N°8 luglio/agosto 2011
pubblicazione gratuita / bimestrale / Anno I / Numero 8
la cittĂ sognata
l’editoriale Quando una città è la tua città... ...non sai mai dove finisca la realtà e dove inizi l’immaginazione. Da un lato la vivi in una sorta di automatismo per cui non la riconosci più, dall’altro a volte ti appare straniera, improvvisamente “altra”. Il nome di ogni città è una definizione aperta e indefinita, che ospita al suo interno tutte le città possibili, tante quante sono le persone che la vivono e ne entrano in contatto, e tante quante sono le volte che ciò accade, all’infinito. Per cui è giusto dire “le città che si chiamano Torino”, perché anche Torino, come tutte le altre città del mondo, è un luogo sognato, formato da milioni di miraggi e ipotesi, sensazioni, ricordi. Una definizione che si fa nome; sarebbe piaciuta a Italo Calvino. Forse lui stesso l’avrebbe forse chiamata così, un luogo in divenire, su cui galleggiano tutti gli immaginari potenziali, già stati e a venire. Questa è la vera identità di uno spazio metropolitano, pirandellianamente uno, nessuno, centomila. Partiamo da New York, da un progetto che ha chiesto a un gruppo di artisti di raccontare la loro Manhattan per il New Museum, sovrapponendo visioni multiple. New York è “la città” per antonomasia, una giungla che svetta verso il cielo e il futuro, con le radici nell’antica Europa. NY è la città dove tutto è possibile. E da lì che vogliamo arrivare a Torino, passando per tanti altri luoghi, dei maybe. Come a Sarajevo, dove tredici anni fa Gea Casolaro con il suo lavoro “Maybe in Sarajevo”, ha trovato nella capitale serba il resto del mondo. Bastava guardare, diceva lei, mentre gli altri erano storditi dalla distruzione e dal senso di sconfitta. Quindi NY, Sarajevo e poi un’altra città simbolo, che è Tokyo, cuore di una tragedia naturale e umana. Cosa succede in una metropoli dopo un terremoto e una contaminazione radioattiva? Cosa succede nella città nipponica che i ragazzi di Torino sognano (anche se poi vanno a Berlino, perché è più vicina ed è nel nostro continente, parafrasando il titolo di un film del 1985 di Vincenzo Badolisani)? È il racconto di Aya Shigefuji, che visita il Mori Art Museum per leggerci la sua città attraverso. Anch’esso un miraggio, autoprodotto nel caldo torrido estivo,
in cui scorci urbani si disincarnano e diventano “da qualche parte” negli scatti di Antonio La Grotta (di cui uno è la nostrra copertina) ed Elmuz. Abitanti della stessa condizione indeterminata e forse apolide di alcune leggende metropolitane, ripercorse da Bruno Gambarotta. Storie ir\reali come quelle a cui Torino ha
fatto da sfondo per il cinema, sia mimetizzandosi su altre identità geografiche, sia offrendo carne per nuovi immaginari, “a partire da Profondo Rosso “ dice Steve della Casa e di lì comincia. La città come un collage di ritagli propri e altrui, una stratificazione di minime e massime tracce nel progetto di Botto e
Bruno per ArteSera. Ma che città stanno immaginando gli architetti, i fautori della progettazione del nuovo sviluppo urbano torinese? “O meglio, purtruppo,
possono immaginare e viene loro permesso di farlo” corregge Vittorio Jacomussi. Virtuale o reale, relatività dei punti di vista. Il sistema arte torinese osservato da fuori: da un lato lo sguardo di un gruppo di artisti olandesi ospiti del progetto Diogene, dall’altro quello dell’osservatorio di “Documenti d’artista Piemonte”.
E ognuno di noi cosa sogna, che città vorrebbe? Ci sono sogni nel cassetto come il mare a Porta Nuova o la mappa cittadina colorata per aree, ma noi di ArteSera vorremmo una città che torni a essere la Torino libera e sperimentale, dura e difficile certo, ma che del progettare faceva identità e vanto. Lavoro, contenuti, qualità, magari anche understatement ma non slogan, apparenza, bluff, approssimazione. Tutt’altra storia dalla tenerezza umile delle “buone cose
di pessimo gusto” gozzaniane. Vorremmo che arte e artisti tornassero al centro dei progetti, che non fossero usati e umiliati, insieme alle tante realtà che
continuano a tenere alto il significato di “cultura”. Una città in cui non ci si possa permettere di scambiare il fare con il dar vita a un reality, facendo la voce grossa oppure senza attenzione, senza conoscere. Ma forse le cose stanno già cambiando.
Olga Gambari e Annalisa Russo
Mensile / Anno I / Numero 8 Luglio/Agosto 2011
Direttore Editoriale Annalisa Russo Direttore Responsabile Olga Gambari Progetto grafico e impaginazione www.dariobovero.it Marketing e Relazioni Esterne Michela Tedeschi Copertina Torino, fotografia di Antonio La Grotta
Hanno collaborato A.titolo, Filippo Bondesio, Botto e Bruno, Gea Casolaro, DDA, Steve Della Casa, Elmuz, Bruno Gambarotta, Luca Indemini, Vittorio Jacomussi, Antonio La Grotta, Emiliano Paoletti, Daniele Pario Perra, Alessandro Quaranta, Carlotta Romano, Stefania Sabatino, Serbardano, Aya Shigefuji, Daniela Trombetta, Paola Varallo, Yetmatilde, Maurizio Zucca Contatti Arte Sera Produzioni Via Lamarmora, 6 - 10128 Torino MAIL: redazione@artesera.it
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Da: “redazione” redazione@artesera.it A: press@newmuseum.org Cc: Data: Thu, 23 Jun 2011 14:03:17 +0200 Oggetto: RE: GET LOST for ArteSera
Da: “Gabriel Einsohn” geinsohn@newmuseum.org A: “redazione” redazione@artesera.it Cc: “Katie Kraft” kkraft@newmuseum.org Data: Mon, 27 Jun 2011 15:47:09 -0400 Oggetto: RE: GET LOST for ArteSera
Buongiorno, Vi scrivo da ArteSera, un nuovo freepress di arte contemporanea di Torino (www.artesera.it). ArteSera è un progetto culturale innovativo che intende raccontare l’arte in modo diverso, basandosi su un approccio divulgativo e narrativo con l’obiettivo di aumentare la conoscenza dell’arte contemporanea presso il grande pubblico. In questi mesi abbiamo realizzato una serie di numeri speciali basati sul concetto di identità, strettamente correlato al tema della città. In questo senso, il prossimo numero sarà dedicato alla “città sognata”: tutte le città che vivono dentro una città, le speranze, i sogni, gli incubi anche, che ognuno si porta dentro e che vengono raccontati attraverso gli artisti. Parleremo di Gea Casolaro e del suo progetto Maybe in Sarajevo, del Mori Art Museum come luogo dove le persone ancora possono sognare Tokyo, del lavoro di Yang Yi sulla diga cinese che ha annegato interi villaggi, del reportage di Jean Revillard sugli accampamenti dei clandestini e così via. In questo senso, ci piacerebbe dedicare la prossima copertina di ArteSera a Get Lost, per diverse ragioni: perché New York è LA città per eccellenza, perché questo è un progetto che racconta il sogno di una città attraverso gli occhi degli artisti e parla della città che loro vivono ogni giorno, come ognuno di noi ha la sua personale città interiore, fatta di momenti vissuti, immagini e percorsi…quindi sarebbe possibile per voi mandarci alcune immagini del progetto, ad esempio i lavori di William Pole, Christopher Knowles e Jonas Mekas?
Cara Annalisa, Grazie per la tua mail. Questo progetto, Get Lost, è stato uno dei progetti-manifesto del New Museum durante la sua costruzione, quando ancora non c’era uno spazio espositivo. Il progetto ha avuto luogo nel 2007 ed è considerato archiviato, quindi non abbiamo copie disponibili per il pubblico né immagini ad alta risoluzione: non saprei come aiutarti.
Cordialmente Annalisa Russo
Magari però puoi prendere in considerazione il progetto attualmente in corso al New Museum, ovvero The Bowery Artist Tribute. Il progetto è incentrato sulla storia degli artisti che vivono e lavorano sulla Bowery, in una sorta di “storia dinamica” dell’area. Il lavoro si sviluppa attraverso una mappa interattiva dell’area del New Museum che illustra il ricco legame tra il quartiere e le istituzioni culturali e gli studi d’artista. Centrale nel progetto è la registrazione delle storie degli artisti che hanno vissuto e lavorato sulla Bowery e dintorni. Le interviste includono i poeti Hettie Jones e Bob Holman, lo storico dell’arte Kellie Jones, il regista Roddy Bogawa e gli artisti Vito Acconci, Lynda Benglis, David Diao, Inka Essenhigh, Charles Hinman, James Rosenquist e Billy Sullivan. Il progetto crescerà nel tempo includendo un numero sempre maggiore di interviste, appuntamenti e informazioni sui luoghi d’arte e istituzioni riguardanti oltre 100 artisti che hanno vissuto e lavorato qui negli ultimi 50 anni: http://mediaspace.newmuseum.org/boweryartisttribute/. Vi può interessare? Un caro saluto Gabriel Einsohn Communications Director
CHRISTOPHER KNOWLES, LOWER MANHATTAN (2007)
sogni e città
Da: “redazione” redazione@artesera.it A: geinsohn@newmuseum.org Cc: kkraft@newmuseum.org Data: Tue, 28 Jun 2011 18:38:59 +0200 Oggetto: RE: RE: GET LOST for ArteSera
Caro Gabriel, Prima di tutto, grazie mille del tuo riscontro. Parleremo sicuramente di questo nuovo lavoro, magari pubblicando questo scambio di mail, che racconta due approcci diversi per mappare una città: Get Lost attraverso il sogno e la visione artistica del quartiere, The Bowery Artist Tribute tramite la storia reale degli artisti che lì vivono e lavorano: due progetti che concorrono a tracciare un panorama, simbolico e reale, della città. Grazie allora della tua collaborazione, Annalisa
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sogni e città
Fine settembre 1998
courtesy The Gallery Apart
Un lungo viaggio: la giornata in pullman, la notte in nave. Poi al mattino, l’Adriatico alle spalle, il bus si inerpica verso il sole, attraverso le colline via via sempre più verdi. Ancora insonnoliti, ci godiamo il magnifico paesaggio di fiumi, gole e saliscendi, e all’improvviso, come uno schiaffo, ci colpisce la prima casa distrutta. Avevamo passato la frontiera. La frontiera più invisibile e tangibile che si possa oltrepassare. Eravamo entrati nello scenario di guerra. Sarajevo ne era stata la protagonista assoluta, come ci hanno mostrato i fotoreporter per i quattro lunghissimi anni dell’assedio, con immagini di distruzione e dolore. Devastazione e disperazione che, a distanza di tre anni dalla fine della guerra, erano ancora percepibili ad ogni angolo, in uno sconvolgente crescendo, lungo tutto il percorso e soprattutto lì, nel cuore amaro della città. Non era solo la presenza costante di militari e carri armati, non era solo per le steli funerarie a perdita d’occhio, anche nei giardini pubblici, perché non si sapeva più dove seppellire i morti, non soltanto per il paesaggio di grattacieli bruciati, marciapiedi sfondati, case squarciate dalle granate, buchi di proiettili nelle sedie e nel tavolo dove facevamo colazione. Era tutto l’insieme, che unito al vivo vociare che risuonava per le strade, provocava un vortice incostante di emozioni. Era l’enorme contrasto tra la morte negli occhi e la vita nelle orecchie, era l’andirivieni viscerale tra l’aver paura di un filo d’erba sotto cui poteva nascondersi una infida mina e la gioia delle persone che si godevano i raggi del sole autunnale, dei ragazzi con le chitarre nei locali fumosi della notte. Restituire a Sarajevo la sua vitalità, il suo vissuto, la sua complessa e variegata molteplicità. Sarajevo, secolare esempio di convivenza multirazziale, di apprendimento e di scambio tra le culture, patrimonio e ricchezza di umanità, per tutta l’umanità. Per questo hanno voluto distruggerla. Per questo era importante mostrare che non ci sono riusciti. (Gea Casolaro)
courtesy The Gallery Apart
MAYBE IN ankara
MAYBE IN UPPSALA
Gea Casolaro nel 1998 era andata a Sarajevo per raccontarla. Ci ha trovato dentro il mondo, quello stesso che ha prodotto la tragedia della guerra civile nella ex Jugoslavia, e anche quello che a lungo ha osservato come spettatore la tragedia che lì si consumava, sotto gli occhi di tutti. Nascosti fra il tessuto urbano della capitale bosniaca c’erano pezzi di Ankara, Budapest, Brasilia, Upsala, Varsavia, angoli che Gea scopriva perdendosi per la città, lasciandosi trasportare. Erano forme di rivelazioni improvvise e sorprendenti. Apparizioni che creavano un’energia circolare con il resto del pianeta, come una mappa di punti luminosi che si sovrapponeva alla cartina di Sarajevo. Probabilmente perché in quel momento Sarajevo era il simbolo di una società globale, dell’umanità, attraverso il tempo e lo spazio: ne era il cuore, la pelle, la pancia, gli escrementi. Così è nato il lavoro Maybe in Sarajevo, sessanta fotografie che negli anni a seguire hanno viaggiato dapertutto per essere poi raccolte nel 2001 in un libro edito da Meltemi. Ci si trova davanti a infilate di immagini suggestive, scorci di Sarajevo isolati dal perimetro dell’obbiettivo fotografico e quindi estratti, resi surreali. Ci si domanda se esistano davvero. Sono altre città che galleggiano sopra, che offrono varchi per passare da un luogo all’altro. Magari avessero potuto offrire via di fuga per salvarsi. Visione reale e immaginaria convivono. Sembrano ricordi vissuti, immagini viste o letture fatte che si aprono come flash back per qualche meccanismo cerebrale o per magia. Possibilità aperte per Maybe in London, Maybe in France, Maybe in Pinerolo, Maybe in Caserta. Sessanta “altrove” che ci fanno pensare a come quello che è accaduto a Sarajevo sia già accaduto in altri posti e potrebbe accadere ancora, anche a casa nostra. Maybe in Sarajevo è un lavoro da non dimenticare. (Olga Gambari)
courtesy The Gallery Apart
courtesy The Gallery Apart
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sogni e cittĂ
MAYBE IN LONDON
MAYBE IN BUDAPEST
courtesy The Gallery Apart
courtesy The Gallery Apart
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MAYBE IN SCANNO
MAYBE IN CASERTA
Tra le ultime esposizioni ricordiamo la personale al Mart, Museo di arte contemporanea di Trento e Rovereto nel 2007, la partecipazione alla XV Quadriennale al Palazzo delle Esposizioni di Roma del 2008 con un’opera dedicata ai morti sul lavoro, la personale presso The Gallery Apart nel 2010 con un lavoro realizzato in Nuova Zelanda, la partecipazione nel 2011 al Padiglione Italia nel mondo in occasione della 54° Biennale di Venezia, all’Istituto Italiano di Cultura di Strasburgo.
