N째12 marzo/aprile 2012
pubblicazione gratuita / bimestrale / Anno iI / Numero 12
storie di donne
Come raccontare le donne? di Olga Gambari e Annalisa Russo
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on bisogna separare una parte dal tutto, perché così la si fa diventare categoria a sé, diversa, altra. E ancora minoranza, gruppo. Tribù in conflitto e nemica di altre. Le donne fanno parte di un mondo e di una vita condivisa con gli uomini. Sono lo stesso mondo. A volte bello a volte brutto. Però ci sono storie di donne che meritano di essere raccontate, e quindi ricordate, meditate, estratte dal flusso, senza che questo significhi fare un lavoro di genere, o femminile. Questo numero di Artesera ha raccolto delle storie, secondo noi meravigliose, sicuramente preziose e spesso un po’ nascoste, vissute in salita. Delle sfide, avventure dall’arte al teatro, che attraversano la Storia, la società, la creatività. Che parlano di individui rosa e azzurri. Sono dei punti per arrivare in tanti luoghi e tempi. È anche un nostro piccolo tentativo concreto di negare cittadinanza e presenza a un sistema e a molte donne che usano il corpo come unico mezzo di affermazione, offendendo tutte le altre. Non è più tollerabile trovare sulla medesima prima pagina di un quotidiano nazionale un articolo che si domanda se una tizia avesse o meno le mutande mentre mostrava tutto quello che aveva sul palco di uno spettacolo, e un altro che racconta di come le ragazze africane e dell’Europa dell’Est, che cadono nella tratta della prostituzione, vengano addirittura “marchiate” con microchip per non farle scappare. Anche in questo caso si tratta di ritrovare voce come società civile, di fare scelte, di pretendere altro, di pensare ai bambini che stanno crescendo, a quali saranno i loro modelli singoli e di gruppo, relazionali. Glieli diamo noi con quello che facciamo, diciamo, vediamo. Se non c’è mercato l’offerta cala, e allora proviamo a rifiutare tutti\e insieme certe dinamiche, cliché, gabbie, satira, tv, prodotti, film. Con ironia serena e risoluta, dicendo semplicemente “no grazie” all’uso di soggetti come fossero oggetti. Certo si è tornati molto indietro in questi ultimi anni italiani, basta dare un’occhiata a Tv e giornali, e c’è molto lavoro da ri\fare sul concetto di “individuo”. Vorremmo, infine, che fosse un numero dedicato anche ai tanti uomini meravigliosi che esistono, e che sono feriti e puniti allo stesso modo quando una donna, anche con un fiore, riceve un’offesa.
BIMESTRALE / Anno iI / Numero 12 Marzo/Aprile 2012
Direttore Editoriale Annalisa Russo Direttore Responsabile Olga Gambari Art direction e progetto grafico www.dariobovero.it
Copertina Copertina tratta dal disco Cindy Lauper - She’s So Unusual (Portrait / Epic) 1983
Hanno collaborato Eva Brioschi, Giulia Caira, Manuela Cirino, Liliana Dematteis, Mariella Fabbris, Caterina Fossati, Carola Haupt, Veronica Liotti, Ivana Mulatero, Cristina Mundici, Luisa Perlo, Anna Pironti, Maria Teresa Roberto, Stefania Sabatino, Serbardano, Gabriella Serusi, Francesca Solero, Lorena Tadorni, Elisabetta Tolosano, Daniela Trombetta, Cosimo Veneziano, Marisa Vescovo. Contatti
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racconto dell’arte
marisa e le altre ragazze a cura di OLGA GAMBARI
MARISA MERZ
da sinistra a destra: Marisa Merz, senza titolo,1984 Tecnica mista su tela, cera, legno, filo di rame (Collezione dell’artista) Marisa Merz, senza titolo, 2008 Tecnica mista su carta (Collezione dell’artista) Marisa Merz, Senza titolo, 2012 (Collezione dell’artista)
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arisa Merz racconta se stessa, in una grande mostra che si aprirà a metà maggio alla Fondazione Merz. Disegnare Disegnare Ridisegnare. Il pensiero che cammina. Opere scelte e allestite dall’artista stessa. Un modus operandi che renderà la mostra prima di tutto un progetto artistico, un’unica e articolata installazione. Marisa Merz è un’artista meravigliosa, che è vissuta attraversando l’arte povera, per vicenda familiare, come moglie di Mario Merz, e per
affinità di percorso. Ma ha sempre mantenuto una sua assoluta autonomia poetica, un’inafferrabilità che la fa essere leggera, cangiante, mai chiusa in una definizione. Così sono le sue opere, che conservano la sensazione del divenire, dell’essere aperte o appena accadute e, quindi, sospese in un atto ancora da concludersi. La vita le ispira ogni lavoro, la vita delle piccole cose quotidiane così come quella cosmica, in realtà una riflessa nelle altre, in una circolarità energetica e di saggezza tutta femminile. In questo Marisa Merz rende la dimensio-
ne femminile un alfabeto intimo capace di raccontare il mondo, i mondi. La fragilità del guscio dell’uovo. Le sue opere sono silenziose ma con occhi spalancati, con la pelle e i sensi in allerta. Dotate sempre di una sottile forza magnetica. Trame di rame e di nylon, volti che appaiono sbozzati in testine o che affiorano da tele, disegnate a matita: sono porte, tagli nello spazio, nell’anima, che rapprendono la propria soggettività, una sorta di autoritratto ideale, in forme simboliche, primitive, in cui balena l’umanità.
Ci sono tante artiste a Torino che avrebbero meritato molto di più. Soprattutto artiste appartenenti alle generazioni nate nella prima metà del Novecento. Mi emoziona sempre conoscerne la biografia e vederne il lavoro, a volte scoprirlo. Ho avuto la fortuna di incontrarne e ascoltarne alcune. Ognuna con il proprio percorso, la propria storia, ma accomunate da una passione e da un’esigenza, dall’arte come condizione esistenziale per vivere, nutrite da quell’energia speciale che può essere esplosiva quanto distruttiva. Nessuna di loro ha avuto vita facile come artista, così come riconoscimenti equiparati al proprio valore, supporti o colpi di fortuna. Rimangono tracce luminose. Abbiamo pensato di dedicare loro questo piccolo racconto corale, in cui ogni ritratto è disegnato da critiche e storiche torinesi che sono state invitate a ricordare ciascun nome, in una sorta di adozione affettiva. Abbiamo anche inserito le figure di due galleriste e di una critica (Eva Menzio, Christian Stein e Mirella Bandini) che hanno condiviso con loro percorso e momento storico. Nell’elenco delle artiste, poi, vogliamo subito dichiarare che sicuramente mancano dei nomi importanti, che ci siamo dimenticati, oppure non conosciamo: il loro non essere qui è solo una nostra mancanza di attenzione e ricerca, non un giudizio in merito al loro valore. E ce ne scusiamo.
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MICHELA PACHNER di Maria Teresa Roberto*
Per Michela Pachner la pittura è stata dapprima terreno di sperimentazione materica e di analisi delle iconografie contemporanee, ma dagli anni Ottanta si è trasformata in luogo di esplorazione dell’identità e di costruzione di relazioni. Sono del 1970 le prime superfici in acciaio inox recanti il disegno di velivoli o automobili da corsa, presto seguite da ritratti in plexiglas illuminati da luce al neon, tra cui quelli di Virginia Woolf e di Angela Davis. E nella personale del ’72 alla galleria Stein un’installazione di fiori metallici costruiti con ingranaggi di ferro e acciaio era accompagnata da una complessa ambientazione sonora. Parallelamente Pachner realizzava i rilievi delle Conchiglie ricoperte di stoffa o maglia, che segnavano l’aprirsi del suo interesse per le tematiche femministe, documentato dalla Performance bianca che ebbe luogo nel 1975 alla Galleria Martano. In base a un progetto di lavoro collettivo e di approfondimento dei valori terapeutici dell’arte, ha iniziato da allora a organizzare laboratori in Ospedali Psichiatrici e in ambienti naturali, abbandonando il circuito del mercato dell’arte e soggiornando frequentemente in India. Continua tuttora a praticare la pittura, e si esprime attraverso allestimenti ed eventi che hanno come teatro la sua casa-studio, laboratorio in perenne trasformazione in cui sono raccolte le testimonianze delle sue esperienze individuali e di gruppo. * Maria Teresa Roberto insegna Storia dell’arte contemporanea all’Accademia Albertina di Torino. Ha curato mostre e volumi sui protagonisti della scena artistica torinese contemporanea, da Pinot Gallizio all’Arte Povera. Nel 2004 ha curato con Pino Mantovani e Anna Minola la mostra che la Regione Piemonte ha dedicato a Michela Pachner.
JESSIE BOSWELL di Ivana Mulatero*
Jessie Boswell (Leeds, Inghilterra, 1881 - Moncrivello, Biella 1956) diceva di sé: “Sono fatta per mille cose”, e agli amici: “Sono orribilmente inglese mai tranquilla e
sempre futile”, e anche: “Io non sono una vera pittrice ma non importa”. Consapevolmente istintiva, solare e malinconica, amorosamente impaziente, in perenne full moving nel mondo e nella vita, è stata unica artista donna dei Sei. Aveva 48 anni quando s’inaugurò nel gennaio 1929 a Torino la prima mostra del gruppo con Chessa, Galante, Levi, Menzio e Paulucci, con numerose esperienze coltivate tra musica, disegno e pittura. La pittura, non intesa come strumento con cui andare alla conquista del mondo, è stata praticata dalla Boswell per circa tre decenni con continuità di mestiere e low profile. È nuova la dimensione psicologica dello spazio nei suoi dipinti d’interni, un senso di disagio e di quiete: la stanza della torre ne Le tre finestre (1924) evoca un’assenza che l’osservatore può colmare con l’immaginazione. Diventa simile ad una Double(d) room (1991) di Dominique GonzalezFoerster, in cui nell’immersive scene lo spettatore entra fisicamente nell’opera e nel contempo è come se camminasse in un’immagine. Nelle scene d’interni, dipinte dalla “geniale e simpatica indisciplinata”, s’incontra quella Jessie che non è di nessun altro che di se stessa. La pittura come appartenenza a sé. * Ivana Mulatero si occupa d’arte moderna e contemporanea a partire dal 1982, quando collabora con Natalia Casorati e Andrea Massaioli alla rivista “Mosaico”. In qualità di critica d’arte accompagna al debutto degli artisti Enrica Borghi e Paolo Leonardo, nelle edizioni della manifestazione “Nuovi Arrivi” 1995-1996. E’ curatrice della prima mostra monografica e del catalogo sull’opera di Jessie Boswell (edizioni Bolaffi, Torino 2009).
