N°9 settembre/ottobre 2011
pubblicazione gratuita / bimestrale / Anno I / Numero 9
LA STORIA, IL TEATRO, L’ARTE: INTERVISTA A MARIO MARTONE PEYTON-JONES E OBRIST RACCONTANO LA NUOVA INDIA AL MAXXI
Collezione ArteSera: Paolo Leonardo E ancora: nuovo distretto creativo a Torino, offiCina Beijing, il Padiglione Egitto
l’editoriale Si riparte a settembre... ...che sembra sempre il vero inizio dell’anno, molto più che a gennaio. Che invidia i diari di scuola, che riempiono in queste settimane le cartolerie e le librerie con colori, figure e formati diversi. È una leggerezza a cui ambire, in un ritorno che respira pesante per tutti, che non ha dato tregua a nessuno con le notizie estive. Sembravano arrivare dall’altro mondo, dalla Argentina che fu, dalla Grecia e invece erano tutte italiane. Ma per certi versi è la solita storia, appunto sempre italiana, fatta di identità, indole, segreti, corsi e ricorsi, opacità. Un miele trasparente che continua ad avvolgerci e a rallentarci sguardo, azione e coscienza. Come racconta Mario Martone in “Noi credevamo”, tra cinema, teatro e arte. È un simbolo perfetto di questa situazione l’opera di Gabriele Arruzzo, che dà la copertina al numero e parla la stessa lingua, anche storica, del film di Martone. Un nuovo stemma per la Repubblica Italiana carico di metafore. Vedere lucidamente l’anima delle cose, capirne la radice per stare in contatto con la realtà, fuori dal rumore del vento. Per esempio, per parlare ancora di Biennale di Venezia e querelle annesse, una visita dovrebbe partire dal Padiglione dell’Egitto, che davvero segna la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, anche per chi non vuol sentire nè vedere. Da Pechino due italiani avventurosi e curiosi, Rosario Scarpato e Monica Piccioni, eredi dei grandi viaggiatori dei secoli passati, raccontano Pechino attraverso tre decenni. Al Maxxi si parla di India oggi, fissata nell’immagine di un’autostrada affollata in tutte le direzioni, piena di luce, vita, caos, in corsa per il mondo. È il mondo una volta passava per il Piper, quello torinese, non quello romano, altrettanto fantastico, quasi un fantasy a ricordarlo ora. Ma la realtà a volte è un sogno, per fortuna, è una visione relativa dove piani diversi si mescolano, come nei poetici lavori di Paolo Leonardo per Collezione Artesera. Nel numero si parla anche di copyright, di come sia un vero ginepraio capire genio e plagio, furbizia e libertà. E poi di nuovi distretti d’arte che sorgono sulla mappa cittadina e di belle mostre che aprono e del nuovo sito web di ArteSera, una nuova piccola sfida con cui vogliamo inaugurare questo inizio d’anno.
Olga Gambari e Annalisa Russo
Mensile / Anno I / Numero9 Settembre/Ottobre 2011
Direttore Editoriale Annalisa Russo Direttore Responsabile Olga Gambari Progetto grafico e impaginazione www.dariobovero.it Marketing e Relazioni Esterne Michela Tedeschi Copertina Gabriele Arruzzo, Proposta per il nuovo stemma della Repubblica Italiana (courtesy Alberto Peola)
Hanno collaborato Beatrice Bertini, Gabriele Boccacini, Francesca Comisso, Edoardo DI Mauro, Patrizia Fischer, Paolo Leonardo, Luisa Perlo, Federico Piccari, Monica Piccioni, Rosario Scarpato, Serbardano, Francesca Solero, Daniela Trombetta, Stefania Sabatino e Roberto Vayo Contatti Arte Sera Produzioni Via Lamarmora, 6 - 10128 Torino MAIL: redazione@artesera.it
Stampa SARNUB Spa Pubblicità MAIL: inserzioni@artesera.it
Testata giornalistica registrata. Registrazione numero N°55 del 25 Ottobre 2010 presso il Tribunale di Torino Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione n°20817 Tutti i diritti riservati: nessuna parte di questa rivista può essere riprodotta in alcuna forma, tramite stampa fotocopia o qualsiasi altro mezzo, senza autorizzazione scritta dei produttori.
4
copertina
per un nuovo stemma italiano testo di redazione
Gabriele Arruzzo dal 2010 ha lavorato a un grosso progetto nato dal contesto dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, e legato, quindi, a Torino, sua prima capitale.
Q
uesto periodo storico è stato al centro di una sua lunga indagine storica, composta di fonti diverse, dai libri, alle tavole illustrate, ai cataloghi, ai programmi radiofonici. Ne sono seguite varie riflessioni, sfociate nel 2011 in un ciclo di opere che hanno fatto parte della mostra intitolata “L’affossamento” (inteso come rovesciamento speculare del termine “Risorgimento”) proprio a Torino nel maggio di quest’anno alla Galleria Alberto Peola. Ci sono briganti e maschere, i Savoia, la Chiesa, il Sud e il Regno di Sardegna, luci e ombre, verità e menzogne, storia e mito. Arruzzo ha lavorato sulla contraddittorietà della percezione dell’Italia unita, e quindi dello spirito stesso degli Italiani. Le domande da cui partiva erano: “Siamo veramente un popolo unito?”, “ Di che cosa stiamo parlando esattamente?” Intanto, nello stesso periodo in cui Arruzzo preparava la mostra, si discuteva sul fare o non fare una festa del Tricolore, e iniziavano a piovere le notizie sugli scandali che coinvolgevano il Presidente del Consiglio, un inizio di anno travagliato e doloroso per tutti noi italiani, dentro e fuori i confini. Dice l’artista:
“Così, mentre mi esaltavo sempre di più sulle gloriose pagine del nostro Risorgimento, vedevo nel presente un’Italia dove il senso della vergogna e dell’etica s’erano completamente persi. Sfortunatamente questa era la condizione che davvero ci faceva sentire uniti.” Tra le varie opere che sono nate per l’occasione c’è la Proposta per un nuovo stemma della Repubblica Italiana, in cui si fondono insieme caproni diabolici, la pizza, le maschere di Pulcinella e Arlecchino, le divise da Balilla e da Giovane Italiana. Uno stemma che è un insieme di simboli comuni e, per così dire, ormai stereotipi, che dialogano con altri, invece, criptati. Racconta Arruzzo: “Lo stemma della Repubblica Italiana è stato disegnato alla fine della seconda guerra mondiale dal torinese Paolo Paschetto. Mi sono chiesto, diventando io stesso Paschetto, come avrebbe potuto ritrarre l’Italia di oggi attraverso un nuovo stemma della Repubblica, così ho preso i luoghi comuni legati alla percezione del nostro Paese all’estero, insieme a temi legati alla Massoneria (la vera fautrice del Risorgimento Italiano) e li ho posti all’interno di un rigido schema araldico, dove
tutto è anche il contrario di tutto, proprio come, per fortuna o purtroppo, nel nostro Paese. La ruota dentata, che simboleggia il lavoro, è stata sostituita da una corona funebre. I rami d’ulivo e di quercia, simboli di pace e forza, sono stati bucati, rosicchiati: una volta erano sani ma oggi non più. La stella, una volta capovolta è diventata un pentacolo esoterico, un riferimento alla Torino nera. A fare da guardia a questo nuovo stemma due maschere rappresentanti il sud e il nord d’Italia, Pulcinella (Napoli) e Arlecchino (Bergamo) che, in abiti del ventennio fascista, sembrano più ricoprire la carica di inquietanti officianti di un culto esoterico, che quella di personaggi della Commedia dell’Arte. In realtà, come per la storia dell’Unità d’Italia anche per questo lavoro ci sono diversi livelli di lettura: uno è più immediato, da Repubblica delle Banane, mentre il secondo, più serio e complesso, attraversa la storia dell’arte e del nostro Paese ed è decifrabile soltanto dagli “eletti”. Gabriele Arruzzo (Roma, 1976) vive e lavora a Pesaro. www.gabrielearruzzo.blogspot.com
6
attualità
padiglione egitto testo di olga gambari
E
ra la notizia su cui giornali e televisioni avrebbero dovuto fare i titoli. Invece è passata sotto silenzio, pochi se ne sono accorti del grande pubblico, se non attraverso un passa parola sul web. Altre cose sono balzate alla ribalta dei media, altri poteri, altre bagarre, evaporate come fumo in pochi giorni. Questa, invece, è un segno, un messaggio: il Padiglione Egiziano alla 54° Biennale di Venezia ( in corso fino a novembre) è dedicato alla memoria di Ahmed Basiony (1978-2011). Questo giovane artista, che amava la sound art e la multimedialità interattiva, è stato ucciso il 29 gennaio 2011 in piazza Tahrir a Il Cairo, durante le prime giornate di scontri di quella che sarebbe diventata la Rivoluzione Egiziana. È stato colpito da un proiettile della polizia. Il suo nome è in breve diventato un simbolo collettivo, un inno, una speranza. Ahmed Basiony
“Ho molte speranze se rimaniamo tutti insieme, così. La polizia colpisce duro. Io comunque il giorno dopo sono di nuovo lì. Se vogliono la guerra, noi vogliamo la pace. Io sto solo cercando di riconquistare un po’ di dignità della mia nazione.” L’ultimo messaggio di Ahmed Basiony su Facebook il 27 gennaio 2011
è fratello di sangue e di cuore di Mohamed Bou’azizi, il ventiseienne tunisino che il 17 dicembre 2010 si era dato fuoco per protestare contro la requisizione del suo banchetto di frutta e verdura, unica sua fonte di reddito, gesto da cui partì l’ondata rivoluzionaria che sta scuotendo tutto il nord Africa e parte del Medio-Oriente. Un artista morto mentre manifestava contro un governo dittatoriale diventa protagonista ufficiale del padiglione del suo paese. Ma c’è di più: il curatore, per la prima volta nella storia di questo padiglione, è una giovane donna, Aida Eltorie. Sicuramente c’è da pensare ad un’abile mossa politica, di un governo che vuol sedare gli animi, farsi vedere democratico e progressista, disposto a cambiare, ad ascoltare quel popolo che non riesce più a tenere con il pugno di ferro. Ma non è solo questo. Il padiglione era un’installazione pulita e rigorosa, pie-
na della luce di una serie di grandi proiezioni. Nel buio scorrevano in contrapposizione diverse immagini. Da un lato quelle di 30 days running in the space, uno maggiori lavori di Basiony, una performance realizzata nel 2010, chiuso in una stanza per un mese, avvolto in un abito di plastica trasparente e cosparso di sensori che registravano ritmi, frequenze e onde del suo corpo. Dall’altro le crude immagini delle proteste e delle violenze degli scontri in piazza Tahir, che l’artista stava documentando con attenta passione in quei primi giorni di ribellione civile. Nella dimensione chiusa e avulsa dal mondo reale, che è quella tipica del mondo dell’arte, ma soprattutto di una biennale, tra mondanità, giochi sociali e interessi economici, per una volta è entrata davvero la vita, quella che, appunto non fa notizia.