courtesy The Gallery Apart
GEA CASOLARO vive da due anni a Parigi, dove sta sviluppando un lavoro che indaga le relazioni tra fotografia, cinema e vita quotidiana. Tra i suoi lavori video e fotografici più noti: Maybe in Sarajevo (1998), Volver atrás para ir adelante (2003), Visioni dell’EUR (2002-2006).
MAYBE IN TIJUANA
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racconto
torino set testo di steve della casa*
è sempre bello quando un cinefilo straniero, uno di quelli che apprezza anche le grandi emozioni del cinema popolare italiano, ti chiede di fargli vedere la piazza del primo omicidio di Profondo Rosso.
O
rmai infatti lo sanno proprio tutti che Torino ha ospitato il set di quel film che teoricamente sarebbe ambientato a Roma. Tu li porti in piazza CLN, loro riconoscono la fontana e poi si guardano attorno attoniti cercando il bar dove Gabriele Lavia ormai alcolizzato trascina la propria esistenza bel sapendo che sua madre ha ricominciato a uccidere. Il bar non si trova e loro iniziano a chiedere: ma dove si trova? E tu gli dici: guarda che quel bar non esiste nella realta’, e’ stato ricostruito pensando a un famoso quadro di Hopper, Nighthawk, in omaggio al grande gusto visivo di Dario Argento che pensava che quel quadro poteva essere ampiamente concepito dentro gli spazi dechirichiani di quella zona di Torino. E Profondo Rosso e’ un ottimo esempio di come Torino sappia essere evocativa per il cinema, contribuendo a dare fascino ai film e ricevendo lo stesso fascino dai
film che sono stati li’ girati. Se dovessimo dire chi e’ il regista che piu’ ha esaltato l;e varie architetture che si inseguono per Torino, questi e’ sicuramente il grande Dario. Il liberty fa capolino in Profondo rosso ma anche in Nonhosonno; in quest’ultimo si vede anche la periferia industriale, la stessa che si finge romana anche in La terza madre. E che dire poi degli spazi piu’ moderni e anni Sessanta che si vedono in Il gatto a nove code e in Ti piace Hitchcock? Anche quelli non hanno trovato migliore visualizzazione in altri registi. Ed e’ curioso constatare che le zone care a Dario sono le zone care anche ad altri registi. Per esempio ad Antonioni, che utilizza gl;i stessi scenari di Il gatto a nove code per fare finta che siano Milano nel suo esordio, Cronaca di un amore. E naturalmente lo fa vent’anni prima. Un po’ dopo si muove invece Comencini con La donna della domenica. E’un giallo, ma di lega opposta a quello di Argento. Pero’ anche lui ama riscoprire il fascino gotico di una collina apparentemente facoltosa e serena e che in realta’ puo’ nascondere segreti incoffessabili. E qualcuno di quei palazzi vede muoversi anche Nanni Moretti nell’esordio di Calopresti, La seconda volta. Questo per dire che il fascino di un posto puo’ essere declinato attraverso sensibilita’ molto diverse. Poi c’è un altro fascino tipicamente torinese. è quello della città operaia. Altro mito della Torino che fu. Monicelli ricostruisce la sua Torino proletaria di I compagni tra Cuneo e la Jugoslavia. Invece Scola va davvero nelle borgate operaie per il suo Trevico-Torino. Anzi ci sono intere zone che oggi si possono vedere come erano una volta solo attraverso quel film: ad esempio la zona delle ferriere di via Livorno, oggi centro commerciale e quartiere residenziale mentre una volta era una lunga serie di muri di mattone che avevano un loro fascino oggi defi-
nitivamente perso. In quartieri periferici sono in grande spolvero anche nei film anni Settanta della polizia che spara, da Torino violenta a Quelli della calibro 38. Come ben sa chi ama il cinema popolare, in quei film (i primi film “metropolitani” girati in Italia) la citta’ dove erano ambientati era molto esibita, a partire dal titolo. Diciamo allora che i film torinesi si differenziano dagli altri perche’ valorizzano fino in fondo la struttura geometrica dei lunghi e dritti viali che sono una caratteristica portante della citta’ sabauda. Una foto anch’essa mitica e’ quella che vede Carlo Ausino, il regista di culto di quei film, schiacciato su una macchina con la cinepresa in mano per realizzare un rudimentale ma efficace camera car. In quella sua “arte di arrangiarsi” c’e’ tutta la filosofia di un cinema epico che si faceva a basso costo perche’ le idee sono veramente tante. E poi da quando c’è anche la Film Commission si e’ fatta di queste sensazioni la base per creare una vera e propria industria. Enormemente piu’ utile sul piano industriale, ma forse meno “mitica” sul piano realizzativo. Come numeri e come situazioni, la crescita è esponenziale. Ma adesso il discorso si farebbe piu’ ampio, troppo piu’ ampio. E forse, lo diciamo sommessamente, anche meno mitico.
* Stefano Della Casa è nato a Torino nel 1953. Direttore del Torino Film Festival dal 1999 al 2002, collabora abitualmente con La Stampa e le riviste Film TV, Cineforum, SegnoCinema. Dal 2006 è Presidente della Film Commission Torino Piemonte e dal 2008 è Direttore Artistico del RomaFictionFest. E’ autore televisivo e cinematografico e docente universitario.
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maybe in torino
Progetto fotografico Maybe in Torino di Elmuz (pag.13) e Antonio La Grotta (pag. 9 e 23).
foto: Antonio La Grotta
Antonio La grotta, artista e fotografo, vive e lavora a Torino. Dal 2010 anima insieme a un collettivo lo spazio culturale Nopix in via Saluzzo 30 a Torino. www.antoniolagrotta.eu www.nopx.it
foto: Antonio La Grotta
Elmuz, artista e fotografa, vive e lavora a Torino. www.elmuz.com
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foto: Manuela Giusto
collezione arte sera
cut up
di alberi, di pozzanghere, di cieli nuvolosi, di ciminiere, di raccordi autostradali, di risvegli al clacson, di ronzii, di ruote che solcano asfalti e timpani, di rumore di nettezza urbana che pulisce tutti i giorni al pomeriggio sul tardi e il sabato sera dopo un giorno intero di mercato, di cumuli di sacchi di plastica non riciclati, di inceneritori che stanno costruendo a mirafiori nord, sud, est, ovunque tanto arriveranno le polveri, non più quelle vere delle strade sterrate che abbiamo percorso nelle nostre prime foto in bianco e nero accompagnati dai testi di Ballard, Tom Waits e Sonic Youth, tra quelle città ora invecchiate e rase al suolo con le macerie a ricoprire i nostri sogni di due ragazzi cresciuti in periferia quando l’inceneritore neanche esisteva e nessuno ci impediva di camminare accanto a quei muri di fabbriche sbrecciate, dimenticate e perciò belle che rendevano migliore la periferia che non conoscevamo anche se ci eravamo nati, scoperta quando ci siamo conosciuti, appena in tempo prima che finisse così come è ora, deturpata dagli abusi della speculazione edilizia che ci ha spinto, come abitanti di citta dimezzate, alla fine della storia, dalla testimonianza alla testimmondizia, senza più riuscire a dimenticare quei cieli rossi da diaspora, pronti a fare la spola tra un rullino non sviluppato della macchina fotografica e l’attesa alla fermata, sotto una palina infuocata di un bus suburbano che non arrivava mai ma con alla fine lo stupore, la magia di uno sguardo ancora assonnato la mattina presto tra le nebbie quando le cose non sono ancora state corrotte dal giorno, con ancora la voglia di trasformarla questa realtà con il collage delle nostre quattro mani.
BOTTO E BRUNO Botto e Bruno si raccontano con due flussi, uno di immagini, uno di parole. Mosaici di immagini prese in giro e di cut up di testi. Dentro c’è tutto il mondo, quello che hanno in sè e quello che hanno attorno. In questo lavoro le loro identità sono dei filtri, che trattengono nella rete ciò che gli si impiglia addosso. Ci sono le storie, i temi, la metodologia e la poetica del loro fare arte. Ricordi, canzoni, città, periferie, margini, abbandoni. Una grande nostalgia poetica impregna questo collage di frammenti, un ritratto in cui anche chi guarda si ritrova per riconoscimento di qualche elemento. È un modo per dialogare con chi legge, attento o distratto, entrando in contatto con un magma di coscienza che diventa emanazione emotiva e sensoriale.
(di BOTTO e BRUNO)
A destra: A postcard from a vanished world, 2007-2011, collage su carta, courtesy galleria Alberto Peola, Torino
Save, 2011, stampa vutek su banner, cm 100x136, courtesy Alfonso Artiaco,Napoli
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sogni e città
torino, domani? testo di Vittorio Jacomussi*
La prima versione di questo articolo era uscita di getto. Fatta leggere a qualche amico, si è però dimostrata non un sogno ma un incubo: mi hanno consigliato di fare in modo che il lettore non cestinasse il testo prima di finirlo, sommerso da un linguaggio troppo tecnico e fosco.