CAROL RAMA
è carta di recupero. Procedere per scarti, nella vita e nell’arte, rispetto alla consuetudine, all’uso invalso: scarpe ortopediche e dentiere, occhi di bambola e unghioni e gomme che mutano in elemento strutturale e compositivo del quadro, falli e vagine che virano in quasi pudiche nature morte. Ma: “Il garbo è tutto” (Carol Rama). Relazioni importanti, fondanti, da cui assorbire e cedere nutrimento, cultura, carica vitale, ironia. Ora: a cavallo tra 92 e 93 anni, in bilico tra realtà, ricordi e visionarietà, Carol Rama ha affidato all’amico Andrea Guerzoni frasi che sono spezzoni di vita, come sempre, come ha sempre fatto, regalando a chi la frequentava parole che ti aprivano mondi, su se stessa, su di noi e sulla vita: “Mi accorgo di invecchiare ma ho il coraggio di vivere” (febbraio 2011). “L’arte restituisce tutto” (marzo 2011). “Ho sbagliato a pensare che non ero brava” (aprile 2011). “Ci sono dei periodi cattivi e crudeli in cui la vita è una mascalzonata: ma è meglio avere poca paura perché è in quei momenti che si può diventare eccezionali” (maggio 2011). “Non ho altri consigli per giovani pittori, a parte quello di rimanere giovani diventando grandi” (maggio 2011). Aforismi sulla solitudine, oggetti, vecchiaia
“Quando dipingo non ho nessun garbo professionale, nessuna gentilezza, non ho regole. Non ho mai seguito corsi regolari di pittura, né avuto un’educazione artistica, accademica. Questo limite alla fine mi ha aiutata. La mia insicurezza tecnica, il mio non avere un metodo è diventato un aspetto del mio lavoro”
di Cristina Mundici* Il decalogo della pittrice
Quotidiana applicazione alla pittura, lavoro appunto, quando questo lavoro per una pittrice di vent’anni, a fine anni Trenta, era scandalo. Pareti grigio fumo e finestre oscurate da tendoni neri per concentrarsi totalmente sulle proprie visioni, e tener lontani paesaggi e immagini reali. Assorbire oggetti, individui e situazioni, spesso a radice autobiografica, e risputarli in forma di quadro, anche quando il supporto
* Cristina Mundici, laurea in Storia dell’arte al DAMS di Bologna, entra nella redazione dei libri d’arte della casa editrice Einaudi (1979-85) per poi lavorare fino al 1992 al Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli in qualità di capo curatore. Dal 1992 intraprende la libera professione nel settore dell’arte contemporanea, curando progetti quali l’installazione di opere d’arte permanenti lungo il percorso del Passante Ferroviario di Torino, mostre, volumi sull’arte degli anni Sessanta e Settanta.
PAOLA LEVI MONTALCINI di Gabriella Serusi*
Lo speciale rapporto che ha unito Paola Levi Montalcini (Torino, 1909- Roma, 2000) a Torino, la sua città d’origine, è tutto da scriversi sotto il segno dell’enigma. Discreta e refrattaria allo sguardo distratto la città che diede i natali all’artista; misterioso, aspro e difficile da penetrare il senso profondo della ricerca artistica della Montalcini che - a voler riassumere in poche parole - è stato essenzialmente ricerca di “libertà” (espressiva e di vita) e sperimentazione continua. Rileggere a posteriori l’intero corpo delle sue opere, suddiviso com’è ecletticamente fra pittura, scultura, fotografia, significa in qualche modo ripercorrere non soltanto la Storia dell’Arte del ‘900 ma più in generale la Storia di un secolo segnato dal progresso tecnico-scientifico ma anche dal tradimento degli ideali della ragione e dai tragici eventi delle due guerre mondiali. Paola Levi Montalcini ha attraversato l’intero secolo scorso da vera pioniera, animata da un instancabile ardore conoscitivo per la scienza e la logica messe al servizio dell’arte. I suoi esordi da pittrice che le valsero anche l’apprezzamento entusiasta di Giorgio De Chirico sono legati al ritratto di figura o ai paesaggi maturati durante e dopo l’apprendistato nell’atelier di Felice Casorati. La grande svolta arrivò però soltanto intorno agli anni ’50 quando l’artista entrò a far parte del distaccamento torinese del MAC. In quegli anni l’artista sperimenta tecniche nuove e realizza opere pittoriche astratte, radicali e rigorose, preludio alle successive “sculture luminose” degli anni ’70. Queste ultime sono strutture monumentali misteriose e affascinanti, animate dalla luce. Il lavoro diventa da quel momento in poi poeticamente ineffabile, più colto e sfuggente fino alle ultime “sculture in alluminio”, teoremi visivi di leggerezza, purezza, solidità e spiritualità. * Gabriella Serusi (1971) vive e lavora a Torino. E’ curatrice e critica d’arte contemporanea indipendente dal 2000. Ha collaborato con il quotidiano L’Unità e con numerosi magazine di settore fra cui Photo, Label, Uovo. Dal 2000 collabora con la rivista Segno. Fra le ultime mostre curate la personale di Maura Banfo, “ In un palmo di mano”.
GIGLIOLA CARRETTI di Liliana Dematteis*
Dopo aver frequentato la scuola di Casorati, ed essere stata moglie di un’artista, Gigliola Carretti – che aveva perso l’accento delle sue origini toscane mantenendone intatta la sua Mente arguta - aveva chiuso con la pittura di un certo milieu torinese che non sentiva più, smettendo di dipingere. Poi, a partire dal 1967 aveva ripreso i pennelli per lavorare con i bambini piccoli in un atelier di pittura in cui applicava il metodo Steiner, e dai bambini venne la scoperta “…di come si trasforma un gesto in segno e come il gesto perduri nel segno tracciato, e come ogni segno sia rivelatore dell’aspetto, anche il meno visibile, di ciascuno di noi”. Gigliola è ripartita da lì, dalla memoria del gesto e del corpo. Il materiale era la carta, anzi il cartoncino tipo Schoellers, un classico dei concettuali negli anni settanta, che l’artista adottò dopo un’esperienza su dei lunghi rotoli di carta sui quali registrava il movimento del braccio per tracciare con il carboncino e in certi casi rafforzando il segno con l’oro i movimenti del proprio corpo. Una danza, lo studio della circolarità di una figura che ruota su se stessa uniformemente e che muta con il variare di posizione della sua struttura o che con il passo scandisce un tempo mentre sul foglio, sincronicamente stabilisce un percorso diagrammatico, fatto di segni e intervalli. Un impegno forte e costante quello di Gigliola fino alla morte prematura nel 1990, con il ricordo di alcune mostre significative, alcuni libri come “Ritmico”, un libro d’artista del 1980 stampato col sistema xerox in trecento esemplari, “Modulatum” dell’anno successivo e altri in cui unisce lavori incisi all’acquaforte con alcuni suoi bellissimi testi di poetica. * Liliana Dematteis è co-fondatrice della Galleria e delle Edizioni Martano che dirige dal 1971. Si è occupata in particolare di avanguardie storiche futuriste e astratte, di arte concettuale e di libri d’artista curando pubblicazioni e cataloghi di esposizioni. Ha insegnato Storia della comunicazione visiva al Politecnico di Torino.
DAPHNE MAUGHAN di Eva Brioschi*
Ho “conosciuto” Daphne quando ho cominciato a lavorare alla mia tesi
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di laurea, un avvio di catalogazione della sua opera pittorica. Discendente da una famiglia di pittori da parte materna e con uno zio scrittore (il celebre Somerset Maugham) da parte di padre, Daphne ricevette un’educazione completa alle arti, dapprima a Parigi, alla scuola dei Nabis e poi con la pittrice polacca Mela Mutter, quindi alla Slade School of Art di Londra. La sorella Cynthia, ballerina alla “corte” dei Gualino, dove i coniugi Sakharoff insegnavano a poche scelte allieve, si era fatta fare un ritratto dal maestro Felice Casorati. Nel 1925 Daphne ne ricevette una fotografia e decise subito di partire per Torino e di entrare alla Scuola del maestro torinese. Dopo pochi anni avvenne il matrimonio con Felice e nel 1934 la nascita del figlio Francesco. Per tutta la vita Daphne mantenne una posizione defilata rispetto a quella del marito, che animò con la sua figura a tratti ingombrante la realtà culturale della città dal suo arrivo nel 1917 fino all’anno della morte, 1963. Per tutta la vita – costellata anche da momenti di profonda prostrazione emotiva – Daphne non chiese altro in cambio della sua fedeltà e riservatezza, che tempo da dedicare alla sua pittura. In studio o all’aperto nella campagna di Pavarolo, con tele di medie dimensioni o piccoli cartoni utili per non smettere mai di raccogliere le impressioni pittoriche in quelli che lei stessa definiva “quadretti da viaggio”. * Eva Brioschi, storico e critico d’arte, collabora con la Collezione La Gaia di Busca ed è il direttore artistico della Collezione Antonio Dalle Nogare di Bolzano.
