Stephen D. King
LA FINE DELLA PROSPERITÀ OCCIDENTALE? I nuovi mercati alla conquista del mondo
ARMANDO EDITORE
Sommario
Ringraziamenti Prefazione
9 11
PARTE PRIMA: SCARSITÀ E STORIA
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Capitolo uno: Wimbledon, le Olimpiadi e la scarsità
23
Capitolo due: I segreti del successo occidentale
43
PARTE SECONDA: I BAROMETRI ROTTI DELL’ECONOMIA
61
Capitolo tre: Vantaggi e pericoli del commercio
63
Capitolo quattro: La roulette internazionale: anarchia nei mercati dei capitali
83
Capitolo cinque: La stabilità dei prezzi porta all’instabilità economica
107
PARTE TERZA: IL RITORNO DELL’ECONOMIA POLITICA
135
Capitolo sei: Ricchi e poveri
137
Capitolo sette: Chi controlla cosa? L’ascesa del capitalismo di Stato
161
Capitolo otto: Restare senza lavoratori
183
PARTE QUARTA: I GRANDI GIOCHI DI POTERE
205
Capitolo nove: Nessuna indulgenza verso gli Stati Uniti
207
Capitolo dieci: Affrontare il declino dell’Occidente
225
Conclusioni
244
Bibliografia
251
Indice dei nomi
256
Ringraziamenti
Ho trascorso molti giorni (e molte notti) attaccato alla tastiera del computer come fosse un cordone ombelicale per cercare di finire questo libro; difficilmente potrei pretendere di esservi riuscito senza l’aiuto di altri che, mentre procedevo nelle varie fasi del progetto, sono stati prodighi di incoraggiamenti, suggerimenti e molti consigli utili. Vorrei ringraziare quegli amici e colleghi che mi hanno fornito commenti e suggerimenti sul manoscritto sia nei suoi primi stadi che nella sua versione quasi definitiva. Di particolare aiuto sono stati Richard Cookson, Ian Morris, David Bloom (tutti, a quel tempo alla HSBC) e Peter Oppenheimer (di Goldman Sachs). Sono anche molto grato ai due anonimi revisori universitari per i loro suggerimenti destinati ad un novizio della scrittura. Quando ho tenuto alcune conferenze sull’economia globale nelle università di Oxford e Warwick, sia i docenti che gli studenti mi hanno incoraggiato a rielaborare alcune delle idee che ora sono contenute nel libro, specialmente quelle relative alla storia della globalizzazione. Il professor Tim Besley, della London School of Economics mi ha fornito utili suggerimenti relativi alla prima parte. Il capitolo sul capitalismo di Stato è debitore di una lunga conversazione con il professore Dieter Helm del New College di Oxford. Le parti dedicate alla politica monetaria sono debitrici delle discussioni con gli autori delle politiche monetarie, specialmente della Banca d’Inghilterra, dell’HM Treasury, della Federal Reserve e della Banca centrale europea. La mia visione dell’economia si è ampliata grazie anche alla mia regolare presenza ad eventi nei quali ho avuto la fortuna di dialogare con docenti economisti. Di particolare valore sono stati gli incontri tenutisi a intervalli regolari alla Bank for International Settlements di Basilea, alla Oesterreichische Kontrollbank AG (OeKB) a Vienna e alla Accumula9
tion Society a Londra. Ho anche beneficiato di un mio incarico temporaneo presso il Business Council for Britain. Tra coloro che mi hanno incoraggiato quando il libro era allo stato embrionale devo citare Diane Coyle, Hamish McRae e Martin Wolf. Tutti e tre sanno molto meglio di me come si scrive un libro e sono stati disponibili a guidarmi nella giusta direzione. Sono enormemente grato a tutto il personale della Yale University Press. Uno speciale ringraziamento va a Phoebe Clapham, mio editor, fortemente determinata a trasformare i miei appunti in un manoscritto finale coerente. Sono anche grato a Sarah Harrison e a Liz Pelton, che mi hanno fornito un grande aiuto per la diffusione. Heater Nathan è stata una validissima fonte di incoraggiamenti grazie al suo entusiasmo contagioso, determinante nel persuadermi a continuare a lavorare al progetto fin dal primo giorno. Molti della HSBC hanno dato il massimo per aiutarmi nel mio tentativo di finire il libro. Sono grato a Stuart Gulliver, David Burnett et Bronwyn Curtis, per avermi incoraggiato a lasciare il lavoro per il tempo necessario a scrivere gran parte del materiale. I miei colleghi del settore economico della HSBC mi sono stati di grande aiuto. Janet Henry, Stuart Green e Karen Ward mi hanno sostenuto mentre ero via. Altri sono venuti da lontano per dare aiuto in mia assenza, specialmente Qu Hongbin, Fred Neumann, Robert Prior-Wandesforde e Simon Williams. Mi riconosco debitore anche dell’aiuto di Pierre Goad, Jezz Farr e Fiona McClymont, che hanno lavorato a stretto contatto con la Yale per condurre in porto il progetto. Uno speciale ringraziamento a Nic Bastion, mio assistente personale e all’Università di Bath, che mi ha aiutato a raccogliere i dati e i materiali. Ultimo, ma primo per importanza, il ringraziamento a mia moglie Yvonne e alle mie tre figlie Helena, Olivia e Sophie. Senza il loro amore e il loro continuo aiuto, non sarei arrivato lontano. La loro pazienza verso il sopravveniente sconvolgimento in casa King – pile di fotocopie, torri di libri, collere occasionali – è stata senza limiti. A loro dedico questo libro.
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Prefazione
Quando ero teenager, negli anni Settanta, ho fatto un viaggio con una band musicale in Bulgaria, Paese fortemente modellato dal sistema sovietico. Per quanto fossi un ingenuo sassofonista quattordicenne, la negazione delle libertà economiche a Sofia, capitale della Bulgaria, appariva piuttosto evidente. I beni occidentali potevano essere acquistati soltanto nei “negozi per turisti” e usando valuta straniera. Chiaramente il tasso di cambio al mercato nero per un inglese era assai più favorevole rispetto al tasso ufficiale. I bulgari consideravano la macchina fotografica Praktica, della Germania Est, come la migliore del mondo, non sapendo nulla del crescente dominio internazionale delle marche giapponesi quali Canon, Nikon e Pentax. E un ragazzo si mostrò così entusiasta dei jeans Levis che avevo indosso, da farmi un’offerta che quasi non riuscii a rifiutare. Con il senno di poi, era ovvio che il crollo del comunismo sovietico avrebbe portato a un tipo di economia globale molto diverso. Nel 2007 mi trovavo a Shangai per una conferenza. Ero sufficientemente fortunato da pernottare al Grand Hyatt hotel, sulla 53ª strada, all’87° piano della Jin Mao Tower, che al tempo era l’edificio più alto della Cina e uno dei più alti al mondo. Ero già stato varie volte in quell’hotel e ogni volta – o meglio, ogni volta che non vi erano nuvole basse – ero rimasto colpito dal panorama visibile dalle ampie finestre della mia camera. La privacy era assicurata dall’altezza dell’edificio; non c’era bisogno di tende alle finestre. Quella volta, uscendo dal bagno con solo gli occhiali, rimasi piuttosto sorpreso nel vedere un gruppo di operai edili cinesi che mi fissavano dall’esterno, attraverso la finestra; stavano costruendo il nuovo grattacielo del World Financial Center di Shangai, innalzato con notevole rapidità e che presto avrebbe superato la Jin Mao Tower. Spero che nessuno di loro sia rimasto offeso nel vedermi. 11
A Pudong, l’area di Shangai dove si trovano questo e altri edifici altrettanto spettacolari, fino a poco tempo fa vi erano solo povere fattorie relegate nella parte meno prospera del fiume Huangpu. I contadini sono stati trasferiti altrove, talvolta con la forza, e i lavoratori e gli abitanti di Pudong ormai, nei loro nuovi uffici e appartamenti, possono guardare il passato di Shangai dall’alto. Oltre il fiume, la notte, brillano le luci del Bund, il quartiere che ricorda a Shangai il suo passato coloniale, con molti edifici inglesi, francesi, tedeschi, americani e russi. Le potenze straniere eressero consolati, banche e loschi nightclub. Coloro che vivono, lavorano e si divertono nel Bund possono ora attraversare il fiume con lo sguardo e vedere la Shangai del futuro. Oltre alla necessità di tirare le tende delle finestre anche nei grattacieli, la lezione da trarre dalle mie esperienze vissute a Sofia e Shangai è che l’economia mondiale è completamente cambiata, per lo più in meglio. Gli stanchi e artritici sistemi comunisti degli anni Settanta sono quasi del tutto scomparsi, o perché sono crollati oppure perché si sono saputi reinventare per adattarsi ad un mondo più aperto. Le opportunità che si sono create sono state veramente straordinarie. Stiamo vivendo, ora, in una nuova e radicale forma di globalizzazione in cui stanno cambiando le prospettive economiche, non soltanto nei Paesi emergenti ma anche nel mondo occidentale. Tuttavia non sono convinto che siano a noi completamente chiare tutte le implicazioni di tale cambiamento.