S
e l’obiettivo è dunque un racconto leggero e sognante di come e dove Torino è in metamorfosi, quali prospettive, quali pregi, quali risorse si possono riconoscere, dovrei descrivere una prospettiva di città sostenibile, energeticamente autonoma e passiva, verde e totalmente ciclabile e riciclabile; il ritorno di una nuova agricoltura al posto delle fabbriche, di nuovi spazi pubblici al posto della immensa rete automobilistica, edifici da sogno progettati insieme agli utenti finali, una vita di tempo libero senza pensieri. Una sorta di expo milanese. Obiettivamente devo riconoscere che mi è difficile. Preferisco a mio rischio e pericolo invitare il lettore a seguirmi senza sognare a occhi aperti sulla strada difficile ma credo proficua che individua nell’analisi dello scenario tecnico operativo la chiave per aprirci nuovi orizzonti. Chiariamo subito un concetto: “architettare” è un felice mestiere se è fondato su regole condivise, all’interno delle quali dispiegare immaginazione e sogni alla ricerca di una espressività significativa e duratura. Altro è fare il profeta, l’artista, il politologo. Queste regole, per funzionare come stimolo e non come freno, devono essere il frutto condiviso e consapevole di tradi-
zioni tecniche e culturali, di istanze politiche, sociali e economiche, di tendenze tecnologiche ed espressive: un progressivo e progressista cambiamento, un continuo e coraggioso aggiornamento al futuro nell’ambito di regole, non fuori dalle regole. In questo senso il mordi e fuggi di qualche archistar non ha costituito in città un precedente significativo ma una serie di incidenti su cui riflettere. Cerco di tradurre per i non addetti ai lavori: il Piano Urbanistico della nostra città (che è stato una faticosa e in buona parte riuscita traduzione delle istanze di trasformazione sociale ed economica degli anni ‘90) ha esaurito il suo tempo. Ma ne rimangono gli strumenti normativi, apparentemente minori, che affiancano o discendono dal Piano, i quali hanno ormai preso il sopravvento definendo nel profondo le reali modalità di progettazione delle singole aree, degli edifici e degli spazi urbani fino agli oggetti; il sistema normativo continua a condizionare in toto il volto architettonico della città. Non è uno scandalo affermare che oggi Torino ha il sistema di regolamenti più complesso e contorto che si possa immaginare. E’ frutto infatti della stratificazione di norme storiche e recenti integrazioni, che dispongono, con rara intransigenza e autoreferenzialità, su argomenti tecnici e espressivi, sanitari e di salvaguardia del territorio, acustici ed energetici, cromatici e compositivi. E questo sistema di regole sparse, affidato alla burocrazia, diventa cogente al di là del buon senso, del risultato architettonico, delle esigenze economico gestionali. La media dei risultati edilizi degli ultimi decenni, con tutta evidenza, dimostra che i sacrosanti obiettivi di contenimento della speculazione non solo non sono stati raggiunti ma al contrario hanno dato fiato ai maneggioni dei regolamenti che occupano larghe fasce del mercato del progetto: l’economia della città preferisce per natura un progetto banale approvato velocemente piuttosto che un progetto onesto faticosamente contrattato con il
sistema di gestione normativa. Si aggiunga che la salvaguardia sanitaria, ambientale e territoriale è affidata, a valle o a monte, secondo prassi altrettanto complicate quanto il labirinto normativo, a istituzioni di controllo povere sotto molti aspetti: mezzi e strumenti organizzativi antiquati, ridotta capacità interpretativa e decisionale, sordità al dialogo architettonico, fastidio per la velocità richiesta dalla società, con vocazione al non fare o meglio al fare come ieri pur di non sbagliare. E intanto la città consuma territorio, energie, qualità abitativa e ambientale, senza crescere e senza affascinare. Dove e come agire per crearci lo spazio e il contesto per sognare? Non certo incentivando la deregulation, non ci appartiene né culturalmente né operativamente. Né adottando regole di altri a cuor leggero. Molti suggeriscono di ripensare alle regole che hanno ispirato lo sviluppo di ieri per guardare al futuro. Non basterà, ma è già un modo per cominciare. Come modesto contributo vorrei, in questa sede, abbozzare un identikit dei nemici dei sogni. La pigrizia dei progettisti, spauriti nel proporre una diversa operatività professionale, persi all’inseguimento della sopravvivenza economica, spesso succubi di riferimenti e eventi culturali talmente generici e generali da non lasciare segno alcuno. I segni recenti, salvo rare situazioni sperimentali, fanno troppo spesso il verso a soluzioni architettoniche obsolete, non solo per l’espressività modaiola già superata, ma anche per composizione architettonica, tecnica e tecnologica. L’ottusità di molti committenti, privati e pubblici, schiacciati ora anche dalla congiuntura economica che sta frenando la creatività dell’investimento immobiliare senza produrre ricerca in termini di soluzioni finanziarie, marketing, tipologie e tecniche costruttive. Salvo rifugiarsi nel grattacielo come soluzione innovativa
per il futuro della città. Le commissioni di controllo e indirizzo, architettonico e non, che con il paravento dell’istituzionalità ci pare tentino di sostituire il ruolo del “principe” della città sabauda, senza però averne la visione politica e l’indipendenza decisionale, e, meno che mai, il potere. Qui si intravede la responsabilità di una tradizione locale, amministrativa e culturale, che qualcuno definisce del “tinello” in contrapposizione al salotto o al palazzo o alla piazza. L’oblio del “genius loci”, termine che non significa perseguire la diffusa (e in parte richiesta) pratica della riproposizione formale di stilemi storici, pratica da rifiutare. Piuttosto significa recuperare a nuova vita quel senso dell’abitare e dell’usare la città, unicità di Torino nel panorama urbano globalizzato, che la storia ed il presente recentissimo di Torino hanno dimostrato vincente agli occhi degli altri. Le riviste di architettura, prese qui come capro espiatorio di tutte le facili fonti di ispirazione oggi disponibili, forniscono soluzioni formali “innovative” che se non decantate e commisurate alla nostra città diventano caricatura e “minestrone” di lontane soluzioni espressive e tecnologiche magari laggiù interessanti e degne di nota.
* Nato a Torino nel 1957, nel 1981 si laurea in Architettura al Politecnico di Torino. E’ co-fondatore dello Studio De Ferrari Architetti, presso cui si è sempre occupato di tematiche inerenti l’architettura, il disegno industriale, il progetto degli spazi pubblici e delle attrezzature di arredo per la città. E’ stato Consigliere dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Torino, Presidente della Federazione degli Ordini del Piemonte e Valle d’Aosta e docente a contratto presso il Politecnico di Torino e lo IED di Milano, oltre che curatore responsabile della mostra/evento “Torino Design” per l’itineranza internazionale.
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maybe in torino
foto: Elmuz
foto: Elmuz
foto: Elmuz
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sogni e città
SOGNI NEL CASSETTO 01. LOW COST DESIGN Testo di Daniele Pario Perra* Un giorno ho conosciuto una persona che sull’isola di Vulcano faceva il caffè ponendo la moka sul ferro da stiro capovolto perché era finita la bombola del gas, alcuni mesi dopo trovai un’altra persona, questa volta in un isola greca, che preparava il caffè sul ferro da stiro allo stesso modo, usava il tipico Ibrik per il caffè turco, quindi in presenza della stessa necessità trovavo la stessa soluzione solo con strumenti culturali diversi… da qui iniziai a raccogliere immagini e testimonianze e nacque Low Cost Design: una ricerca sull’essenza della creatività spontanea. Un progetto che deriva da una considerazione molto semplice: siamo circondati da migliaia di oggetti e strutture che non seguono le regole della progettazione convenzionale. Low Cost Design è una banca dati costituita prevalentemente da immagini senza alcuna descrizione testuale, come un grande dizionario visuale della creatività: più di 7000 immagini, scattate tra il Nord Europa e l’area del Mediterraneo, relative al cambio d’uso degli oggetti e del territorio attraverso l’azione dei suoi abitanti. Non si tratta di un semplice “riciclo” degli oggetti, ma di una loro metamorfosi quasi naturalistica, realizzata da una creatività visionaria applicata alla sperimentazione pratica. Certamente troveremo sempre più oggetti influenzati dalla creatività popolare e, mi auguro, sempre più esempi di piani urbani influenzati dagli stessi abitanti. La via naturale è il ritorno alla centralità della vita quotidiana in tutti i processi, e spesso i contesti più caotici e popolosi delle nostre città sono i più vivi e flessibili perché in questi luoghi si esalta naturalmente il ruolo dell’immaginario creativo. *Daniele Pario Perra è un artista relazionale, ricercatore e designer impegnato in attività espositive, progetti di ricerca e insegnamento. Il suo lavoro si sviluppa in ambiti disciplinari diversi: arte, design, sociologia, antropologia, architettura e geopolitica. Si occupa da diversi anni di creativita’ spontanea, tendenze culturali e modelli di sviluppo urbano. Low Cost Design e’ un progetto costantemente in progress. www.lowcostdesign.org
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02. il mare a porta nuova Testo di MAURIZIO ZUCCA* Non di sole case, infrastrutture e supermercati vive la città. Questo pensavamo disegnando il mare a Porta Nuova. Il progetto muove i primi passi nel 2002, in quegli anni si prevedeva una trasformazione urbana nello scalo della stazione, ferveva il dibattito su come costruire in quest’area di 200.000 mq situata alle porte del centro storico: grattacieli o isolati tradizionali? Nel 2006 è iniziata la distribuzione di cartoline con il mare al posto dei binari, sono andate a ruba, sul blog dedicato al progetto sono apparsi centinaia di commenti, il video su youtube è stato visto più di 40.000 volte anche nella versione in inglese, il mare è stato pubblicato un po’ ovunque, se ne parlava come se già esistesse. E’ salita la febbre per avere in città ciò che normalmente si va a cercare fuori, sembrava un sogno, un passo verso la città del futuro. L’amministrazione pubblica ha poi fatto orecchie da mercante e per ora i treni rimangono lì, ma il mare a Porta Nuova è entrato nell’immaginario di tutti noi. Volendo lo si può sempre fare, lì o altrove, perché l’urbanistica siamo noi, con le nostre idee. Siamo noi l’urbanistica, con i nostri comportamenti. *MAURIZIO ZUCCA è un architetto torinese, attivo a partire dagli anni 80 (www.mauriziozucca.com).
03. Torino colors Testo di YETMATILDE* Esiste un criterio intuitivo con cui è possibile orientarsi all’interno di una città, anche da parte di chi vi giunge per la prima volta? In che modo è possibile modificare la colorazione della città di Torino nell’immaginario collettivo nazionale ed internazionale? Torino Colors, presentato inizialmente in occasione di Torino 2008 World Design Capital, rappresenta un caso unico di mappatura urbana cromatica complementare a quella toponomastica. Un criterio intuitivo con cui è possibile orientarsi all’interno della città, migliorandone la fruizione, da parte di chi la vive, permanentemente o occasionalmente. Non intende quindi essere un evento temporalmente definito, ma un progetto che coinvolga la città, nella piena comprensione del senso del termine design. Il nuovo sistema di indicazione cromatica potrebbe essere adottato in tutte le comunicazioni riguardanti la città di Torino, a iniziare da luoghi di particolare interesse storico, artistico e culturale. Grazie alla relazione tra i colori, un visitatore potrebbe intuire con semplicità quale sia il percorso più comodo da effettuare, quali luoghi si trovino più in centro, la vicinanza tra essi. L’adozione del nuovo sistema di mappatura cromatica potrebbe coinvolgere inoltre elementi di arredo urbano esistenti sui principali assi di comunicazione viaria della città e sulle principali piazze, creando una relazione diretta con il colore, che fornirebbe indicazioni riguardo l’area in cui ci si trova e la direzione in cui si sta andando. * YETMATILDE è un agenzia torinese di design, un gruppo di giovani ma esperti designer che condividono una visione comune del processo progettuale (http://yet.matilde.it)
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sogni e città
i ragazzi di torino sognano tokio testo di Aya Shigefuji*
Siamo a Roppongi (letteralmente “sei alberi”), nel distretto Minato-ku di Tokyo. Un centro molto chic e con molto verde: famoso sia per lo shopping che per la sua vita notturna, con i suoi club e ristoranti che soddisfano ogni genere e gusto.