ANNA COMBA di Lorena Tadorni*
Bocche rosse. Che fumano. Che sorridono. Greta Garbo, Marilyn
Monroe, Rita Hayworth, Anna Magnani. Frammenti di carta che si confondono con i segni della matita e del pennello. È questo l’universo di Anna Comba, un’artista che ha sognato e trasformato il cinema e i suoi miti. Guardare le sue opere è come guardare scorrere la storia. Una storia personale e collettiva in cui la tela è come uno schermo su cui giocare e mettersi in gioco, proprio come in un montaggio cinematografico fatto di spezzoni di carta, immagini delle Divine, disegni, pittura, scritte personali e politiche, come la guerra in Vietnam a cui dedicò il dittico America del 2001. O riflessioni sulla condizione umana del dolore, come Pasolini novello martire nel ciclo San Sebastiano. Le opere di Anna Comba sono un inno al cinema, ma soprattutto un inno alla donna e alla sua forza, iconografica e intima. Reinterprentandole, Anna Comba ha fatto rivivere nel presente le dive del passato, restituendocele più vicine e proiettandole nel nostro presente. Fatte di carne ed ossa, forti e vulnerabili allo stesso tempo, come ogni essere umano. Come una sua celebre serie di lavori: anche Gilda aveva un’anima. * Lorena Tadorni e’ curatrice free-lance. Ha collaborato con spazi pubblici e privati in Italia e all’estero. Nel 2010 ha fondato a Torino lo spazio d’arte indipendente We.
CLOTILDE VITROTTO di Luisa Perlo*
Tra le poche artiste visive operanti nei gruppi sperimentati allora attivi a Torino, negli anni ’70 Clotilde
Laura Castagno, Grande oscillante di colore e luce (particolare), 2011
Vitrotto indaga la nozione di lavoro artistico in un’ottica di genere con la lavorazione “strutturale” di materiali naturali. Nei suoi primi oggetti in legno, l’enfasi sugli aspetti sensoriali della materia coincide con l’appropriazione di un’attività costruttiva e di una progettualità “tradizionalmente maschile”. La riflessione sulla creatività femminile è ancora più puntuale nei lavori “a maglia” ai quali si dedica dal 1978. Con juta, cotone e canapa realizza ai ferri e all’uncinetto forme topologiche (anello di Moebius, bottiglia di Klein), insieme reali e impossibili, nelle quali “il punto-maglia si moltiplica come modulo in texture continua”. Il filo del discorso, scrive, “lega un’esperienza atavica, appannaggio per lo più femminile, rifugio prigione di creatività utilitaria, con le contemporanee concezioni di strutturalità elastica e articolata”. È un filo che ritorna anche nei numerosi interventi sul territorio realizzati con il gruppo Ti.zero in chiave pedagogica e ambientale. Dal 1986 la sua attività è proseguita in seno al centro Quantica, coordinato con Giorgio Nelva, oggi preziosa fonte documentaria sulle ricerche delle neoavanguardie e oltre. * Luisa Perlo fa parte del collettivo curatoriale a.titolo. Critica e pubblicista, svolge da anni ricerche sulle esperienze artistiche di gruppo tra anni ‘60 e ‘70. Su questi temi ha pubblicato il saggio Sperimentare al plurale nel volume Torino sperimentale 1959-1969 (Allemandi & C., Torino 2010).
LAURA CASTAGNO
Anna Comba, collage su carta, fine anni 70
racconto dell’arte
piegati che diventano tridimensionali volumi con interventi policromi in dialogo con micropieghettature e quadrature. Altro elemento fondamentale della sua ricerca il rapporto tra tempo e movimento, tensione/energia e esperienza umana, che hanno creato grandi installazioni “abitabili” in spazi interni o nel paesaggio con segni mobili e in tensione. La sua progettualità analitica, spesso modulare, cerca un rapporto continuo, oltre che con lo spazio, anche con lo spettatore, a livello interattivo e percettivo, giocando con la sensorialità e il contrasto dei materiali impiegati e con gli slittamenti di senso.
di Redazione
Il percorso di Laura Castagno inizia negli anni Sessanta, con una ricerca che si muove tra l’architettura e la dimensione delle arti visive, dalla pittura alla ceramica al design. Installazioni\sculture mini e macro. Si potrebbe dire che la sua sia stata una continua elaborazione di segni diversi, un flusso fatto di carta, metallo, luce, colore, tecnologia, geometria che si dispone sempre in una condizione di instabilità percettiva: un dinamismo vitale che sembra pronto a cambiare stato, forma, relazione. Strutture semplici e complesse di poesia minimalista, raffinata, declinata magari con sottili tubi in acciaio inox avvolti su se stessi e sigillati a formare argentei cerchi, ai quali corrispondono sequenze cartacee. Oppure altre carte ancora, fogli
Nini Maccagno di Veronica Liotti*
Un’artista, prima ancora una ballerina, un’appassionata di musica e letteratura: «In realtà volevo fare la scrittrice ma mi è venuta paura del foglio bianco... in ogni caso, scrivo benissimo i telegrammi», così confessava ad Alberto Papuzzi nel 2002, alla vigilia della più grande mostra antologica a lei dedicata presso l’Archivio di Stato di Torino. Era già alla soglia dei novant’anni eppure, ricorda sempre Papuzzi, si districava con disinvoltura nell’apparente caos di sculture, dipinti, cataloghi, fotografie, lettere e ritagli di giornale di cui era ingombra la sua casa. Lieve come il suo nome, intensa
come la pittura sulle tele, Nini ha traversato l’intero “secolo breve”. Una vita fitta di incontri originali, di viaggi e interlocutori carismatici come Felice Casorati, determinante per la formazione della sua poetica, e Max Ernst, cruciale per la svolta astratta. Il suo percorso artistico, culminato in un audace essenzialismo, trova una metafora perfetta in quei «telegrammi» che Nini diceva di scrivere benissimo, ben oltre l’occasionale ironia che ne faceva un curioso e personalissimo genere letterario. Una ricerca colta e curiosa, nutrita di musica, letteratura e filosofia – Bach, Calvino e Adorno tra le fonti cui attingeva –, aperta fino all’ultimo alla sperimentazione: «Non cerco di essere moderna», raccontava di sé Nini Maccagno, «ma contemporanea». * Critica d’arte contemporanea indipendente, nasce a Novara nel 1976. Dal 2005 si trasferisce a Torino dove matura esperienza presso il Castello di Rivoli. Successivamente collabora con diverse gallerie d’arte private, nazionali e internazionali, e scrive per riviste specializzate come Segno e FlashArt. Nel 2010 è co-fondatrice di Documenti d’artista Piemonte, progetto per la catalogazione e promozione del lavoro degli artisti piemontesi all’interno di Réseau Document d’artistes con sede in Francia.
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Di Francesca Solero*
“L’arte è la stella polare intorno a cui rotea la mia esistenza” * Pittrice, poetessa, musa. Figura umile e curiosa, immersa nell’intimità delle relazioni familiari che ne caratterizzarono il lessico pittorico, ma spinta alla ricerca di sguardi e gesti universali. Nella Marchesini nella sua pittura coglieva quegli attimi di tensione ascetica nei volti conosciuti ed amati e li fissava sulla tela, per accompagnare, a sua volta, l’incedere quotidiano. La coincidenza tra arte e vita è stata la linea guida di un’esistenza spesa immettendo l’una nella quotidianità dell’altra, o innalzando l’una nell’auraticità dell’altra, in una dimensione fortemente spirituale che muoveva la sua intera ricerca artistica. “Tra l’arte e la santità non c’è poi gran differenza e l’una e l’altra è difficile da raggiungere” ** Nata in Toscana nel 1901 arriva con la famiglia a Torino negli anni 20. Conosce Gobetti che la presenta a Felice Casorati, di cui diventa allieva prediletta, prima in via Mazzini e poi nella scuola di Via Galliari. Nel 1929 conosce Ugo Malvano, pittore torinese. Si sposano nel 1930. Dall’esperienza casoratiana deriva, insieme alla compostezza ieratica delle figure e alla solidità dei corpi, un’attenzione primaria verso il disegno quale “ossatura dell’opera”. In queste pagine sciolte e sparse, come nei versi, emerge un segno più libero e personale capace di rivelare la carica emotiva a tratti drammatica e a tratti lirica del suo percorso umano ed artistico. * Lettera a Ida Donati ** Lettera a Lia Rondelli * Francesca Solero è operatore culturale, curatore e organizzatore di mostre ed eventi. Collabora con l’associazione Ellecontemporaryprojects.