7
evento del mese
INDIAN HIGHWAYS al MAXXI I n t e r v i s ta a J u l i a P e y t o n - J o n e s e H a n s U l r i c h O b r i s t
a cura di olga gambari
Cosa raccontano questi giovani artisti indiani nei loro lavori? Un filo conduttore che unisce questi artisti è rappresentato dal loro coinvolgimento politico e sociale, volto ad esaminare i complessi fenomeni che stanno attraversando la società indiana, incluso l’ambientalismo, il settarismo religioso, la globalizzazione, la sessualità e la classe sociale. La mostra accosta artisti che hanno già avuto un riconoscimento internazionale con artisti emergenti. Dove vivono gli artisti, in India o all’estero? Indian Highway mette insieme artisti di una vasta regione attraverso il subcontinente. Molti risiedono in pianta stabile in India mentre altri viaggiano per il mondo; molti dei lavori sono stati selezionati per la loro connessione col tema delle autostrade indiane (Indian Highway, appunto, ndr), che rappresentano il concetto di migrazione e
spostamento, ma anche il collegamento tra le comunità urbane e rurali. Quali tipi di lingue e media gli artisti preferiscono utilizzare nei loro lavori? Gli artisti si muovono tra un’ampia gamma di media e lingue, utilizzando gli strumenti più adeguati a seconda del contesto della loro pratica artistica. Com’è articolata l’esposizione? Indian Highway adotta un approccio curatoriale secondo cui, ad ogni nuova presentazione della mostra, un curatore ospite è invitato a sviluppare un proprio progetto come un elemento autonomo e temporaneo all’interno della mostra. Concettualmente, l’esposizione si riconduce all’idea di mondialità di Edouard Glissant, che cerca di favorire il dialogo resistendo allo stesso tempo alle forze totalizzanti della globalizzazione. Nei prossimi tre anni, proseguendo nel progetto curatoriale, diversi artisti indiani o gruppi di essi cureranno una sezione all’interno della mostra nelle sue successive tappe internazionali a Roma, Mosca, Hong Kong e Delhi, facendo in modo che la mostra stessa si evolva verso nuovi e inaspettati sviluppi, come in un sistema dinamico e complesso. Come è stato sviluppato il progetto della mostra? Ogni nuova tappa fa evolvere la mostra in direzioni differenti. Per la presentazione inaugurale di Indian Highway presso la Serpentine Gallery nel 2008, gli artisti del collettivo Raqs Media di Delhi hanno prodotto una voce curatoriale aggiuntiva attraverso il coinvolgimento di un gruppo di registi di documentari. Il modello curatoriale è stato portato avanti presso l’Astrup Fearnley Museum of Modern Art nel 2009, quando l’artista Bose Krishnamachari è stato invitato a cu-
rare una sezione della mostra, e presso l’HEART (Herning Museum of Contemporary Art) in Danimarca nel 2010, dove l’artista Shilpa Gupta ha presentato una selezione di film indiani contemporanei. Al Musée d’Art Contemporain di Lione, gli Studio Mumbai Architects sono stati invitati a creare il loro “show dentro lo show” e al Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo abbiamo preparato una nuova presentazione di Indian Highway invitando il celebre artista Amar Kanwar a curare un programma di proiezioni che racconti la sua esperienza come film –maker. Inoltre, per Indian Highway V, il MAXXI ha commissionato una nuova opera a Giorgio Barberio Corsetti, rinomato attore, regista e autore teatrale.
Intitolata Nineteen Mantras, la performance prevede la coreografia di Shantala Shivalingappa con i ballerini del Teatro della Scala. Esiste un sistema di arte contemporanea in India, dagli artisti, ai curatori, ai musei fino alle gallerie? L’India vanta una fervente scena artistica supportata da un network di gallerie, musei, studi e università. Indian Highway riflette la molteplicità delle posizioni artistiche emergenti in questo fiorente contesto. A coronamento della mostra, Suman Gopinath e Grant Watson hanno realizzato una guida eccellente che illustra le iniziative e gli spazi che hanno influenzato lo sviluppo della pratica artistica indiana in questi anni.
Dayanita Singh DreamVilla11 (courtesy Frith Street Gallery)
L’
India in qualche modo rappresenta un simbolo delle più grandi nazioni del pianeta, allo stesso tempo giovani e antiche, che hanno il futuro del mondo nelle loro mani, come anche la Cina. Come si riflette questo aspetto nella scena creativa contemporanea, dall’arte alla letteratura, e quindi nella mostra? Indian Highway è stato concepito come uno spaccato della fiorente generazione di artisti che lavorano utilizzando media differenti, tra arte, architettura, film, letteratura e danza. La mostra costituisce il secondo capitolo del nostro focus sull’arte delle tre maggiori regioni culturali – Cina, India e Medio Oriente – ideato e organizzato dalla Serpentine Gallery e dall’Astrup Fearnley Museum of Modern Art.
8
intervista
i n t e r v i s ta a
mario martone testo di olga gambari
Incontrare Mario Martone a Torino (maggio 2011) è come portare dentro la città e fare apparire via via altri luoghi e personaggi, che convivono in Martone come una materia umana inseparabile e mossa, con un fare insieme sognatore e disincantato, una saggezza antica e al tempo stesso fiabesca, cittadino del mondo e profondamente napoletano.
M
artone è davvero un simbolo della complessa identità italiana, di quello che l’Italia è e potrebbe essere. Il discorso con lui passa dal suo rapporto con l’arte alla situazione nazionale, attraversando regie, mostre e incontri accaduti nella sua vita.
Inizia così. “Quando ho cominciato a mettere la testa fuori, avevo quattordici o quindici anni, a Napoli erano gli anni in cui Lucio Amelio era una figura molto importante. Portava grandi artisti internazionali, lui così napoletano e radicato nel cuore storico e popolare della città. Per questo si creava un rapporto straordinario tra questi artisti e la città. Arrivavano e Lucio li faceva entrare in contatto con la Napoli ancestrale, dei vicoli, delle bettole dove andava a mangiare con loro. È stato fondamentale per me conoscere in questo modo gli artisti e ciò che si portavano dietro. Ricordo che nel 1975 faceva mostre a Villa Pignatelli, una fu di Mario Merz, indimenticabile, bellissima, era una personale straordinaria di cui mi è rimasto impressa l’opera Il metro cubo di infinito. Poi ne ricordo altre, una di Pier Paolo Calzolari, ma anche una performance di Vito Acconci, che mi segnarono tutte.
E poi, naturalmente, Joseph Beuys, che era spesso a Napoli, era un amico di Lucio. Una volta Amelio mi chiama, per andare con Beuys a fare una gita all’Antro della Sibilla Cumana. Ci andammo io e Toni Servillo, eravamo ragazzini. E sempre in quegli anni conobbi Mimmo Paladino, giovane anche lui. Proprio da Amelio ho visto per la prima volta un lavoro di Mimmo, era un quadro tutto blu. Sin dagli inizi della sua carriera di regista ha realizzato film d’arte. Ho fatto un corto Antonio Mastronunzio, pittore sannita nel 1994, che è proprio un film piccolo di 20 minuti su questo artista che mi ha fatto conoscere Paladino, un artista selvatico e lunare, che mi ha ispirato. Poi c’è il film su Lucio Amelio, Terremotus, nel 1993. Era soprattutto un’intervista, un ritratto di Lucio, legato certamente al progetto “Terrae motus” incentrato sulla sua figura (ndr: una sorta di testamento, visto che Amelio scomparve l’anno dopo. All’indomani del terremoto del 23 Novembre 1980 in Irpinia, il gallerista napoletano di arte contemporanea Lucio Amelio invitò gli artisti più attivi del momento del panorama internazionale e molti giovani emergenti per realizzare opere il cui ricavato aiutasse le vittime del disastro. La collettiva “Terrae Motus”, con oltre 60 artisti tra cui Warhol, Beuys, Twombly, Pistoletto, Mappletorphe, Mimmo Paladino, Merz, girò dagli stati Uniti all’Europa). Poi c’è ancora un film sulla mostra di Mimmo Paladino a Forte Belvedere a Firenze che si chiama Veglia nel 1993. Ma prima ci sono i tre documentari realizzati per la Sovrintendenza di Napoli, con Nicola Spinosa: il primo di questi, che si chiamava Nella città barocca e fu anche il mio primo film in pellicola, era dell’84. C’era stata una grande mostra sul barocco a Napoli, sul Seicento, e raccontavo in maniera assolutamente libera, non didascalica, questo sguardo sulla città. Vent’anni dopo arriva nel 2001 il documentario su Luca Gior-
Mario Martone dal 2007 è direttore del Teatro Stabile di Torino. Intanto continua a essere regista teatrale e cinematografico, con una biografia che lega in un nome proprio l’Italia e i linguaggi dell’arte. Negli anni Settanta fonda la compagnia teatrale “Nobili di Rosa”, che diventa poi il famoso gruppo “Falso Movimento”, negli anni Ottanta confluito nei “Teatri Uniti”. Già direttore del Teatro Argentina a Roma, è tuttora condirettore dell’Associazione Teatro Stabile di Napoli. Al cinema arriva negli anni Ottanta, dando vita dal 1992 a una serie di film tra cui “Morte di un matematico napoletano”, “L’amore molesto”, “L’odore del sangue” e “Noi credevamo” del 2010 (con cui ha vinto 7 David di Donatello), insieme a opere di videoteatro e documentari. La scorsa primavera ha presentato al Teatro Gobetti di Torino la regia teatrale di “Operette Morali” di Giacomo Leopardi.
foto: Simona Cagnasso
9
In alto: Operette Morali in scena al Teatro Gobetti di Torino
dano, Nella Napoli di Luca Giordano, e due anni dopo, invece, quello su Caravaggio, Caravaggio. L’ultimo tempo. In effetti non sono documentari d’arte ma film in cui c’è un montaggio con immagini di associazioni legate alla realtà urbana: in realtà credo siano film sulla città. L’approccio visivo è sempre stato una caratteristica del suo sguardo e del suo immaginario, sin da Falso Movimento, più legato all’immagine che alla parola. Falso Movimento era un teatro visivo-musicale. Qualche tempo fa riflettevo con una persona, durante un’intervista, che in Operette Morali ritornava qualcosa dei miei inizi, di quel lavorare sulla dimensione visiva del corpo dell’azione e del gesto, pur rimanendo sempre all’interno di un teatro della parola, che è la mia dimensione sostanziale. Credo che in tutto ciò abbia contato molto il mio lungo passaggio nell’opera lirica, perché per me il teatro musicale è stata una scoperta tardiva che mi ha aiutato a far tornare nel mio lavoro un rapporto con la musica, con la dimensione visivotemporale, che era quella che contraddistingueva i miei inizi. Ci sono come dei flussi che tornano e si muovano all’interno del mio lavoro, e in Operette si sono un po’ raccolti. La messa in scena di Operette Morali è molto pittorica, con gli dei che sembravano scesi dai quadri alle pareti del Teatro Gobetti, diventando i protagonisti delle varie scene. In effetti sembra proprio così, mantenendo sempre quel tono ironico, di comicità leggera che ha Leopardi nelle Operette, pur parlando di argomenti anche drammatici. È il tono di una commedia antica e latina, fatta per ridere. Nel testo di Leopardi ci sono proprio alcune suggestioni scultoree evidenti, come la scultura che contiene la natura dentro, come un nido.
