modalità di coinvolgimento, ma che i limiti di differenziazione non sono così netti come ci si potrebbe aspettare. L’esperienza, privata e individuale, della lettura è, ad esempio, più vicina agli spazi domestici della televisione, della radio, dei DVD, delle videocassette e del computer di quanto non lo sia a quella, pubblica e comunitaria, dell’assistere ad uno spettacolo in un oscuro teatro di qualsivoglia rango e tipologia. Ancora, quando sediamo al buio, fermi e in silenzio, assistendo alle azioni di corpi che in tempo reale parlano o cantano sul palcoscenico, il livello e la qualità del nostro coinvolgimento sono diversi rispetto a quando sediamo di fronte ad uno schermo e lasciamo che sia la tecnologia a mediare per noi la “realtà”. Ancora diversa è infine la nostra reazione quando giochiamo ad uno sparatutto in prima persona diventando un personaggio attivo all’interno del mondo narrativo del videogioco e avendo esperienza dell’azione a un livello viscerale. 6
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Trad. it. di Roberto Sanesi [N.d.T.].
La sola valutazione del medium non è sufficiente per spiegare cosa accade quando un videogioco interattivo viene adattato in un’opera d’arte digitale esposta in un museo, dal momento che lo stesso medium diventa in questo caso un mezzo per mostrare una storia piuttosto che per interagirvi. Per esempio, in un lavoro del videoartista israelo-americano Eddo Stern intitolato Vietnam Romance (2003), lo spettatore scopre che i cattivi del videogioco sono già stati battuti dall’artista-tiratore e che non resta che assistere a – o, in altre parole, non resta che mostrare – una serie di scenari vuoti manipolati in modo da richiamare alcune classiche inquadrature tratte da film di guerra, da M*A*S*H a Apocalypse Now. Nel rovesciare, rompendo tutte le regole d’azione del gioco, il risultato prefissato, l’artista riesce ad assicurarsi del fatto che il pubblico non possa essere coinvolto, e non lo è in effetti, allo stesso modo di come lo sarebbe con il videogioco interattivo. Analogamente Fort Paladine. America’s Army, dello stesso Stern, presenta un modello in scala di un castello medievale all’interno del quale un videoschermo mostra – ancora – il risultato dell’abilità dell’artista al videogioco usato dall’esercito statunitense per il reclutamento delle truppe, intitolato per l’appunto America’s Army. Il ruolo e il piacere dell’osservatore sono ben diversi in questo caso rispetto al coinvolgimento cognitivo e cinetico di un giocatore interattivo. Inquadrare gli adattamenti Avere ben presenti le tre modalità di coinvolgimento – narrazione, mostrazione, interazione con le storie – può permetterci di compiere precisazioni e distinzioni che non sarebbero possibili focalizzandosi soltanto sul medium. Permette anche di stabilire paralleli e confronti tra media diversi che non apparirebbero a uno sguardo concentrato sulle specificità dei singoli media, e ci spinge quindi a considerare il processo dell’adattamento al di là della semplice definizione formale. Qualsiasi modalità si consideri, il coinvolgimento in una storia non ha mai luogo, ovviamente, nel vuoto. Esso avviene nel tempo e nello spazio, in un dato contesto sociale e, più in generale, culturale. I contesti di creazione e ricezione sono inoltre materiali, pubblici ed economici tanto quanto culturali, personali 53
ed estetici. Questo spiega perché, anche nel mondo globalizzato dei nostri giorni, cambiamenti di rilievo del contesto in cui una storia è proposta – per esempio, la collocazione geografica o storica – possono condizionare radicalmente il modo in cui la storia trasposta viene interpretata, sul piano letterale e su quello ideologico. Come reagiamo oggi quando, ad esempio, un regista uomo adatta il romanzo di una donna o quando un regista americano adatta un romanzo inglese, o entrambe le cose contemporaneamente – come nella versione cinematografica realizzata da Neil LaBute del romanzo di A.S. Byatt Possession (Possessione, 1991)? Muovendosi attraverso le culture e spesso di conseguenza attraverso diversi linguaggi, gli adattamenti generano alterazioni ampiamente rivelatrici delle caratteristiche del più ampio contesto di ricezione e produzione. Spesso con gli adattamenti le storie vengono, per usare un termine dell’antropologia, «indigenizzate» (cfr. Friedman 