MIRELLA BANDINI di Caterina Fossati*
Un unico grande amore: l’arte. Non sono molte le persone che hanno la fortuna di trovare un sentiero luminoso che le accompagni e le orienti nel corso di tutta la vita: una di queste è stata senz’altro Mirella Bandini. L’ammirazione e
* Elisabetta Tolosano, come giornalista pubblicista ha svolto collaborazioni con diverse testate tra cui Il Giornale dell’arte di Allemandi, La Stampa, Panorama, il Sole 24 ore. Come critica d’arte cura mostre di artisti contemporanei ed è corrispondente per il mensile Flash Art. E’ docente di Storia dell’arte al Liceo Cavour di Torino. Clotilde Vitrotto, Oggetto 77-09, 1977
l’attenzione nei confronti del mondo dell’arte Torinese e internazionale l’hanno accompagnata come se fossero il suo personale motore al punto di trasformare in motore lei stessa, come a voler restiture energia al mondo che questa energia e questo entusiasmo le donava ogni giorno. L’entusiasmo per le avanguardie e l’ammirazione per coloro che per primi riuscivano a leggerle e a decodificarle sono stati una delle principali caratteristiche di Mirella Bandini curatrice, saggista e, forse sopratutto insegnante. Che si trovasse di fronte a una classe di liceo o dell’accademia oppure di fronte al colto pubblico degli “addetti ai lavori” l’entusiasmo che brillava nei suoi piccoli e intelligenti occhi non veniva mai meno. Un entusiasmo che seppe sempre rinnovare e declinare in nuove esperienze che ebbe poi la capacità di trasmettere sotto forma di saggi, mostre e lezioni. Il postimpressionismo poetico e intimista dei Sei pittori di Torino così come la causticità dell’arte povera, i grandi quadri informali di Jorn fino a quelli di Gallizio godettero da parte sua sempre del medesimo trattamento: amore, attenzione, comprensione. Nel mondo dell’arte esistono figure, rare, che svolgono, talvolta, la funzione di legare ta loro le differenti esperienze artistiche che fioriscono in un determinato territorio. La loro presenza ha l’effetto di un fertilizzante così come la loro assenza è paragonabile alla siccità che trasforma ogni singolo fiorire in un episodio isolato impedendogli di diventare parte di una sinfonia più completa e complessa. * Caterina Fossati nel 1992
ha fondato una galleria d’arte focalizzata sul lavoro di giovani artisti italiani e stranieri. Dal 2005 oltre a seguire il lavoro di alcuni artisti, il suo interesse si è allargato ad altri campi della creatività: dalla grafica alla curatela di manifestazioni artistiche e letterarie.
EVA MENZIO di Elisabetta Tolosano*
NOVEDICEMBREMILLENOVECENTOTTATASEI, la data scritta in lettere maiuscole era sempre al centro della copertina dei cataloghi pubblicati da Eva Menzio in occasione delle mostre allestite a Torino nella Galleria di via Cavour 41b. Ne conservo alcuni, tutti dello stesso formato, con la stessa grafica, copertina monocroma, un colore diverso per ogni mostra. Quello arancione del 9 dicembre del 1986 riguarda un’esposizione di opere di Boetti, Paolini, Merz, Ontani, Cucchi, Mussat Sartor che si ritraggono a vicenda, testo di Bonito Oliva. Fu alla fine degli anni Ottanta che cominciai a seguire la galleria, quando collaboravo con Il Giornale dell’arte di Allemandi e poi con TorinoSette su cui recensii la mostra “Xe Hall” di Piero Gilardi del 1987. Eva Menzio mi apparve come gallerista dinamica, intraprendente, vivace, elegante e di bell’aspetto. Il modo sicuro di muoversi nel mondo dell’arte e le sue intelligenti scelte artistiche denotavano un’esperienza consolidata. Figlia di Francesco Menzio, sorella di Paolo anch’esso artista, moglie di Luciano Pistoi poi di Paolo Fossati, da cui ha avuto i due figli Caterina e Filippo galleristi anche loro, Eva Menzio entra a pieno titolo nella tra-
CHRISTIAN STEIN di Marisa Vescovo*
Il primo incontro con Christian (Margherita) Stein è avvenuto nella sua casa-galleria di Piazza San Carlo. Era in corso una personale di Giulio Paolini: un artista molto amato. Il risuonare dei miei passi sul parquet, ha richiamato la curiosità della Stein, che si è affacciata sulla soglia del suo ufficio, vestita come sempre, di un bianco sari indiano -- che la rendeva unica nel mondo perbenista femminile torinese- con in testa un fazzoletto legato a turbante. Vedendomi pensosa davanti ad un lavoro, con grande sensibilità e foga, ha esternato il suo pensiero in proposito. La Stein aveva una forte personalità, che sapeva attrarre attorno a sé il meglio dei giovani artisti italiani degli anni Settanta, pur avendo però già lavorato negli anni Cinquanta-Sessanta con Uncini, Fontana, Manzoni, Melotti. Giornalmente negli spazi della Stein avvenivano incontri e
discussioni (suggeriti a volte dalle teorizzazioni di Carla Lonzi), a cui partecipavano Zorio, Penone, Merz, Fabbro, Gastini, Pistoletto, Paolini, Boetti, Anselmo, Martelli, Bonelli, in modo più defilato Parmiggiani, (poco amato dai colleghi di Torino), che si trasferì dall’Emilia a Torino, per essere vicino alla sua vestale dell’arte. Una donna dunque dalla straordinaria lungimiranza e spirito di avventura, capace di testimoniare col lavoro, che la sua vocazione non era solo quella di fare la gallerista, quindi il mercato (aveva costruito in fecondo triangolo di interessi e progetti con Luciano Pistoi e Gian Enzo Sperone), ma di indirizzare gli artisti verso percorsi proiettati nel futuro, di accompagnarli nelle scelte, nelle sperimentazioni, e poi di rappresentarli portandoli fuori dai soliti percorsi italiani, senza peraltro assumere un falso ruolo di fiancheggiatrice di Germano Celant. La sua vocazione di collezionista, si è in seguito concretata nella nascita della Fondazione Christian Stein, collocata nel suo appartamento di Piazza Vittorio, che contava centinaia di bellissime opere, oggi in giro per i Musei di tutto il mondo. * Marisa Vescovo è stata titolare del corso di Fenomenologia dell’arte Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Genova, consulente per le “Arti visive” del Comune e della Provincia di Alessandria, Commissario per l’arte visiva alla Biennale di Venezia. Ha diretto la Fondazione Bricherasio di Torino, è stata Direttore Scientifico IGAV e dell’Associazione Panichi Seghetti di Ascoli Piceno. Ha lavorato alla collezione di arte contemporanea della Farnesina a Roma. Collabora al quotidiano “La Stampa” e alla rivista letteraria “Ali”. Nini Maccagno, Lezioni americane, rapidità (particolare), fine anni 80
dizione di una grande famiglia che da anni, anzi da secoli (se si considera il nonno pittore ottocentesco Filippo Cabutti) incide nella scena dell’arte. La direzione della Galleria Marlborough di Montecarlo ha portato la preziosa attività Eva Menzio da Torino al Principato di Monaco.
Nella Marchesini
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arte pubblica
questo è dunque un monumento? testo di cosimo veneziano
Cosa succede se si rovescia il percorso della storia? Dove si ritrova il senso?
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avorando a Questo è dunque un monumento?, monumento minimo dedicato alle operaie della Superga, storica fabbrica della gomma torinese, ho provato a cambiare prospettiva e da questa posizione osservare, coninteresse, le storie non documentate, gli spazi interstiziali e dunque lo scarto inteso non come elemento di cattiva qualità ma come cosa rimossa, abbandonata. Tutto quel materiale che la storia dell’industria a Torino non ha voluto vedere, raccontare. Ragionare sul monumento in questo primo decennio del secolo è un’impresa complessa perché storicamente il suo senso è legato a una storia lineare che poco ha a che fare con la complessità di questi anni. Azioni conquiste, rivoluzioni, studi e cultura per lo più dedicate alla storia degli uomini e sempre formalizzati con materiali costosi e pesanti -marmo, bronzo- in grado di dimostrare il peso della storia. Al contrario, seguendo il suggerimento di Peter Stillman (La trilogia La città di vetro), ho percorso anch’io strati di città provando a dare risposta al significato nascosto delle cose e delle storie perdute. Nella fase ideativa, attraverso una ricerca di documenti, ho provato a tracciare percorsi inediti con l’obbiettivo di trovare nuove narrazioni tra quelle già esist-
enti e rimettere nel circuito della storia il materiale scartato o ancora chiuso negli archivi. Scarto è questa storia e scarto è questa architettura: la storia è quella di una fabbrica tessile che, dai primi decenni e fino agli anni Ottanta del secolo scorso, vedeva più dell’80% della forza lavoro nelle donne, una storia rimasta ‘minore’ rispetto alla grande tradizione della metallurgia torinese. E scarto è anche l’architettura alla quale ho deciso di appoggiare il mio lavoro: un arredo urbano, una fontana nata da un’estetica visibilmente legata a un’idea di monumento ma rimasta fino ad oggi senza una sua narrazione. A partire da questi due elementi ‘minori’ rispetto al procedere, ingombrante, della storia del lavoro e dei monumenti a Torino, ho voluto creare la possibilità di aggiungere un solo frammento, un segno leggero. Dal materiale d’archivio della fabbrica “Superga - FRIGT” conservato all’archivio storico della Città di Torino e composto da documenti personali e qualche immagine, ho isolato un numero; il 52. Un numero che veniva ripetuto più volte su quasi tutti i documenti e legato a un reparto della Superga che sorgeva proprio sull’area che ospita il mio lavoro e che, in anni recenti, è stata riconvertita in area verde. Ho poi isolato anche una serie di gesti ripetuti dalle operaie in quel luogo. Il ritmo lavorativo; quattro gesti che permettevano d’inserire la gomma nella macchina e cucirla alla tomaia. Quattro gesti che si ripetevano come uno strano rituale. Ho chiesto alle operaie, oggi in pensione, di descrivere quei gesti e rifarli e mi sono concentrato sulla forma che le loro mani prendevano ad ogni azione. A partire dai documenti e da questo ritmo che creava forme, è nato Questo dunque è un monumento?, uno sguardo che ho voluto concentrare su minimi particolari di una storia di lavoro lunga decenni ma che fino ad oggi non aveva un riconoscimento collettivo. Questo dunque è un monumento? È nato nell’ambito di situa. to, esperienza formativa a carattere interdisciplinare curata da a.titolo e Maurizio Cilli. Cosimo Veneziano da alcuni anni svolge una ricerca artistica che indaga il rapporto tra cambiamenti sociali e territorio urbano. Ha partecipato alla residenza Aperto 2011 - art on the border, distretto culturale della Valle Camonica, Edolo (Brescia) e, con Maurizio Cilli, al programma d’arte pubblica Progetto Casanova. Quando un posto diventa luogo a Bolzano. Cosimo Veneziano è tra i fondatori e animatori del Progetto Diogene (www.progettodiogene.eu)
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in alto: i quattro gesti ripetuti dalle opere di Superga. a sinistra: foto d’archivio delle operaie di Superga al lavoro.