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entre di giorno troviamo donne e coppie intente a fare shopping nei scintillanti complessi di Roppongi Hills e di Midtown, di sera ci ritroviamo tra accecanti insegne luminose e tra numerosi stranieri alla ricerca di svago e di divertimento. Poco più in là del famoso incrocio di Roppongi, troviamo al 52esimo e 53esimo piano del Roppongi Hills, il Mori Art Museum (creato dal volere del magnate del mercato immobiliare giapponese Minoru Mori). Un museo che si ritaglia un suo mondo magico e che sovrasta la città come un esperimento audace. Il Mori Art Museum è uno dei maggiori musei di arte contemporanea in Giappone, ed è appunto ricordato come uno dei musei al mondo più vicino al cielo. Arriviamo lì al 52esimo piano, e i ritmi serrati degli uffici giapponesi, i treni stracolmi, i fiumi di persone per le strade cominciano a diventare solo un ricordo lontano. E chi ha mai detto che il museo sia un posto
esclusivo per soli eletti? Nessuno: e il Mori Art Museum può esserne una solida testimonianza. Lo troviamo all’interno del complesso urbano Roppongi Hills. Un complesso che, con i suoi uffici, appartamenti, negozi, ristoranti, sale cinematografiche, parchi, hotel, uno studio televisivo e un anfiteatro all’aperto, da l’idea di essere una città all’interno della città. E il museo si trova lì, sovrastando il cuore di Tokyo e in mezzo a questo grandioso centro di business e di divertimento. Chiude i battenti solo alle 22.00 e quì si ritrovano giovani, coppie o stranieri. Sono lì, acculturati di arte o meno, magari dopo un pranzo o una cena con amici. Hanno in cuore il desiderio della romantica vista sulla città di Tokyo, e un piccolo slancio alla scoperta di quel lato “artistico”, riposto segretamente nel cuore di tutti. Talvolta capita di andarci e di ritrovarsi un’esibizione infinitamente lontana dal nostro gusto o piacere. Opere artistiche di cui non siamo muniti di nessun tipo di codice di lettura e per cui leggere la mappa di segni di cui l’opera è disseminata ci pare quasi impossibile. In quel caso le opere non possono che apparire stranianti e marziane Ma la verità è che, andando al Mori Art Museum, non ne rimaniamo mai del tutto delusi, e questa forse è la mirabile forza di questo museo. E` progettato in modo tale da offrirci non solo un’esperienza artistica in sè, ma un’esperienza completa che comprende l’entusiasmo che si prova quando si sale su quell’ascensore super veloce, la riservatezza, il silenzio nelle sale, il divertimento nel toccare o interagire con le opere d’arte, la bellezza degli spazi e il romanticismo che si prova guardando il favoloso spettacolo della vista di Tokyo alla
fine della mostra. Uno spazio leggero, curato ed aperto a tutti. Ebbene, arte per tutti e non solo arte. Di arte il Mori Art Museum ci offre fino al 28 Agosto la mostra “French windows:looking at contemporary art through the Marcel Duchamp prize” e la video-proiezione di Taguchi Yukihiro. Il titolo dell’esibizione “French Windows” rimanda all’opera Fresh Window di Duchamp e il tema della finestra rimarrà una costante nelle 5 sezioni del percorso espositivo: “Duchamp’s Window,” “The View from the Window,” “The Window of Time and Space,” “The Window of the Inner World” e “Inside the Window.” La mostra è un crocevia di tutti i linguaggi artistici (pittura, scultura, disegno, video e cortometraggi, installazioni) e presenta opere di protagonisti della scena internazionale, affiancate a quelle di talenti emergenti. Un percorso e un viaggio alla scoperta delle mille declinazioni dell’universo artistico e dell’arte contemporanea francese, tenute insieme e valorizzate dal tema della “finestra”. Un viaggio in cui si può perfino entrare in una stanza di un presunto collezionista d’arte francese e conoscere come l’arte possa essere inglobata e valorizzata all’interno di un contesto domestico. Si può anche non apprezzare le opere esposte ma si continua ad andare avanti, si procede in questo tragitto in cui ritroviamo anche un occasione per scoprire sè stessi, per ritrovare uno sguardo dinamico, capace di innescare virtuosi meccanismi emotivi ed intellettuali (Skull di Saadane Afif)(“l’arte non può esistere senza il suo osservatore”). Un tragitto innovativo in cui si può prendere la libertà
di prendere in mano delle foto di Parigi e di confrontarsi o scambiare qualche battuta con il proprio compagno o di partecipare alle molte talk session con gli artisti. Una mostra in cui siamo sì i visitatori, ma anche partecipatori attivi e co-produttori. Alla fine della mostra vi è la sezione MAM PROJECT, dedicata ai giovani artisti emergenti, e questa volta è dedicata al giovane Taguchi Yukihiro. Vi ritroviamo un grande screen in cui sono proiettate le immagini leggere e divertenti, create con la più vecchia forma di animazione, ovvero lo “stop motion”. Dopo aver visto queste giocose immagini ci muoviamo nella stanza successiva dove ritroviamo il retroscena di questo video. Scopriamo così che quelle immagini non sono il frutto della fatalità o del caso ma di uno studio attento e preciso nei minimi dettagli. Questa mostra e forse tutte quelle esibite al Mori Art Museum ripongono una proposta di ripensamento e un invito a un atteggiamento creativo nei confronti del circostante. Anche l’intenzione del museo di concentrarsi sull’arte contemporanea e di farla conoscere alla gente, aumenterà di giorno in giorno la consapevolezza popolare dell’arte, la ricezione sociale, il suo significato all’interno del frenetico vivere quotidiano di Tokyo. Un museo fresco e inclusivo: un incoraggiamento, una speranza, una sfida ai nostri sensi e a quel nostro lato curioso, infantile e artistico che anima le profondità dell’uomo. * Aya Shigefuji vive e lavora a Tokyo Si occupa di progetti culturali e di traduzioni, collabora alla rivista “Duellanti”.
Skull di Saadane Afif, 2008, courtesy: Galerie Michel Rein, Paris
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rECENSIONI
chen li / galleria VERSO ARTE CONTEMPORANEA
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a Diga delle Tre gole dal 1994 ha ribaltato diecimila metri quadrati di territorio cinese, nella zona centro-meridionale, smobilitando migliaia di villaggi e milioni di persone. Un progetto dichiarato al mondo come il prodigio tecnologico del secolo, che si è subito rivelato come un disastro ambientale e sociale. Bloccare lo Yangzi, uno dei più grossi fiumi della terra, e utilizzarlo come un animale domestico, con la sua “forza lavoro”. Il meccanismo ecologico e umano è saltato, con il sovvertimento di terre, lo sradicamento di individui. Addirittura il Governo Cinese sta iniziando a fare le prime ammissioni. Due artisti denunciano e raccontano questa storia, con poesia struggente e punti di vista non omologati. Si chiamano Chen Li e Yang Yi e sono originari di quelle zone ormai sommerse, dimenticate, violate. Chen Li con un lavoro fotografico rappresenta, in una sorta di piece teatrale, l’attraversamento della sua città millenaria di Wanxian, dalla zona vecchia, destinata ad essere ricoperta di acqua, a quella nuova, edificata in fretta per accogliere le persone transfughe. Un corteo di abitanti porta tra le braccia centinaia di peonie in stoffa colorate, in genere usate per i riti tradizionali, che staccano come ferite sanguinanti sulle vesti grigie e blu della gente e sulla cupezza plumbea delle costruzioni, del cielo e del fiume. Yang Yi, invece, ha fotografato la sua città di Kaixian, per lo più ridotta in macerie perché diventata cantiere edile per la diga, prima di scomparire definitivamente. Alcuni abitanti, di tutte le generazioni, stanno al centro, continuando a condurre piccole attività quotidiane, come se nulla fosse, indossando una maschera da sub. Sopra le immagini si deposita un lieve strato di bolle, un mondo marino, onirico e surreale, ma anche apocalittico, che mescola il presente al passato. In mostra sino a fine luglio alla Galleria Verso Arte Contemporanea, a cura di Silvia Cirelli
Verso Arte Contemporanea Email: press@versoartecontemporanea.com Via Pesaro 22 10152 Torino - Italy tel +39 011 4368593
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JEAN REVILLARD / GALLERIA WEBER & WEBER
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i sono città che vivono nei nostri sogni, altre che si materializzano nei nostri incubi. Vicino a Calais, Francia del nord, c’è una fitta boscaglia, proprio ai margini della città, una sorta di propagine indefinita in cui, in qualche modo, la pianta urbana prosegue. È tra la vegetazione che i molti clandestini di tutti le provenienze possibili costruiscono le loro baracche provvisorie, in attesa di raggiungere la costa inglese. Una città clandestina, di sopravvivenza, tirata su con oggetti di recupero, che dà vita ad architetture surreali, tremende nella loro bellezza. Il fotografo Jean Revillard ne ha fatto un reportage, illuminando queste “case” con uno sguardo da fine del mondo. Sono queste le città del futuro, quelle destinate agli enormi flussi migratori che stanno attraversando continenti e mondi, ridefinendo la società contemporanea? Quante città abusive e senza nome stanno sorgendo attorno a noi, inarrestabili nella loro disperazione e necessità?