Ad esempio nel Dialogo della Natura e di un islandese, la natura stessa viene descritta all’inizio come una statua enorme, che somiglia a quelle dell’Isola di Pasqua, ed è stata un’immagine fortissima che un artista come Paladino ha saputo cogliere (ndr: Mimmo Paladino ha collaborato alle scenografie delle Operette Morali). Io ho immaginato lo spazio, con la suddivisione della scena, la terra nera (ndr:che ricopre il pavimento e che fa da base a tutte le azioni), lo specchio rotante tra luce e buio nel Dialogo della Moda e della Morte, che poi Mimmo ha reso anche ovale. Invece poi gli ho chiesto di dare vita alle forme e alle suggestioni che dovevano nascere all’interno di tutte le situazioni. Per l’appunto la statua di natura, La stanza di Ruisch, che è un’opera installativa di Mimmo in prestito, con le figure dei “dormienti” come mummie, ed è diventata in questo caso una scenografia. Quando si apre quel sipario, lo spettatore sente che quelle statue parlano davvero! È stato proprio un continuo dialogo tra suggestioni sceniche ed individuazione di forme. La prima volta che ho pensato a Operette avevo in mente di farlo al Gobetti con una tigre vera, in gabbia, al centro, con l’idea della natura come fulcro, messa molto vicina agli spettatori, che poi però avrebbe anche sofferto, era inattuabile. Poi l’idea è diventata altra nel lavoro con Mimmo: il coccodrillo di Mimmo la sintetizza, è un segno inquietante, in mezzo agli spettatori, quasi un intralcio, che non puoi non notare. Negli anni ha lavorato anche con altri artisti? Ho spesso lavorato con artisti, per esempio con Falso movimento collaboravamo con Lino Fiorito, e poi nel documentario su Lucio Amelio ho fatto dei pezzi anche con Nino Longobardi e Tata Fiore. Insomma ho sempre avuto un rapporto con gli artisti. Ogni tanto si crea l’occasione, viene l’esigenza particolare. Il
10
mio scenografo abituale è Sergio Tramonti, è uno scenografo puro però, perché non credo che un artista e il suo segno forte possa andare bene in ogni situazione. Mentre a volte, invece, ci sono delle situazioni in cui è importante. Per esempio, con Mimmo: ci piace lavorare insieme. Mimmo per me era stato molto importante nel mio ciclo su Edipo (ndr: Edipo Re nel 2000 al Teatro Argentina di Roma e Edipo a Colono al Teatro India di Roma nel 2004), in cui c’era la dimensione sacra, tribale e ancestrale di Paladino che risuonava potentemente (ndr: già nel 1986 lo scultore Pietro Consagra aveva immaginato alcune scenografie per l’Oedipus Rex di Strawinsky messo in scena da Martone a Gibellina). Qui nelle Operette, invece, c’è una dimensione che è il lato di Mimmo più magico, più sospeso, esoterico. È il Paladino dei coccodrilli, che sono quelli che fanno parte del gabinetto di anatomia come quello di Ruysch. I dormienti dell’uno e i morti dell’altro. Nell’Edipo c’erano, invece, le maschere, le lance, cioè l’aspetto tribale e guerresco. Di volta in volta risuonavano cose diverse, che hanno origine nel testo su cui lavoro, sempre il centro. Come l’arte contemporanea è entrata nel film Noi credevamo? C’è una sequenza in cui i personaggi si muovono su un’enorme struttura in nudo cemento armato, un monolite come un’architettura metropolitana. Sono immagini che evocano una scabrità industriale e impersonale certamente familiare all’arte contemporanea, tra l’installazione e la performance, in contrasto con la collocazione storica della vicenda. In Noi credevamo abbiamo lavorato a una ricostruzione estremamente ricercata e puntigliosa da un punto di vista iconografico, scenografico e dei costumi. La famosa inquadratura con il cemento armato per me è uno squarcio, e deriva dritto dritto dal mio rapporto con gli artisti, dal gesto dell’arte contempo-
ranea. È come se fosse uno squarcio sulla tela ottocentesca, che viene prima lamettata. Infatti sin dall’inizio del film ci sono contaminazioni, ad esempio con cavi elettrici che appaiono qua e là. Ho disposto via via una serie di strani segni, di disturbi, come se tu su un materiale storico, dell’Ottocento, dessi dei colpi di lametta, creassi piccole bruciature. Man mano i colpi si fanno più forti, più manifesti e poi con l’inquadratura dove compare il cemento si apre direttamente uno squarcio. Per me riveste il ruolo fondamentale di svegliare l’attenzione dello spettatore, tirandolo fuori da un’immersione anche estetica, da un sogno storico in cui era sprofondato. Invece quell’immagine fuori luogo e fuori contesto ti desta e ti colloca anche nell’oggi, dove si trova lo spettatore. Interrompe un momento di massima emozione consolatoria e ti riporta invece a un rapporto dialettico con il film, con la storia, con il tempo. Ciò che accade nel film si riferisce anche al presente, ha un rapporto con il tempo in corso, questo è il messaggio. Sono vari i modi attraverso cui il rapporto con l’arte prende corpo nel mio lavoro. È sempre un rapporto in cui però l’immagine non ha solo un valore visivo ed estetico, ma parla e comunica al pensiero, significa di per sé. Non cerco mai un’immagine bella e piacevole, soprattutto in anni come questi, in cui c’è l’abuso delle immagini. Per esempio alle OGR, nella mostra che racconta gli italiani e i 150, prodotta dallo Stabile, Paolo Rosa con Studio Azzurro ha fatto un grande lavoro. Abbiamo pensato che, se deve essere il teatro ad occuparsene, allora bisogna trovare un senso anche visivo per questa mostra, che abbia anche un valore performativo. Allora abbiamo chiamato Studio Azzurro, un gruppo che lavora sulle immagini, anche in modo ludico, e con taglio popolare, cioè capace di parlare anche ai ragazzi, ma dietro cui c’è sempre un pensiero, non è mai un creare immagini fini a se stesse. La loro imposta-
In alto: fotogramma del film Noi Credevamo (courtesy Museo del Cinema di Torino)
11
In un suo scritto per presentare NOI CREDEVAMO (film tratto da un coraggioso libro della scrittrice Anna Banti, pubblicato senza successo nel 1967), Martone racconta che da ragazzo non amava l’Ottocento italiano, gli appariva retorico e polveroso. Poi qualche anno fa si è domandato se quella polvere fosse stata depositata nel tempo per occultare la vera natura della nascita del nostro Paese. Così ha iniziato a cercare, scoprendo episodi storici sconcertanti quanto praticamente sconosciuti, che facevano apparire il processo unitario non più come una virtuosa elaborazione progressiva, ma come una lotta aspra e drammatica sulla questione di quale Italia far nascere. Da lì la domanda su quale Italia sia nata. Prosegue dicendo che l’autoritarismo ha continuato a dominare e domina sotto forme sempre diverse. Il processo di unificazione reale tra nord e sud è lontanissimo dall’essersi compiuto. Il film racconta la vicenda di tre ragazzi meridionali coinvolti nella Giovine Italia di Mazzini contro i Borboni, diventati uomini nella lotta disperata per la repubblica, antenati dei partigiani, dei movimenti degli anni ’60 e ’70, dei democratici italiani dal destino continuamente oscillante tra vittorie e sconfitte. Diciamo, invece noi, che il film è un racconto fuori dal tempo, un manifesto illuminante, perché parla di un passato dove trovare chiavi di lettura per il presente e da cui partire, imparando e decodificando ciò che è accaduto nell’ombra, fuori dal cono dell’ufficialità storica, per immaginare il futuro.
zione si è sposata benissimo con quella degli storici De Luna e Barberis, con l’obiettivo di raccontare 150 anni di storia fatti da un popolo, da delle masse. Sicuramente in un’altra città italiana, se si fosse fatta una mostra sull’Italia unita si sarebbe fatta una storia composta di individui singoli, mentre invece qui a Torino si è si è scelto per fortuna un progetto sulle masse e su temi quali sono il lavoro, l’immigrazione. Insomma al centro c’è l’idea che sia stata una grande collettività ad aver attraversato questi centocinquant’anni. Nell’allestimento alle OGR c’è qualcosa che mi ricorda lo spettacolo Gli ultimi giorni dell’umanità messo in scena al Lingotto da Ronconi, e mi sembra positivo ritrovar un filo con un evento importante accaduto a Torino anni fa (ndr: 1990). Un altro esempio di lavoro vicino all’arte visiva fu lo spettacolo Albergo Ceronetti, due anni fa, messo in scena da Egumteatro, un gruppo che sta proprio sul confine tra teatro e arte visiva: in un vecchio alloggio alla Cavallerizza Reale prendeva corpo una lunga installazione, varie stanze dedicate al lavoro di Ceronetti. In Noi credevamo c’è quindi una funzione politica e produttiva dell’arte contemporanea. È un mezzo con cui sviluppa la storia della nascita dell’unità italiana. Una vicenda piena di ombre, orrori e disincanto, che nega la classica agiografia sull’argomento. Quanto quella storia è ancora attuale? Ci sono stati molti rovesciamenti in Italia, ora si rivendica un tricolore soprattutto nei riguardi di combattenti per la libertà che sono stati sconfitti. Io posso cantare l’Inno di Mameli, ma penso a quel ragazzo morto per la Repubblica, non per l’Italia monarchica. Per me il tricolore è quello, Mameli mi fa pensare quello, uno spirito che è stato sconfitto, ma non significa che non ci sia: da noi c’è una parte democratica che tenta in tutti i modi di opporsi alla totale privazione di democrazia che progressivamente sta montando, in Italia e dovunque. L’arte di per sé è un’apertura di spazio della mente e ti dà la possibilità di vedere delle cose, come in Noi credevamo, un film molto spiazzante, che c’è voluto del tempo perché venisse assorbito. È una questione di punti di vista, un’osservazione sulla storia inaspettata, che sposta l’opinione e produce pensiero. È uno dei modi attraverso cui uno spirito libero cerca di opporsi alla uniformizzazione, all’omologazione antidemocratica, cosa che si sta pesantemente realizzando a livello globale, ma di cui l’Italia è certamente una delle punte avanzate. C’è un’unità nazionale nelle politiche culturali, nell’offerta e nella fruizione della cultura? È impressionante come il Sud sia arrivato a questo centocinquantenario. Torino è al centro di problemi fondamentali quali lo spazio pubblico, la democrazia, ma è in movimento vitale, e il suo ritratto è quello di una città europea. Al Sud, invece, le città da Napoli a Palermo, sono arrivate in brandelli. Napoli, che conosco meglio e perciò ne parlo, ha avuto varie rinascite, che sono proprie della sua storia e natura, all’insegna dei grandi picchi, tra alti e bassi. Ma Napoli appunto ha un’indole solo apparentemente sentimentale e giocosa. In realtà è profondamente pessimista e dolorosa, molto complessa. Una città che è una ferita sul corpo del nostro Paese, e quando il corpo si ammala la ferita sanguina: Napoli condensa tutto ciò che in Italia sta accadendo. In Italia monta da anni un cinismo che a Napoli trova terreno fertile, ed è proprio in questa città che molti aspetti si estremizzano.
foto: Marco Ghidelli
noi credevamo
Negli anni passati sono state fatte cose importanti. Penso al Madre, museo bellissimo, sia per la sua posizione nel centro antico, con un rapporto all’interno della città, sia per il tipo di programmazione fatta, ma anche per l’adesione degli artisti che vi hanno esposto. È un museo molto amato da tutti, ma purtroppo rappresenta quella che è diventata la politica tipica nel nostro paese, che non è un’alternanza ma una lotta. Si arriva al potere e si distrugge ciò che quelli prima avevano fatto. Il che dimostra che in Italia le guerre per l’unità non sono mai davvero finite. Ora il rischio per il Madre è, se non di distruggerlo, di snaturarlo, stesso rischio che corre il Teatro Mercadante, il Festival di Napoli. A Napoli, però, bisogna vivere, stare dentro per coglierla, come facevano gli artisti con Lucio, che li portava lì, li faceva stare mesi interi, li immergeva in quella realtà non tenendoli al riparo. Quali sono gli artisti il cui immaginario le risulta più familiare? Sono molto legato alla generazione degli artisti anni ‘70, da Jannis Kounellis a Giulio Paolini. A Roma ricordo ancora al Teatro India il caos che si scatenò quando nel 2000 Enzo Cucchi decise di fare lì la sua grande personale, una mostra celebrativa, un evento per Roma e il suo mondo dell’arte. Anche se in quello spazio di mostre ne avevamo già fatte altre. È un esempio di spazio non deputato all’arte ma ugualmente molto amato dagli artisti, dove abbiamo accolto esperimenti diversi di contaminazione, che fanno bene a tutti. D’altronde per me questi sconfinamenti sono familiari, mi piacciono, ci sono cresciuto sin da ragazzo. Vedere la mostra di Merz da Lucio Amelio e poi la sera lo spettacolo del “Carrozzone”, come si chiamava all’inizio la compagnia dei “Magazzini criminali”, era in un certo senso la stessa cosa, chiaramente con la consapevolezza dei linguaggi diversi ma con l’idea che il flusso del lavoro degli artisti, si apre, intreccia e fonde. Vedere una mostra mi apre delle cose. Devo dire che mi piace anche lavorare con artisti che non sono “noti” al grande pubblico o che non fanno propriamente parte del sistema ufficiale dell’arte. Per esempio Patrizio Esposito, un fotografo straordinario che fa tante cose diverse, ma tende a stare isolato. Con lui abbiamo fatto un lavoro sui Saharawi, il popolo in guerra col Marocco per tornare nella propria terra nel deserto occidentale. Ne è nato nel 1996 il film Una storia Saharawi. Patrizio è un grande artista che interviene in un campo che va oltre il mondo dell’arte, arrivando alla militanza politica e all’attivismo.
UT O P I A
13
collezione arte sera
I° Intermezzo Gli arcobaleni d’altri mondi hanno colori che non so lungo i ruscelli d’altri mondi nascono fiori che non ho. - Fabrizio De Andrè, Tutti morimmo a stento
La domenica delle salme A tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade eravamo gli ultimi cittadini liberi di questa famosa città civile perché avevamo un cannone nel cortile. - Fabrizio De Andrè, Le nuvole
Paolo leonardo L’utopia è un camminare infinito, un orizzonte che non si raggiunge mai. È l’atto stesso del cammino, l’immagine di camminanti. Uomini, donne, giovani e vecchi fissati nel tempo da fotografie trovate in archivi, su bancarelle. Sconosciuti. Immagini orfane di cui Paolo Leonardo si è appropriato, trasformandole in pittura con un bianco liquidissimo che pennella, cola, striscia, s’allarga, scorre, copre e sosta. È la serie dei Bianchi a cui l’artista lavora da oltre un anno. L’utopia è un’illusione, che nei lavori di Leonardo diventa soffusa dimensione visiva e mentale. Uno stato di in\coscienza per trasformare il dato fotografico in un altrove immaginifico, che rende il passato un presente condiviso. Insieme ci sono le parole di Fabrizio De Andre, che trattano ribadiscono la necessità di essere liberi come reale esigenza esistenziale, per la quale ogni mezzo è lecito. Ma l’importante è verso cosa si tende, non da dove si fugge. E Leonardo lascia aperta ogni opera perché noi ci si metta in cammino con le sue figure. Scelga ognuno il luogo che preferisce, città, marine o boschi.