Non siamo più soli Nei miei venticinque anni da economista professionista, all’inizio come impiegato del governo a Whitehall, poi, per la maggior parte della mia carriera, come impiegato di una grande banca internazionale, ho trascorso molto tempo studiando a fondo il futuro. Non appena apparvero all’orizzonte le prime nazioni emergenti, cominciai a realizzare che avrei potuto parlare del futuro solo dopo aver compiuto approfondite ricerche relative al passato. Non ero interessato soltanto alla storia compresa nei modelli statistici dell’economia, una storia che normalmente si concentra su pochi anni trascurando, quindi, quasi tutti gli elementi interessanti dello sviluppo economico avvenuto nell’ultimo millennio. Invece la storia che interessava a me doveva prendere in considerazione l’onda 12
lunga dei progressi economici e politici, compresi i fin troppo frequenti rovesci. In anni recenti, mano a mano che le nazioni emergenti hanno preso posto ai tavoli internazionali dei poteri e superpoteri, la storia economica e politica è diventata sempre più importante. In quale altro modo d’altronde potremmo sperare di comprendere il nuovo sviluppo di Cina e India, la crescente influenza della Russia e la maggiore integrazione nell’economia mondiale delle nazioni dell’America Latina, del Medioriente, dell’Africa o dell’Europa dell’Est? Per gran parte del XX secolo i sistemi politici impedirono alle economie di integrarsi e lavorarono perché rimanessero separate. Il crollo dell’Impero britannico, la distruzione causata dalla Prima Guerra Mondiale, lo sviluppo del nazionalismo, del fascismo e del comunismo, gli orrori della Seconda Guerra Mondiale e lo stallo della Guerra fredda, tutti questi fattori hanno contribuito alla distruzione delle relazioni economiche. Quelle stesse relazioni che ora si sono rapidamente riannodate. Il cambiamento delle regole del commercio e delle opportunità di investimenti nel mondo fornisce una lampante evidenza di tale trasformazione. In molti, tuttavia, ancora lo negano e insistono ancora nel considerare le cose con vecchi schemi mentali nazionali; rimangono schiavi dei dati economici nazionali che, per lo più, riguardano soltanto i più recenti sviluppi economici interni e quindi schiavi di un mondo che, in realtà, si è sgretolato quando Deng Xiaoping ha aperto la Cina all’economia globale all’inizio degli anni Ottanta e quando è crollato il Muro di Berlino nel 1989. Negli anni Ottanta, non appena gli ingombranti elaboratori elettronici vennero sostituiti dai piccoli personal computer, gli economisti iniziarono a fare analisi statistiche dei modi nei quali le economie funzionano. Grazie alle enormi quantità di dati annuali, trimestrali, mensili, giornalieri e persino orari a loro disposizione e grazie ai significativi progressi della potenza computazionale, gli economisti divennero capaci di elaborare modelli economici realmente collegati al passato (e, se i modelli erano sufficientemente complessi, di “predire” la realtà). La matematica utilizzata nell’ideazione di quei modelli spesso era estremamente complessa, anche se alla fine tutti i modelli si basavano su pochi semplici assunti: 1) il passato recente può essere rappresentato con un buon grado di precisione; 2) il futuro sarà simile al passato recente; 3) le popolazioni comprendono i fini dei politici che, a loro volta, elaborano politiche economiche credibili e socialmente desiderabili, confermando in tal modo le aspettative delle popolazioni; 4) le relazioni economiche con altre nazio13
ni possono essere comprese attraverso alcune semplici equazioni relative al commercio, a un tasso di interesse complessivo e a un presunto livello del prezzo del petrolio e del tasso di cambio. Questi modelli, sostanzialmente nazionali per loro natura e limitati alla realtà economica di pochi anni, funzionano come orologi, ma lasciano il resto del mondo sullo sfondo. Il forte flusso di capitali era poco rilevante, in parte perché negli anni Ottanta vi era ancora una significativa inclinazione a mantenere risparmi e investimenti all’interno. I modelli davano l’impressione che la politica interna fosse, per lo più, sotto il controllo delle scelte economiche nazionali. Tutti coloro che lavoravano con quei modelli condividevano serenamente quel punto di vista. A metà degli anni Ottanta, mentre lavoravo alla HM Treasury, per analizzare l’economia inglese venivano impiegati varie decine di economisti, mentre ve ne erano solo quattro per studiare lo sviluppo del resto del mondo. Anche se oggi il numero di coloro che analizza il resto del mondo è cresciuto, il linguaggio rimane lo stesso: i politici, in particolare, affermano continuamente che le loro nazioni sono soggette ai colpi della globalizzazione, come se il resto del mondo fosse su un altro pianeta invece che al di là del mare od oltre il confine. Almeno i politici da qualche tempo riconoscono che “quando l’America starnutisce, il resto del mondo si prende un raffreddore”, il che però non rappresenta un grande progresso nella comprensione di come funzioni realmente l’economia a livello globale. Gli Stati nazionali appaiono sovrani in economia solo in apparenza. Con il passare degli anni mi sono sentito sempre più frustrato da questo tipo di approccio, specialmente a causa dell’enorme espansione dei mercati globali di capitali che collegano l’economia tra di loro in modi che, negli anni Ottanta, sembravano inimmaginabili. Risparmiatori di ogni parte del mondo possono ora facilmente investire dove vogliono. In teoria ciò dovrebbe far sì che il capitale sia globalmente allocato nella maniera più efficiente, destinandosi dove le economie ottengono risultati migliori. Nella pratica, tuttavia, questi flussi di capitale che viaggiano da una parte all’altra del mondo diventano talvolta fonte di inefficienza, dato che la maggior parte dei grandi giocatori sono Stati nazionali che si concentrano non tanto su obiettivi commerciali, quanto mirano invece a soddisfare gli interessi di alcuni soggetti interni: il governo statunitense è il più grande imprenditore mondiale mentre cinesi, sauditi e russi sono tra i più grandi risparmiatori. 14
Può darsi che i dati atti a misurare, calibrare e analizzare le crescenti interazioni tra nazioni sviluppate ed emergenti semplicemente non esistano, ma ciò non significa poter dire che possiamo ignorarle. Sfortunatamente, come la crisi del credito del 2007-2008 ha dimostrato, troppo spesso invece non vengono prese in considerazione, mentre quando accade è solo in una direzione: gran parte degli economisti impiega energie e tempo tentando di comprendere le conseguenze dello sviluppo degli Stati Uniti sul resto del mondo, mentre pochi sono coloro che si chiedono come il resto del mondo e, specialmente le nazioni emergenti, incidano sugli Stati Uniti. Ormai, come spiego in questo libro, è questa seconda domanda che bisogna porsi in maniera sempre più convinta, se vogliamo minimamente comprendere come si trasformeranno l’economia mondiale e le singole economie nel XXI secolo.
La globalizzazione come apertura del mondo Solo l’apertura è importante. Mai prima d’ora l’economia mondiale era stata così “aperta” come oggi e io considero questo dato estremamente positivo. Il numero delle persone uscite dalla povertà dagli anni Ottanta in poi è aumentato come mai era avvenuto nel passato, neanche durante gli impetuosi giorni della Rivoluzione industriale. Il loro migliorato stile di vita mostra bene quanto vi sia di positivo nella globalizzazione. Pretendere tuttavia che la globalizzazione ci stia automaticamente conducendo verso una landa dorata per l’economia attraverso il miracolo delle forze del libero mercato, come spesso vengono chiamate, sarebbe convinzione piuttosto insensata. Spesso vengono fatti paragoni con l’ultima parte del XIX secolo e l’inizio del XX, quando la globalizzazione raggiunse un picco massimo (coincidente con l’inizio della Prima Guerra Mondiale, cui seguì un crollo). Ormai viviamo in un mondo molto differente e piuttosto paradossale: nel mondo di oggi c’è sempre più globalizzazione, sotto forma di crescenti commerci internazionali e flussi di capitali. Il quartier generale di una società statunitense può fare profitti tramite una sussidiaria in una Cina che, a sua volta, importa materie prime dal Brasile. Le sue vendite tuttavia possono avvenire principalmente nel Medioriente, mentre suoi profitti possono essere distribuiti a un gran numero di azionisti europei. Abbiamo però anche molta meno globalizzazione. Non appena gli 15
Imperi del XIX e XX secolo hanno lasciato il campo all’autodeterminazione, al nazionalismo e al settarismo religioso, è aumentato il numero degli Stati e, di conseguenza, il numero dei sistemi legali e degli accordi bilaterali; si è ridotto di molto il volume delle migrazioni tra Paesi confinanti, almeno rispetto alle accresciute dimensioni delle popolazioni autoctone. Nel XIX secolo attraversò confini, mari e oceani un enorme numero di persone spinte soprattutto dal peso della schiavitù e dalla ricerca di una vita migliore, e gli Stati Uniti non sarebbero diventati la nazione che sono oggi se non avessero accolto le prime ondate di immigrazione su vasta scala. I controlli ai confini che ora diamo per scontati sono stati un’invenzione del XX secolo destinata a limitare le possibilità dei lavoratori più intraprendenti di muoversi alla ricerca di opportunità economiche migliori in altre parti del mondo. Anche se la torta dell’economia globale è grande, come risulta da quest’ultima ondata di globalizzazione, vi sono sia vincitori che vinti. L’aumentata forza gravitazionale dei mondi emergenti può ridurre le disparità reddituali tra nazioni, ma può anche accrescere le disparità reddituali all’interno delle nazioni. Negli ultimi quarant’anni, per esempio, la forbice tra i redditi bassi e alti negli Stati Uniti è cresciuta drammaticamente. Lo sviluppo delle nazioni emergenti allora crea tutto un nuovo insieme di sfide che, fin troppo spesso, vengono nascoste sotto il tappeto dai sostenitori della globalizzazione o, al contrario, distorte per assecondare gli interessi di xenofobi, nazionalisti o delle lobby contrarie ai grandi gruppi d’affari. Indubbiamente la globalizzazione ha portato ad avere salari più alti a livello globale ma, allo stesso tempo, ha costretto alcune nazioni ad avere a che fare con alcune delle sue conseguenze: maggiore instabilità economica, maggiore squilibrio tra i redditi, mercati finanziari tempestosi. Naturalmente è un pensiero confortante che il resto del mondo stia abbracciando lo spirito dell’innovazione industriale consolidatosi alla fine del XVIII e all’inizio del XIX secolo in un’Europa reduce dall’Illuminismo e negli Stati Uniti appena divenuti indipendenti. Le tecnologie ora si diffondono rapidamente da una parte all’altra del mondo come conseguenza di minori costi di trasporto e, più recentemente, di minori costi informatici e il commercio tra l’Occidente e i Paesi emergenti è sbocciato. Ci sono più democrazie oggi di quante ce ne siano mai state; come dimostrerò, i progressi economici nel mondo sviluppato non sono 16