Weber&WebeR ARTE CONTEMPORANEA Email: carlomaria.weber@fastwebnet.it Via San Tommaso 7 Torino - Italy tel +39 011/19500694
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sogni e città
il cairo sognato testo di ALESSANDRO QUARANTA*
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l 1° marzo 2011 partivo per la mia residenza d’artista presso la Townhouse Gallery al Cairo, dove sarei rimasto per due mesi. Le premesse a questa partenza si riassumono tutte nel timore di un fallimento, di vivere in modo passivo un’esperienza emotivamente forte, difficile da digerire e da trasfigurare. Da subito perciò ho incominciato a considerare la possibile perdita di tempo, non come risvolto negativo, ma come condizione necessaria e arricchente, in cui anzi il senso di perdita lasciava pian piano il posto ad una sensazione di appropriazione. Al Cairo mi sono soffermato su ciò che solitamente avrei classificato come improduttivo e capace di risvegliare dei sensi di colpa. Passavo le mie giornate accanto alle persone che stavano per tutto il giorno in attesa dei propri documenti di fronte al palazzo del Mogamma (una sede dell’amministrazione governativa); aspettavo un amico immaginario stando in piedi all’uscita della metropolitana per qualche ora; sedevo accanto al portinaio nell’androne del palazzo in cui abitavo, scambiando poche parole, ed osservando il via vai degli abitanti, per una mattinata intera. Tutto accadeva senza che mi preoccupassi di produrre qualcosa, consapevole che mi sarebbe capitato di assistere a qualcosa senza che avessi dovuto cercarlo. Queste pratiche effimere, mi hanno portato a creare nuovi lavori. Welcome to Egypt è un lavoro che nasce proprio da questa osservazione sulla dilatazione del tempo, sulla scia di incontri casuali. Cammino senza mappa, e senza meta per sei, sette ore, in diverse aree della città del Cairo, mi fermo ogni volta che qualcuno cerca di catturare la mia attenzione dandomi il benvenuto. Anziché fuggire da un eventuale
incontro indesiderato inizio a chiacchierare, e quando raggiungo un certo grado di confidenza, chiedo alla persona di essere fotografati insieme. L’immagine deve essere scattata da un passante o da una terza persona. Tutte le immagini raccolte vengono stampate e incorniciate con l’intenzione di essere restituite alla persona incontrata. Il momento della restituzione, documentata a sua volta con una fotografia, è il risultato di coordinate casuali che coincidono magicamente. Clouds over Tahrir square è un lavoro nato anch’esso da una condizione di limite. La notte del 9 aprile mi sveglio di soprassalto per il rumore di spari, provenienti da piazza Tahrir. Sento in modo distinto il crepitio delle mitragliette, dato che il mio appartamento si trova proprio dietro il Museo Egizio. Il palazzo di fronte, m’impedisce lo sguardo sulla piazza, e le urla crescenti della folla si mischiano agli spari che mi appaiono senza fine. Non riesco a chiudere occhio per tutta la notte. All’alba tutto viene inghiottito da un silenzio angosciante e in un secondo momento il progressivo aumento del suono dei clacson ristabilisce la “normalità”. È mattino, il sole splende già alto e il suo calore invita ad uscire. Leggo alcune notizie dal web per capire l’entità dell’accaduto. Stando alle notizie ufficiali, negli scontri sono morte due persone. Inizia un tam-tam di notizie e impressioni. C’è grande attesa per una dimostrazione di protesta nel pomeriggio. Me ne sto nervosamente sul balcone cercando di captare i suoni che vengono dalla piazza. Mentre mantengo lo sguardo e le orecchie oltre il palazzo che mi divide da piazza Tahrir, sento maturare un peso insostenibile. Non avevo
idea dell’entità dei fatti e non sapevo se la cosa potesse degenerare ulteriormente. Il peso che mi opprimeva aveva anche a che fare con il continuo questionarmi sul mio ruolo di artista, e alla responsabilità di lavorare con quelle condizioni. Avrei dovuto forse finalmente elaborare in modo più esplicito qualcosa sui recenti eventi che avevano catturato l’attenzione del mondo intero? Ma non avevo da sempre rifiutato questa pratica? Mi sentivo ancora più oppresso da questi pensieri che desiderai di essere più in alto nell’atmosfera, per guadagnare una distanza tale da farmi vedere le cose in modo più chiaro. In quel momento, alzando gli occhi, vedo la nuvola più bella che abbia mai visto al Cairo dal giorno del mio arrivo. Decido di fare qualcosa con questa improvvisa visione. In tutta fretta prendo una matita e dei fogli e inizio a disegnare. Scelgo le nuvole che si stagliano all’orizzonte, le seguo contemporaneamente con lo sguardo e con la matita e senza mai interrompermi, ne traccio il contorno nella loro costante ed imprevedibile cambiamento di forma. Proseguo fino a quando le nuvole mi sovrastano, e diventano talmente grandi da non riuscire più a contenerle nei fogli. Al tramonto mi fermo. Su ogni disegno, in basso, ho scritto a matita due orari, l’intervallo di tempo in cui il segno si è dipanato. Mi rendo conto di aver orchestrato la perdita di controllo. E’ nella vulnerabilità che impariamo ad assecondare e farci guidare dagli eventi, le nostre reazioni più inaspettate. Ma oltre a ciò ho consolidato la consapevolezza che sono proprio i limiti a consentirci di andare oltre. * Alessandro QUARANTA è un artista che vive e lavora a Torino: www.alessandroquaranta.it
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torino sogna
wtc
foto: URBE CC 2011
testo di luca indemini e simona savoldi
C
’è chi si limita a sognare la città che vorrebbe e chi prova a darle forma e colore. È così che l’Aspira, una fabbrica dismessa al numero 28 di via Foggia, da alcuni mesi ha iniziato a prendere vita. E a dar vita a una nuova concezione degli spazi urbani in fase di trasformazione, come possibili contenitori temporanei per diverse forme di espressione artistica. Nel mese di aprile Raw Tella e il suo amico Eugenio Dragoni vengono a sapere che nel quartiere Aurora alcuni vecchi capannoni industriali saranno demoliti per far posto a moderni loft. In un primo momento chiedono di poter utilizzare lo spazio, prima dell’inizio dei lavori, per dipingere. Sono 1500 metri quadri: una palazzina di tre piani, un’ampia area esterna, tre capannoni, un grande terrazzo. Un potenziale enorme. Sarebbe uno spreco limitarsi ad un uso personale di quell’immenso patrimonio. Bisogna aprire l’area, farla conoscere, metterla a disposizione. L’attesa dell’inizio lavori offre un’opportunità da non sciupare: uno spazio immenso di libera espressione. Uno spazio “a tempo”. Un po’ per la conformazione degli ambienti, un po’ per la transitorietà stessa del luogo, la street art sembra il contenuto ideale: il carattere effimero delle opere in esposizione, destinate ad una scomparsa certa, è condiviso con le opere realizzate in strada. Si decide così di aprire il portone agli street artist che arrivano alla spicciolata, si scelgono una
parete, iniziano a lasciare qualche traccia. Passano parola. E Facebook aiuta. Continua a crescere il numero di persone che comincia a frequentare l’ex fabbrica. Le pareti bianche si colorano, compaiono le prime tag, scritte, stencil, poster art. Ecco allora che prende forma un’idea più articolata, quella di una grande mostra di street art nel mese di luglio: opere site specific, realizzate sulle pareti, interne ed esterne, della fabbrica, destinate a scomparire con la demolizione della struttura. Le buone idee però sono contagiose, ne fanno germogliare di altre. Il progetto cresce, si complica, si arricchisce. “Perché non creare un’associazione che renda replicabile questo modello?” è il pensiero che inizia a rimbalzare in testa a Raw Tella ed Eugenio. La domanda, ovviamente retorica, ricalca il motto di George Bernard Shaw: “Alcuni vedono le cose come sono e dicono perché? Io sogno cose non ancora esistite e chiedo perché no?”. Loro forse non se lo sono nemmeno chiesto, semplicemente hanno seguito l’istinto. Nel bel mezzo dei preparativi pratici della mostra – allacciamento elettrico, pulizia e arredo degli spazi, per non citare che quelli più impellenti –, si decide di dar vita all’associazione. Il lavoro raddoppia, le energie anche, grazie a costanti iniezioni di entusiasmo. Mentre da un lato si delinea un ricco cartellone di eventi di avvicinamento all’inaugurazione, con lo scopo di far conoscere e abitare lo spazio; dall’altro prende
forma lo statuto di “URBE. Rigenerazione Urbana”, che si propone di replicare l’esperimento, prendendo spazi in via di trasformazione, a tempo, e dandogli nuova vita nel periodo di inter-vita. Nel frattempo si battezza anche lo spazio: WTC – Wartradecenter, giocando con le lettere del più celebre World Trade Center. Nel mese di giugno il WTC è in costante fermento, le pareti si trasformano in continuazione sotto le bombolette e i pennarelli degli artisti di passaggio. Le caratteristiche facce di Galo osservano curiose una parete su cui si dipanano idee e pensieri di Jins, che in un altro spazio intreccia i suoi personaggi con le arzigogolate decorazioni di Halo Halo. Spuntano ovunque dei piccoli Super Mario Bros, NoX attacca un pipistrello gigante che chiede “gentilmente” di spegnere la luce, mentre da una parete si affaccia il volto della Marilyn Monroe centralinista di Gec, affiancata da uno dei messaggi provocatori dei Dott. Porka’s: “enjoy the poverty”. Col mese di luglio si entra nel vivo: SUB URB ART / Arte Urbana in Subbuglio coinvolge più di 40 artisti e il 15 luglio presenterà il suo volto definitivo. Definitivo per quanto lo possa essere uno spazio a tempo, con centinaia di metri di muro a disposizione degli street artist. Opiemme farà crescere un albero di parole, Pixel Pancho e il tedesco The WA saranno protagonisti di live performance, mentre Garu proporrà una
performance di light painting. Ci saranno video e musica, le donne col velo di Br1 e le tag dei KNZ, lasceranno la firma lo spagnolo Eme, le bolognesi TO/LET e la romana MP5, 999, Reser, Mr. Fijodor e si attende la conferma di un “big” internazionale, sul cui nome per il momento vige il più stretto riserbo. Durante tutto il mese di luglio, parafrasando Nanni Moretti, “succederanno cose, si vedrà gente”. Dal 6 al 12 il WTC diventerà spazio reale per la galleria virtuale “Fartgallery – fare arte a ogni costo” (www.fartgallery.it): la mostra, che ospiterà tra gli altri Andrea Guerzoni, Monica Indelicato, Stefano Cento, sarà l’occasione per presentare il neonato progetto mirato a dare visibilità ai giovani artisti. Per essere aggiornati su quello che capiterà nelle prossime settimane si può far riferimento alla pagina Facebook “Wtc Wartradecenter” o al blog rawtellart.blogspot. com. O più semplicemente raggiungete il numero 28 di via Foggia, varcate il portone, fatevi “inghiottire” dal faccione su sfondo azzurro che decora il passo carraio. E non dimenticate di scattare qualche foto. Sarà tutto quello che di tangibile resterà di questa fantastica avventura, quando l’ex Aspira scomparirà sotto moderni loft.
facebook: Street ArTO (gruppo), blog : www.streetarto.com
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maybe in torino
foto: Antonio La Grotta
foto: Antonio La Grotta
foto: Antonio La Grotta
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torino sogna
cantiere barca testo di a.titolo
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n via Anglesio, in un’area verde e isolata del quartiere torinese La Barca, poco distante dall’autostrada per Milano, sul tetto di un porticato compare la scritta Cantiere Barca, realizzata con vecchie sedie, cassetti e assi da cantiere. Al di sotto due negozi chiusi da tempo affiancati da spazi di aggregazione per anziani e servizi sanitari. Accanto un giardino e un chiosco intorno a cui molte persone si incontrano e passano il tempo. La scritta Cantiere Barca è stata realizzata e montata sul tetto il 21 giugno, nel primo giorno di un workshop che ha visto un gruppo di giovani, per lo più abitanti del quartiere, lavorare per una settimana con il collettivo di architetti berlinesi Raumlabor. La città sognata nasce qui dal “fare”, e così, dopo l’apposizione della scritta, che dichiara un inizio e una temporalità che si apre al futuro, il gruppo dei partecipanti ha continuato a crescere, con amici arrivati da altri quartieri, ragazzi che si aggiungevano ogni giorno alla fine del loro turno di lavoro, altri che accorrevano quando ce n’era bisogno. Le idee cambiavano, si trasformavano e così da un palco e una platea costruita intorno ad un albero nel giardino, sono nate altre piattaforme-sedute per sostare anche sotto il portico, davanti al centro anziani, in una sorta di arcipelago che l’artista Jana Gunstheimer ha evocato con interventi pittorici sui pilastri e i muri del portico, intrecciando segni nautici e geografie celesti con le muffe e i graffiti preesistenti. Poi un giardino orto piantumato in vecchi cassetti tra cornici di finestre che si inerpicano oltre il tetto e un’installazione abitabile realizzata con vecchie porte: una barca riccio, una stella, un luogo in cui stare e da cui osservare l’intorno. Tutti oggetti urbani realizzati dai giovani trasformando materiali di recupero grazie alla collaborazione di Amiat e di molti privati, dall’Impresa Rosso a Campia Soluzioni per l’Arredo a Grigoli serramenti che, con le associazioni locali dei commercianti, hanno contribuito all’avvio del cantiere. Con queste forme inedite, un luogo pubblico, per la maggior parte della settimana vuoto, è stato intensamente abitato per ripensarlo e immaginare delle possibili trasformazioni. Cantiere Barca è uno dei nove progetti nati nell’ambito del programma d’arte per lo spazio pubblico situa.to, ideato in occasione di Your Time - Turin 2010 European Youth Capital da a.titolo (Francesca Comisso, Lisa Parola e Luisa Perlo) e Maurizio Cilli. L’obiettivo di situa.to è infatti quello di sperimentare nuove pratiche urbane in risposta ai problemi delle giovani
generazioni, ideare nuovi strumenti per leggere i complessi mutamenti urbani e sociali e realizzare concretamente azioni e progetti d’arte condivisi che sappiano rispondere al desiderio di qualità dello spazio pubblico e ai bisogni di chi lo abita e attraversa. ‘Cantiere barca’ è un laboratorio per ‘fare città’ che nasce dopo un’attenta ricerca svolta tra i quartieri periferici di Barca e Bertolla da Giulia Majolino, affiancata poi da Alessandra Giannandrea e Francesco Strocchio (due antropologhe e un architetto) attraverso un’analisi dei caratteri urbani, geopolitici e sociologici del luogo e il confronto diretto con gli abitanti sull’uso e la percezione dei luoghi. Da questo primo approccio all’area sono emersi interrogativi e criticità relative al rapporto dei residenti con il quartiere e l’urgenza di coinvolgere i giovani cittadini in pratiche di riappropriazione creativa del territorio. Costruiamo una barca a Barca? è l’interrogativo dal quale è partito tutto il lavoro dei tre giovani ricercatori formati da situa.to, che hanno attivato un percorso processuale e creativo avviato lo scorso inverno con laboratori realizzati dal Dipartimento educativo della Fondazione Merz con i bambini delle scuole elementari del quartiere. La scelta del collettivo Raumlabor, che da oltre dieci anni indaga i temi della trasformazione urbana e i differenti modi d’uso dello spazio pubblico, nasce dalle potenzialità della loro metodologia progettuale, incentrata sullo scambio, la cooperazione e soprattutto sull’agire attraverso la pratica dell’autocostruzione, come strumento per fare emergere riflessioni, relazioni e desideri dei giovani in merito al territorio che abitano. Dall’azione concreta, dal ‘fare’ con materiali di scarto, martelli, seghe e viti, ha preso forma un luogo possibile, un’architettura temporanea, un cantiere attivo di idee in risposta a un contesto urbano contemporaneo sempre più disegnato attraverso muri, confini e zone delimitate; dove lo spazio vuoto e immobile è più sicuro di quello abitato, come sembrano ricordarci le telecamere posizionate sempre più spesso agli angoli delle strade e in altri luoghi pubblici, le recinzioni dei giardini o la suddivisione degli spazi comuni in luoghi progettati per funzioni, target, gruppi di utenti idealmente omogenei. Il progetto Cantiere Barca rientra nell’ambito di applicazione del programma di produzione di opere d’arte per lo spazio pubblico Nuovi Committenti (www.newpatrons.eu) e si avvale del supporto del Goethe-Institut Turin e del contributo della Fondation de France. *a.titolo è una organizzazione no profit fondata a Torino nel 1997 con lo scopo di promuovere l’arte contemporanea orientata verso le dimensioni sociali, politiche e culturali dello spazio pubblico. a.titolo cura progetti site-specific, committenze di arte pubblica, campagne fotografiche, convegni, pubblicazioni, workshop e attività didattiche, promuovendo in maniera interdisciplinare il dialogo culturale e artistico fra disegno urbano e arti visive.