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extra
l’immagine negata opere d’arte cercano casa
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enerazione spontanea è un processo attraverso il quale da un oggetto inanimato possono nascere flussi vitali. E’ una nascita e avviene senza costrizioni di sorta. E’ spontanea. Generazione spontanea è diventata, nel tempo, l’Immagine negata perché è anche un progetto che nasce da una mancanza. Negare l’immagine per preservarne il contenuto e la potenzialità, una fenomenologia completamente distrutta dal nostro contemporaneo. Spesso il meccanismo che mostra l’opera nel nostro tempo appare piuttosto autoritario e pone lo spettatore in una condizione innaturale di subalternità (quando non si capisce) o di prevaricazione (quando si capisce tutto). Con questo progetto vorrei che lo spettatore/osservatore, presenza fondamentale nella definizione dell’opera, ritrovasse un ruolo naturale e che le opere si aprissero di nuovo ad una reciprocità scambievole. Ospitate dalla galleria di Liliana Dematteis, coinvolta in questa piccola avventura insieme ad Olga Gambari, curatrice della mostra, ci saranno alcune opere “chiuse”, accompagnate da brevi testi, indizi per un’ipotetica descrizione del contenuto. Chi sceglie di partecipare a L’Immagine negata potrà accogliere nella propria abitazione una di queste opere per un tempo determinato e avere così conoscenza dell’opera “aperta”. Da quel momento avrà inizio una nuova vita dell’opera stessa, in uno spazio libero, in un tempo libero e liberato. In questa dimensione tutto il bagaglio di conoscenze, pensieri, immagini e suggestioni dello spettatore può trovare
posto in una relazione personale con l’opera. La relazione può rimanere silenziosa, muta, sommersa e non rivelata. Oppure può produrre altro pensiero, altre immagini che possono essere condivise. Ogni opera è accompagnata da un “libretto di viaggio”, un raccoglitore di tutto ciò che può nascere per generazione spontanea. Il progetto si concluderà con una raccolta di tutti i materiali e le opere acquisteranno così la loro definitiva veste di opere APERTE. (Manuela Cirino). da sinistra a destra: Se fosse “Tuttavia nella media o nella somma rimarrebbero sempre le stesse possibilità, che si ripetono finché viene qualcuno per il quale una cosa reale non vale di più che una immaginaria. E’ lui che dà finalmente senso e determinazione alle nuove possibilità, e le suscita”. Robert Musil, da L’uomo senza qualità. L’infinito è in ogni dove “C’è uno spazio vuoto. All’interno di questo spazio si prolunga e avanza verso il centro un’ipotesi, una sfida, un insieme di forme precise che si oppone all’informe del vuoto in cui miliardi di particelle cozzano l’una
Le opere d’arte in genere non si toccano, si osservano da lontano, vivono nella dimensione sacrale e asettica del museo, della galleria. Di loro spesso rimane un’immagine, che nega la vista dell¹opera reale. In questo progetto di Manuela Cirino, invece, l’opera aspetta noi, la nostra casa, la nostra quotidianità. Non si dà prima in alcun modo. Sono opere riservate, che si preparano a stabilire una relazione intima e personalissima con ciascuno dei loro futuri ospiti. Per ora sono “opere chiuse”, in attesa, che serbano dentro un mondo, un vaso di pandora, pronto a riversarsi fuori e ad accogliere contemporaneamente. Opere che negano la loro immagine come luogo iconografico pubblico, spazio di consumo onnivoro e veloce. L’artista cerca di preservarne la ricchezza, la potenzialità, prima ancora del contenuto stesso. Questo il meccanismo della mostra: si va in galleria da Liliana Dematteis, si osservano queste “opere chiuse” e si leggono i piccoli racconti “descrittivi” - mai in maniera didascalica ma evocativi- di ciascuna realizzati dall’artista, come ritratto dell’opera, della sua natura, della sua ispirazione. Da quello, in maniera empatica, ogni spettatore può scegliere la “sua”. Si prenota e nella data concordata potrà disporne, trasformandola in “opera aperta”. Da lì inizierà la loro storia a due, una scommessa, come ogni nuovo rapporto. Ora queste cinque opere si stanno preparando, racchiuse in scatole di legni e forme diverse: sono in partenza per un lungo viaggio. Andranno di casa in casa per mesi, e con loro un diario personale. Ogni ospite se ne deve prendere cura, compreso il diario, tenuto aggiornato con dati, informazioni, emozioni. Alla fine l’opera sarà altra, piena della sua esperienza e di tutti coloro che ne avranno fatto parte. Scrigni magici, di natura poetica, che custodiscono il segreto della relazione amorosa con l’arte. E insegnano a non vivere di sole immagini, scambiandole per corpi e identità reali.
contro l’altra senza riposo.” Asino seduto, 2009 Ceramica, carta, legno Cm 45 x 26 x 35
L’IMMAGINE NEGATA Galleria Martano, dal 12 aprile , via Principe Amedeo 29, Torino www.galleriamartano.it
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storie
home remedies testo di Carola Haupt
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uesta storia racconta di profumi e saggezza popolare, di ecosistemi e industria farmaceutica; è la storia di Gharelu Nuskhev & Muft ki Salah (home remedies/free advice) e comincia circa trent’anni fa in un negozio di fragranze di Ajmer, nel nord dell’India. Nel laboratorio di quel negozio si preparava l’Itr, il profumo naturale estratto da fiori, erbe, spezie e cortecce e l’intero edificio era invaso dalla fragranza delle rose usate per distillarne l’acqua, il Gulab jal. Dopo la morte del proprietario la produzione di Itr si interrompe e poco alla volta, dall’aria così come dalla memoria, ne spariscono i profumi. Anni dopo una nipote del vecchio proprietario ritrova i contenitori in cui venivano racchiuse le essenze e, come con una madeleine di Proust, ritornano alla memoria le fragranze dell’Itr, ma anche delle erbe e delle spezie datele dalla nonna per curare piccoli acciacchi e dolori. Insieme alla memoria emerge anche la consapevolezza che le ricette di quei profumi e rimedi sono andati perduti, sostituiti nel quotidiano da prodotti della chimica farmaceutica. Comincia così il viaggio di Home Remedies. Nel 2009 la nipote del proprietario del negozio di Itr decide di ricercare la memoria dei rimedi tradizionali nelle
voci della comunità medica di Kirkhee a New Delhi in tutte le sue diverse sfaccettature: dal ricercatore, all’anziano baba, dal medico, al farmacista sino alla guaritrice. Ogni incontro ha smosso un tassello di un discorso ben più ampio della semplice nostalgia dei rimedi della nonna, un discorso di mutamenti sociali ed ecologici nell’India paradiso dell’industria farmaceutica. La sparizione di uccelli migratori, l’incremento di malattie renali, pesticidi, falde avvelenate, gli aspetti positivi e negativi della medicina occidentale e i benefici dello yoga; ore e ore di registrazione che la nipote ha trasformato in trasmissioni radiofoniche mixate con estratti audio da serie tv ospedaliere di Bollywood e poi trasmesse da una stazione pirata allestita per l’occasione. Ma la storia di Home Remedies non finisce. Nel 2010 la nipote sale sull’Himalaya nella regione dell’Uttarkhan e ancora una volta raccoglie le storie dei rimedi locali. In nove villaggi registra le voci di anziani, di esperti Ayurvedici e delle contadine con cui discute dei benefici delle piante locali; piante ieri molto comuni e oggi quasi scomparse a causa della de-forestazione. Le registrazioni diventano anche in questo caso trasmissioni radio, parlando di memoria, ma anche e soprattutto di consapevolezza sociale. E se entrando in un bagno pubblico di New
Delhi vi capitasse di sentire delle voci che parlano di digestione, igiene e bellezza, potreste essere incappati nei ‘rimedi domestici’ di Aastha Chauhan, la nipote del negozio di Itr. www.radiokhirkee.wordpress.com CAROLA HAUPT è una radio producer che si occupa di suono e arte contemporanea; soundart e radioart. Dal 2006 cura radiopapesse.org di cui è co-fondatrice - traducendo i contenuti dell’arte contemporanea in formati radiofonici.
Sono molto irrequieta quando mi legano allo spazio Alda Merini
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rustrata? Si. Perché non posso essere Dio - o la donna-uomo universale - o qualsiasi cosa che conti. Io sono quello che provo, penso e faccio. Voglio esprimere il mio essere con tutta la pienezza possibile perché da qualche parte ho scovato l’idea di poter dare un senso all’esistenza in questo modo. Ma se devo esprimere ciò che sono, ho bisogno di avere un certo livello di vita, un punto di partenza, una tecnica: cioè organizzare arbitrariamente e provvisoriamente il mio caos personale, minuscolo e patetico. Comincio ad accorgermi di quanto dovrà essere falso e provinciale questo trampolino di lancio. E’ questo che mi è tanto difficile da affrontare.