dipesi soltanto dal progresso tecnologico o dall’adozione della democrazia. Sono dipesi anche dall’accesso alle “risorse abilitanti” – terre, materie prime, migrazioni (e, nel passato, schiavitù) – e dalla capacità di manovrare i mercati. Il sopraggiungere delle nazioni emergenti sulla scena del mondo economico può minare queste fonti della prosperità occidentale, sia attraverso la loro richiesta interna di risorse che sono, in ultima istanza, limitate, sia attraverso il livello crescente di competizione attraverso i confini in un mercato sempre più vasto. L’Occidente è rimasto al riparo per molti anni dal punto di vista economico, ma ora la situazione si sta facendo decisamente difficile. Esistono ancora ulteriori risorse abilitanti? Può il mondo facilmente mantenere la crescita economica rapida e continuata senza entrare in un nuovo ordine economico? È sufficiente la replica di tecnologie esistenti in un numero sempre maggiore di nazioni perché il progresso economico continui al ritmo che le persone si aspettano? Possono i mercati del lavoro occidentali sostenere agevolmente l’assalto proveniente dal rapido sviluppo dei mercati del lavoro dei mondi emergenti? Tutto considerato l’Occidente deve rivedere il suo posizionamento nel mondo economico e nell’ordine politico. Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta l’Occidente era il mondo economico; a minacciare il vecchio ordine economico vi erano soltanto Giappone e Corea del Sud. Le altre nazioni, come peso economico, erano quasi zero. Intorno al 2050-2060 credo che l’Occidente, economicamente, sarà l’ombra di ciò che era, sia in termini di diminuzione di importanza nell’economia globale, sia in termini di diminuzione di peso specifico in un mondo dalla popolazione sempre crescente. Come e perché questo processo avverrà, e le sue probabili conseguenze – positive e negative – sono le questioni principali di questo libro.
Il quadro generale Nelle pagine seguenti tratteggio alcuni dei molti modi nei quali il mondo sviluppato corre il pericolo di perdere il controllo sul suo destino economico. La prima parte, “Scarsità e storia” tenta di inserire la nostra idea della globalizzazione oggi nel contesto dei principi fondamentali dell’economia e della storia dell’economia. Sottolinea l’importanza dell’emergere della Cina come superpotenza economica crescente alla 17
fine degli anni Settanta, uno sviluppo di importanza fondamentale. Non appena la rilevanza della Cina inizia ad aumentare, l’Occidente non riesce più a dare per scontati i suoi progressi economici. Troppo spesso, penso, i politici perdono di vista una delle nozioni fondamentali dell’economia, ovvero l’idea che le risorse sono in definitiva limitate. Lo fanno perché per molti anni l’Occidente non ha dovuto competere con nessuno per ottenere le limitate risorse mondiali. Ora deve. La seconda parte, “I barometri rotti dell’economia”, tratta della nostra comprensione di che cosa faccia funzionare l’economia. Le nostre teorie standard del vantaggio comparativo – che sono state l’argomento principale in favore del libero commercio per anni – sono ancora adatte a spiegare i comportamenti commerciali che stanno emergendo oggi? La crescente instabilità dei mercati finanziari è forse una risposta alla crescente importanza delle nazioni emergenti? Perché i mercati finanziari sono ritornati ad essere così bassi dopo i successi degli anni Novanta, nonostante la rapida crescita delle nazioni emergenti? Stiamo vivendo forse una nuova versione della californiana corsa all’oro, quando i sogni di miglioramento di gran parte degli investitori venivano continuamente ridotti in frantumi? La seconda parte finisce con una critica alla politica monetaria occidentale. Ci si chiede se la ricerca di un’inflazione programmata non sia diventata causa di instabilità in un mondo in cui i prezzi dei beni, dei servizi e dei capitali sono sempre più determinati dallo sviluppo delle nazioni emergenti. La terza parte, “Il ritorno dell’economia politica”, esamina alcune delle grandi questioni con cui si sono confrontate le nazioni occidentali negli anni passati. Perché i redditi sono distribuiti in modo così iniquo, specialmente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna? Perché i benefici della globalizzazione hanno arricchito largamente coloro che erano già ricchi (e quindi già fortunati)? Se la globalizzazione rappresenta il trionfo delle forze del mercato, perché stiamo vedendo un crescente sviluppo del capitalismo di Stato, argomento che salta fuori varie volte in questo libro? Stiamo vivendo realmente in una economia di mercato globale, se così tante attività economiche sono influenzate dai governi, sia direttamente, tramite grandi investimenti pubblici sia indirettamente, attraverso l’influenza di governo sui prezzi dell’energia o sui prestiti? Se i passati successi in economia permisero le migrazioni di massa sia all’interno delle nazioni che attraverso i confini, che cosa dovremo fare dei sempre maggiori controlli ai confini e della crescita di politi18
che contro l’immigrazione? Come tratteranno i Paesi occidentali il buco economico creato dalla popolazione che invecchia? Saranno costretti a ripensare alla loro attuale resistenza all’immigrazione su vasta scala? La quarta parte, “I grandi giochi di potere”, coordina le varie parti della mia tesi. Come la Spagna nel XVI secolo, gli Stati Uniti corrono il rischio di incipiente bancarotta. Certo, gli Stati Uniti sono la potenza militare più grande del mondo, ma anche la Spagna di 500 anni fa lo era. Per parlare chiaramente, gli Stati Uniti sono diventati troppo dipendenti dalla volontà di altre nazioni di conservarne i dollari, proprio come la Spagna dipendeva da coloro che compravano il suo argento. Più gli Stati Uniti si indebitano col resto del mondo, più potere economico il resto del mondo ha su di loro. È abbastanza possibile che nel giro di poco tempo la moneta cinese sostituisca il dollaro come moneta di riserva mondiale. Più in generale prendo in esame le opzioni aperte dalle politiche economiche mondiali. Riformare il sistema monetario internazionale è di enorme importanza. Secondo me le caratteristiche dell’euro – una moneta che può e deve attrarre nuovi membri – offre un ottimo spunto per la futura riforma monetaria. Se gli utilizzatori di una singola moneta possono gradualmente aumentare, ciò dà la possibilità di costruire un mondo nel quale la proliferazione di Stati-nazione non ha bisogno di indirizzarsi verso una stabilità monetaria maggiore. Potrebbe forse succedere qualcosa di simile per il dollaro o per le valute asiatiche, qualcosa che conduca alla creazione di una banca centrale regionale piuttosto che nazionale? Ho scritto la parte finale con un peso sul cuore. Le pressioni derivanti dalla globalizzazione sull’Occidente possono in ultimo essere troppo difficili da sostenere. Già avverto uno scivolamento da accordi economici multilaterali a bilaterali, nonostante le pretese del G20. Gli affari bilaterali non sono soltanto quelli definiti tra le nascenti relazioni tra Stati Uniti e Cina, ma anche quelli che riguardano il resto del mondo; si pensi per esempio alla crescita degli accordi bilaterali della Cina con determinati Paesi africani. Più preoccupante ancora è il fatto che aumentino le spinte protezioniste; dovessero prevalere, l’Occidente potrebbe facilmente voltare la schiena alla globalizzazione, con una reazione istintiva alla sua influenza declinante negli affari economici mondiali, ma sarebbe un disastro anche perché la globalizzazione è servita a far uscire dalla povertà tante persone. Sfortunatamente la Storia ci mostra quanto la nostra capacità di evitare esiti tragici spesso è stata decisamente limitata. 19
I dati storici, politici e geografici sono importanti. Troppo spesso gli economisti finiscono in un mondo matematico di equazioni esoteriche che non riescono a fornire risposte alle grandi questioni reali che riguardano la società. Alla British Academy, nell’estate del 2009, i migliori economisti inglesi si incontrano per discutere di una lettera da inviare a Sua maestà la Regina, lettera nella quale si spiegava perché gli economisti non erano riusciti a prevedere la crisi finanziaria. La lettera consegnata a Buckingham Palace finiva così: in definitiva, Vostra Maestà, il fallimento della previsione riguardante la tempistica, le dimensioni e la forza della crisi e il come fronteggiarla, anche se ha molte cause, è dovuta principalmente a una incapacità dell’immaginazione collettiva di molte persone brillanti, sia nella nostra nazione che nel resto del mondo, di comprendere i rischi del sistema nel suo complesso.