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torino sogna
la nuova sede della bjcem testo di emiliano paoletti*
“Non solo a vendere e a comprare si viene ad Eufemia, ma anche perchè la notte accanto ai fuochi tutt’intorno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili o sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice -come “lupo”, “sorella”, “tesoro nascosto”, “battaglia”, “scabbia”, “amanti”- gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di tesori, di scabbi, di amanti, di battaglie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per restare sveglio al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia, la città in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio”. Italo Calvino, Le Città Invisibili Ogni volta che in questi anni mi sono ritrovato a pensare una città, queste parole sono sempre riemerse nella mia memoria, per aiutarmi a dire che la città è luogo di scambio ed incontro e quindi di integrazione, di innovazione, di rigenerazione. Le città non possono chiudersi, non hanno perimetri, sono nodi di una rete che attraverso infinite connessioni punto-punto ci permette di viaggiare e sognare. Non sono tra i fondatori della Biennale del Mediterraneo, nata ormai nel lontano 1985, ma da quando ne ho iniziato a seguire le tracce nel 1999 ad oggi, posso dire che il sogno di un evento itinerante che si svolge ogni due anni in una città diversa, nella quale ospita e fa incontrare centinaia di artisti, curatori, operatori, appassionati...e migliaia e migliaia di semplici visitatori, sia proprio riconducibile a quello della bellissima città di Eufemia di Calvino. In questo senso, la Biennale del Mediterraneo è una grande narrazione collettiva che
cresce da una città all’altra di questa grande rete che è oggi l’Associazione internazionale BJCEM (Biennale des jeunes créateurs de l’europe et de la mediterranée), con 73 partners in 23 paesi, per confluire ogni due anni in un luogo appunto di scambio ed incontro. Del resto, l’approdo in questa Associazione è avvenuto per me in maniera naturale dopo i tanti anni passati a Roma a lavorare su progetti come il recupero del Mattatoio e in particolare de La pelanda o i grandi festival come Enzimi e FotoGrafia. Esperienze nate in un’epoca a cavallo di questo nuovo secolo in cui la riflessione sul rapporto città, cultura e nuove generazioni ha forse prodotto alcuni degli esempi più alti della nostra progettazione culturale. Stagione che ha poi visto la nascita anche dei tanti e bellissimi festival che sono stati un po’ la grande ricchezza culturale dell’Italia degli anni duemila, da Mantova a Modena, da Sarzana a Trento solo per citarne alcuni. E proprio a quell’epoca bisogna risalire per incontrare Torino e la famosa “Biennale dell’acciuga”, quella del ‘97 che tantissimi ancora oggi ricordano. Quell’edizione della Biennale del Mediterraneo ebbe una forza ed un impatto sul territorio che pochi altri eventi hanno avuto poi negli anni a venire, generando un fenomeno che ho avuto la fortuna di registrare anche a Roma, quando poi nel ‘99 realizzamo la successiva edizione della Biennale che riaprì dopo 25 anni al pubblico il Mattatoio di Testaccio, ovvero quello di consentire alle persone di appropriarsi in maniera inedita di luoghi ormai persi nella memoria cittadina al punto di farli entrare nella memoria di intere generazioni grazie a quello stesso evento. La percezione dello spazio urbano, di come viverlo, di come muoversi al suo interno, viene alterata e trasformata in un’esperienza di fatto emotiva, gioiosa, di scambio e condivisione. Ecco, in alcuni rari momenti gli eventi sono in grado di far sognare una città diversa, più bella e più ricca di belle passioni. A Roma negli anni questo mi è successo non solo con il Mattatoio, ma con l’Air Terminal Ostiense, i magazzini della Stazione Tiburtina, il quartiere Esquilino, i Mercati di Traiano e la Basilica di Massenzio, solo per
citarne alcuni. Qui a Torino è successo grazie alla Biennale e poi a BIG ad esempio con la Cavallerizza Reale. Non solo, quella Biennale ebbe anche la forza di mettere insieme tante energie diverse, luoghi, persone, gallerie, gruppi e farle riconoscere come parte di un mondo nuovo, il cui potenziale è fragorosamente esploso negli anni a seguire. Questa è la magia che un evento come la Biennale del Mediterraneo prova a creare ogni volta che si fa, crescendo come un collage di tante e diverse cose, per accumulazione di senso, esperienza e buone pratiche. C’è una buona dose di incoscienza e di mancanza di controllo che contribuisce ogni volta a realizzare questo evento, impossibile per i tempi e le condizioni in cui si realizza, da programmare in maniera troppo analitica e dettagliata. Ecco perché la nostra Biennale è un sogno notturno, di quelli che si fanno, non che si realizzano. La citta che sogniamo è ricca di occasioni e possibilità impreviste, di spazi ed esperienze che emergono all’improvviso, per generazione spontanea, per contaminazione, per un seme che il vento del Mediterraneo ha portato e seminato, per qualcosa che ci portiamo da un luogo all’altro nelle nostre tasche e che involontariamente perdiamo.
Ogni due anni, da Torino partiamo per un nuovo viaggio con un bagaglio fatto di tante cose mai abbastanza ordinate: la nostra è un’organizzazione imperfetta che avanza e ripiega e che non sarà mai in grado di conservare e valorizzare tutta l’energia che ha prodotto e sprigionato. Ecco, le nostre tante città: Sarajevo, Skopje, Barcellona, Marsiglia, Salonicco, Napoli, Lisbona, Roma, sono città imperfette, sono sogni densi e gravidi. Sono il nostro Mediterraneo con le sue forze, spinte, passioni e contraddizioni. In fondo è questa la bellezza che cerchiamo e che ogni due anni proviamo a far emergere dalle profondità. E’ un’impresa che ancora vale la pena di essere vissuta e Torino con il suo apparente ordine sistematico resta il luogo ideale da cui ogni volta ripartire per questo viaggio. Ancora di più oggi, perché grazie alla scelta di insediare la nostra nuova sede al Cortile del Maglio avremo più occasioni per vivere Torino, per immergerci nei suoi umori, aprendo una finestra verso i nostri mondi e cercando di farli incontrare con le visioni più nuove e sorprendenti che questa città è ancora in grado di generare. * Emiliano Paoletti è Segretario Generale BJCEM (www.bjcem.org)
Saverio Todaro, Piano Regolatore Generale (Little Italy), 2004-05, tecnica mista, cm. 256 x 372 x 40
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intervista
dall’olanda in tram intervista al Gruppo Fucking Good Art
testo di PAOLA VARALLO
Perchè sei a Torino? Cosa fai qui? Siamo giunti a Torino perché stiamo effettuando una residenza itinerante inl’Italia su invito dei curatori Cecilia Canziani e Ilaria Gioni della Fondazione Nomas di Roma. Torino è la quinta città che visitiamo in Italia. Consoceremo ogni città attraverso lo sguardo di un partner di Nomas, che ci accompagnerà nella scoperta della sua città. A Torino sia-
mo ospiti di Raffaela Spagna e Andrea Caretto del gruppo artistico Diogene. Dove siete andati e che cosa avete visto durante il vostro soggiorno a Torino? Siamo stati 5 giorni a Torino. Il primo giorno abbiamo fatto una presentazione sul tram di Diogene e più di 30 persone sono state coinvolte fra i quali alcuni artisti, un giornalista, 2 curatori del Castello di Rivoli, un provocatorio filosofo e un artista nel mezzo di un svolta lavorativa che “si potrebbe interpretare come un gesto artistico”: infatti diventerà a breve psichiatra. I giorni a seguire abbiamo visitato musei, studi, spazi gestiti da artisti e fondazioni. Dopo la vostra esperienza a Torino, cosa pensate dello scenario artistico contemporaneo della città? Torino è una città giovane, raccolta e interessata all’arte così come a campi interdisciplinari. Abbiamo incontrato persone che hanno veramente contribuito a far crescere e ridefinire questo scenario. In realtà pensiamo che Torino abbia grandi potenzialità in termini di edifici vuoti, affitti non troppo cari per alloggi e studi, ottimo cibo a prezzi modici, collezionisti e, rispetto alle altre città che abbiamo visitato in Italia, si denota un approccio più positivo delle Istituzioni nei confronti dell’ arte contemporanea e delle strategie bottom-up. A livello generale la nostra impressione è che Torino abbia tratto vantaggio della situazione post-Fiat. Torino è considerata la Detroit d’Italia, ma questo ovviamente non è vero. Torino non è caduta così in profondità nella crisi economica e sociale come Detroit. Abbiamo comunque visto molti edi-
fici industriali vuoti, alcuni di questi trasformati, rinnovati ad una funzione o uso diverso, molti in attesa di una nuova vita. Avete trovato qualche somiglianza con altre città europee? Quali? Non proprio, forse Manhattan o di Lisbona per quanto riguarda la pianificazione urbana. Torino è una città con quasi un milione di persone, paragonabile ad una città come Amsterdam. Siamo stati decisamente colpiti dalle colline e dalle Alpi che circondano la città e questo, in realtà, ci ha ricordato di Zurigo. Per certi aspetti vi è somiglianza con la nostra città natale Rotterdam. Anche noi abbiamo avuto, e abbiamo tuttora, molti edifici vuoti a causa dello spostamento del porto marittimo della città. Rotterdam, città considerata secondaria in Olanda nell’ambito culturale, ha in realtà sviluppato la grande ambizione di posizionarsi come centro culturale e ha realmente promosso l’arte contemporanea, consentendo agli artisti di occupare e trasformare edifici vuoti, coinvolgendo un pubblico giovane e internazionale. Ha saputo sfruttare questa strada anche come modo per rifunzionalizzare le aree ex industriali. Nonostante tutto, alcune cose stanno cambiando negli ultimi anni e gli artisti si stanno trasferendo verso altre città come Berlino, capitale della cultura in Europa. Questo rattrista perché abbiamo bisogno di panorami artistici interessanti o emozionanti in ogni città al fine di offrire alla nostra vita e alla vita di altri, un significato più profondo…ma come Torino, purtroppo anche Rotterdam e tutta l’Olanda si trovano a dover affrontare grandi tagli alla cultura, alle università e ai servizi pubblici.