2004). In Germania, per esempio, si è verificato un fenomeno di appropriazione delle opere di Shakespeare attraverso le traduzioni dei romantici, le quali, sulla base di una dichiarata affinità germanica con il poeta inglese, ebbero un ruolo rilevante nella creazione di una letteratura nazionale tedesca. Per quanto possa sembrare strano, è questa la ragione per la quale esse, pur essendo le opere del più importante scrittore della tradizione teatrale di una nazione nemica, continuarono ad essere messe in scena in Germania durante l’intera epoca delle due guerre mondiali, in versioni ampiamente modificate che potremmo definire veri e propri adattamenti. Durante il regime nazionalsocialista, infatti, esse vennero interpretate in chiave politica, enfatizzando nelle tragedie la subordinazione dei valori personali a quelli pubblici, ed eroica, con in primo piano la dominante la figura del capo e i temi ad essa connessi (cfr. Habicht 1989: 110-115). Anche un eventuale cambiamento nell’ambientazione temporale può rivelare molte cose sul periodo in cui avviene la produzione e la ricezione di una data opera. Il romanzo di Robert Louis Stevenson The strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde (Il Dottor Jekyll e Mr. Hyde, 1886) è stato adattato molte volte per il palcoscenico, il cinema e gli schermi televisivi (per avere un’idea dell’elenco completo cfr. Geduld 1983). La modalità mostrativa comporta necessariamente processi di impersonificazione e messa in scena, 54
che spesso finiscono per esplicitare ambiguità dell’opera che sono centrali nella versione raccontata – in modo particolare, nel caso in esame la natura demoniaca di Hyde, indefinita nel romanzo. A causa del cambiamento della modalità di coinvolgimento – da quella narrativa a quella mostrativa – queste versioni hanno necessariamente dovuto mostrare e quindi rappresentare fisicamente tale natura diabolica, e le soluzioni che hanno adottato per esprimerla sono rivelatrici del momento storico e politico in cui sono state prodotte. Nel 1920, all’inizio del Proibizionismo, assistiamo nel muto di John Robertson ad una caduta sessualmente connotata indotta dall’alcol; nel film diretto da Roy Ward Baker Dr. Jekyll and Sister Hyde, prodotto dalla Hammer nel 1971, possiamo vedere invece la risposta ancora confusa della Gran Bretagna al movimento femminista degli anni Sessanta (cfr. McCracken-Flesher 1994: 183-194). Per ragioni economiche, spesso ci si affida in vista di un adattamento ad opere molto note, che hanno dimostrato nel tempo la loro popolarità; per ragioni legali, si scelgono opere non più coperte dai diritti d’autore. La tecnologia è un altro elemento che ha probabilmente sempre condizionato, per non dire guidato, gli adattamenti, per il fatto che il susseguirsi di più moderni mezzi di comunicazione ha costantemente aperto nuove possibilità in tutte e tre le modalità di interazione. Da ultimo, le recenti tecnologie elettroniche hanno reso possibile, in modi del tutto nuovi che vanno ben al di là delle tecniche di animazione e degli effetti speciali precedentemente disponibili, quella che potrebbe essere chiamata una fedeltà all’immaginazione – piuttosto che la più ovvia fedeltà alla realtà. Grazie alla tecnologia digitale in 3D è ora possibile entrare all’interno dei mondi finzionali e interagirvi. Uno dei convincimenti più radicati sugli adattamenti cinematografici è che il pubblico abbia maggiori attese di fedeltà nel caso di opere classiche, come quelle di Dickens o della Austen. Oggi, però, tutta una serie di romanzi cult e di nuovi classici molto popolari, come le opere di J.R.R. Tolkien, Philip Pullman e J.K. Rowling, vengono adattati per il cinema e per il teatro, per l’homevideo e per il computer, fino ai videogiochi in rete che permettono a più giocatori di giocare simultaneamente, e i loro lettori stanno dimostrando di essere altrettanto esigenti. Ora, sebbene le visualizzazioni immaginarie da parte dei lettori dei mondi della 55