Una conclusione più semplice avrebbe potuto dire che molte persone brillanti non erano riuscite a imparare niente dalle lezioni della storia, della politica e della geografia. La prima parte si basa su queste lezioni per spiegare perché l’Occidente abbia mantenuto fino ad ora il suo posto al sole nell’economia e perché, negli anni futuri, il posto al sole spetterà ad altre parti del mondo.
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Capitolo uno
Wimbledon, le Olimpiadi e la scarsità
Secondo Margaret Goodson, mia illuminata insegnante a scuola, l’economia consisteva sostanzialmente nell’allocazione di risorse scarse. I costi di un particolare uso delle risorse erano i costi delle opportunità perse; erano i “costi opportunità”. Avere più di una possibilità significava doverne tralasciare qualcuna. L’economia consisteva sostanzialmente, quindi, nelle scelte che dovevano essere fatte in un mondo di scarsità. La scarsità e la scelta dominano le nostre vite nei modi più diversi. Io scelsi di andare all’università a studiare Economia rinunciando così ad ogni possibilità di diventare un musicista professionista. Scegliendo una via, rinuncio ad un’altra perché sono scarsi tanto il tempo che il denaro. I governi occidentali hanno scelto di coltivare biocarburanti per consertirci l’accesso a fonti di energia più economiche. Così facendo, però, potrebbe mancare la possibilità di far crescere sufficienti raccolti per nutrire affamati e indigenti. Nei casi peggiori la scarsità di risorse causa conflitti armati. In Africa o altrove, i redditi procapite bassi e la mancanza di speranze nel futuro conducono fin troppo spesso alla guerra e la guerra, a sua volta, fa diminuire il reddito procapite. Le persone scelgono (o sono costrette) a combattere tra loro, invece di nutrirsi. In Occidente, dove abbiamo sperimentato una lunga e costante crescita della qualità della vita, abbiamo spesso dimenticato che in economia il vincolo ultimo è la scarsità delle risorse; le tecnologie possono risolvere il problema della carestia solo temporaneamente. I popoli e i governi trascurano i vincoli di bilancio, sperando invece di poter continuare ad avere accesso al credito e i governi si fanno vanto del tasso di crescita economica. Noi riteniamo di poterci aspettare – e perfino che sia dovuta 23
– una vita di qualità sempre migliore, basandoci sulla nostra fede nel progresso tecnologico e nel libero mercato e le nazioni che non si adeguano sono destinate al fallimento. Con lo sviluppo delle nazioni emergenti, questo tipo di pensiero consolatorio deve cambiare. La qualità della vita occidentale, in futuro, non progredirà come è avvenuto nel passato, perché le economie occidentali sono state messe all’angolo da nazioni molto più dinamiche sparse per il mondo. I nostri leader, che ancora continuano a promettere una maggiore crescita economica, appaiono del tutto inconsapevoli dei limiti che il successo economico delle nazioni emergenti impone all’Occidente. Vi sono molti esempi della hybris legata al progresso economico occidentale: nel gennaio del 2007, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, il Presidente George W. Bush si gloriava dei risultati conseguiti in questo modo: Un futuro di speranza e di opportunità inizia con una crescita economica; e noi l’abbiamo. Siamo ora al 41° mese di crescita ininterrotta dei posti di lavoro, una crescita che ha creato 7,2 milioni di posti di lavoro. La disoccupazione è bassa, l’inflazione è bassa, i salari sono in crescita. È un’economia in movimento. E il nostro lavoro consiste nel mantenerla così non con più governo ma con più impresa1.
Due anni dopo la disoccupazione era arrivata alle stelle, il deficit di bilancio esploso e gli Stati Uniti si sono ritrovati nella loro peggiore recessione dagli anni Trenta. Gordon Brown non era meno colpevole. Come Cancelliere inglese dello Scacchiere e responsabile delle politiche finanziarie, nel 2006, nella sua relazione al bilancio preventivo presentata alla Camera dei Comuni ha affermato: Posso riferire del più lungo periodo di crescita sostenuta non solo della nostra storia, ma di tutte le più grandi economie – America, Francia, Germania, Giappone; la Gran Bretagna ha goduto del più lungo periodo di crescita continuativa dal dopoguerra […]. Mai come in questo decennio, i patrimoni personali degli inglesi sono cresciuti così rapidamente – più del 60%. E questo rapporto sul bilancio preventivo ci indica diret1 Fonte:
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“Washington Post”, 23 january 2007.
tamente quale sia la missione delle grandi economie del nostro tempo: affrontare la sfida globale, far sviluppare il potenziale di tutto il popolo britannico, cosicché l’economia inglese possa superare le performance dei nostri concorrenti e procurare sicurezza, prosperità e tranquillità per tutti2.
Stupidaggini espresse con una buona dose di retorica, forse; ma una volta ritrovatasi a sostenere un crollo borsistico e l’implosione delle banche, la Gran Bretagna avrebbe presto raggiunto gli USA in quella che sarebbe diventata una recessione lunga e profonda riguardante l’intero mondo occidentale. Perché i leader politici avevano una fiducia così grande? Perché i responsabili della politica economica erano convinti di aver trovato il Santo Graal del successo economico? In parte, credo, perché avevano dimenticato il vincolo fondamentale dato dalla scarsità di risorse. Di sicuro, invece, perché hanno scelto di trascurare i dati che mostravano come diminuisse la disponibilità delle risorse mondiali via via che le nazioni emergenti si facevano più dinamiche sulla scena mondiale. Hanno sostanzialmente dimenticato gli insegnamenti fondamentali di economia di Mrs. Goodson.
Quando il gioco si fa duro La nascita – o più precisamente la rinascita economica – di nazioni quali la Cina e l’India sta profondamente cambiando il funzionamento dell’economia mondiale e, di conseguenza, il peso economico dell’Occidente. Per mostrare la crescente influenza dei Paesi emergenti, permettetemi di fare due esempi banali. Il primo riguarda la competizione per ottenere risorse scarse. Il secondo riguarda le opportunità.
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Letto il 6 dicembre 2006, il discorso è disponibile su http://www.hm-treasury. gov.uk/prebud_pbr06_speech.htm. Riferendosi alle economie maggiori, Mr. Brown ha opportunamente dimenticato di menzionare Cina, India, Brasile e altre nazioni emergenti.
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Wimbledon Il torneo di tennis di Wimbledon è un esempio di offerta di risorse scarse ai giocatori. Nel torneo singolare femminile per esempio c’è un solo premio; quindi ci può essere solo una vincitrice. Prima della Prima Guerra Mondiale, quando Wimbledon era per lo più un torneo giocato da inglesi (dopotutto Wimbledon è organizzato nella sede dell’esclusivo All England Lawn Tennis and Croquet Club) e la vincitrice del torneo femminile era quasi sempre inglese. Difatti l’unica ad inserirsi nella serie fu l’americana May Sutton, che vinse la coppa nel 1905 e nel 1907. Nel periodo tra le due guerre il dominio inglese diminuì drasticamente. Francesi e americane, quali Suzanne Lenglen ed Helen Wills Moody, dominarono. Sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale si è mantenuta la supremazia americana, ma vinsero la coppa anche campionesse provenienti dalla Germania, dal Brasile, dalla Repubblica Ceca, dalla Svizzera, dalla Spagna e dall’Australia (due venivano dall’Inghilterra, sebbene una di loro, Virginia Wade, avesse trascorso gli anni della sua formazione in Sudafrica). Si può dire che nel corso degli anni le giocatrici di tennis inglesi siano peggiorate? Vi era forse qualcosa nel tè che le ha rese incapaci di ottenere buoni risultati? Niente affatto. In realtà le giocatrici inglesi sono state vittime della globalizzazione. La globalizzazione – intesa in generale come apertura politica ed economica – ha permesso a giocatori di un crescente numero di nazioni di partecipare al torneo di Wimbledon. I quarti di finale del torneo singolare femminile del 2008, per esempio, includevano due americane, due russe, una ceca, una polacca e, per la prima volta nella storia, due asiatiche, una thailandese e una cinese. Per una donna inglese, partecipare oggi al torneo è notevolmente più difficile di quanto lo fosse cento anni fa. Si paragoni la situazione attuale, per esempio, con quella delle prime partite femminili giocate nel 1884; quando Maud Watson vinse il torneo aveva solo tredici avversarie. Le Olimpiadi A parte le interruzioni causate dalle guerre mondiali, i giochi olimpici si sono svolti ogni quattro anni fin dal 1896, data che ha inaugurato ad Atene i moderni giochi olimpici. Prima della Seconda Guerra Mondiale le Olimpiadi erano praticamente un affare interno europeo e americano, 26
talvolta caratterizzate più per la loro disorganizzazione e per i bizzarri vincitori che per i risultati sportivi. I giochi di St. Louis, tenutisi nel 1904 ne furono un esempio lampante. Secondo il Comitato olimpico internazionale, «Le gare olimpiche di St Louis durarono per più di quattro mesi e mezzo e si svolsero nel caos più totale contemporaneamente ad un’importante fiera campionaria. Dei 94 eventi che normalmente sono considerati parte del programma olimpico, solo 42 includevano atleti non provenienti dagli Stati Uniti»; la stella di quell’anno era un ginnasta americano, George Eyser, che vinse sei medaglie sebbene avesse la gamba sinistra di legno3. Prima della Prima Guerra Mondiale poche nazioni partecipavano, in parte perché c’erano ancora gli Imperi e di conseguenza un minor numero di nazioni di quante ce ne siano oggi; le Olimpiadi di Atene del 1986 includevano atleti rappresentativi di sole 14 nazioni. Anche negli anni tra le due guerre il numero di nazioni rappresentate non fu molto alto, raggiungendo il numero di 49 alle Olimpiadi di Berlino del 1936, in cui l’afroamericano Owens ha indispettito Hitler con le sue 4 medaglie d’oro4. Dopo la Seconda Guerra Mondiale le Olimpiadi mutano rapidamente. Il numero dei Paesi partecipanti cresce esponenzialmente; a Pechino, nel 2008, hanno partecipato atleti di 204 nazioni. Ai fini di questo libro, tuttavia, l’aspetto maggiormente interessante è lo spostamento geografico delle sedi olimpiche; da molto tempo ormai Europa e Stati Uniti hanno perso il monopolio delle dislocazioni dei giochi. Il primo esperimento fu quello di Melbourne, nel 1956, con i primi giochi tenuti nell’emisfero meridionale; ma era quasi come giocare in casa. Da allora lo spostamento delle sedi si è fatto sempre più avventuroso. Delle sedici edizioni dei giochi tenutesi dopo la Seconda Guerra Mondiale, sei si sono svolte in Europa, due negli Stati Uniti e una in Canada, cinque in Asia-Oceania, una a Mosca e una in Messico. Le probabilità che città europee e statunitensi divenissero sede ospitante si sono via via ridotte. È vero che sarà Londra ad ospitare i giochi del 2012, ma è anche vero che, nonostante gli sforzi del Presidente Obama e della moglie Michelle, nel 2016 i giochi saranno a Rio de Janeiro e non a Chicago; il Brasile sarà così il primo Paese sudamericano ad accogliere i 3 4
Fonte: International Olympic Commitee su: http://www.olympic.org. Owens vinse 4 medaglie d’oro.