15
a b n e i i C J i i n F F g o
•
•
•
•
distretti creativi
iCina beiJi n g oFF testo di ROSario SCARPATO
Rosario Scarpato ci racconta la storia di officina Beijing, avventura artistica fondata insieme a Monica Piccioni, ripercorrendo gli ultimi 20 anni della sua esperienza a Pechino, culminata proprio nella nascita e crescita di offiCina Beijing
16
2002-2011 (officinaltd.com)
Nata nel 2002, offiCina Beijing e’ considerata da alcuni esperti - a ragione o a torto - una delle art organization che hanno contribuito al successo dell’art district 798 a Pechino e alla promozione, vuoi in Cina vuoi all’estero, dell’arte cinese - oltre quella italiana - contemporanea. Intendiamo un’arte che ha colpito il nostro interesse ed i nostri sensi tramite un rapporto diretto, amichevole e propositivo con gli artisti cinesi. E’ una frequentazione maturata nel tempo, diversa da quella con altri rappresentanti del mondo dell’arte (galleristi ed altro) che affollano la scena attuale. Per vocazione abbiamo cercato di anteporre sempre studio, interviste, discussioni, estetica del gusto e dei particolari al trend del mercato ed alle mode del momento. Sperimentazione e nuovi linguaggi espressivi hanno guidato i nostri passi lungo generi differenti ma accattivanti quali fotografia e video con ottimi risultati. ricordiamo una nostra proposta al Torinofilmfestival –a suo tempo non accolta dai responsabili e rimasta lettera morta- di una selezione di video sperimentali dell’artista Yang Fudong, acclamato in seguito a livello internazionale ed ospitato nelle più importanti rassegne e musei del mondo. Era il 2002! Per contro, professionisti illuminati, come la prof.ssa Maria Weber (scomparsa purtroppo prematuramente un paio d’anni fa e direttrice dell’Istituto di Cultura Italiana a Pechino), hanno creduto fin dall’inizio e sostenuto le nostre attività promuovendo una proficua collaborazione, soprattutto in occasione dell’anno della cultura italiana in Cina svoltosi nel 2006. Quando gli amici di Galleria Continua di S. Gimignano vennero a conoscerci al 798 era l’aprile 2004: l’anno dopo abbiamo curato per loro conto il lancio della galleria nel mercato cinese. Anche Map Games, un progetto di arte ed architettura nato con zero budget da una nostra idea in collaborazione col curatore cinese Feng Boyi e l’artista russo-britannica Varvara Shavrova. Ha coinvolto oltre venti artisti ed architetti cinesi e stranieri e ha visto la luce grazie al contributo di 5 ambasciate europee, tra cui quella italiana, oltre ai musei di Birmingham e Terni, più sponsor privati. Successivamente siamo riusciti anche a vincere un’altra scommessa con noi stessi dopo aver lanciato l’idea di portare all’expo di Shanghai del 2010 il gruppo multimediale milanese Studio Azzurro, nonostante resistenze, intoppi e drastici tagli di budget; tra i pochi progetti prodotti direttamente dal MAE per l’alto valore dell’iniziativa (dati forniti dal commissariato italiano parlano di ca 30.000 visitatori al giorno nei 2 mesi di programmazione del progetto intitolato Sensitive City). A ritroso negli anni, nel 2003-2004 abbiamo curato a Viterbo e a Roma guangYIN, collettiva di artisti cinesi incentrata su fotografia-videoinstallazioni con alcune opere esposte per la prima volta in Europa (Chen Lingyang, Hai Bo, Cui Xiuwen) e che sarebbero poi apparse sulle copertine delle riviste di settore in Cina e nel mondo.
Come inizio’
Nel 1988, con in tasca una laurea in scienze politiche e dopo aver fondato con un gruppo di docenti e collaboratori dell’Istituto Orientale di Napoli Informasia, una societa’ di servizi culturali e commerciali tra Italia, Cina e Sud-Est asiatico, e con un biglietto di sola andata, sono partito per la Cina con una borsa annuale del Ministero Italiano di Affari Eesteri. Su un vettore Interflug dell’ex Germania est, a Berlino per il visto, anche Monica, al 2° anno di Lingue e Letterature Straniere Orientali della Sapienza di Roma, si recava a Pechino per un corso di lingue. Il forte interesse in comune per quel paese, la cultura, l’arte, l’amore ha costituito da quel momento un naturale collante per entrambi.
I ‘90
Abbiamo cominciato a frequentare la scena artistica locale intrufolandoci negli appartamenti privati, in periferia, garage o scantinati fati-
scenti dove si tenevano le prime mostre di nascosto dalla polizia. Spesso si avevano a disposizione soltanto pochi minuti per la visita prima della chiusura immediata e senza mezzi termini di queste mostre. Erano tempi problematici per gli artisti che vivevano praticamente reclusi allo Yuanmingyuan (vecchio palazzo d’estate) nella parte nord-ovest della città, non distante dal Summer Palace (residenza imperiale depredata e bruciata dalle potenze occidentali all’inizio del 900). Lontani dal centro, in attesa di tempi migliori, comunque riuscivano a produrre lavori e idee molto interessanti dal punto di vista culturale. Si frequentavano ambienti underground (il locale Maxim, per esempio) dove si gustavano i primi mojito e gin tonic nella capitale e dove si esibivano personaggi quali cui Jian, poi riconosciuta icona del rock cinese. Vissuta in uno stato di semi clandestinita’ (perlomeno fino alla fine degli anni 90), l’arte cinese ha dovuto attendere la nuova politica di apertura verso l’estero (con l’entrata nel WTO i governanti cinesi non potevano più permettersi di tenere un paese così grande tagliato fuori dai rapporti con l’occidente; ivi compreso il settore culturale in senso lato) per uscire allo scoperto meno timorosa. Gli stessi artisti, divenuti famosi all’estero (ma quasi sconosciuti in patria e che occupavano una zona di slum e catapecchie ad est della capitale, l’east village) avrebbero di lì a poco cominciato ad esporre pubblicamente nei primi spazi privati. Nel 1993, rientrava in Cina – dopo un soggiorno negli States di dodici anni- un artista passato recentemente alla cronaca internazionale per il suo impegno sulla verita’ dei danni del terremoto nello Sichuan, Ai Weiwei. Oltre a pubblicare tra il 1994-1997 tre libri fondamentali di presentazione dell’arte occidentale in loco (Black cover book, White cover book e Grey cover book), assieme ad altre figure rappresentative quali Hans van Dijk e Frank Uytterhaegen, fondava il China Art and Archives Warehouse ad est della città’, centro di sperimentazione di arti visive in cui veniva presentata la scena artistica locale. Due anni
in alto: la porta d’ingresso di offiCina Beijing in basso: l’artista Wang Qingsong e la moglie Zhangfang con Rosario e Monica di offiCina Beijing, 2009 pagina precedente: Sensitive city di Studio Azzurro, a cura di offiCina Beijing, Expo Shanghai, Padiglione Italia, 2010
17
in alto: Mostra di arte e architettura Map Games, a cura di offiCina Beijing, Pechino, Terni, Birmingham, 2008-2009
dopo, l’east village veniva raso al suolo dal governo.
Cerco lavoro a Pechino
Oggi puoi ritrovarti in una strada pechinese dalla fosforescente nightlife in mezzo non a cinesi (pur contando Beijing circa venti milioni di occhi a mandorla, strano no?), ma a fiumane di stranieri vocianti e ubriachi, liberi dalle cappe psicologiche originarie e dall’aspetto trasandato; talvolta si sentono padroni del territorio pur senza conoscerne la lingua, la cultura e la mentalità. Che fanno qui? I ricordi vanno subito ai tempi in cui si era in pochi, 4 gatti intenti ad impadronirsi di una lingua e scrittura difficili ma incredibilmente affascinanti; si camminava ad un metro dal suolo per la possibilità che avevamo di fare un’esperienza unica, lontani distanze siderali da casa, su un altro pianeta, ma carichi della voglia di conoscere e mai a disagio. Nel corso dei nostri primi anni in Cina non c’era ancora spazio per professioni in ambito culturale e artistico: un neo-laureato in cinese poteva trovare incarichi saltuari come interprete o contrattista all’ambasciata italiana; alcuni erano chiamati a collaborare più facilmente in campo commerciale presso le prime ditte italiane presenti sul territorio. Tant’e’ che abbiamo lavorato come consulenti presso l’ICE, l’Ambasciata, il Ministero dell’Ambiente, abbiamo insegnato italiano e seguito trattative commerciali per società private. Nel frattempo, Monica collaborava con riviste di letteratura e cultura con la Sapienza di Roma e l’Universita’ di Pechino. Ebbene da qualche anno molti giovani stranieri - attratti in Cina dalle sempre meno rassicuranti prospettive per il futuro in patria- si trasferiscono da ogni angolo della terra a Pechino o Shanghai, ma anche a Kunming, Chengdu o Guangzhou con la speranza di riuscire a sistemarsi in un ambiente internazionale pieno di energia ed opportunità concrete. Cosicche’ avvocati, graphic designer, aspiranti giornalisti, architetti, camerieri, cuochi e pizzaioli, venditori e piccoli imprenditori, personale alberghiero ecc possono permettersi di cambiare spesso lavoro (e mandano soldi a casa). Bella rivincita del paese di mezzo, eh?
Che aria tira laggiù / Fiere
Dopo il boom dell’arte cinese gonfiato ad arte dagli stranieri e l’ingresso nel settore di tanti avventori poco professionali, gli ottimi profitti sono continuati fino alle olimpiadi del 2008. Il mercato era ormai saturo, inflazionato, la qualità delle preesistenti kermesse fieristiche diminuiva mentre un efficiente sistema dell’arte autoctono tardava a decollare. Vari tentativi di fiere internazionali nella capitale, poi a Shanghai e in ogni dove hanno finalmente prodotto una giusta selezione che ha lasciato vive soltanto le piazze di Hong Kong (Hk Art Fair) e Shanghai (Shcontemporary): iniziative che ben promettono per il domani.
Che aria tira laggiù / Artisti
Dopo il pop politico e il realismo cinico (‘80 e ‘90) con cui si prendeva spunto da temi occidentali per la critica al sistema cinese e un’ondata di forte individualismo (nuovo millennio), si notano sempre piu’
approcci verso una rivisitazione della tecnica classica ink and wash rielaborata con le nuove tecnologie. A parte le superstar che vivono in enormi ed elaborate residenze, le comunità più folte di artisti si sono concentrate negli anni in varie aree cresciute spontaneamente ad est (Songzhuang, Caochangdi, Huangtie, 798, Liquor Factory); spaziano nei vari generi, formano collettivi di ricerca, come a ricercare un rinnovata identità (pochi persistono nella loro tecnica specifica) e pare siano comunque richiesti dappertutto (!). Alcuni esponenti di punta della scena artistica degli anni ’80-’90 (come il critico d’arte Li Xianting) hanno anche dato vita a fondazioni per supportare la produzione meno commerciale di documentari e film indipendenti. Notiamo, tuttavia, un certo interesse (non solo il nostro) verso giovani personalità, cresciute con ipad, iphone, tecniche all’avanguardia di digital media e idee aperte e condivise mediante il web, i quali si affacciano sulla scena locale sperando sì di essere notati all’estero ma soprattutto di riuscire ad affermarsi nel proprio Paese.
Il futuro?