Sylvia Plath, Diari, pag.43, ed. Adelphi 1998
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donne e teatro
non mi arrendo! non mi arrendo! testo di mariella fabbris
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el 2005, in occasione del 60° anniversario della Liberazione, quattro registe e attrici teatrali, Gabriella Bordin, Mariella Fabbris, Rosanna Rabezzana, Elena Ruzza, mettono in scena, su commissione dello SPI CGIL di Torino, uno spettacolo che rappresenti il ruolo rivestito dalle donne nella Resistenza in Piemonte. L’idea forte e la sfida del progetto, intitolato Non mi arrendo, non mi arrendo!, è stata quella di partire dalle testimonianze dirette delle donne che alla Resistenza avevano preso parte, rendendole protagoniste sulla scena. In cinque comuni del Piemonte, Collegno, Pinerolo, Ivrea, Settimo, Torino, grazie ad un passaparola tra donne, si sono trovate anziane ex partigiane disposte a condividere i propri ricordi. Insieme ad altre donne più giovani e ad un gruppo di studentesse hanno preso parte a laboratori teatrali in cui si sono man mano aperte alla memoria e al racconto e hanno acquisito tecniche teatrali di base. Ne sono nati diversi spettacoli radicati ai singoli territori. Non mi arrendo, non mi arrendo, è un progetto condiviso con molte donne che non si sono mai arrese, altre che imparano oggi cosa significa resistenza. R-esistenza è un mare in piena, con ondate di produzione e di idee, che si articola e sviluppa, tra sedi Spi, con donne appena pensionate, con le studentesse, bambine e ragazze, e anziane, nel territorio piemontese.
Vivo in una Città che mi ha permesso di sperimentare un percorso artistico/antropologico/teatrale che chiamo Per un teatro della memoria nel quale sostengo che solo con gli abitanti si raccolgono dati e informazioni vitali, che un’ “indagine tradizionale” non può rilevare. La ricerca diventa sostanziale e qualitativa, e non prevede di indurre tutto ad un piano prestabilito, ma raccoglie desideri e opportunità reciproche, per chi ascolta e per chi racconta. Crea un’eco che nel tempo fortifica e amplia i contenuti. Ritrovo, in questa mia attitudine e attenzione, un autentico percorso artistico che si ramifica, cresce come un albero, pone interrogativi che si trasformano in obiettivi, allargando la propria visione del mondo. Dall’interno costruisce strumenti per realizzare senso critico, e insieme nutre lo stesso sogno, quello di edificare una società di pace. Quel mare di memoria, noi su questa nave lo solchiamo, e diventa forza contagiosa. Continuiamo a coinvolgere diversi territori, incoraggiate l’una dall’altra, con forza e sicure che si possa dare altro coraggio per vivere, con le piccole e grandi cose. Da tempo si concretizza il nostro fare teatro, ed è mitica la nostra nave che emerge, si allontana, si avvicina … Questa nave ha visto una guerra di secoli, sole, pioggia, vento mai finita. Oggi noi orientiamo il cammino vicine come ieri decidiamo la rotta, non mai naufraghe. Audace impresa la nostra contro le minacce della tempesta,
che non vede il bisogno di tenerezza, maternità, creatività.….Nessuna può resistere se non è saldamente legata, una all’altra, costrette a chiederci di quale sorta di resistente sostanza siano le corde che ci legano alla vita. Andiamo non perdiamo la rotta, con piacere e con speranza. Per continuare a vivere, vedere … parlare con la nostra voce. Questo è il testo iniziale, che risuona in tante di noi, e mi riporta ogni volta, all’inizio dello spettacolo, a pensare con forza che stiamo facendo proprio questo, concretamente. E’ detto tra parole in prosa e poesia, testimonianze, oralità, testi letterari, dentro a quel teatro in divenire, che comprende con semplicità tutta un’umanità della quale faccio parte. Chiediamo alle donne di partecipare ai Laboratori, indichiamo un percorso, ma è la sostanza che dà forma creativa, comunicazione, confronto generazionale fondamentale. Costruire ogni giorno la gioia di vivere, costruire quei luoghi della cultura, farli nostri per non farne consumo, ma farne cultura, vita, la nostra non solo femminile, ma dei ragazzi e delle ragazze. I figli. Una donna come Nathalia Ginsburg ci lascia queste parole: Quello che deve starci a cuore è che ai nostri figli non venga mai a meno l’amore alla vita, non devono essere oppressi dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato di attesa, intenti a preparare se stessi alla propria vocazione. E che cosa è
la vocazione di un essere umano se non la più alta espressione del suo amore per la vita. Non dobbiamo chiedere o sperare che i nostri figli siano: geni, artisti, eroi, santi. Aiutarli nella ricerca di una vocazione: avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione perché l’amore per la vita genera amore alla vita. E’ stato verificato ampiamente sulle nostre teste e corpi che si può fare, e che non sono i tempi che possono decidere, ma le persone che in un’alchimia irripetibile possono voler cambiare, in questo tempo, il mondo. Artisti e non, di chi vuole fare della propria vita un’arte. Per un teatro della memoria entra anche nella scuola, necessario come il pane, credo non sia speculativo se non per ancorare “quella nave carica di significati” di conoscenza reciproca, di legami, di noi. I laboratori, con noi “Figli della Fabbrica” non figli d’arte, ma autodidatti in cerca di maestri/e, sono stati e sono i luoghi informali di produzione, apprendimento, circolazione di immagini e di idee. Non ho usato parole come empowerment …. Non so riprodurre in analisi teoriche tutto questo, perdo certe parole, e ho la presunzione di volerne usare di nuove… ma i progetti parziali o compiuti, immediatamente realizzabili, mi consentono insieme a tanti di vedere il futuro, il nuovo … elementi che ancorano la speranza della comunità, fatta di fisicità concreta…. I momenti progettuali sono sempre necessariamente
arsi di oggetti semplici, inventando dal nulla bellezza e armonia, che dagli oggetti si comunicheranno ai rapporti tra le persone. Se i capi decidessero di occuparsi di questo senza pensare che è perdere tempo, non esisterebbe più la guerra? E’ Joice Lussu che scrive in quel tempo di ricostruzione delle cose, della vita delle persone, appena finita la guerra. Certo la guerra non è qui, ma nei paesi intorno, e la sentiamo vicinissima. I bambini soprattutto sentono quell’aria di morte, e non sanno darle un nome. I bambini che non fanno distinzioni tra loro, che non vedono confini e bandiere. Gli adulti distrattamente lasciano i loro piccoli davanti alla televisione e non rimane solo la realtà virtuale nelle loro teste, ma parole, informazioni, immagini, che vengono elaborate nei loro sogni, producono pessimismo, sottomissione e paure che generano atti di difesa, arroganza, con giochi solo di sfida, non di prova e iniziazione naturale alla conoscenza, al dolore. Tutto è finto. Nei laboratori di Teatro è tutto vero. Come raccontare e raccontarci attraverso le parole del racconto. Per esempio, metteremo in scena Il vestito nuovo dell’imperatore e ragioniamo su quanto ha speso in stoffe per essere vistoso e potente l’imperatore, di quanto spendiamo noi per trucchi, cibo per animali, gelati, profumi, una cifra, come direbbe Rodari, billiardoni di millantoni… è un capitale enorme, e ne basterebbe la metà per debellare la fame e la sete
non sono i tempi che possono decidere, ma le persone che in un’alchimia irripetibile possono voler cambiare, in questo tempo, il mondo. Artisti e non, di chi vuole fare della propria vita un’arte tortuosi e incerti, con tappe di verifica. I progetti precisano soluzioni, affrontano problemi, anticipano o rilanciano il processo di partecipazione. E non abbiamo bisogno di tecnici spersonalizzati … ma di potere decisionale. Avere il coraggio di costruire questa responsabilità a chi si sente escluso. Il diritto alla felicità? Vogliamo costruire la gioia di vivere, considerare le cose nel loro giusto livello. Né troppo né poco; scoprire il sapore delle minute cose come preparare un pranzo, adornare una casa e se stessi; circond-
nel mondo, per curare i bambini malati, per eliminare l’analfabetismo sulla faccia della terra. E nel gioco delle parti, sono i bambini a voler vivere la parte degli “imperatori” immaginandoseli ben diversi da quelli che vedono alla televisione che provocano guerre. E sono vere le parole che cercano i bambini, autentiche, di un sapere profondo. Diritto di pensare, di avere idee tante e diverse, un’altra arte dimenticata, fondamentale per la conoscenza e la crescita delle persone.
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donne e teatro
the coast of utopia testo di olga gambari
In questi tempi in cui cinema, teatro, letteratura e arte sono considerati zero è giusto ribadire che senza cultura non esisteremmo. L’Italia viene riconosciuta perché ci sono stati Dante, Michelangelo, Fellini, Strehler. In un momento di crisi lacerante, di grande scontentezza e paura, bisogna rilanciare partendo dagli artisti (Tratto da un’intervista a Manuela Cescon su D di Repubblica)
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cco un’altra bella storia, la storia di un’avventura, di un sogno, di una sfida. Di un’idea che diventa corpo, gruppo, spettacolo, emozione condivisa che circola tra pubblico e palcoscenico, facendo entrare lo spettatore nel cuore della Storia, di quegli ideali del Novecento, prima che fallissero, cioè che mostrassero la loro debolezza umana. Allora erano ancora speranze e soli all’orizzonte. Tom Stoppard e Michela Cescon, un drammaturgo americano e un’attrice italiana. In mezzo, ad unirli, il libro, o meglio la trilogia, The coast of Utopia (La sponda dell’Utopia). Michela a un certo punto si occupa della sua vita fuori dal palco, si innamora, fa tre figli e le capita tra le mani il libro di Stoppard, via via messo in scena, a partire dal 2002,
a Londra, New York, Tokyo e Mosca, un lavoro e un successo enorme. Racconta di utopie, delle rivoluzioni fatte dagli artisti, di come l’arte possa più di altre forze e poteri, capace di creare l’immortalità di popoli, paesi culture. Ci sono Bakunin, Herzen, Turgenev, Marx, Belinskij, Chernishevskij, Lajos Kossuth e Mazzini. Il mondo rivoluzionario di fine Ottocento, pieno di idee, ideali, umanità, protagonisti e comprimari per decine di attori in scena. Michela Cescon ne compra i diritti e decide di realizzarlo, un’impresa titanica e visionaria. A poco a poco diventano visionari con lei Marco Tullio Giordana, Evelina Christillen e Mario Martone, Gabriele Lavia, cioè il Teatro Stabile di Torino e il Teatro di Roma. Cescon crea anche una sua società per cercare sponsor, la Zachar.