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giochi olimpici5. Nel frattempo, nonostante il decadimento degli antichi avversari della Guerra fredda, il medagliere degli Stati Uniti si è ridotto. Le medaglie d’oro guadagnate erano 44 nel 1996, ad Atlanta e sono scese a 36 nelle tre edizioni successive. Per contro la Cina è passata dalle 16 medaglie d’oro del 1996 alle 51 del 20086. Entrambi gli esempi che ho fatto dimostrano che per molto tempo gli occidentali hanno goduto di migliori opportunità sportive e ottenuto i migliori risultati. Non appena però il mondo si è globalizzato, diventando sempre più interconnesso nei suoi processi, sempre più nazioni e sempre più popoli si sono impegnati nei risultati sportivi. Uomini e donne sportivi occidentali e i comitati olimpici che li sostengono sono arretrati, almeno dal punto di vista del numero di medaglie e di trofei vinti. Wimbledon e le Olimpiadi sono soltanto metafore dello sviluppo economico su scala mondiale. Non appena le nazioni emergenti hanno iniziato ad accrescere i loro successi, aumentando la richiesta di risorse mondiali il mondo occidentale ha scoperto che le sue richieste hanno minori possibilità di essere soddisfatte. Nella seconda metà del XX secolo le nazioni occidentali hanno dominato completamente l’economia globale perché avevano gli strumenti, le tecnologie, le forme di governo più efficaci e le forze lavoratrici meglio formate. Come vedremo nel secondo capitolo, l’Occidente ha dato forma alla storia. In quel tempo la maggior parte delle popolazioni non occidentali non poteva offrire proposte economiche credibili e mostrava limiti tecnologici e politici (spesso autoimposti), oltre all’assenza di veri meccanismi di mercato. Tutto ciò sta iniziando a cambiare. Le tecnologie esistenti vengono replicate sempre più rapidamente in ogni parte del mondo e cresce il numero di persone che desidera godere dello stile di vita “occidentale”. Conseguenza è che la richiesta di risorse che sono in definitiva scarse – tra le più prevedibili cibo e carburante – sta aumentando rapidamente. Allo stesso tempo un ambiente competitivo è in piena trasformazione. I vari mercati del lavoro, finora localmente frammentati, stanno sempre 5
Un caso in cui si dovrebbe dire “No, we can’t” più che “Yes, we can”. Fonte: International Olympic Commitee: il carniere USA fu di 83 medaglie a Los Angeles 1984, ma l’Unione Sovietica non partecipava, in risposta al boicottaggio americano di Mosca 1980, effettuato per protestare contro l’invasione in Afghanisthan. Per contestualizzare il carniere cinese, alle olimpiadi di Seul 1988 la Cina ottenne cinque medaglie d’oro. 6
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più spesso riunendosi, riducendo così il potere di contrattazione di molti lavoratori occidentali. La possibilità di ottenere aumenti di stipendio o pensioni decenti si sta riducendo a vista d’occhio e viene messa all’angolo dagli stipendi più che competitivi dei recentemente affrancati lavoratori di altre parti del mondo. La nostra speranza di poter mantenere livelli di vita sempre crescenti si fonda sull’idea che l’Occidente continuerà a mietere successi significativi in campo economico grazie al progresso tecnologico. Come vedremo, tuttavia, questa è una idea fallace. Il Giappone è uno dei Paesi più avanzati al mondo dal punto di vista tecnologico, ma ha un’economia stagnante da più di vent’anni. Le tecnologie certamente aiutano ad accrescere i livelli di benessere, ma non sono sufficienti; inoltre le tecnologie cambiano la natura della competizione sui mercati, avvantaggiando alcuni, mettendone in difficoltà altri. Le tecnologie permettono a più persone di accedere a risorse scarse e l’innalzamento dei redditi nel mondo emergente sta facendo crescere anche i prezzi di beni, servizi, lavoro e capitali del mondo occidentale, costringendo le persone ad adattarsi alla nuova, e spesso difficile, realtà economica. Lo sviluppo delle nazioni emergenti è, quindi, di fondamentale importanza e il loro successo indebolisce la possibilità di comprendere ciò che può funzionare. Lo studio dell’economia purtroppo è diventato sempre più uno studio settoriale, mal equipaggiato per affrontare la comprensione delle straordinarie sfide che il mondo economico di oggi ci pone. In particolare, troppo spesso gli economisti hanno dimenticato quanto l’economia sia radicata nella politica. I grandi economisti del passato – Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mill e Karl Marx per citarne solo alcuni – avevano ben compreso che la scarsità si collegava alla scelta che, a sua volta, era legata alla politica. L’economia che guarda a questi grandi pensatori e che non trascura l’uomo e la donna della strada non considera soltanto quale sia la migliore allocazione di risorse ma pensa anche alla distribuzione di quelle risorse: chi finisce bene, chi finisce male, chi vince e chi perde. Stiamo assistendo al ritorno di ciò che un tempo si chiamava economia politica. Troppo spesso l’economia politica è stata trascurata per la sua indeterminatezza e per la sua natura normativa incompatibile con la straordinaria complessità dei modelli matematici che sono il pane quotidiano della tipica cassetta degli attrezzi dell’economista. Ora che i Paesi emergenti stanno consolidando le loro richieste di risorse scarse a livello 29
mondiale, l’influenza occidentale sull’economia mondiale è al tramonto. E come saranno distribuite le limitate risorse mondiali? Il problema sarà lasciato al mercato oppure sempre più interverranno gli Stati nazionali? E il potere economico occidentale sta iniziando a declinare? Le relazioni tra mondo occidentale e il mondo emergente riporteranno la politica all’interno dell’economia (il che comporterà una rinuncia agli strumenti matematici).