Da un paio di primavere sentivamo il bisogno di un cambiamento, una sorta di inquietudine legata non solo al lungo periodo di permanenza in Cina che ci aveva in parte ^saturato^, ma anche alle difficoltà oggettive di continuare a far parte della scena dell’arte contemporanea in Cina in tempi di ^crisi economica internazionale^ (la necessità di investire grosse somme per attirare un pubblico curioso e attivo verso l’arte e dotarsi di uno staff numeroso consente solamente alle grandi organizzazioni con headquarters all’estero di poter rimanere in pianta stabile in Cina), oltre alla necessità di operare scelte nel privato, sono stati lo stimolo per un leggero mutamento di rotta e decidere di continuare ad operare facendo base maggiormente in Italia ed Europa. In questo modo, contiamo di concentrarci su progetti di ampia portata che veicolino l’impegno curatoriale-organizzativo verso eventi trasversali ed innovativi a varie forme di arte e cultura. Attualmente sono previsti o in discussione iniziative quali una performance di videodanza / teatro multimediale al Napoliteatrofestival; una rassegna di immagini in movimento su nuovi volti cinesi ed italiani da presentare sia in Italia che alla Central Academy of Fine Arts di Pechino; un progetto di videoshooting di un affermato artista cinese sul set del film Gangs of New York’ a Cinecittà; la partecipazione al Meet the media guru a Milano di una personalità cinese esperta di linguaggi multimediali; una mostra di Paolo Gioli allo Hexiangning Museum di Shenzhen. In tempi di crisi, occuparsi di fund raising non sara’ una passeggiata! Ah dimenticavo! per l’estate 2012 dovremmo aprire offiCina Rome a Hyunnart, un interessante spazio attiguo all’atelier di un bravo scultore italiano, Paolo di Capua, un art-antro dove far confluire nuove idee e contatti acquisiti negli anni, locali ed internazionali, per ^assemblaggi^ di novita’ e dal carattere innovativo. Con alle spalle una cinquantina di eventi e mostre prodotte tra la Cina, l’Europa e l’Italia e proficue collaborazioni con musei, art organization, artisti, curatori, critici, collezionisti e via dicendo, cosa ci prospetterà il futuro? Rosario Scarpato, Cina, 1988-2011. Laurea all’Istituto Universitario Orientale di Napoli, borsa di studio a Pechino, Ministero Affari Esteri, presidente e direttore didattico di Informasia srl a Napoli, consulenze per Istituto del Commercio Estero, Ambasciata d’Italia, Ministero Ambiente Italiano, Direttore offiCina ltd, 2002-2011 Monica Piccioni, Cina, 1988-2010. Laurea in Lingua e Letteratura cinese, borsa di studio presso la People’s University of China, Ministero Affari Esteri. Diploma in lingua e cultura cinese, impiegata presso l’Ambasciata d’Italia a pechino, consulenze e interpretariato per istituto commercio estero di pechino, collaborazioni con Ministero della Cultura Cinese Art director officina ltd., 2002-2010
18
distretti creativi
un nuovo distretto della creatività a Torino tra le vallette, via pianezza e via sansovino testo di redazione
FONDAZIONE 107 Risponde Federico Piccari Perché aprire in questa zona ? Fondazione 107 nasce a supporto di Progetto 107, progetto che tende a convogliare all’interno di un’area piuttosto vasta l’insediamento di persone ed attività legate alla creatività nel senso più ampio del termine per scambiare energie positive e sinergie.
Rendering del Progetto 107
Come sta cambiando il quartiere, che sta divenendo un piccolo distretto d’arte tra Fondazione 107, Spazio Sansovino e Palazzo Leonardo? Il segnale più importante del cambiamento è dato dallo stadio Juventus e da tutte le attività che si svolgeranno al suo interno. Per quanto riguarda il distretto d’arte è molto importante che migliorino i trasporti, credo che con lo stadio il collegamento con la metropolitana diventi indispensabile. Oggi e’ carente il collegamento con il centro Città mentre
è ottimale con le autostrade. Qual è il vostro spirito e il vostro programma? Progetto 107 prevede di avvicinare in modo sinergico attività che oggi sono distanti, generando scambi di esperienze e conoscenza tra mondi diversi, ognuno porta la propria esperienza. Progetto 107 sarà dotato di centro fitness con solarium, ristorazione, bar, giornalaio, sportello bancario e Fondazione 107 con il suo programma espositivo. Indispensabili diverranno studi di artista, gallerie e servizi connessi, altrettanto importanti saranno i laboratori, studi di professionisti, servizi in genere... Come e quando è nato il vostro progetto? Il progetto è nato almeno 8 anni fa, ci
siamo resi conto che era necessario concentrare in un’area ben servita dalle autostrade persone che avessero a che fare con la creatività, metterle in collegamento attraverso l’idea di laboratorio. Che tipo di spazio è il vostro (cosa era prima, come è fatto, quali caratteristiche)? Fondazione 107 è uno spazio industriale di circa 1500 mq con il classico tetto a botte. Rimarrà come archeologia industriale di un recente passato di sviluppo torinese. Prima era uno spazio del settore automotive. Progetti? Fondazione 107 si occupa di contemporaneo con particolare interesse verso gli artisti che operano sul territorio.
19
PALAZZO LEONARDO Rispondono Patrizia Fischer e Roberto Vayo Perché aprire in questa zona ? Abbiamo scelto questa location perchè non ci interessava insistere su un “centro” che è già sovraccarico di proposte, sovraffollato e scomodo per i parcheggi. Inoltre la nostra vocazione è quella di portare la cultura alle zone periferiche meno dotate di strutture. Ci intrigava proprio questo quartiere e abbiamo deciso che non avremmo adattato le nostre proposte all’utenza ma ci siamo proposti di far conoscere al quartiere l’eccellenza della creatività artistica e di educare i nostri coabitanti alle manifestazioni top dell’Arte. Daremo loro un incentivo a visitare i grandi musei e le grandi mostre. Come sta cambiando il quartiere, che sta divenendo un piccolo distretto d’arte tra fondazione 107, Spazio Sansovino e Palazzo Leonardo? Il quartiere si è lentamente e faticosamente evoluto ma il richiamo fino ad ora non era arrivato al grosso degli abitanti. Noi con i mezzi più attuali, andando veramente incontro al quartiere, facciamo un lavoro di coinvolgimento trattando con i referenti del comitato di quartiere e, per portare le proposte più attuali, ci serviamo di Radio, internet, emittenti televisive.
Qual è il vostro spirito e il vostro programma? Il nostro spirito è diffondere e comunicare un livello di proposte culturali che siano di base ad un’apertura su conoscenze veramente educative. Come e quando è nato il vostro progetto? Il nostro progetto ha avuto una seria e meditata gestazione. Abbiamo lavorato in sordina ma molto seriamente per tutto il 2010 e durante l’anno abbiamo realizzato quattro eventi (Andrea Bertotti, Luisa Valentini, Sarah Bowier e Carlo Gloria) che sono state mostre d’Arte accompagnate da commento musicale, visite notturne, reading di autori innovativi. Forti di questa esperienza che ci aveva dato il polso della situazione abbiamo costituito nel 2011 l’Associazione Palazzo Leonardo Arte e Cultura ribadendo il nostro indirizzo in via Pianezza 289 ed entrando nei festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia con il Patrocinio del Comitato 150 del Comune e della Circoscrizione. Che tipo di spazio è il vostro (cosa era prima, come è fatto, quali caratteristiche)? Il nostro è uno spazio fra industriale e commerciale molto adatto all’esposi-
zione di Arte Contemporanea (Video e Performance comprese). La location ci consente di usufruire di spazi che in un quartiere diverso non potremmo avere, compreso un magnifico prato verde dove discutere d’Arte con un bicchiere in mano. E di facile accesso dalla città e dalle periferie, con la tangenziale vicina per chi arriva da altre città. Progetti? Abbiamo in corso una mostra in collaborazione con la Fondazione Pistoletto con Opere ideate dal grande Maestro che andrà avanti fino a novembre. Nel secondo Open space abbiamo recentemente inaugurato la mostra del Videoartista Alessandro Amaducci intitolata Out of Body. Amaducci è titolare della cattedra di Estetica del video al DAMS. Durerà fino a novembre. Nel frattempo abbiamo in programma il concerto degli Out of time, un gruppo di quattro giovanissimi che compongono musica classica minimale solo con le percussioni. In più due visite guidate notturne in data da definirsi. Il prossimo evento si intitolerà ONLY NEW e sarà una piacevole sorpresa per tutti perchè presenteremo la fascia di eccellenza della generazione fra i trenta e i quarantacinque anni. Non possiamo e non vogliamo dire di più per ora. :)
Immagini degli eventi a Palazzo Leonardo.
SPAZIO SANSOVINO Risponde Edoardo Di Mauro, condirettore artistico di Spazio Sansovino Arte Contemporanea Perché aprire in questa zona ? L’idea è nata da una proposta dell’artista Angelo Barile fatta a me ed ad Alessandro Icardi, giovane operatore culturale che gestisce a Torino la Pow Gallery di Piazza Castello ed a Ginevra la Tox ‘n’ Co. Gallery. Angelo ha da alcuni anni lo studio in zona Sansovino e ci ha proposto di affittare insieme, a condizioni vantaggiose, un loft di 300 metri quadri ideale per attività espositive e non solo. In più ci ha attratto la possibilità di scommettere sulle potenzialità di quella che è un autentica periferia. Come sta cambiando il quartiere, che sta divenendo un piccolo distretto d’arte tra Fondazione 107, Spazio Sansovino e Palazzo Leonardo? Il quartiere è un luogo tranquillo ma dotato di servizi e ben servito dai mezzi pubblici con poche difficoltà di parcheggio. La vicinanza con la Fondazione 107, che è collocata in pratica di fronte a noi, e con Palazzo Leonardo è stato uno stimolo forte per la nostra decisione di insediarci nel territorio. Bisogna sottolineare come questo nuovo
nuovo distretto stia nascendo per moto spontaneo e non indotto. Non sono ancora presenti strutture pubbliche di supporto come il progetto FaciliTo del Comune di Torino, attivo con ottimi risultati in altre zone come Campidoglio, San Donato e Barriera di Milano. Speriamo che prima o poi, loro od altri, giungano a sostenere nuovi insediamenti ed investimenti sul territorio. L’apertura dello stadio della Juventus costituirà certamente un ottimo volano promozionale. Qual è il vostro spirito e il vostro programma? Questa, come gli altri spazi che ho diretto dal 1984 al 2010, VSV e Fusion Art Gallery, è una struttura no profit dedita prioritariamente alla promozione artistico-culturale. La nostra sarà un’attività multidisciplinare che ci ha visto e ci vedrà seguire correnti come neo pop e street art, fumetto, illustrazione, design e grafica d’autore, oltre ad aspetti della fenomenologia artistica dagli anni Ottanta ai giorni nostri. La direzione artistica è mia e di Alessandro Icardi con la consulenza di Angelo Barile.
Ufficio Stampa e pubbliche relazioni a cura di Daniela Bombardiere. Come e quando è nato il vostro progetto? Il progetto è stato discusso con le modalità prima citate alla fine del 2010 ed è ufficialmente partito nel febbraio 2011. Che tipo di spazio è il vostro (cosa era prima, come è fatto, quali caratteristiche)? Lo spazio è un classico loft che potrebbe essere utilizzato come garage od officina. Si tratta di un locale estremamente duttile, adatto anche ad insonorizzazioni, performance musicali, sfilate e feste. Progetti? Per il 2011/2012 un’antologica di Daniele Fissore, la terza parte del mio progetto Un’Altra Storia. Arte Italiana dagli anni Ottanta agli anni Zero, una rassegna dedicata alla 500, una mostra sulla pittura italiana dagli anni Ottanta ad oggi, una manifestazione dedicata al fumetto d’autore ed altri progetti in fase di definizione.
Immagini degli spazi di Spazio Sansovino.
20
STALKER TEATRO / OFFICINE CAOS Risponde Gabriele Boccacini
Perché aprire in questa zona? La prima aggregazione del nucleo artistico di Stalker Teatro ha iniziato la sua attività proprio nel quartiere Le Vallette, nel 1975, partecipando alla prima fase della sperimentazione dell’animazione culturale nelle periferie della Città di Torino. I primi interventi artistici di coinvolgimento degli abitanti si sono svolti utilizzando i linguaggi delle arti visive, data la preparazione degli operatori di Stalker che provenivano dall’Accademia di Belle Arti. Il nucleo artistico di Stalker si è poi subito interessato al teatro per le specifiche proprietà di questa disciplina, fondata sulla relazione fra più soggetti che possono essere coinvolti in prima persona. Fin dall’inizio ci siamo posti il problema della funzione sociale dell’arte, per cui il contesto ottimale di riferimento per la realizzazione del progetto artistico è sempre stato il territorio; così, quando c’è stata l’opportunità di ritornare nel 2002 a Le Vallette, abbiamo ripreso volentieri l’attività, con le Officine CAOS, proprio qui dove avevamo iniziato.