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DOCUMENTI D’ARTISTA PIEMONTE una città virtuale testo di Stefania Meazza, Veronica Liotti e Catherine Macchi*
Quando internet è nato, negli anni Ottanta, l’idea di “rete” come organismo sovrastrutturale alla società ha cominciato a farsi avanti e, dalla sociologia, dove si parlava già precedentemente di reti sociali, è passato ad altri ambiti culturali, compresa l’arte contemporanea.
L
a rete è un’immagine simbolica che ricorre nel progetto Documents d’Artistes anche se nel 2000, quando è stata fondata a Marsiglia la prima associazione con questo nome, l’intenzione era di costruire un archivio che potesse rendere conto dell’attività artistica nella regione Provence-Alpes-Côte d’Azur. Documents d’Artistes è infatti principalmente un fondo documentario di portfolio di artisti su base regionale, selezionati da un comitato di esperti (artisti, curatori, critici d’arte, direttori di istituzioni) rinnovato ogni anno. La sua principale vocazione è scientifica:si tratta di proporre una visione pluralista ed aggiornata della situazione artistica regionale, sottoforma di strumento di lavoro per i professionisti o di scoperta per gli amatori. Importante è in questo senso il motore di ricerca che consente di determinare temi molto precisi grazie ad un numero elevato di parole chiave scelte dagli artisti stessi. Ma l’attività di Documents d’Artistes assolve anche a una funzione più dinamica, sostenendo gli artisti nella diffusione dei loro lavori e proponendo periodicamente eventi o mostre. Pur tuttavia, all’idea di database statico, qui a Documenti d’Artista Piemonte, preferiamo, per illustrare il progetto, l’idea di città virtuale, di “sovra-città”. Primo perché ogni cellula di Documents d’Artistes è rappresentata da una città (e una regione) e poi perché il fondo documentario è sì formato da documenti, dietro i quali però ci sono gli artisti, e il fine ultimo della sua costituzione è quello di metterli in luce attraverso la loro attività. A questo proposito, il lavoro di concepimento e di realizzazione dei portfolio è fatto in stretto dialogo con l’artista, che propone la modalità di visualizzazione delle sue opere più consona alla diffusione. Al centro di questo sistema c’è quindi la figura dell’artista, che con i suoi lavori disegna una nuova cartografia della regione a cominciare dal suo centro più importante, Torino. Attraverso la lente del fondo documentario, quello che vogliamo proporre con questo strumento è il ritratto artistico della Torino contemporanea.
E questo è possibile naturalmente se vengono messi in valore gli elementi che hanno composto e compongono tuttora il panorama variegato dell’arte contemporanea e che fanno della città sabauda un esempio unico sul territorio italiano: a partire naturalmente dagli artisti storici (impossibile trascurare l’eredità dell’Arte Povera), imprescindibili nella valutazione della situazione attuale e tuttora attivi nelle scelte artistiche di spazi d’arte, realtà associative o giovani artisti. Ma gli ingredienti che formano questa mappa non si fermano qui (ed è quello che abbiamo toccato con mano durante i colloqui con alcuni dei protagonisti del mondo culturale torinese): impossibile non citare la varietà di gallerie, storiche o affermate (Giorgio Persano, Tucci Russo, Guido Costa, Franco Noero, Alberto Peola, Sonia Rosso…) o più giovani (Norma Mangione, Verso Arte Contemporanea, Glance…) che hanno il pregio di presentare una programmazione internazionale accompagnata da uno sguardo attento agli artisti torinesi. L’appuntamento di Artissima è il barometro della vitalità del mercato dell’arte contemporanea a Torino, dove accanto a proposte commerciali di qualità, vengono elaborati progetti di ricerca con il contributo di curatori e artisti. Inoltre ad Artissima il tasso di partecipazione di gallerie o di importanti attori dell’arte contemporanea francese è altissimo, come a sottolineare il legame storico e culturale molto forte che la città sabauda intrattiene con la vicina Francia. Ma un ritratto della città di Torino sarebbe incompleto senza considerare il contributo delle istituzioni, che fin dagli anni 90 hanno lavorato ad una messa in rete degli spazi e delle realtà del mondo dell’arte contemporanea, il cui risultato è il portale TorinoContemporary e una serie di progetti “corollario” interessanti perché mostrano come è possibile lavorare con il settore pubblico mantenendo un’autonomia intellettuale. A partire dalle istituzioni museali (Gam, Castello di Rivoli), passando per le fondazioni (Sandretto Re Rebaudengo, 107 e Merz, ma – guardando al Piemonte – anche Cittadellarte e Spinola Banna) e per i centri d’arte (il PAV), quello che emerge è un panorama estremamente ricco, proteso verso l’estero e il resto dell’Italia, con approcci e visioni inediti e modalità operative molteplici. Infine ci preme ricordare, nella nostra raccolta di istantanee della città di Torino, anche la dinamica e innovativa scena artistica indipendente (Progetto Diogene, Art In Town, Associazione Arteco, Cripta 747...), che fa la cifra di questa città e mostra l’estrema vitalità del panorama artistico “dal basso” ripercorrendo una tradizione che affonda le sue radici nei movimenti degli anni Sessanta e Settanta e che, specialmente in questo periodo di tagli ai fondi strutturali, ha il pregio di sfruttare la mancanza di risorse in modo virtuoso, cosic-
ché i vincoli monetari si traducano in opportunità creative e i punti deboli in punti di forza. Ecco perché quella che vogliamo costruire con Documenti d’Artista Piemonte è la cellula piemontese all’interno della sovra-città Documents d’Artistes: un luogo virtuale, ma accessibile a tutti, che, oltre a mostrarne il panorama artistico, lo metta in contatto con realtà analoghe oltralpe, seguendone le evoluzioni attraverso lo strumento della rete (telematica e “sociale”). Questo è anche uno dei motivi alla base della nascita del progetto a Marsiglia: rompere l’isolamento in cui la provincia francese si trova rispetto al sistema dell’arte contemporanea, incentrato esclusivamente su Parigi, e allo stesso tempo offrire uno strumento di lavoro flessibile ma rigoroso. Ma poiché Documenti d’Artista non è semplicemente un archivio, vorremmo precisare che ogni singola associazione di questa rete è una realtà a sé stante, un motore di attività all’interno del paesaggio artistico, un nucleo vivo al centro di una comunità di artisti e specialisti dell’arte contemporanea, un interlocutore di istituzioni e privati, gallerie e singoli artisti. Il sistema Documents d’Artistes, esteso per ora ad alcune regioni francesi (Alpi Marittime, Bretagna, Rhône-Alpes e prossimamente Aquitania), costituisce il nucleo di questa sovra-città virtuale e la base su cui costruire un futuro progetto di fondo documentario a dimensione europea. Ancora in fase di elaborazione, Documenti d’Artista Piemonte è la prima realtà di questo tipo a vedere la luce al di fuori delle frontiere francesi e a proporre le stesse procedure di funzionamento in territorio italiano.
Documenti d’Artista Piemonte (DDAP) nasce a Torino nel 2010. È un progetto di Veronica Liotti, Catherine Macchi e Stefania Meazza, curatrici e critiche d’arte indipendenti che vivono e lavorano tra la Francia e l’Italia. Dopo aver maturato individualmente diverse esperienze presso istituzioni pubbliche e spazi espositivi privati decidono di associarsi e lavorare in team alla realizzazione di DDAP. Per contatti: dda.piemonte@gmail.com Le altre associazioni francesi sono: Documents d’Artistes Paca (www.documentsdartistes.org), Documents d’ Artistes Bretagne (http://ddab.org), Documents d’Artistes Rhône-Alpes (www.dda-ra.org).
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curare con l’arte testo di carlotta romano
L’autrice di “Videoinsight® - curare con l’arte contemporanea” (Silvana editoriale) è Rebecca Luciana Russo, psicologa clinica e psicoterapeuta familiare. A lei chiediamo di introdurre la sua pubblicazione: nella prima parte parla di arte e psicoterapia, ma anche della relazione personale dell’autrice con l’arte, è corretto?
è
vero, il libro nasce dal desiderio di raccontare un’esperienza della mia vita. Io sono una psicoterapeuta e sono una ‘raccoglitrice di immagini dell’arte contemporanea’. Vivo intensamente queste due dimensioni del mio esistere, che si sono progressivamente integrate e hanno prodotto alcuni risultati che a un certo punto ho sentito l’esigenza condividere. Il primo risultato è stata la nascita di una raccolta di opere d’arte contemporanea. è una collezione che si compone di pezzi che seguono il filo dei miei pensieri e delle mie risonanze emotive come psicoterapeuta, dunque tutte le opere seguono un filo psicologico, psico-diagnostico, psicoterapeutico. Dopo alcuni anni mi sono resa conto che la collezione era speciale: seguiva il messaggio che io stesso proiettavo. Il secondo risultato è stato poi di introdurre le opere nella mia professione. Prima a livello psicodiagnostico, cioè per conoscere la personalità degli altri e poi anche per curare, quindi a livello psicoterapeutico. In-trodurre un’opera in un contesto in cui non c’erano immagini è stata la prima mossa, i-stintiva. I pazienti mi hanno poi fatto capire che quella mossa era fertile: più che essere disturbati dall’immagine, si sono agganciati ad essa. L’hanno memorizzata, interpretata e l’hanno recuperata dopo tempo. Io che ho esperienza con la somministrazione del test di Rorshach (test proiettivo composto da dieci tavole fatte di macchie d’inchiostro simmetriche), mi sono ritrovata a pensare che anche le immagini che mostravo potessero raccogliere, in modo similare, proiezioni a me molto utili per capire l’altro. Di qui all’ultilizzo il passo è stato breve: quando sento che in un relazione terapeutica sia proficuo, introduco l’immagine e lavoro in seduta con l’immagine e con la parola. Ho incominciato a farlo e poi l’ho fatto sempre di più perché ho raccolto risultati. L’immagine ha una potenza incredibile, aiuta il cambiamento, la proiezione del cambiamento. Ho infine avvertito l’esigenza di dare un nome a questo nuovo modo di agire e anche di collocarmi fra le altre esperienze che coniugano arte e terapia: mi sono confrontata con
l’arteterapia, con la psicologia dell’arte, la fototerapia, la cinematerapia, la videoterapia. Direi che mi posso collocare nella psicologia dell’arte. Con la differenza che gli psicologi dell’arte tendono a interpretare la personalità dell’artista, a me interessa chi guarda l’opera. Per il nome ho scelto Videoinsight®: ‘insight’ significa avere una illuminazione, un’intuizione, in questo caso attraverso la visione di un’immagine dell’arte. Tutto ciò è descritto nella prima parte del libro. Nella seconda parte racconto una trentina di casi in cui la visione di un video d’arte contemporanea ha fatto la differenza nel raggiungimento del risultato terapeutico. Inizio con un video dei Masbedo e chiudo con un’opera di Nathalie Djurberg. I casi sono stati scelti in modo da rappresentare un po’ tutti i temi della mia attività clinica.
L’arte più adatta al suo metodo è soprattutto quella dei video e della fotografia contemporanea? No, anche se in questo libro parlo di video e fotografia, non è la tecnica che fa la differenza ma il messaggio. Quindi si potrebbe parlare di arte in generale, anche di quella di altre epoche storiche? Certo. L’arte contemporanea non descrive, rovescia i significati, spesso è più ambigua: ma non si può naturalmente generalizzare perché se pensiamo a capolavori come ‘L’Origine del mondo’ di Gustave Courbet piuttosto che a ‘Amor sacro e amor profano’ di Tiziano, non possiamo che dire la stessa cosa. Diciamo che l’arte contemporanea si presta molto all’interpretazione soggettiva. Ma non tutta funziona: deve essere leggibile, non si possono usare opere che non si capiscono per niente. Dunque una delle caratteristiche fondamentali delle opere che lei usa è di essere narrative? Devono narrare o stimolare la narrazione, non troppo chiuse in se stesse, o troppo concettuali. Chi le guarda deve poterle descrivere o riceverne sensazioni: parlando delle opere parlerà inevitabilmente un po’ di sé. Un esempio? Il video dell’artista Sissi, intitolato ‘Daniela ha perso il treno’. E’ un video semplice, dura 1’ e 18”, la scena è ambientata alla Stazione Centrale di Bologna dove una ragazza si gonfia una gonna fatta pneumatico e poi non riesce a prendere il treno perché è troppo ingombrante. I pazienti si identificano subito nella protagonista e interpretano questa gonna come piena di paure, ricordi, rimorsi, sicurezze materiali, ideali, aspettative, insomma di vincoli. E’ un’opera un po’ per tutti: capita di non riuscire a prendere dei treni, di perderli a causa di attaccamenti, della paura dell’ignoto… E’ un lavoro che ha dato risultati incredibili.