Fiducia nel mercato Non bastano le forze del mercato da sole per affrontare i problemi dell’economia politica. Ciononostante per lungo tempo i politici sono stati ben felici di lasciare i problemi di scarsità al mercato e specialmente agli automatismi dei prezzi. È facile comprendere perché. Sin dalla fine della Prima Guerra Mondiale il dibattito politico-economico tra i poteri si è concentrato su chi tra Stato e mercato fosse il principale fornitore di benessere. All’inizio del XX secolo il dibattito si è polarizzato sempre di più sulle conseguenze della Rivoluzione russa del 1917, sul rafforzamento del movimento sindacale in Gran Bretagna negli anni Venti e sulla Grande Depressione statunitense degli anni Trenta. In seguito il dibattito si è spostato sulla ricerca di un sistema economico che potesse incrementare la qualità della vita della maggior parte della popolazione. Con la fine delle politiche maoiste nella Cina degli anni Settanta e con il collasso del sistema comunista sovietico alla fine degli anni Ottanta, sembrò che il mercato emergesse trionfante (questo almeno divenne il racconto mitizzato: nonostante ciò le politiche pubbliche del mondo occidentale hanno consumato una quantità di risorse in proporzione molto maggiore di quanto fecero alla fine del XIX secolo). La crescita economica in America del Nord, in Europa, in Giappone, in Australia e in Nuova Zelanda (cioè nella maggior parte del mondo occidentale) era più rapida, più sostenibile e di migliore qualità rispetto a quella della Cina del Presidente Mao e dei regimi sovietici della Russia e dell’Europa dell’Est (che troppo spesso si basavano sul lavoro coatto). I Paesi dell’Europa dell’Est divennero “Stati clienti” dell’Unione sovietica ed erano costretti a produrre beni senza potersi curare delle peculiarità specifiche delle economie dei singoli Paesi. Era questa una 30
politica economica fatta di editti e non un riflesso della società e delle sue scelte7. A livello microeconomico, spesso i mercati funzionano molto bene. Poiché non possiamo precipitarci nel supermercato più vicino per calcolare attentamente il costo opportunità di ognuna delle merci, spesso questo viene desunto. I nostri investimenti sono il riflesso della limitazione delle risorse e il modo in cui distribuiamo queste risorse dipende dal prezzo. Il meccanismo dei prezzi a sua volta è un modo notevolmente efficiente che ci permette di fare scelte ponderate relative alla scarsità di risorse. Se qualcosa è troppo caro, il suo costo opportunità può essere alto e se qualcosa è economico il suo costo opportunità può essere relativamente basso. Adam Smith (1723-1790), uno dei più grandi economisti al mondo, immortalato sulla banconota inglese da 20 sterline, definiva il meccanismo dei prezzi la “mano invisibile”8. Le idee di Smith hanno convinto molti che hanno considerato il libero mercato come il fattore principale della prosperità occidentale. Ma i mercati non funzionano più molto bene; si dimostrano incapaci di calcolare le conseguenze ambientali delle nostre scelte; non riescono a gestire bene le transazioni laddove i diritti della proprietà non sono ben definiti (perché investire, per esempio, dove i profitti vengono presi da un governo esoso o da un racket mafioso?). Se le informazioni sono insufficienti i mercati non sempre forniscono le soluzioni migliori9. Troppo spesso le persone tentano di frodare i mercati per interesse personale. Per esempio è possibile che i monopoli non agiscano nel pubblico interesse, ma piuttosto favoriscano chi li gestisce. Non sempre i mercati trattano in modo soddisfacente le scelte nel tempo: si pensa, per esempio, che i mercati dei capitali debbano esprimersi sulle preferenze dei consumatori attuali contrapposte a quelle dei consumatori del futuro. Crisi dei subprime, fallimenti di banche ed espansioni e frenate dei mercati mostrano tuttavia che i mercati dei capitali non sono completamente affidabili. Col tempo
7 Per un’opinione informata si veda di Tony Judt, Post War: A History of Europe since 1945, Heinemann, London, 2005. 8 An Inquiry into the Nature and causes of The Wealth of Nations. Prima edizione del 1776. 9 Si veda per esempio The market for lemons: quality uncertainty and the market mechanism, l’innovativo intervento di George A. Akerlof, «Quaterly Journal of Economics», 84.3 (1970), pp. 488-500.
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sopraggiungono sia il rischio (che può essere in una certa misura calcolato) che l’incertezza (che non può essere calcolata). Un buon governo è una precondizione perché i mercati funzionino, visto che senza governo non c’è sistema legale e quindi non sono garantiti neanche i diritti della proprietà. Può essere necessario che i governi debbano correggere una distribuzione degli esiti di miliardi di transizioni che avvengono ogni giorno nei mercati azionari, percepita come ingiusta e, in caso di fallimento dei mercati, sentirsi obbligati ad agire con le risorse a disposizione dello Stato (strade, polizia e difesa, per esempio), attraverso la regolazione e con la tassazione. Se il mercato non risolve, deve farlo lo Stato10. Noi quindi viviamo in un mondo di economie miste, dove al pluralismo dei mercati si contrappone un insieme di beni e servizi non contabilizzabili dello Stato e, a parte, un insieme di leggi per regolare i mercati e i suoi attori. Ma che sia lo Stato o il mercato, la difficoltà rimane la stessa: quali scelte bisogna fare in un mondo in cui le risorse sono limitate? E come occorre esprimere quelle scelte, in un mondo in cui i mercati sono sempre più interconnessi mentre le nazioni tendono a mantenere integra la loro sovranità?
Ritorno agli economisti classici Se le risorse sono scarse non c’è ragione di pensare che un’alta qualità della vita sia un risultato sempre raggiungibile, per quanto un’economia aderisca alla logica di mercato. Come hanno fatto allora alcune società a ottenere risultati tanto notevoli? Se le risorse sono limitate, come hanno fatto gli standard di vita a crescere in maniera così decisa? Come è stato possibile schivare la maledizione di Thomas Malthus (1766-1834), autore del An Essay of the Principle of the Population (1798)? Veramente il progresso occidentale è soltanto il risultato delle forze di mercato? Le argomentazioni di Malthus erano, per quanto posso dirne, fondate 10 Per un’interessante discussione moderna sul ruolo del “buon governo”, cfr. Timothy Besley, Principled Agents? The Political Economy of Good Governement, The Lindahl Lectures, Oxford, 2006. Lo studio del governo in generale è notoriamente studiato nel Leviathan di Thomas Hobbes, in cui lo “stato di natura” dà luogo a guerre continue che rendono la vita dell’uomo “confinata nella solitudine, nella povertà, nella sporcizia, nella brutalità e infine alquanto breve”. Perfino il migliore dei governi, tuttavia, ha difficoltà a gestire politiche internazionali.
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sulla sua convinzione che i lavoratori fossero dominati dagli appetiti sessuali. Malthus sostiene che «in tutte le società, persino in quelle più depravate, la tendenza ad un legame affettivo è così forte che esiste sempre uno sforzo costante diretto all’aumento della popolazione. Questo sforzo costante […] assoggetta le classi più umili della società alla sofferenza e impedisce ogni miglioramento definitivo delle loro condizioni»11. In altre parole le classi umili tendono a produrre una tale quantità di progenie da spingerla a farle rimanere, nel suo insieme, in condizioni di povertà. Anche nel caso di un miglioramento di una tecnologia che permette al popolo di migliorare la qualità della propria vita, questo miglioramento si rivela soltanto temporaneo. Le persone che godono di stipendi più alti saranno tentate di fare più figli: come risultato la popolazione cresce ed esercita una pressione aggiuntiva sulle risorse, facendo aumentare i prezzi, abbassando le retribuzioni e spingendo di nuovo la popolazione verso una condizione di sussistenza. Non sorprende la quantità di contestazioni sollevate da questa teoria provocatoria e lo stesso Malthus ammise più tardi che forse era stato troppo rigido (anche se, a dire il vero, le sue argomentazioni erano una accurata e ragionevole descrizione dei progressi economici compiuti in gran parte della storia umana). Nelle successive edizioni del suo saggio sostenne che il popolo si può astenere dal sesso, sposarsi tardi o rifiutare di fare sesso fuori dal matrimonio (considerato l’imminente sopraggiungere del puritano periodo vittoriano queste osservazioni erano accurate quanto possibile: Vittoria divenne regina tre anni dopo la morte di Malthus. Stranamente egli si riferiva soltanto alle classi umili. Forse pensava che le persone appartenenti agli strati alti non si trovassero attraenti oppure che fossero, nella maggior parte dei casi, omosessuali)12. Nel mondo sviluppato i vincoli malthusiani sono stati superati dalla ingenuità umana, da una organizzazione economica più efficiente, dai progressi tecnologici e dalla contraccezione. Nel tempo abbiamo imparato come ottenere sempre più risultati da risorse date e abbiamo anche imparato a controllare le conseguenze inattese della nostra lascivia; questo almeno racconta il mito popolare. 11 Thomas Malthus (a cura di G. Gilbert), An Essay on the Principle of Population, Oxford University Press, Oxford, 1993, p. 18. 12 Per un tentativo di riabilitare Thomas Malthus si legga Gregory Clark, A Farewell to Alms: A Brief Economic History of the World, Princeton University Press, Princeton, 2007.
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Molto prima del provocatorio saggio di Malthus, Adam Smith aveva già posto l’accento sulla divisione del lavoro con il suo famoso esempio della fabbrica di spilli e delle possibilità di specializzazione dei vari lavoratori. Grazie alla specializzazione si possono produrre molti più spilli. L’unione della specializzazione con il progresso tecnologico e sociale può causare un forte miglioramento degli standard di vita; è ciò che chiamiamo aumento della produttività. Si pensi ad esempio ai primi treni, aerei e computer che erano già notevoli anche se erano solo l’inizio e non la fine di una sfida. Il Rocket di Stephenson non può essere paragonato allo Shinkansen giapponese (o treno “pallottola”). Il volo inaugurale dei fratelli Wright non è paragonabile all’Airbus A380. Le caratteristiche dei primi computer mainframe sono minime rispetto alla dotazione del più economico dei computer portatili di oggi. In ognuno di questi casi l’innovazione ha portato a enormi miglioramenti della produttività. Il capitalismo ricompensa coloro che corrono il rischio dell’innovazione con i profitti (creando, naturalmente, perdite per altri). Questo continuo processo di innovazione è la forza più grande del capitalismo. Karl Marx (1818-1883) lo comprese molto bene. Anche se chiedeva ai lavoratori di tutto il mondo di unirsi – “non avete nulla da perdere se non le vostre catene”13 – Marx aveva ben compreso che il capitalismo era una fase critica nello sviluppo dell’economia umana: la rivoluzione avrebbe avuto successo soltanto se i capitalisti avessero creato la ricchezza che doveva essere redistribuita nel proletariato. Il capitalismo prospera meglio quando le idee possono fiorire e le opportunità di profitto possono essere sviluppate. Eliminare questi incentivi chiave atrofizza l’economia. Il successo del mondo sviluppato dipende in parte allora dalla libertà di espressione e dal ruolo della legge (in particolare per ciò che riguarda il consolidamento legale dei diritti di proprietà, punto ben compreso da Adam Smith: ad esempio gli incentivi a sviluppare nuovi prodotti si riducono molto se non esiste un sistema di brevetti)14. 13
Dal Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels. Per un aggiornamento su Marx e la globalizzazione si veda Meghnad Desai, Marx’s Revenge: The Resurgence of Capitalism and the Death of Statist Socialism, Verso, London, 2002. 14 Smith è giustamente noto per il suo Wealth of Nations, ma il suo precedente Theory of Moral Sentiments (1759) dà i fondamenti morali e legislativi di tutto ciò che è seguito.