Dall’alto: - lo Stalker Teatro/Spazio Officine CAOS - Installazione di Michelangelo Pistoletto. (2003) - Agorá, Piazza Creativa delle Identitá di Stalker Teatro (2002) - Performance con maschere-sculture di Gilberto Zorio (1985)
Come sta cambiando il quartiere, che sta divenendo un piccolo distretto d’arte tra Fondazione 107, Spazio Sansovino e Palazzo Leonardo? Sicuramente le proposte culturali sono aumentate negli ultimi anni, ma teniamo presente che nella Circoscrizione 5 abitano 135.000 persone e rispetto alla potenzialità della domanda potrebbe esserci ancora più attività culturale. La domanda di attività culturali di qualità cresce nel momento in cui gli abitanti vengono sollecitati in tal senso, con iniziative a loro rivolte e che li coinvolgano direttamente. Ci auguriamo – così come preannunciato dalla nuova amministrazione comunale – che ci sia un maggior sostegno alle attività culturali nelle periferie, con un decentramento anche di maggiori risorse. Qual è il vostro spirito e il vostro programma? Il principio fondante della nostra esperienza più che trentennale è la volontà di fare un teatro d’arte nel sociale, in cui le qualità estetiche e intellettuali di un’autentica produzione culturale si uniscano alla partecipazione popolare e alla condivisione sociale.
Non consideriamo l’arte contemporanea, l’educazione e la cultura un bene esclusivo; crediamo invece che il lavoro artistico, perché possa avere un senso nel nostro contemporaneo, debba includere democraticamente tutte le persone di diversa età e di diversa provenienza, geografica, culturale e di classe sociale. Tramite la proposta, di stagione in stagione, di programmi articolati in diverse iniziative e azioni che prevedono l’intervento di Stalker Teatro e l’ospitalità di molte compagnie ospiti ed artisti italiani e stranieri, si cerca di costituire una rete di soggetti di diversa età e di diversa formazione culturale: cittadini coinvolti in prima persona nella produzione di creazioni artistiche per la restituzione dell’esperienza alla comunità. In quest’ottica è nato dunque, nel 2009, il progetto “ Libera Accademia d’Arte Dra(m)matica”, un contenitore progettuale che raccoglie sia le attività di laboratorio finalizzate a produzioni artistiche, sia altre attività collaterali alla presentazione di spettacoli: incontri e cenacoli, workshop e stages teoricopratici. “Libera” in quanto chiunque può iscriversi, nell’ottica di una educazione diffusa e permanente, a prescindere dall’età e dalla provenienza socio-culturale; “accademia d’arte” in quanto si definisce un luogo deputato alla ricerca, all’educazione e alla formazione artistica, tramite esperienze di produzione di spettacoli d’arte contemporanea, condotte da significativi artisti italiani e stranieri interessati a condividere un progetto creativo con i partecipanti al laboratorio; “dra(m)matica”, parola pronunciata con una sola M, che pur richiamando il concetto di teatro, da questo si distingue ricordando il senso dell’etimologia della parola, dal greco “drama”, che vuol dire “azione”. Come e quando è nato il vostro progetto? La compagnia Stalker Teatro è nata ufficialmente agli inizi degli anni ’80, lavorando presso l’Ex Ospedale Psichiatrico di Collegno ad un progetto pluriennale di produzione di uno spettacolo di teatro ambientale a percorso “Stalker – I Sognatori della Realtà” ispirato all’omonimo film di Andrej Tarkovskij. Il progetto CAOS – Officine per lo Spettacolo e l’Arte Contemporanea è stato avviato nel 2000, con una prima
struttura nella Ex- Scuola Corelli in Corso Taranto e poi nel piccolo teatro di Piazza Montale a Le Vallette. Nel 2005, dopo aver adattato diversi spazi di qualsiasi tipo a centri di attività artistica e di spettacolo (a Collegno, a Grugliasco ed a Biella) abbiamo finalmente avuto l’occasione di inaugurare un luogo creato da noi su misura per le esigenze degli artisti di varie discipline che ogni anno ospitiamo nel grande teatro e negli altri locali attigui che compongono le Officine CAOS. Che tipo di spazio è il vostro (cosa era prima, come è fatto, quali caratteristiche)? Le Officine CAOS in origine erano semplicemente il seminterrato della parrocchia di piazza Montale. Ora sono un centro di produzione artistica polivalente e polifunzionale dedicato, come dice il nome, allo spettacolo (teatro, performance, danza e musica) e all’arte contemporanea. Progetti? È nostra intenzione, innanzitutto, portare avanti il progetto della Libera Accademia d’Arte Dra(m)matica, come ossatura portante della stagione. Il coinvolgimento diretto dei cittadini alle produzioni artistiche si è dimostrato un’esperienza proficua e preziosa, sia per gli artisti conduttori del workshop, sia per gli abitanti partecipanti. Sono previsti anche “spettacoli a progetto” realizzati con ospiti e operatori dei servizi di salute mentale e con le detenute della vicina Casa Circondariale “Lorusso e Cotugno”. Continueremo inoltre a promuovere nuove realtà del teatro di ricerca e innovazione, sia ospitandole nei nostri festival e rassegne (come la rassegna “E’(c)centrico” dedicata al confronto fra i teatri delle diversità e i teatri d’innovazione), sia attraverso il progetto “Artisti in Residenza”. Le Officine CAOS, come un vero e proprio centro di produzione culturale, continueranno a offrire a diverse compagnie e artisti dell’area torinese e di altra provenienza la possibilità di provare, allestire e produrre i loro spettacoli e performance ospitati in residenza. Infine, continueremo a dare spazio all’arte visiva organizzando e ospitando nei nostri spazi mostre e installazioni.
22
rECENSIONI
francesco barocco / norma mangione gallery L’invito è una cartolina che ti arriva a casa, scritta a mano dall’artista, Francesco Barocco. La mostra è un corpo di lavori tra disegno e scultura, che aspetta le singole persone e non si dichiara in nessun modo, non ha manifesti, intendimenti, chiavi di lettura, storie ufficiali. Il tempo dell’opera è il Tempo, non il presente, la tendenza del momento, un’elucubrazione sul passato. Barocco lavora a un’idea di opera che pensa, respira e vive di per sé, con le sue cordinate, la sua esistenza autonoma dall’artista stesso. Ci sono sculture, scatole piene di gesso con incisioni sui lati, e poi disegni nati da incisioni. Ma compaiono anche oggetti, macerazioni della carta, creta plasmata. Sono segni misti che si intrecciano: Barocco li osserva sovrapporsi nel suo fare e, pur sapendo e avendo consapevolezza, da buon artista che non dimentica mai la pratica artigianale e il controllo dei materiali e delle tecniche, si stupisce del loro disporsi e del diventare organismo unico, armonico. Un equilibrio personale che ingloba elementi vari e si fa identità unica. In mezzo a gatti, con il loro alone di malinconia e mistero, figure ombrate di uomini barbuti, tra un santo e un clochard, pomelli e maniglie d’ottone, si intrecciano una poesia di T.S. Eliot sul nome stesso del gatto, il desiderio di Alberto Giacometti di riuscire nella vita a disegnare una testa dal vero, Giulio Paolini. Ma anche gli oggetti quotidiani di Rauschemberg e una visionarietà surrealista che, invece, non c’entrano ma nominarli per negarli ha un suo senso preciso. L’opera ingloba tutto e aspetta con chi dialogare.
(courtesy Norma Mangione Gallery)
FRANCESCO BAROCCO, Norma Mangione Gallery, Via Matteo Pescatore 17, www.normamangione.com
23
maura banfo / marena roomS gallery Emergono dal nero come miraggi. Apparizioni di colori e forme. Porzioni di corolle di fiori che perdono la loro identità floreale per diventare qualcos’altro. Sicuramente inquietanti. Una calligrafia figurativa in punta di obbiettivo, come fosse un pennello, un pennino. Una natura così poco naturale da diventare immagine mentale, dai contorni surreali. La serie dei “Neri” di Maura Banfo fa parte di un percorso iniziato dall’artista torinese oltre un anno fa, vissuto come esigenza di sintesi. Asciugare e ripulire per identificare segni e colori essenziali. Come se fossero traiettorie esistenziali, concetti fondamentali che illuminano il pensare e il fare. Il dettaglio, caro all’artista, diventa in questo caso volano per visioni aperte all’immaginazione e alle suggestioni dello spettatore. L’artista si avvicina così al dettaglio da entrarvi dentro, scavalcarlo, galleggiarne sotto la superficie. L’istante è bloccato, cristallizzato in una formalizzazione in bilico tra figurativo ed astratto, figura che si inizia a sciogliere in ornamento. Maura Banfo dice che i “Neri” sono idee preziose, in cui la natura si lega al decoro e all’arte. Si impasta con la tradizione delle nature morte, le stampe giapponesi, le miniature medioevali. www.maurabanfo.com
(courtesy Marena Rooms Gallery)
In un palmo di mano, a cura di Gabriella Serusi, Marena Rooms Gallery, via dei Mille 40\a, www.marenaroomsgallery.com
eva frapiccini / galleria alberto peola Il lavoro fotografico di Eva Frapiccini mescola sempre le diverse nature del mezzo. Documentazione, fare artistico. Reale e immaginario. Cronaca e rielaborazione personale. L’artista parte dal mondo che la circonda, con le sue tante storie da raccontare. Questa volta parte da Aleksander Prus Caneira, scienziato nato a Barcellona nel 1928, che scomparve in circostanze misteriose a Torino nel 1992. Questo geniale fisico specializzato in quantistica e cosmica, era anche antropologo e saggista, fondatore della rivista scientifica Source. Le sue teorie sulle porte dell’inconscio e sui portali sospesi, gli studi sull’invisibile cercavano di rispondere ai quesiti della fisica quantistica e cosmica, ma anche di trovare un nesso tra spazio-tempo e sogni, archetipi. Insieme l’attenzione sul passaggio tra la vita e la morte attraverso l’antropologia e le ricerche sul campo. Insomma, era un uomo degno di un romanzo di Borges, attorno a cui Frapiccini costruisce una mostra che trasforma la galleria in un museo. C’è la reception del museo, con vari testi informativi per la consultazione. Poi le sale con lettere, diari, annotazioni, pubblicazioni, fotografie, testimonianze, oggetti e reperti vari, che illustrano la vita pubblica, scientifica e privata di Caneira. www.evafrapiccini.com
(courtesy Galleria Alberto Peola)
Museo Caneira - la fisica del possibile a cura di Elisa Tosoni, galleria Alberto Peola, via della Rocca 29, www.albertopeola.com
24
extra
diritto d’autore testo di francesca solero
Arte contemporanea e diritto d’autore. Mai come oggi questi due mondi si rincorrono, si sfuggono, si incontrano, talvolta con esiti felici, altre volte in scenari paradossali.