letteratura siano sempre in larga misura individuali, le differenze tra un lettore e un altro sono ancora più grandi nel caso di storie fantasy, piuttosto che in quello di fiction realistiche. Che cosa accade allora quando un fan di uno di questi romanzi vede sullo schermo una particolare versione della storia, basata sull’immaginazione del regista invece che sulla propria (cfr. Boyum 1985)? Le risposte, naturalmente, possono trovarsi nelle recensioni e nelle reazioni del pubblico di fronte ai recenti adattamenti del Signore degli anelli e dei romanzi di Harry Potter. Ho il sospetto che dopo avere saputo (dal film) come sono fatti (o possono essere fatti) un orco nemico o un partita di Quidditch, non sarò più in grado di ricostruire di nuovo la prima versione che avevo autonomamente immaginato. I palinsesti finiscono per determinare cambiamenti permanenti. L’adattamento teatrale realizzato da Nicholas Wright della trilogia Queste oscure materie di Philip Pullman ha dovuto fare i conti con il fatto che i libri avevano venduto tre milioni di copie ed erano stati tradotti in trentasei lingue. È stato necessario trovare un modo per visualizzare e portare sul palcoscenico – senza i vantaggi tecnologici del cinema – alcuni importanti elementi della storia sui quali gli appassionati non avrebbero potuto transigere: i molti mondi paralleli dei romanzi, l’apertura delle finestre che permettono ai personaggi di muoversi da un mondo all’altro e soprattutto le creature meravigliose chiamate «demoni» – animali di sesso opposto rispetto al personaggio di cui incarnano l’anima più profonda. Elementi come questi rappresentavano problemi cruciali sul piano tecnico oltre che immaginativo, dato che Wright sapeva bene quanto i fan dei romanzi sarebbero stati un pubblico esigente per l’adattamento. Alla fine, i due spettacoli che furono messi in scena al National Theatre di Londra nel 2003 e, con alcune modifiche, nel 2004, furono corredati di un elaborato contesto “paratestuale”, finalizzato a preparare il pubblico e probabilmente a prevenire le eventuali critiche: il programma cartaceo della rappresentazione era molto più ampio del solito e comprendeva fotografie, interviste al romanziere e al curatore dell’adattamento, mappe, glossari dei luoghi, delle persone, degli oggetti e delle «altre creature», oltre un elenco di intertesti letterari. 56
Ciò lascia intendere, inoltre, come un ulteriore inquadramento degli adattamenti, trasversale ai modi di interazione, sia quello economico. Broadway adatta da Hollywood; la pubblicazione delle versioni romanzate dei film viene programmata in coincidenza con la loro uscita nelle sale. Nel novembre del 2001 abbiamo assistito alla famigerata uscita contemporanea a livello internazionale del film e dei videogiochi multiplatform tratti dal primo Harry Potter. Gli editori mandano sistematicamente in produzione nuove edizioni di un testo letterario di cui sia stato tratto l’adattamento cinematografico, calendarizzate in coincidenza con la distribuzione nei cinema e con in copertina invariabilmente un fotogramma del film o una foto degli attori principali. Aspetti economici di portata generale, come quelli legati al finanziamento e alla distribuzione dei diversi media e forme d’arte, devono necessariamente essere presi in considerazione in una teoria esaustiva degli adattamenti. Perché una serie televisiva o un musical teatrale possano affermarsi sul mercato globale, o viceversa in un ambito molto particolare, può essere necessario modificare le specificità culturali, regionali o storiche del testo che viene adattato. Un corrosivo romanzo satirico intessuto di affettazione e pressioni sociali può essere trasformato in una benevola commedia di costume focalizzata sul trionfo dell’individuo, come è accaduto nella maggior parte delle versioni americane, televisive o cinematografiche, di Vanity Fair (1848) di Thackeray. I videogiochi tratti da film di successo, e viceversa, sono chiaramente un modo per sfruttare economicamente un marchio affermato e ampliarne il mercato. Ma quanto è diverso tutto ciò dalla decisione di Shakespeare di scrivere una commedia a partire dal noto racconto dei due giovani amanti o, per restare sullo stesso tema, da quella di Charles Gounod di comporre su di essi quella che nelle sue intenzioni sarebbe dovuta essere un’opera lirica di successo? Giuseppe Verdi e Richard Wagner furono entrambi, in modi diversi, impegnati a fondo negli aspetti finanziari dei loro adattamenti operistici, eppure noi tendiamo a limitare alla cultura popolare il biasimo della nostra retorica critica, come se essa fosse maggiormente compromessa con il capitalismo di quanto non lo sia l’arte elevata. Fin dall’inizio della mia indagine nel vasto campo delle questioni teoriche concernenti gli adattamenti, sono stata colpita dall’im57