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Nel frattempo la contraccezione ha diminuito la crescita della popolazione nel mondo sviluppato e di conseguenza ha permesso alle retribuzioni di aumentare e di essere suddivise tra i pochi fortunati. Il boom della tigre celtica irlandese degli anni Ottanta e Novanta è in parte dovuto alle donne che poterono andare a lavorare invece che restare a casa a seguire la prole: anche la contraccezione può avere un ruolo importante nella creazione di opportunità economiche. Come potrebbe dire Sir Isaac Newton, economicamente godiamo del vantaggio di stare sulle spalle di secoli di creativi, inventivi e innovativi giganti. Ogni gigante ha dato il suo contributo al miglioramento della produttività. La produttività – misurata o come produttività oraria o produttività procapite – è l’elisir della crescita economica, l’incantesimo che sembra far superare i problemi di limitazione delle risorse. La produttività è allora la pietra filosofale che trasforma le risorse di base nell’oro dell’economia. Ci sono stati molti ostacoli lungo la strada, inclusi ovviamente guerre, la Grande Depressione degli anni Trenta e la stagflazione degli anni Settanta15. Bisogna dire che non tutti i Paesi e continenti hanno potuto beneficiare dei magici vantaggi della produttività. Mentre il mondo sviluppato è progressivamente diventato sempre più ricco nel tempo e i Paesi emergenti stanno iniziando ora a diventarlo, altre nazioni e continenti soffrono. Alcune regioni – specialmente l’Africa subsahariana, parte dell’Asia centrale e dell’America centrale – sembrano essere rimaste incastrate in trappole della povertà apparentemente irresolubili. In molti di questi Paesi i limiti malthusiani valgono sino a un certo punto. I genitori scelgono di avere molti figli non perché, come pensava Malthus, sono dipendenti dal sesso, ma invece perché avere più figli dà maggiori possibilità di avere una sicurezza economica in tarda età (specialmente se i diritti della proprietà sono poco consolidati e quindi anche i risparmi finanziari sono facilmente soggetti a perdita). Certo, se ognuno pensa così la popolazione si moltiplica troppo rapidamente e le persone rischiano troppo spesso di morire di fame. Per eliminare i vincoli malthusiani, ogni politico che si rispetti desidera migliorare la produttività. Una migliore produttività porta a salari 15
Fasi di espansione e recessione sono state frequenti nell’economia della seconda metà dell’Ottocento.
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maggiori. Ma come ho già detto i vantaggi della produttività non hanno portato benefici universali. Eppure, con la crescita delle nazioni emergenti sta cambiando il calcolo economico in modi che sembrano minare le speranze occidentali di conservare standard di vita crescenti anche presupponendo progressi tecnologici continuati diffusi in tutto il mondo.
Opportunità per tutti Le fortune cangianti esemplificate da Wimbledon e dalle Olimpiadi derivano da due aspetti fondamentali della globalizzazione. Le barriere politiche sono cadute. Dopo il collasso del comunismo sovietico Paesi prima estranei e i loro popoli che fino ad allora erano stati repressi si sono riavvicinati e sono entrati in comunicazione con il mondo occidentale. In questi giorni, se nelle strade di Londra e di New York si sente parlare russo, si pensa o ad un ricco oligarca oppure ad un nuovo spirito pioniere proveniente da Est, non più, come sarebbe accaduto in passato, a qualcuno del KGB16. Le tecnologie hanno permesso ad un numero sempre maggiore di persone di unirsi all’ordine economico internazionale. Dove i governi lo permettono, i migranti si dirigono principalmente nei Paesi che offrono migliori prospettive economiche, mentre i capitali si dirigono principalmente verso le nazioni dove il costo del lavoro è minore. Le persone sono più informate e meglio collegate di prima. Ad esempio, se nel 1995 un minuto di telefonata di un telefono cellulare tra India e in Gran Bretagna costava 100 unità, ora ne costa nove17. Per farla semplice vi è un numero di persone crescente che ha accesso a opportunità economiche che creano incentivi. Indiani, cinesi, russi e molti altri possono andare all’università con la piena consapevolezza che dopo la laurea avranno opportunità migliori di prima. Sempre più spesso le multinazionali assumono personale in ogni parte del mondo e non più soltanto laureati di Harvard, Yale, Oxford o Cambridge. E anche se le multinazionali si concentrano principalmente sulle migliori università 16 Sebbene, considerati gli episodi di avvelenamento al polonio avvenuti a Londra, la presenza di spie russe non possa essere esclusa. Si veda per esempio Edward Lucas, The New Cold War: How the Kremlin Menaces both Russia and the West, Bloomsbury, London, 2008. 17 Fonte: Vodafone.
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occidentali, hanno potuto constatare come le migliori università a loro volta scelgano i loro candidati sempre più tra i giovani più brillanti provenienti da tutto il mondo18. Nello stesso tempo gli imprenditori provengono da ogni parte del mondo. Non c’è ragione per la quale, per esempio, si possa sviluppare un software soltanto nella Silicon Valley. Ad oggi l’India ha una sua propria industria tecnologica. Gli effetti economici di questa apertura sono straordinari. A partire dagli anni Ottanta, per esempio, i salari cinesi sono cresciuti ad una velocità maggiore di quelli europei per la prima volta negli ultimi sei secoli grazie alla volontà di Deng Xiaoping di favorire il confronto della Cina con il resto del mondo. Conseguentemente la quota cinese di prodotto interno lordo mondiale è aumentata (da meno del 5% nel 1950 al 15% all’inizio del XXI secolo)19. Il Presidente Mao negli anni Cinquanta ha vantato il famoso grande balzo in avanti cinese, ma ha dimostrato di essere in anticipo di 40 o 50 anni. Storie simili si possono trovare in tutti quei Paesi che costituiscono il mondo emergente. Il tasso di crescita dell’India negli ultimi decenni ha avuto una grande accelerazione, aiutato dalla cosiddetta rivoluzione verde degli anni Sessanta e Settanta durante la quale sono aumentati fortemente i campi coltivati. Il crollo dell’Unione sovietica ha spinto i leader indiani a riallineare i loro interessi con quelli occidentali. Gradualmente sono state ridotte le barriere doganali, permettendo al commercio di progredire. Nello stesso tempo, per i primi membri dell’Impero sovietico l’apertura è diventata, in alcuni casi, una versione ridotta dell’esperienza cinese. Il 1917 ha segnato l’inizio dell’errore economico e politico fondativo del secolo breve in Russia e nei suoi Paesi satelliti. Considerate complessivamente, le nazioni economicamente emergenti oggi pesano almeno quanto gli Stati Uniti e crescono circa tre volte più rapidamente. È chiaro che nonostante i loro progressi, molte nazioni emergenti sono ancora decisamente povere. Per esempio il reddito procapite dei contadini cinesi nel 2008 era di 691 dollari. I lavoratori urbanizzati se la passano meglio, avendo un reddito procapite di 2205 dollari. Ma tra i lavoratori urbanizzati ve ne sono ormai milioni che guadagnano tra i 5000 e 10.000 18 Il sito dell’università di Oxford dichiara: «La comunità universitaria di Oxford è realmente internazionale. Attualmente gli studenti provengono da 138 nazioni sparse per il mondo e studiano tutte le discipline. Costituiscono circa un terzo del nostro corpo studentesco». 19 In base alla teoria della parità dei poteri di acquisto.