L’
applicazione del diritto all’arte contemporanea è un argomento tanto attuale quanto complesso e contraddittorio. La complessità sta soprattutto nella mancanza di una letteratura giuridica in grado di costituire un riferimento per le parti in relazione all’arte figurativa affermatasi negli ultimi cinquant’anni, sia perché esigenza recente, sia perché se la vicenda giuridica legata al plagio è piuttosto semplice da risolvere, nel caso di opere derivate o citazioniste è necessario contestualizzare caso per caso e risolverlo a sé. Se ne è parlato in un convegno sul tema al
Circolo dei Lettori di Torino, organizzato lo scorso marzo dallo Studio Legale Saglietti e Associati, in collaborazione con l’Associazione Internalia, la Hogart Chambers di Londra e il Museo Casa Mollino. I relatori, provenienti da differenti ambiti disciplinari – Luca Beatrice (Presidente del Circolo dei Lettori), Francesco Manacorda (Direttore di Artissima), Mario Barbuto (Presidente della Corte d’Appello di Torino), Judith Ickowicz, (avvocato e docente universitario alla Sorbonne), Francesco Poli, (critico d’arte e docente universitario), Cristiano Giulio Sangiuliano (Direttore Sezione Arte Contempo-
ranea Christie’s, Milano), Marina Tavassi, (Presidente della Sezione Specializzata IP del Tribunale di Milano), Alastair Wilson Qc, (Hogarth Chambers Londra); Sébastien Gokalp (curatore, Parigi), Filippo Gagliano, (Direttore SIAE di Torino), Jeremy Stein, (Direttore DACS UK), Massimo Di Carlo (Presidente ANGAMC) - hanno contribuito a definire e ampliare la problematica. Alcuni interventi hanno riportato casi emblematici affrontati in tribunale negli ultimi decenni che sono diventati punti di riferimento per una neonata giurisprudenza in materia ma che risultano a volte frutto di valutazioni sorprendenti, e opinabili, specchio della difficoltà di conciliare ed applicare esigenze di tutela legale a pratiche artistiche irriducibili alle visioni lineari del passato. Il caso più recente è sicuramente quello di Patrick Cariou contro Richard Prince che si è risolto con la condanna dell’artista inglese e del suo gallerista, Gagosian, obbligati a dover distruggere le opere (Prince aveva ripreso, dipingendola, la serie fotografica Yes Rasta di Cariou). Per coincidenza il convegno ha anticipato di una settimana la decisione della District Court di New York. Un caso di cui si è molto discusso è quello relativo alle opere esposte alla Fondazione Prada, a Milano, nella mostra Giacometti Variation di John Baldessari, citato in giudizio dalla Fondazione Giacometti per aver deliberatamente copiato le celebri statue variandone semplicemente le dimensioni. Presente tra i relatori il Presidente della sezione specializzata IP presso il Tribunale di Milano, incaricata della decisione del caso, la quale, pur riconoscendo all’artista la cifra linguistica “dell’appropriazionismo”, ha accolto la domanda di sequestro delle opere in quanto la disposizione e l’utilizzo dei corpi scultorei affronta una tematica troppo vicina al mercato della griffe milanese, sollevando conseguenti letture speculative. Altri esempi. Daniel Spoerri è stato citato da un collezionista che aveva acquistato un ta-
25
bleau piege all’asta ed aveva in seguito scoperto essere stato assemblato, tra gli altri, da un bambino di 11 anni presente ad una delle note cene in cui l’artista immortalava, per poi ribaltarla a muro, la tavola imbandita. L’acquirente si rivolse alla casa d’asta e ottenne un risarcimento poiché la normativa francese considera l’autenticità strettamente connessa all’esecuzione autoriale, esprimendo un concetto di autenticità che non si rapporta alla realtà. Christo intentò una causa contro una campagna pubblicitaria che aveva utilizzato fotografie non autorizzate del Pont Neuf “impacchettato”, e vinse perché il riferimento ad una sua opera esistente era esplicito; in seguito ne perse una seconda contro una nota azienda che utilizzava come scenario della réclame alberi ricoperti di teli bianchi, in questo caso era solo l’idea ad essere presa in prestito, e l’idea non aveva copyright. In molte occasioni la questione legale primaria rimane individuare se l’”artisticità” da tutelare stia nella mente o nella mano. L’autenticità, o primato, dell’idea non è ancora elemento acquisito e consolidato laddove gran parte della ricerca e produzione artistica contemporanea spinge a sfondare e dissolvere i concetti stessi di autorialità
e originalità. Sherrie Levine, il sopraccitato Richard Prince, Jeff Koons, Damien Hirst, sono solo alcuni tra gli artisti contemporanei che operano nella direzione dell’appropriazionismo, del riutilizzo di immagini preesistenti, riformulate, manipolate, decontestualizzate o inscritte in sistemi socioculturali differenti che ne permettono nuove letture. Detournement, deskilling, re-enactment, nuovo appropriazionismo, sono tutti termini attuali che definiscono le matrici concettuali alla base di operazioni performative. Su fronte diametralmente opposto si muove ad esempio un artista come Tino Sehgal, esempio interessante proposto dal mondo dell’arte a quello degli avvocati in quanto artefice di interventi orali non documentabili né trascrivibili nemmeno all’atto d’acquisto. La sola custode e testimone dell’opera è la memoria, caduca e fallace, in decisa rivendicazione dell’immateriale nell’arte. La rappresentazione dell’idea inscritta in un ordine immateriale è argomento assodato a partire dall’arte concettuale che supera allo stesso tempo l’antica dicotomia tra l’idea e la sua traduzione materiale. A conferma di questo, a volerlo rimarcare, tra le immagini
che hanno accompagnato gli interventi dei relatori ha continuato a primeggiare “l’orinatoio” di Duchamp, originale, derivato, contraffatto, rifatto e persino danneggiato dagli artisti di oggi. A dimostrazione che, ad un secolo di distanza, il ready made riveste ancora un ruolo problematico nel campo del diritto d’autore. Esempi di questo tipo sollevano molte questioni nell’ordinamento giuridico, che deve rispondere ad esigenze concrete e sistematiche applicabili al mercato culturale istituzionale e privato. Accanto a questi argomenti di complessa soluzione sono emersi altri aspetti interessanti sui quali il mondo legale si troverà a dover riflettere nel prossimo futuro, in relazione alle peculiarità della produzione contemporanea e alla legittimità del suo utilizzo. Emerge il problema del “riferimento diretto”, della citazione dichiarata. Il problema della proprietà dell’opera, materialmente di chi l’acquista ma spiritualmente dell’artista, unico depositario dei “diritti morali” e del valore culturale. Il problema dell’originalità e dell’unicità dell’opera che si allaccia all’autorialità e all’identità nel mondo dei nuovi media (ad es. le copie di un video o una fotografia sono originali solo nel nume-
ro stabilito dagli intermediari del mercato culturale). Ma le numerose questioni sollevate invadono anche il terreno di riflessione della storia dell’arte contemporanea, aprendo o svelando questioni di ordine filosofico, ancor prima che giuridico. Come può il diritto intersecare le strade dell’arte contemporanea legiferando e normalizzando un sistema espressivo che spesso si fonda sullo sconfinamento, sul superamento o l’azzeramento delle regole e dei ruoli, sovvertendo il sistema tradizionale? Quando il consumo del tempo, l’aleatorio, l’ineffabile e l’ordinario rientrano nelle categorie dell’opera? Lo scollamento linguistico e terminologico tra i due mondi non è più solo questione anacronistica. Colpisce sostanzialmente le coordinate da cui muovere per il necessario e difficile dialogo tra le due realtà. Francesca Solero è curatrice e organizzatrice di eventi. Ha curato mostre collettive e personali presso spazi privati e pubblici ed è stata codirettore artistica della galleria 41 artecontemporanea fino al 2009. Attualmente collabora con l’Associazione Ellecontemporaryprojects e con WE, spazio indipendente a Torino.
26
storie
il piper a torino non solo una discoteca testo di Francesca Comisso e Luisa Perlo
A Torino il Piper “è la fine del mondo”. Era il novembre del 1966 e con questo slogan si annunciava l’apertura dell’avveniristico locale notturno progettato da Pietro Derossi, Giorgio Ceretti e Riccardo Rosso in via XX Settembre, sotto l’attuale cinema Reposi.
A
nche a Torino c’è stato quindi un Piper, omonimo del precedente e più celebre tempio romano del beat e come quello concepito ben oltre la normale sala da ballo, come un locale “pluriuso” in cui pista, pedane, soffitti e sedute potevano adattarsi ai più diversi usi per rispondere alle esigenze dettate dalle emergenti forme di spettacolo collettivo. Tuttavia, una volta realizzato, non fu facile aprirlo. Il “nuovo” si faceva in un certo senso temere, i proprietari delle balere subalpine erano “contro” e i permessi tardavano ad arrivare. Le difficoltà scoraggiarono i committenti, che abbandonarono il progetto, e furono lo stesso architetto Pietro Derossi con la moglie Graziella a decidere di gestirlo. E così fu grazie a loro che la prima vera e propria discoteca di Torino divenne anche uno straordinario luogo di ricerca e produzione culturale, dove il divertimento, la sperimentazione e l’incontro dei diversi linguaggi espressivi si condensarono in una storia unica quanto intensa. Ma le premesse di questa straordinaria vitalità creativa erano già postulate nel progetto del locale, al quale si accedeva con un percorso d’ingresso lungo una scala a due rampe che costituiva già di per sé un’esperienza polisensoriale e interattiva. Progettata da Sergio Liberovici e concepita come “intermediario” tra la strada e l’interno, era una scala sonora in cui ciascun avventore poteva creare una propria sequenza musicale sulla base delle molteplici possibilità di combinazione di quaranta piste in cui si alternavano musica elettronica, discorsi di personaggi, lettura di testi, rumori. Anche all’interno l’uso di nuovi materiali e tecnologie dava forma a un ambiente a carattere immersivo e sinestetico: pareti rivestite di lamiere in alluminio, pavimenti con piani in gomma trasformabili tramite assemblaggi, sedute “a conchiglia” in resina dai colori pastello, cui si aggiungevano gli effetti visivi delle proiezioni di film e immagini alle pareti, di sculture, oggetti e macchine luminose sospese, come l’opera “strumento cinetico a quattro fronti per decorazioni variabili” di Bruno Munari, che in movimento lungo una rotaia sul soffitto investiva il pubblico con una doccia di luce multicolore. “Il significato stesso dello spazio”, scriveva sulle pagine di Domus il criti-
co Tommaso Trini, “è definito in termini d’uso. E sarà l’uso sincronico nella molteplicità delle funzioni, sala da ballo, da teatro, da esposizione”, in una concezione architettonica “swinging” poi replicata dagli stessi architetti in un altro famoso locale, L’Altro Mondo di Rimini, “mezzo hangar del divertimento acrobatico e mezzo catena di montaggio dei circuiti psichici”. Nel delineare affinità elettive, Carlo Olmo sottolinea che il Piper, “che in qualche misura doveva diventare prototipo di una lunga serie di locali analoghi costruiti in Italia”, tiene in conto l’esperienza di Carlo Mollino per la sala da ballo Lutrario, e se in questo gioco di rimandi il rivestimento in alluminio delle pareti può evocare l’estetica futurista, incarnata a Torino dalla Taverna del Santo Palato di Diulgheroff e Fillia, spostando lo sguardo oltreoceano non si può non pensare negli stessi anni alla silver factory di Andy Warhol, insieme atelier, casa di produzione, luogo di incontro per la scena underground americana, rivestita di carta e vernice argentata. D’altra parte, tra le presenze registrate al Piper la sera in cui si esibirono Le Stelle, il gruppo dell’artista romano Mario Schifano, figura proprio Gerard Malanga, una delle star della factory: poeta, fotografo, assistente di Warhol e attore in alcune delle sue più significative produzioni cinematografiche d’avanguardia. Presenze costanti erano invece l’artista Gianni Piacentino, nei panni del dj, e molti altri esponenti della neovanguardia artistica torinese, in particolare dell’Arte Povera. Marisa Merz vi espose le sue luccicanti e sinuose sculture metalliche sospese e Piero Gilardi le sue creazioni in poliuretano, con cui diede vita anche a un “expanded happening”. Fu infatti proprio nella direzione dello spettacolo dal vivo e del teatro di ricerca che, anche per le potenzialità del locale, i coniugi Derossi svilupparono maggiormente una programmazione che, tra il 1966 e il 1968, vide Carmelo Bene recitare Majakowski, Edoardo Torricella leggere Allen Ginsberg, Michelangelo Pistoletto con il nascente gruppo Zoo e, tra le presenze internazionali, l’Open Theater di New York, il Living Theatre, l’Arts Laboratory di Londra. Tra performance ed happening uno
27
degli eventi divenuti memorabili fu la Beat Fashion Parade, detta anche sfilata FDM (fine del mondo), che il 13 maggio 1967 vide in scena “Modelli di Boetti, Colombotto, Gilardi, Sauzeau. Irma boutique, Ticre Shop, Top Ten…” accompagnati da musica live di Dave Anthony’s moods e voce di Fortebraccio. Nel biglietto di invito sono anche elencati i materiali impiegati per le creazioni di moda realizzate dagli artisti: zipp, poliuretano, acqua, golia, polietilene, alluminio, plastiche… Un elenco che ricorda l’invito che qualche mese prima aveva accompagnato la personale d’esordio di Alighiero Boetti alla galleria Christian Stein, dove un campionario di materie indicate con precisione (dall’Eternit al compensato) preannunciava il loro serrato accumulo per strati nell’opera presentata in mostra Un metro cubo, tentativo a lungo esplorato di “far quadrare tutto”. Anche in occasione della sfilata-happening al Piper, Boetti “metteva in scena” i materiali. I suoi modelli erano tubini corti senza maniche, composti da due strati di plastica trasparente, in cui inseriva varie materie distribuite secondo una quadrettatura saldata: fiammiferi alternati con paglia sintetica dorata, monete da una e mezza lira, carte stagnole colorate, oppure caramelle, chicchi di caffè e, nelle versioni “liquide”, tasche d’acqua in cui nuotavano due pesci rossi, o ripiene di shampoo, o ancora, come in un bar prêt-à-porter, riempite di whisky, cognac, sambuca o più innocua aranciata da sorseggiare con uno speciale tubo collegato a piccoli fori. Un omaggio al Mimetico di Boetti erano invece la serie di abiti realizzati con stoffa mimetica da Annemarie Sauzeau, critica d’arte, saggista e allora moglie dell’artista. Insieme a questi presentava i suoi “abiti zip”, celebrati anche sulle pagine di Vogue: tubini, top, minigonne, realizzati con decine di cerniere lampo apribili in tutte le direzioni e cucite una accanto all’altra in combinazioni sempre diverse. Di Piero Gilardi sfilarono i Vestiti natura Anguria, Betulla e Sassi, accompagnati dai gioielli soft, come gli enormi orecchini Pesca, realizzati in poliuretano espanso, il materiale che già da un paio d’anni l’artista sperimentava nei suoi tappeti d’après nature, esposti qualche mese prima anche al Piper.
