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SPEAKERS’ CORNER
from DA ITALIA 03
di lucio pinetti
Una recente telefonata ad un amico (imprenditore figlio di imprenditore), svoltasi nei consueti toni del come stai?, la famiglia, l’azienda, ecc. mi ha spinto a riflettere su un argomento sicuramente attuale, critico e potenzialmente dannoso per il nostro settore: la transizione. Mi riferisco in particolare all’insieme di problematiche connesse all’avvicendamento in azienda tra generazioni, ai rapporti tra famiglia e impresa e più specificamente alla relazione genitori-figli. Credo valga la pena dedicare qualche riga a questo argomento per almeno due ragioni: la prima è di carattere meramente cronologico; molte aziende della distribuzione automatica infatti si trovano oggi nella fase di ricambio generazionale (si pensi alle numerose imprese nate alla fine degli anni settanta e all’inizio degli anni ottanta) o hanno appena vissuto tale fenomeno. Il secondo motivo, forse il più importante, riguarda la salute dell’intero settore; l’esistenza stessa dell’azienda familiare e dei suoi valori è a mio avviso un patrimonio etico da salvaguardare, per contrastare la tendenza sempre più marcata a sviluppare aziende dimentiche degli ideali familiari e talvolta prive dei necessari valori umani. Queste scarne riflessioni non ambiscono naturalmente a sostituirsi all’approccio scientifico che ispira corsi, convegni e studi condotti, con grande professionalità, anche da esperti del nostro settore; vogliono invece contribuire, con un pizzico (si spera) di buon senso, ai ragionamenti che spesso sono svolti tra le mura delle nostre aziende. Ma veniamo al nocciolo della questione. La tematica della transizione in azienda riguarda spesso preconcetti, atteggiamenti o aspettative errati sia da parte dei genitori che dei figli. Il più classico dei genitori/imprenditori (e mi riferisco a quelli che spesso con grande sacrificio hanno costruito l’impresa) vive una naturale reticenza verso il passaggio del testimone. Lo dimostrano le fin troppo comuni finzioni degli organigrammi aziendali (intendiamoci, non solo nel nostro settore). Spesso i figli, appena diplomati o laureati, vengono (a mio avviso erroneamente) introdotti in azienda in ruoli di alto livello (direttore commerciale, amministrativo, direttore generale, vice presidente, ecc.), però privi di reali contenuti (vale a dire che in fondo la decisione ultima, anche appartenente alle attribuzioni tipiche del ruolo svolto, viene sempre presa dal genitore, che è magari privo di ogni carica aziendale). Ciò è evidentemente frustrante per il novello imprenditore e inutile per l’azienda, che non può cogliere i contributi (che possono essere molto preziosi) delle nuove generazioni, le quali, dobbiamo ricordare, sono normalmente prive delle stratificazioni mentali dei genitori circa partner commerciali, prodotti, attrezzature, strategie che talvolta possono frenare (o addirittura inibire) una sana crescita aziendale. Il problema invece più tipico dei figli è che per dimostrare le loro capacità, anche quando non necessario, cercano di fornire una propria impronta all’impresa, forse per vincere un ancestrale complesso edipico e voler dimostrare a se stessi e agli altri di poter essere in grado di fare quanto e meglio dei genitori. Bisogna considerare che il figlio di imprenditore parte da una condizione di grande svantaggio: l’assenza dei sacrifici già sopra richiamati e la modesta conoscenza della storia giornaliera aziendale. Spesso è proprio questo limite che determina la voglia di cambiamento: un impulso, tuttavia, che sarebbe molto opportuno vincere o moderare. Molti altri aspetti delle vicissitudini aziendali che vedono protagonisti genitori e figli mi sembra possano ricondursi a quanto appena detto. Una soluzione definitiva e univoca sono certo che non esiste, ma una maggior fiducia e volontà di delega da parte dei genitori e una maggiore umiltà ed impegno dei figli sono forse i principali ingredienti per miscelare armoniosamente professionalità e carattere delle diverse generazioni. La posta in gioco (come sempre per le imprese) è molto alta: dalla serenità familiare compromessa, all’esistenza stessa dell’impresa. Non è facile, ma confidando nel buon senso, molto può essere migliorato.