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dollari l’anno. A questi livelli i cittadini iniziano a voler accedere in maniera sempre più convinta ai consumi in un mondo dalle risorse limitate. Essi desiderano macchine, vacanze, riscaldamento, aria condizionata e tutti i gadget della vita moderna20. Vogliono seguire la dieta occidentale e carne, pollame e formaggi sono preferiti alla semplice ciotola di riso che viene ormai disdegnata. Nutrire le persone usando gli animali tuttavia è decisamente inefficiente: nutrire gli animali che poi saranno utilizzati per nutrire gli umani richiede molte più colture di quante ne servirebbero per nutrire direttamente le persone con le coltivazioni. La Cina ha aumentato le ordinazioni di risorse mondiali e questo processo può essere letto in vari modi. Dall’inizio del XXI secolo la Cina da sola ha dato il maggiore contributo all’aumento della domanda di energia a livello globale. Ad oggi la Cina è il maggiore consumatore marginale di alluminio e rame. Il moltiplicarsi di Starbucks a Bejing e Shangai mostra che esiste una classe media cinese che vuole seguire la dieta occidentale (chiaramente Starbucks vende caffè, ma considerato che i suoi prodotti più richiesti sono latte, cappuccino e frappuccino, in realtà più che altro vende latte). Contemporaneamente la Cina è per la Ferrari il mercato che cresce più rapidamente nel mondo. La Cina non è il primo Paese asiatico ad aver risalito un gradino della scala del progresso economico. Dagli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta l’economia giapponese è cresciuta ad una velocità superiore a quella degli Stati Uniti o dei più grandi Paesi europei. La Corea del Sud poco dopo seguì le orme del Giappone. Sessant’anni fa, dopo la guerra di Corea, la Corea del Sud era estremamente povera e la maggior parte della popolazione viveva ai limiti della sussistenza. Ora Seul è sede delle più note multinazionali di livello mondiale, come Samsung ed LG. Ora, già le esperienze giapponesi e coreane erano notevolmente interessanti, ma in termini globali Cina e India sono in un’altra scala. Il Giappone ha una popolazione di 120 milioni di abitanti, la Corea del Sud di 80 milioni. Sono numeri piccolissimi in confronto a quelli di Cina e India. Nell’ultimo censimento la Cina risultava avere una popolazione di un miliardo e 300 milioni di abitanti, mentre l’India aveva un miliardo e 100 milioni di abitanti. Presto il numero di abitanti dell’India supererà 20
Nel 1980 soltanto il 15% della popolazione urbana cinese possedeva un televisore a colori e un frigorifero. Nel 2004 il 70% delle famiglie possedeva una casa, un telefono cellulare e un lettore dvd. Fonte: Qu Hongbin, The Great Migration, HBSC Research, october 2005.
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quello della Cina, considerato l’alto tasso di natalità indiano, il crollo della mortalità infantile e le restrizioni imposte in Cina alla natalità dalla politica del figlio unico. Per quanto queste cifre possano essere relativizzate, la somma degli abitanti di Cina e India, in termini globali, è enorme. Considerate insieme raccolgono circa un terzo della popolazione mondiale attualmente stimata in 6 miliardi e 600 milioni. Anche se solo una frazione degli abitanti cinesi e indiani ha la possibilità di accedere realmente alle risorse mondiali, il peso del potere economico probabilmente cambierà presto e in maniera rilevante. Nessun miracolo produttivo può essere così efficace da neutralizzare una tale pressione demografica. La Cina è la prima economia di grandi dimensioni che ha ancora un reddito procapite notevolmente basso rispetto agli standard mondiali. Nel passato vi è stata una forte correlazione tra prodotto interno lordo complessivo e reddito procapite. Ad esempio l’economia degli Stati Uniti è la più grande del mondo e tra le grandi nazioni industriali ha anche il livello più alto di reddito procapite. Al contrario, la maggior parte dei Paesi poveri ha bassi sia il totale del prodotto interno lordo che i redditi procapite. La Cina è un caso unico. Anche dopo trent’anni di rapida crescita economica è ancora povera, rispetto al mondo industrializzato; però ha già acquisito un enorme peso a livello globale nel mercato delle risorse. Si immagini allora che la Cina mantenga la sua crescita al tasso attuale. In trent’anni la Cina si troverà ad avere le stesse dimensioni, in termini economici, degli Stati uniti. I suoi redditi procapite saranno ancora molto bassi, ma i suoi cittadini complessivamente diverranno una enorme fonte di consumo. Un semplice calcolo suggerisce che alla metà del XXI secolo la Cina potrà consumare l’equivalente del consumo globale petrolifero di oggi. Naturalmente ciò non accadrà. Aumenterà il prezzo del petrolio, aumenterà l’efficienza energetica e, con un po’ di fortuna, domineremo anche nuove fonti di energia pulita. Ciononostante il successo cinese rappresenterà un fardello per il mondo intero. In un’intera gamma di risorse, la competizione si sta scaldando (come il clima, d’altronde). La Cina sta stringendo alleanze in Africa e in Asia centrale, mentre gli Stati Uniti trattano con i vecchi nemici del Medioriente; tutto ciò significa che la mappa economica e politica deve essere ridisegnata in modo da rispecchiare anche le richieste di accesso alle risorse scarse effettuate dalla Cina e dagli altri Paesi emergenti. Sono scoppiate guerre per molto meno. 39
Riproduzione di tecnologie e scarsità di risorse Né il libero commercio né i vantaggi comparati e neanche l’apertura dei mercati riusciranno a cambiare la nuova realtà economica: la globalizzazione crea un nuovo tipo di crescita economica che io chiamo crescita tramite riproduzione di tecnologie e non progresso tecnologico. Ora vi spiego perché. Negli anni Cinquanta l’industria aeronautica era ai suoi inizi: il primo jet di linea usato a fini commerciali fu l’inglese Comet. Poco dopo la Boeing sviluppò il 707, che negli anni successivi divenne l’aereo di linea più diffuso sulle rotte commerciali. Erano aeroplani inefficienti. Gli aerei col motore a pistoni consumavano meno, ma i metalli del Comet soffrivano di affaticamento e avevano l’allarmante consuetudine di cadere. Tuttavia i jet erano chiaramente la via maestra del trasporto aereo; col tempo riuscirono a ridurre i consumi e a poter volare a lungo raggio. Per i passeggeri diminuì il rumore e aumentarono i comfort. L’arrivo dell’Airbus A380, il più grande aereo passeggeri mai costruito al mondo, ci permette di valutare i progressi fatti. Secondo le fonti industriali l’Airbus gigante è da tre a quattro volte più efficiente rispetto al Comet 4. Le risorse utilizzate per ogni miglio/passeggero sono ridotte del 30% rispetto quelle del Comet. Questo rilevante aumento della produttività è certamente una buona notizia sia per i passeggeri che per l’ambiente. Il calcolo, tuttavia, riflette soltanto il miglioramento tecnologico. In un mondo di risorse limitate, l’elemento importante non è tanto l’efficienza tecnologica ma in quante occasioni quella tecnologia viene replicata. Prima di Deng Xiaoping e della caduta del Muro di Berlino, la riproduzione di tecnologie era limitata. Troppe nazioni erano rimaste fuori dall’uso delle tecnologie e, anche quando ne avevano accesso, le hanno usate più per scopi militari che civili. Ma questo non è più vero oggi. Sempre più nazioni stanno usando la replicabilità delle tecnologie per migliorare le vite dei loro cittadini. Può darsi che l’Airbus A380 sia molto più efficiente nell’uso del carburante rispetto al Comet, ma con una crescita di sette volte del numero dei passeggeri negli ultimi 40 anni la migliore efficienza va di pari passo con una maggiore utilizzazione di risorse, che è cresciuta ben più rapidamente dell’efficienza tecnologica con cui queste vengono utilizzate. Per dirlo in altro modo, anche se il costo unitario per passeggero è diminuito, il numero dei passeggeri è 40
cresciuto drammaticamente. Una simile trasformazione della domanda naturalmente cambia anche la domanda di risorse, soprattutto metalli e plastica utilizzati nella costruzione dei componenti dell’aereo e il carburante necessario ai voli. La riproducibilità tecnica dipende direttamente dalla globalizzazione, visto che sempre più persone possono aspirare agli stili di vita occidentali e molti hanno le capacità di realizzare le loro aspirazioni; considerato che essi lottano per raggiungere i loro obiettivi, la competizione per accedere a materie prime rare e a tecnologie non potrà che aumentare. In questa situazione possiamo veramente pensare che la globalizzazione abbia la possibilità di accontentare tutti? La mia tesi è semplice: le economie emergenti rappresentano una minaccia crescente per le intime speranze del mondo occidentale di migliorare sempre più la qualità della vita, come è accaduto nella seconda metà del XX secolo. Tramite l’eliminazione delle barriere politiche e tecnologiche e grazie alla riproducibilità favorita dall’innovazione tecnologica, un numero sempre più grande di nazioni tenterà di accedere alle limitate risorse globali; di conseguenza le rivendicazioni economiche di una platea sempre più vasta di nazioni finora rimaste povere acquistano sempre più forza. Comprendere in qual modo l’Occidente venga indebolito dal crescere di queste rivendicazioni costituisce l’argomento centrale di questo libro. Le nostre convinzioni più sacre riguardanti l’economia mondiale presto cadranno in pezzi, l’economia mondiale è sottoposta a una grande trasformazione e i poteri occidentali stanno, in modi diversi, perdendo il controllo. Certo è che vi sono molti modi di essere vulnerabili, per i poteri occidentali. Questo libro, tuttavia, non tratta di potenza militare né di alleanze politiche, anche se brevemente tratterò di entrambe. Riguarda piuttosto i meccanismi economici che permetteranno ai mercati emergenti di esigere una parte più consistente delle risorse mondiali, al mondo sviluppato di consumarne di meno. Prima di guardare al futuro, tuttavia, voglio dare uno sguardo al passato. Il capitolo 2 analizza le ragioni del progresso economico occidentale degli ultimi secoli. Le forze del mercato, i vantaggi tecnologici e i picchi produttivi sono stati tutti fattori rilevanti, ma non bastano a spiegare tutto; il successo economico dell’Occidente dipende anche da conquiste, furti di terre, schiavitù, capitalismo di Stato e, più in generale, dalla volontà di piegare il mercato a vantaggio di una minoranza di privilegiati. 41
La capacità dell’Occidente di manovrare il mercato a vantaggio del benessere dei suoi cittadini viene ora messa seriamente in discussione a causa del successo dei Paesi emergenti.
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