Tra i protagonisti della Beat Fashion Parade figura anche un altro artista torinese, Enrico Colombotto Rosso, che in quel periodo aveva fondato con Carlo Tivioli, l’ideatore delle prime pellicce in technicolor, il Ticre Shop, primo negozio torinese di abiti maschili “fuori dalle righe”, disegnati dai due fondatori o importati dalla londinese Carnaby Street. Quella del Piper è stata una vicenda concentrata in pochi anni, che si concluse nel 1968, e che fa parte di una delle preziose storie con le quali è possibile raccontare una Torino che, tra il dopoguerra e la fine degli anni sessanta, ha spesso saputo uscire “dalle righe” e dare espressione, in diversi ambiti sociali e produttivi, a una città eccentrica o, come la definimmo anni fa nella mostra realizzata con Enzo Biffi Gentili all’Archivio di Stato, e nel volume che insieme con passione le dedicammo, a una Eccentricity. Luisa Perlo e Francesca Comisso (vivono e lavorano a Torino) sono sia critiche indipendenti sia fanno parte del collettivo a.titolo (www.atitolo.it)
Pier Derossi, Giorgio Ceretti e Riccardo Rosso, particolare della scala sonora del Piper Club di Sergio Liberovici (courtesy Archivio Pietro Derossi - immagine tratta dal catalogo Eccentricity, edizione Museo Internazionale di Arti Applicate Oggi - Fondazione per il Libro, la Musica la Cultura, 2003)
28
album
Marco Bernardi, Italietta con allodole anno 2011 materiali: l’Italietta è in stoffa e gommapiuma (cm 110x220x17) le allodole in ferro, legno, piombo, gomma, motore elettrico (cm 10x12x7) Marco Bernardi vive e lavora a Rimini www.marcobernardi.net
C’era una volta Mazzini Si racconta che, dopo aver scritto testi epocali per la storia d’Italia come Atto di fratellanza della Giovine Europa (1834) e Dei doveri dell’uomo. Fede ed avvenire (1860), dopo aver fondato la Giovine Italia (1831) e la Giovine Europa (1834) galvanizzando una generazione di inguaribili romantici, Giuseppe Mazzini coltivò per lungo tempo una passione non meno intensa per gli uccelli. Nell’opera di Marco Bernardi il pensiero si trasforma spesso in sorriso, che presto lascia il posto ad una leggera amarezza sublinguale, prontamente sostituita dalla cinica convinzione di appartenere ad un mondo dov’è il caso, non la volontà umana, che muove la storia. Nel solco di
questo spirito, presente sempre nei progetti di Bernardi, si muove Italietta con allodole. Quest’opera nasce dalla volontà di celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, un paese vecchio, come la tela che la riveste, molle nella volontà e nell’azione, come la gomma piuma che lo costituisce, comodo e scomodo, come un materasso buttato a terra. Gli uccelli che svolazzano sono allodole meccaniche: alludono alla trappola ordita dal bel paese ai danni di coloro che lo abitano, perché rimangono impantanati nel suo immobilismo, e di quelli che lo visitano, stupefatti dalle sue bellezze, ma incapaci di vedere la vera natura della sua essenza. D’altro canto, insieme a questa chiave interpretativa, sembra che i richiami per le allodole diventino anche il simbolo dell’incrollabile resistenza di chi abita la nostra
penisola. Scriveva il famigerato amante dell’Italia Johann Wolfgang von Goethe nel Canto del Viandante nella Tempesta: (…) chi tu non abbandoni Genio, ne tempesta ne pioggia lo faranno tremare. Chi tu non abbandoni, Genio, la nube tempestosa e la bufera della grandine affronterà cantando come l’allodola, o tu lassù. Chi tu non abbandoni, Genio, lo adagerai sulle tue piume di lana quando dormirà sulla montagna, lo proteggerai con le tue ali nella mezzanotte della selva. Così i geni resistono, non abbandonano la patria terra, sono resistenti come allodole. Beatrice Bertini (Direttore Spazio Ex Elettrofonica di Roma, www.exelettrofonica.com)
29
Francesca Gagliardi, MADE in ITALY, 2011 Materiali: ceramica smaltata e ricamo particolare dell’Installazione - misure variabili Francesca Gagliardi vive e lavora ad Ameno (NO) www.francescagagliardi.com www.41artecontemporanea.com
Fragili stivali di ceramica, usati, scalcagnati, in cui infilano i piedi generazioni di italiani, a partire dai quei mille garibaldini che marciarono per un sogno, tutt’ora valido e lontano da raggiungere. Ci si cala dentro a una marcia che è un cammino senza fine, di piede in piede, passo in passo, verso un’ideale di società civile che cresce e decresce, va avanti e poi torna indietro. L’attenzione non va mai abbassata, e il morale tenuto sempre alto. In marcia quindi.
30
www.artesera.it testo di annalisa russo
N
ello sconfinato mondo della rete c’è una novità, imminente: il nuovo sito di ArteSera. Il che, detto così, vuol dire poco: un nuovo sito di arte contemporanea, sai che novità, ce ne sono tanti, non se ne sentiva certo la mancanza. Se non fosse per un fatto curioso. Fino a qualche settimana fa, all’indirizzo www.artesera.it, c’era solo una pagina fissa, dove chi voleva poteva scaricare i pdf dei numeri già usciti, trovare i nostri contatti, scoprire al massimo dove andare a cercare le copie cartacee del giornale. Ma dietro quella pagina, un po’ precaria e approssimativa, c’era un progetto che cresceva e si sviluppava, nutrendosi del freepress e di tutto ciò gli è gravitato intorno in questi mesi, per diventare una creatura a sé, in maniera naturale, quasi una conseguenza diretta del giornale. E così, per germinazione spontanea, nasce il nuovo sito di ArteSera: un progetto che parte dal freepress per arrivare altrove, con l’idea di andare anche un po’ alla deriva e di perdersi. Perdersi nell’archivio, magari, dove sono raccolti i “vecchi” numeri di ArteSera (e quello in corso) scaricabili come prima; o nel blog, dove vengono approfonditi temi che per esigenze di spazio non rientrano nel giornale; o nella sezione progetti (che crescerà nel tempo con tutte le iniziative correlate ad ArteSera) che vengono rigorosamente schedate ma appaiono random sullo schermo: una sezione questa che è in realtà un sito nel sito, capace di produrre a sua volta nuovi rimandi ad artisti, opere, luoghi, azioni che partono dall’arte per arrivare a gesti di vita vissuta. Ma soprattutto, il portale vuole essere - come il giornale - un luogo di informazione e approfondimento aperto, modulabile a seconda del proprio interesse e tempo; una piattaforma di condivisione libera per tutti, che possono intervenire direttamente nel blog, promuovendo le proprie attività e esprimendo il proprio punto di vista. Una piattaforma che nasce per essere appropriata da chi lo vorrà, secondo lo spirito che anima l’intero progetto di ArteSera. Per questo sarà fondamentale l’apporto dei lettori, degli utenti del sito, di tutti voi alla fine: per fare crescere questa piccola nuova creatura. Ecco, detta così, non vuol più dire poco.
31
svago
falso d’autore
di Annalisa Russo
Trova la differenza tra l’originale e la copia di questa opera di Monica Bonvicini.
la ricetta del mese il carneplastico futurista Prima di tutto contro la pastasciutta. E poi contro tutta la tradizione culinaria non italiana, che aveva colonizzato le tavole domestiche e dei ristoranti. La cosmogonia culinaria di Filippo Maria Marinetti e del Futurismo, nei primi decenni del Novecento, cercava l’appagamento completo dei sensi nell’atto del cibarsi. Non solo il piacere del palato, quindi, ma anche quello della vista, dell’olfatto, del cervello. Un nutrimento mentale, un cibo per la mente oltre che per il corpo inteso come digestione, perché “si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia” diceva proprio Marinetti. Il vate di questo movimento avanguardista diede vita a un manifesto della cucina futurista nel 1930, al ristorante “Santo Palato” proprio a Torino nel 1931 e a un manuale di cucina nel 1932, sempre al grido di “il futurismo contagia la tavola”. I futuristi, insomma, volevano rivoluzionare anche il gusto e il ricettario dell’italiano medio. Il piatto futurista per eccellenza, quello che all’epoca spopolava sulle tavole degli avanguardisti, si chiamava “Carneplastico”, un nome che è già un programma, più che un cibo un’opera d’arte. La carne ne era l’ingrediente pricipale, insieme alla ricerca estrema della plasticità delle forme, a cui i cuochi futuristi prestavano particolare attenzione. E ossessione, probabilmente a discapito del sapore. Occorre carne macinata, undici tipi di verdura diversi, una salsiccia, tre cosce di pollo, miele qualità Millefiori. Si puliscono le verdure e le si stufa insieme in padella. Una volta raffreddate si edifica sopra il polpettone con la carne macinata. Una costruzione, un modellato scultoreo ripieno di verdure, che quindi va cotto in forno. Parallelamente si taglia a metà la salsiccia per arrostirla sulla griglia fino a farla arric-
artoku 1
di Danita
il segno del mese
8
vergine
3
8
6 9
4
6
2 3
1
7 6
9
4
2
1 9
3
5
8 2
5 1 9 8
buonumore
ciare ai lati; si bollono le cosce di pollo per poi disossarle in modo che la loro carne bianca formi tre sfere. Una volta che tutto sarà cotto, si procede alla definizione plastica del piatto: si adagiano sul fondo le tre sfere di pollo, sopra le quali si va a formare un anello con le due metà di salsiccia. Su questa base si appoggia il polpettone, da servire con il miele sciolto sopra.
di Serbardano
24 agosto / 23 settembre
La situazione è questa, cara Vergine: pensavi di tornare dalle vacanze estive piena di energia e buoni propositi, ma alla fine sei più stanca e disorientata di prima. Strano, perché sopra di te aleggia uno splendido cielo, con Mercurio che dovrebbe guidarti e Giove e Plutone che entrano nel tuo segno: ti sarai per caso disconnessa dal sistema astrale? Hai perso il segnale? Prova a spostarti un po’ più in là allora, e a recuperare un po’ di fiducia prima che anche le stelle ti voltino le spalle. Magari potresti cercare di capire come sei arrivata a questo punto, puoi piangere un po’ se ti va, e anche sbattere la testa contro il muro: ma poi torna in te e impara a considerare i problemi non come degli ospiti indesiderati, ma come creature selvatiche da addomesticare. Maurizio Cattelan (Padova, 21 settembre 1960) è un celebre artista italiano noto per le sue opere provocatorie e dissacranti, sculture iper realistiche che ritraggono personaggi (noti o meno) in situazioni stranianti. Vive e lavora tra Milano e New York.
di Stefania Sabatino
vuoi le soluzioni dei giochi? vai sulla pagina facebook di arte sera