La scelta delle opere corrisponde alla sua personalità, ma anche a una particolare linea terapeutica? Le opere seguono le mie convinzioni psicoterapeutiche, ma in realtà si sposano con i concetti della psicoterapia: nascita, morte, evoluzione, invecchiamento; l’attaccamento e lo svincolo, l’ambivalenza, i complessi, le nevrosi e l’ansia, le resistenza al cambiamento… sono concetti universali. L’arte tratta i temi della vita, che sono i bisogni primari.
Pensa che anche il libro sia terapeutico? Stimola l’insight, soprattutto nella seconda parte. L’ho scritto di getto in 35 giorni nell’agosto 2010, utilizzando il linguaggio che utilizzo in seduta: il ritorno da parte delle persone mi fa capire che anche senza vedere i video, intuendone la scena dalla semplice descrizione, si possono avere utili indicazioni circa le situazioni della propria esistenza.
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intervista
leggende metropolitane C’è chi va in ferie e chi in vacanza, le città si svuotano ma rimangono sempre piene. Chiacchierando con Bruno Gambarotta. testo di OLGA GAMBARI
canza te la puoi prendere anche durante lungo l’anno. Fa venire in mente “i ponti”, quando è festa il venerdì o il giovedì e si tira fino alla domenica. E poi fa venire in mente gli spostamenti, i viaggi veri e propri. La vacanza è quella per cui si viaggia, si fa il giro della Bretagna, si va in Normandia. È quella del biglietto ferroviario con cui giri in Europa per un mese.
S
e dico “ferie”? Le ferie sono quelle impiegatizie. La nozione di ferie è quella del dipendente a tempo indeterminato che passa 11 mesi a lavorare e poi ha un periodo di 2\3 settimane all’anno sul quale fantastica, progetta, pianifica con dei compromessi con la famiglia, o per lo meno, con lunghi dibattiti per decidere dove andare. Le ferie sono quelle stanziali, in cui l’impiegato, l’operaio praticamente trasloca per qualche settimana. La parola “ferie”, poi, per i torinesi fa venire in mente Varigotti, Noli e Bardonecchia, anche Rimini, ma meno la riviera adriatica. È l’estate passata nella pensioncina o nella casa d’affitto, dove uno va lì e non si muove più. Parte con la macchina stracarica di bagagli. Il ricordo va subito alle ferie dei dipendenti Fiat, che addirittura avevano la macchina pronta parcheggiata davanti a Mirafiori. Uscivano l’ultimo giorno di lavoro dopo il turno di otto ore, salivano in auto, che strabordava di bagagli, partivano e facevano altre 18\20 ore di strada per arrivare in Calabria, in Sicilia o in Puglia, perché bisognava fare vedere ai parenti rimasti là che, in qualche modo, si era raggiunto un certo benessere, l’obbiettivo di avere la macchina. Poi si tornava ancora più carichi, perché si portavano le verdure, le conserve, le melanzane, i pomodori secchi, il pecorino. Invece “vacanza”? La parola “vacanza “ è tutto un altro mondo. Intanto la va-
E tu vai in ferie o in vacanza? Io ho vissuto il periodo delle vacanze quando ero studente, da ragazzo, ma erano gli anni Cinquanta, quelli in cui non si andava da nessuna parte, si stava a casa, si facevano grandi letture, soprattutto nelle ore più calde. Per nostra fortuna non c’era la televisione, noi siamo stati gli ultimi favoriti da questo punto di vista. Poi c’è stato il periodo delle vacanze nelle case dei nonni. Molti di noi hanno origini contadine e c’era sempre una casa dei nonni che ti ospitava durante l’estate. Le ferie sono arrivate quando ho cominciato ad avere un impiego. Ho iniziato come tipografo, poi sono entrato in Rai. Torino d’estate, allora, è vuota o è piena? Io ho vissuto ancora la stagione della Torino svuotata completamente. Ho lavorato dal ‘56 al ‘62, tranne la parentesi del militare, come fotolitografo in un’azienda specializzata in libri d’arte, che quindi non aveva niente a che fare con la Fiat, eppure noi facevamo le ferie con la Fiat: tutta la vita torinese era sincronizzata con la Fiat. Allora erano trecentomila le famiglie che vivevano sulla Fiat e poi c’era tutto l’indotto. Per sapere quando saremmo andati in ferie bastava sapere quando la Fiat avrebbe chiuso e quando riaperto. Era impressionanate, la città diventava deserta, sembrava fosse scoppiata la guerra atomica. Poi negli anni Settanta le cose sono iniziate a cambiare: bisogna, infatti, tener conto del fatto che le cosiddette “estati in città” organizzate dal comune sono cominciate nel ‘75, quando Nicolini a Roma ha fatto l’estate romana e tutti gli sono andati dietro, compreso il sindaco di Torino Diego Novelli, che si inventò dall’anno dopo i “Punti Verdi” sparsi nei quartieri. Prima l’amministrazione pubblica non si sognava di occuparsi del tempo libero dei cittadini, si occupava delle cose essenziali, non di cosa avrebbero fatto i torinesi rimasti in città. L’unica eccezione fu il ’61, per il centenario dell’Unità d’Italia. Venne messa in piedi una cosa immensa, un cartellone con 43 spettacoli. Quell’estate sono arrivati in città dal
Teatro Piccolo di Milano e di Genova, alla Compagnia dei Giovani, 3 regie di Streler e poi musical, compagnie di ballo. A rileggere il programma vengono i brividi, zizian mer, un giluietta e romeo in inglese di zeffirelli Quell’anno non valeva la pena andarsene via. Per il resto, deserto totale: si andava a Porta Palazzo la domenica mattina per comprare le angurie, che venivano battute all’asta, ma ho visto che ancora adesso c’è questa tradizione. Poi casomai si andava a far merenda al Colle della Madallena, che all’inizio non era nemmeno ancora attrezzato. Non è un caso se Cesare Pavese si suicida il 26 agosto del ’50: quello era proprio il mese dei suicidi, c’era da spararsi a stare in città, a meno di non avere amici, o altre motivazioni. Era una Torino diversissima da questa. E le recenti estati torinesi? Sono comparsi i turisti, oltre a coloro che decidono di andare in vacanza da settembre in poi. È una novità vedere i turisti, soprattutto stranieri. Una volta in Piemonte si facevano dei giri nelle Langhe e una puntata di tre ore a Torino, giusto per visitare il Museo Egizio e quello dell’Automobile. Adesso, invece, c’è anche il Museo del Cinema, la Reggia di Venaria, la Torino Barocca. Chi veniva nel passato a Torino se la immaginava come una Detroit nostrana, una Company Town grigia e industriale. Per questo rimanevano colpiti e sorpresi, entusiasti persino. Le Olimpiadi Invernali del 2006 hanno proprio veicolato questa nuova idea della città, migliaia di riviste ne hanno parlato, stimolate dall’evento ma andandone al di là. L’immagine torinese è cambiata. Sono state un volano straordinario, anche perchè c’era un obbiettivo da raggiungere, e i torinesi ne hanno sempre bisogno per agire. Devi dare loro uno scopo, allora si mobilitano, danno il meglio di sé, con l’assillo di fare bella figura, altrimenti cosa diranno di noi e insieme l’angoscia per la scadenza. Il dopo, poi, è una depressione post partum, e ci rimangono sempre degli edifici di cui non si sa cosa farsene. Per fortuna quest’anno con le celebrazioni del 2011 hanno avuto il buon senso di usare strutture presistenti. Invece, per esempio, il Palazzo del Lavoro costruito nel 1961, un vero scatolone inutile, saremo fortunati se diventerà un supermarket. * Bruno Gambarotta, nato ad Asti il 26 maggio 1937, ha lavorato per oltre trent’anni alla Rai come programmista e delegato alla produzione di film e telefilm. E’ stato vice presidente della Fondazione Film Commission Torino e collabora al quotidiano “La Stampa” con due rubriche settimanali. Ha pubblicato numerosi romanzi, saggi e monografie; il suo prossimo libro, “Le ricette di Nefertiti” (Garzanti editore) esce l’8 settembre.
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svago
falso d’autore
di Annalisa Russo
Trova le 4 differenze tra l’originale e la copia di quest’opera di Nam June Paik.
la ricetta del mese
a cura di Filippo Bondesio*
i cocktails di hem Tra le pagine e in fondo a un bicchiere, è qui che trovi Ernest Miller Hemingway: in un racconto o in una bottiglia, che in pratica sono due luoghi per fuggire. Le pagine narrano le sue storie e i suoi personaggi, mentre in fondo a un bicchiere trovi quello che lui era. Ma prima di arrivare al fondo, devi scolartelo, il bicchiere. Scolarti tutto quello che si beveva lui. Ed era tanto. Il vecchio Hem era in grado di consumare una quantità disumana di alcol. A Cuba, al Floridita, beveva daiquiri senza zucchero, solo rum e succo di lime, doble, cosi’ ricordano gli amici, e mojito alla Bodeguita. A Key West in Florida, ancora oggi, se chiedi un “Ernest Hemingway special”, assisti a questa cerimonia: coppetta fredda, Martini dry nel mixer per sciacquare e profumare i cubetti di ghiaccio, poi giù il Martini nel lavandino e avanti con il gin. All’Harry’s bar di Venezia, invece, è ufficiale che bevesse il Martini alla Montgomery: dieci parti di gin e una di dry, coppetta uscita dal freezer, due cubetti di ghiaccio cristallino e nessuna oliva. Arrigo Cipriani, il patron del locale, figlio di Giuseppe che ha fondato l’Harry’s bar e lì, in calle Vallaresso, ha conosciuto Hemingway e bevuto con lui dozzine di bottiglie di Valpolicella, detta questa ricetta hemingwayana: prendi una bottiglia di gin, togli quel dito, quelle due dita di liquore che sta nel collo della bottiglia e aggiungi la stessa misura di Martini, senza arrivare all’orlo; tappi e la giri due, tre volte; infine, servi. Preferiva così il vecchio Hem, garantisce. Beveva comunque come scriveva: secco.
artoku
di Danita
il segno del mese cancro
* Filippo Bondesio, avvocato, gran viaggiatore, ha tradotto Peter Altenberg, Ernst Kunda, Charles Baudelaire e Christian Bobin.
di Serbardano
22 giugno / 22 luglio
Che sei lunatico, caro Cancro, lo sappiamo: d’altra parte il tuo pianeta dominante è la Luna, che questo mese entra Nuova nel tuo segno. Sappiamo anche che sei vulnerabile e molto sensibile, tutte caratteristiche che fino a poco tempo fa erano un peso, più che una risorsa. Ma un importante cambiamento è in atto, complice anche Giove che con la sua determinazione ti aiuta a fare chiarezza: hai imparato a dominare le tue paure e le tue insicurezze, a staccarti da un passato che spesso hai sopravvalutato, per guardare al presente e progettare il futuro. E così finalmente sei diventato padrone di te stesso, e le tue doti creative e immaginifiche si potranno infine liberare, per realizzare il tuo progetto di vita che, tu non lo sai, stai costruendo meravigliosamente da anni. Nam June Paik (Seoul, 20 Luglio 1932 - Miami, 29 Gennaio 2006) è considerato il fondatore della video arte, artefice di video installazioni che generano un corto circuito tra cinema, musica, scultura e arti visive. Una forma di “arte totale”, che immerge lo spettatore in un mondo onirico e multisensoriale.
buonumore
di Stefania Sabatino
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