produttività di fondo sia del pregiudizio negativo che pende sugli adattamenti della cultura popolare in quanto opere derivative e secondarie, sia della retorica moralistica della fedeltà e dell’infedeltà adoperata nel confrontare gli adattamenti al loro testo “sorgente”. Mi sono chiesta, come già altri prima di me, se non fosse possibile adottare un’immagine meno compromessa per riferirsi agli adattamenti, considerati sia in quanto processo che in quanto prodotto. Tra le molte ironie del film, Robert Stam ha intravisto al riguardo in Adaptation un’intrigante alternativa; trattando specificatamente dell’adattamento cinematografico di un romanzo, egli ha individuato una possibile analogia tra i due media – letteratura e cinema – e i dicotomici gemelli (o identità scisse) sceneggiatori protagonisti del film. Lo stesso Stam ha inoltre sottolineato la rilevanza della metafora degli adattamenti come forme ibride, nei termini di «luoghi di incontro di species differenti» (Stam 2005c: 2), come l’orchidea. Con le parole dello studioso, le mutazioni – ossia gli adattamenti – possono aiutare il rispettivo «testo source a “sopravvivere”» (3). Essendo la mia attenzione rivolta alle modalità di interazione piuttosto che a due media in particolare o al trattamento delle fonti, valorizzerei in particolare l’analogia suggerita nel film per gli adattamenti, e piuttosto ovvia in verità, basata sulla teoria di Darwin, secondo la quale l’adattamento genetico è il processo biologico attraverso il quale qualcosa viene reso idoneo a un dato ambiente. Pensare agli adattamenti narrativi nei termini dell’adeguamento di una storia e del suo processo di mutazione e progressiva approssimazione, attraverso gli adattamenti, alle caratteristiche idonee a un particolare ambiente culturale, è qualcosa che trovo suggestivo. Anche le storie, tramite gli adattamenti, si evolvono e non permangono immutabili nel tempo. A volte, così come accade nei processi di adattamento biologico, gli adattamenti culturali implicano la migrazione verso condizioni più favorevoli: le storie viaggiano attraverso le culture e attraverso i media. In breve, le storie si adattano tanto quanto vengono adattate. Nel suo libro del 1976 sulla teoria darwiniana intitolato Il gene egoista, Richard Dawkins ha coraggiosamente suggerito la possibilità di un corrispettivo culturale della biologia di Darwin: «la 58
trasmissione culturale è analoga a quella genetica in quanto può dare origine a una forma di evoluzione, nonostante sia sostanzialmente conservativa» (Dawkins 1976: 162). Il linguaggio, la moda, la tecnologia «si evolvono tutte nel tempo storico in modo simile a un’evoluzione genetica con tempi estremamente accelerati [per quanto] in realtà questo tipo di evoluzione non abbia nulla a che vedere con quella genetica» (163). Dawkins ipotizza l’esistenza parallela dei così detti «memi» (165) – unità della trasmissione culturale o dell’imitazione – che, come i geni, sono dei «replicatori» (164). A differenza della trasmissione genetica, però, i memi cambiano nel corso della loro trasmissione, perché soggetti «a mutare in modo non discontinuo e anche a omogeneizzarsi» (167), anche per meglio adattarsi in modo da garantirsi la sopravvivenza nel «pool memico». Per quanto Dawkins scrivendo dei memi pensasse in realtà alle idee, anche le storie in un certo senso sono idee, e si può dire che funzionino nello stesso modo. Alcune di esse si rafforzano attraverso la sopravvivenza (persistenza in una data cultura) o la riproduzione (numero di adattamenti). Gli adattamenti, come l’evoluzione, sono un fenomeno transgenerazionale. Alcune storie hanno ovviamente, per dirla con Dawkins, maggiore «stabilità e capacità di penetrazione nell’ambiente culturale» (165). Le storie riescono ad essere raccontate e riraccontate in modi diversi, in nuovi contesti culturali e in diverse materie dell’espressione; come i geni, si adattano ai nuovi ambienti in virtù della loro capacità di mutazione – nei loro “discendenti” e cioè nei loro adattamenti. E le storie più forti e poste nelle migliori condizioni fanno ben più che sopravvivere, fioriscono.
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