E il sogno prende forma, diventa realtà dal 20 marzo al Teatro Carignano, debutto nazionale in prima assoluta, grande emozione. Uno spettacolo in tre parti, tre serate da seguire in un respiro.
Michela Cescon, trevigiana classe 1971, è stata a lungo torinese negli anni Novanta, allieva e attrice per Luca Ronconi e poi per Valter Malosti. Negli anni è stata diretta in teatro anche da Andrea Zanzotto, Marco Paolini, Toni Servillo. Invece al cinema ha lavorato con per Matteo Garrone, Cristina Comencini, Alessandro Angelini, Gianluca Tavarelli, Marco Bellocchio, Simona Izzo. Molti i suoi premi, dall’Ubu al Duse, Lina Volonghi, Flaiano, Globo d’Oro.
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donne e teatro
IL SENATO DELLE DONNE i n t e r v i s ta a LAURA C u RINO
a cura di OLGA GAMBARI
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er nove mesi nel 2011 Laura Curino ha raccontato le donne del Risorgimento Italiano a Palazzo Madama, invitata da Enrica Pagella e Anna La Ferla. Il palcoscenico è stato l’antico primo Senato d’Italia, che proprio a Palazzo Madama aveva sede, ricostruito per l’occasione su disegni originali dagli scenografi del Teatro Regio. Un lungo spettacolo con un appuntamento al mese intitolato Il senato delle donne, dove ogni volta prendevano vita storie dimenticate e sconosciute di eroine, soldatesse, nobildonne, borghesi, attrici, giornaliste. LC: Andando in giro per l’Italia vedevo solo iniziative di uomini, e mi sono interrogata se non fossero tutti vedovi, senza figlie, sorelle, amanti. Ma questo Risorgimento è stato fatto solo da un manipolo di maschi? La prima sera ho debuttato in compagnia di signore dai nomi già un po’ noti, come Adelaide Cairoli, madre dei fratelli Cairoli, e poi Giuditta Bellerio Sidoli, la compagna di Mazzini: è lei che ha organizzato i contatti della Giovine Italia dopo aver mollato marito e figli, è lei che ha creato il giornale del movimento, è lei tra le fondatrici della Giovine Europa. Eppure risulta sempre come l’amante di Mazzini! Con loro Colomba Antonietti, meno nota, l’unica donna che abbia un busto dedicato sul Gianicolo tra gli eroi del Risorgimento, ma appare sempre come moglie del tenente Luigi Porzi. E invece era una giovanissima, del popolo, figlia di fornai, che sposa per amore un bel tenente, militare della guardia papale e poi fervente risorgimentale, anche grazie alle idee della moglie. Scappano e partecipano alle campagne di Garibaldi, lei con una vecchia divisa riadatatta. Diventa
soldato, per due anni partecipa alle battaglie, finchè muore sul campo e solo lì si accorgono che fosse una donna. Sono alcune delle tante storie sommerse e bellissime che ho iniziato a cercare, trovandole come sorprese preziose che dovevo raccontare, via via scegliendo personaggi meno scontati e conosciuti. Mi viene in mente Pimentel Fonseca, nobildonna napoletana fantastica, che anticipa di molto il Risorgimento, animata da i principi e ispirazioni che contenevano in nuce ciò che sarebbe accaduto dopo. OG: Ogni sera, però, oltre alle donne del Risorgimento ce n’erano altre legate a loro in qualche modo ma lontane nel tempo e nello spazio... LC: Rigoberta Menciur scrive nella sua autobiografia che le donne messicane che tessono i tappeti quipu lasciano sempre un filo slegato per non rimanere prigioniere della trama. Così la quarta signora della serata non apparteneva al Risorgimento ma condivideva lo spirito di quegli ideali. Per esempio la torinese Emma Strada, la prima laureata d’Italia nel 1908 al Politecnico. O Elena Cornaro Piscopia, la prima laureata al mondo, a Padova nel 1678, in filosofia perché non le fu permesso di farlo in teologia, il vescovo Barbarigo si oppose come un abominio. Quando si laureò ci furono ore di camera di consiglio per decidere se si sarebbe dovuta chiamare “signora ingegnera” o “ingegneressa”. O Giulia Falletti di Barolo, anche lei fantastica, che descrivo in un’immagine: quando lei crea le moderne Carceri Nuove femminili a Torino, porta via le donne dai sotterranei di Palazzo Madama in carrozze, prestate dai suoi amici nobili. Non voleva che camminassero sotto gli occhi di
tutta la città. E ancora Mont Masson Crispi, moglie di Crispi, l’unica donna che è partita sulla nave di Garibaldi nella prima spedizione OG: Nobili e borghesi, ma anche popolane. LC: Il 15 agosto abbiamo recitato le popolane del Risorgimento. La messinese Giuseppa Bolognara, detta Peppa la Cannoniera, partecipa alle battaglie, aggancia un cannone al lazzo e se lo conquista. Tra le pasionarie anche Marianna de Crescenzo, chiamata la San giovannara, una delle barricate di Napoli, e Maria Cucci, detta Giubglia, che apparteneva a una comu-
nità calabrese-albanese. OG: E straniere… LC: Certo, da Jessie White Mario, che era una giornalista inglese, tra le prime donne a essere inviata speciale all’estero, mandata a vedere cosa stesse succedendo in italia. Con i suoi articoli ha procurato appoggi e denaro a Garibaldi in tutto il mondo. Così come Margaret Fuller, un’altra giornalista. Sono tante, un coro, che in realtà Laura Curino ha iniziato a scoprire anni fa, nei suoi laboratori di narrazione, decidendo di lavorare con i suoi allievi su biografie femminili, da
tradurre in racconti teatrali. Oltre alle donne del Risorgimento Laura ne ha trovate altre 150, partendo proprio da un gruppo di signore piemontesi. Ognuna l’ha trovata, studiata, scritta e recitata. In genere sola in scena, vestita di nero, con un foulard diverso per ciascuna. Davanti a lei un leggio, la musica e la sua passione ironica e pungente. “Ognuna di loro non è uno spettacolo, ma un racconto biografico, che però è teatro nel suo significato più profondo, dove la parola diventa linguaggio” conclude l’attrice. www.lauracurino.it
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ritratti
giulia di barolo testo di anna pironti*
* Responsabile Capo Dipartimento Educazione, è cresciuta professionalmente al Castello di Rivoli, dove opera sin dall’apertura del Museo d’Arte Contemporanea. Dal 1996, insieme a Paola Zanini nel quartiere San Salvario a Torino, cura il progetto Tappeto Volante finalizzato a promuovere relazioni tra le persone tramite i linguaggi dell’arte contemporanea, per favorire l’integrazione e il senso di appartenenza in un’area caratterizzata da un alto flusso di immigrazione. Dal 2010 ha esteso le attività educative a Palazzo Barolo in sintonia con le attività dell’Opera.
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uliette Colbert sposò a Parigi Carlo Tancredi Falletti di Barolo il 18 agosto 1806; un matrimonio combinato benedetto persino da Napoleone Bonaparte. Carlo Tancredi, ultimo erede di una delle famiglie più ricche d’Europa, si trovava a Versailles perché paggio dell’imperatore. Juliette viveva a corte, come dama dell’imperatrice. Fu amore a prima vista. I due giovani, colti e raffinati, mossi da autentiche passioni sociali e culturali, insieme formavano una coppia straordinaria e nei primi anni di matrimonio viaggiarono moltissimo. Visitare le città d’arte era una consuetudine molto in voga tra gli aristocratici del tempo, un segno di distinzione sociale ma anche la modalità più semplice per conoscere, dal vero, l’arte e l’architettura. A Roma i Marchesi di Barolo, acquistarono da Canova la Testa di Saffo, lasciata in eredità a Torino e ora esposta in GAM. Viaggi per ammirare luoghi e paesaggi, ma anche per visitare carceri e istituzioni educative. La Marchesa, che parlava correttamente più lingue, a Torino volle imparare il piemontese per comprendere i più umili ed esprimersi nella lingua locale. Suonava il pianoforte, amava disegnare e dipingere. Come il padre, era dotata di una forte
decise di adottare i poveri di Torino, in assenza di eredi diretti. Nel 1818 avviò il suo progetto di riforma delle carceri femminili torinesi considerate le peggiori d’Europa. Un’esperienza pionieristica fondata su alcuni punti imprescindibili: rispetto della persona (che veniva seguita anche fuori dal carcere), pulizia, lavoro, alfabetizzazione, assistenza religiosa. Il carcere doveva ri-educare per riabilitare e re-inserire i soggetti nella società, una volta scontata la pena, a parità con tutti gli altri cittadini. Una visione di grande attualità. Fondò l’Opera Pia Barolo per creare strumenti e forme d’aiuto a favore delle ex-carcerate e per accogliere le facili prede di sfruttatori senza scrupoli. Giovani donne giunte in città dalla campagna, in cerca di lavoro, sole e prive d’istruzione. Insieme al marito (che fu anche Sindaco di Torino) realizzò le prime sale d’asilo per i figli degli operai e poi l’Ospedaletto, nel quale il giovane Don Bosco iniziò il suo Oratorio. Lo sviluppo urbanistico correlato all’industrializzazione aveva fatto confluire molti immigrati a Torino, animati dalla speranza di trovare migliori condizioni di vita e di respirare il clima politico del Risorgimento. Giulia, donna vivace e intelligente, dotata di intuito e senso pratico, seppe
Visionarietà e capacità di pensare e governare il nuovo, progetti e innovazione sensibilità. Edouard Colbert si era schierato dalla parte del popolo nei primi fermenti della Rivoluzione, ma nonostante le sue posizioni dovette esiliare per mettere in salvo i suoi tre figli. Forgiata dalle difficoltà, sensibile ma anche indomita, insieme al marito
trasformare in fatti concreti interessi, intuizioni, opportunità e contesti. Accolse Silvio Pellico, abbandonato da tutti dopo lo Spielberg, nominandolo segretario e bibliotecario. Animò uno dei salotti più esclusivi del tempo frequentato da personaggi come Cavour,
Cesare Balbo, Federico Sclopis, il maresciallo De La Tour e gli ambasciatori stranieri di passaggio a Corte. Nelle cantine dei suoi possedimenti di Barolo divenne l’illustre madrina del leggendario vino, selezionato grazie all’aiuto dell’enologo francese Louis Oudart, collaboratore, negli stessi anni, di Cavour. In breve il Barolo (moderno) divenne così popolare da sollecitare la curiosità di Carlo Alberto di Savoia. Al Re, la Marchesa inviò 325 carri, ognuno contenente una botte di Barolo: una per ogni giorno dell’anno meno i 40 giorni di Quaresima. Un gesto di squisita cortesia ma anche un’abilissima operazione di marketing per il suo Barolo che così ricevette l’attestazione di “vino dei re,
re dei vini”. Quando Giulia morì, il 19 gennaio 1864, al funerale intervennero i carabinieri per arginare la folla che faceva ala al suo feretro. Un addio degno di una “pop star” nella Torino post unitaria che lei stessa aveva contribuito a delineare. Una città che, ora come allora, esige cura per i più deboli e gli emarginati, riscatto dalla miseria e dall’ignoranza. Per fare questo indispensabili visionarietà e capacità di pensare e governare il nuovo, progetti e innovazione. Un orizzonte di senso e con-senso nel rispetto dei valori umani e del diritto di cittadinanza piena e consapevole, in perfetta sintonia con l’eredità della Marchesa Giulia di Barolo nata Colbert di Maulévrier come lei stessa amava firmarsi.
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redazionale
arte accessibile I n t e r v i s ta a t i z i a n a m a n c a a cura di redazione
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osa si intende per “Arte Accessibile”? Accessibilità è un termine inflazio-nato, un aggettivo ambiguo, quasi banale che nella sua semplice polivalenza racchiude un messaggio fondamentale. Associandolo a un “prodotto” come l’arte contemporanea, storicamente delimitato da istituzionalità e elitarismo, battezza un evento libero da transenne, che accoglie, coinvolge e appassiona un pubblico eterogeneo con un contenuto trasversale. Da dove nasce l’idea della manifestazione? Da un’ambizione semplice e intuitiva: il desiderio di abbassare le difese del pubblico nei confronti del mondo dell’arte, da cui l’attributo di accessibile. Arte, essendo linguaggio universale e apolitico che abbatte ogni barriera culturale, sociale e istituzionale, deve essere accessibile per tutti. Accessibile sarà poi la fiera stessa, alla sua quarta edizione, gratuita e aperta fino a tarda ora. Il progetto di AAM nasce dalla riflessione sulla mancanza di manifestazioni d’arte contemporanea alternative alle fiere d’arte tradizionali, capaci di accogliere un pubblico
eterogeneo da un punto di vista culturale e sociale, che si rivolga sia ai collezionisti più esigenti sia ai neofiti. Tutto il programma -alla cui ideazione partecipano anche cinque curatori, e che è animato da mostre, performance, eventi di natura artistica e creativa diversa- pone l’accento sul rapporto con il pubblico. Saranno quattro giorni di contaminazione artistica che vedranno il coinvolgimento della gente insieme ad artisti, galleristi, collezionisti. Nessuna barriera? Non ci saranno barriere di alcun tipo, architettoniche, commerciali e concettuali, proprio come dicevo prima, per essere all’insegna dell’accessibilità totale, con l’entusiasmo e l’energia di non aver timore di fare scelte anche inusuali.
alle personali o alle collettive di artisti emergenti sostenuti da gallerie e da curatori esterni all’organizzazione, che parteciperanno alla prima edizione del premio “Best Curator Price Award 2012” e alla seconda edizione del “Best Artist Price Awards 2012”. Il tutto selezionato da un board curatoriale composto da Chiara Canali e Ivan Quaroni. Tra le rassegne collaterali saranno presenti i progetti “Interactive Perfomance”, una rassegna perfomativa che alle tradizionali forme d’azione dal vivo unisce le nuove modalità di interazione con i suoni, le immagini e i media digitali, e la sezione dedicata alla VideoArte a cura di Mariella Casile, che si pone come territorio di confronto per artisti e pubblico sulle molteplici forme della sperimentazione video.
Qualche caratteristica per definire il ritratto di AAM? Si terrà nello splendido palazzo di Renzo Piano che ospita il Sole 24 Ore e Price WaterhouseCoopers. Poi la totale assenza del biglietto d’ingresso: troppo spesso si paga un pedaggio per visitare fiere che altro non sono che dei gran bazar dell’arte senza alcun fascino né tanto meno qualità. La novità di quest’anno è la forte presenza di progetti curatoriali: 28 stands dedicati
Nel programma c’è anche un convegno nazionale. Si intitola “Lo Stato dell’Arte Accessibile”, curato da Fortunato D’Amico, pensato come un osservatorio in cui i direttori dei musei, i responsabili delle fondazioni culturali, i gestori delle strutture espositive, gli organizzatori di eventi, i critici, gli amministratori pubblici preposti alla promozione del patrimonio artistico relazioneranno “Lo Stato dell’ArteAccessibile”
per documentare l’attualità dei mercati, in un’epoca in cui la rete dei sistemi consolidati negli scorsi decenni sembra assumere fisionomie insolite rispetto alla sua organizzazione tradizionale. Il meeting esaminerà le attuali condizioni dell’economia internazionale che modificano velocemente i ruoli e gli assetti del settore, al fine di restituire agli addetti ai lavori il quadro ampio dei cambiamenti epocali. La congiuntura odierna consiglia di utilizzare logiche differenti per affrontare il futuro, approntando la stesura di progetti istituzionali per favorire accordi di collaborazione tra enti pubblici e strutture private, finalizzati a un rilancio della produzione artistica e culturale.
da sinistra a destra: Lorenzo Perrone, Anna P (in memoria di Anna Politkovskaja) Patrizia Emma Scialpi, The dead dears, tecnica mista su carta Monica Anselmi, Erant in quadam, 2010
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eventi
donne in mostra a cura di redazione
Marisa Merz Doris Salcedo / Kaarina Kaikkonen / paolA de Pietri Roma, MAXXI – fino al 6 gennaio 2013
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ono Marisa Merz, Doris Salcedo, Kaarina Kaikkonen, Paola de Pietri le protagoniste delle prossime mostre al Maxxi di Roma. In A proposito di Marisa Merz dieci opere di Marisa Merz, fino a gennaio 2013, sono esposte insieme ai lavori di Rosa Barba, Elisabetta Benassi, Alighiero Boetti, Jim Iserman, Ketty La Rocca, Luisa Lambri, Claudia Losi, Mario Merz, Paola Pivi, Rosemarie Trockel, Kara Walker e Franz West.
Doris Salcedo, fino al 24 giugno, presenta il suo ultimo lavoro, l’installazione Plegaria Muda, fatta di tavoli sovrapposti, che scolpisce lo spazio come un’opera, come era accaduto per il pavimento spaccato della Turbine Hall alla Tate Modern di Londra, per la sala murata al Castello di Rivoli a Torino, o per un edificio distrutto di Istanbul, riempito con migliaia di sedie.
dall’alto: Doris Salcedo, Plegaria Muda 2008-‐2010, Legno, material organic, metallo e erba. Dimensioni variabili Fondação Calouste Gulbenkian, Lisbona, 2011 Fotografia Patrizia Tocci. Courtesy Alexander and Bonin, New York e Fondazione MAXXI, Roma Paola De Pietri, Senza Casa
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donne in mostra
marina abramovic / italian works Milano, Padiglione Arte Contempornaea (PAC) fino al 10 giugno 2012
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arina Abramovic è un corpo da raccontare e che racconta. Un corpo loquace, drammatico, vero, che vive sulla propria pelle e si basa sulla propria forza di resistenza il rapporto tra arte e vita. Quest’artista serba è partita dal concetto più profondo di body art. è diventata un’icona per il suo coraggio nell’incarnare via via malesseri, disagi, dolori e orrori, che spesso sfociano, però, in un’autenticità esistenziale, che attraversa il tempo e lo spazio. Il suo volto è quello di una sacerdotessa in contatto con lo spirito del mondo. Performance sulla coppia, sulla guerra, sulle relazioni umane.
Si è messa a disposizione del pubblico in una mostra, ha obbligato le persone a passare tra i corpi nudi suo e di un compagno a un’altra. Si è immersa in una stella di fuoco fino a svenire per mancanza d’ossigeno. Ha ripulito centinaia di ossa sanguinolente a mani nude durante una Biennale di Venezia per lavare via, come una madre, il sangue versato nella ex Yugoslavia. E molto altro. Al Pac di Milano una grande personale ne ripercorre la storia artistica, con opere anche recenti e un coinvolgimento continuo del pubblico, che diventa attore e parte dell’opera.
dall’alto: Marina Abramovic, Holding the Goat from the series Back to Simplicity C- Print / 125 x 125 cm, 2010 Marina Abramovic , Black Sheep from the series Back to Simplicity C- Print /160 x 160 cm, 2010 ©Marina Abramovic by SIAE 2012, courtesy Marina Abramovic and Galleria Lia Rumma, Milan.
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marlene dumas / sorte Milano, Fondazione Stelline, fino al 17 giugno 2012
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arlene Dumas dipinge individui, un catalogo infinito. Le sue figure e i suoi volti di colore liquido sono inconfondibili, come rappresi da macchie ondivaghe che si asciugano su tela o carta, come responso di un vaticinio. E la visione è l’umanità fatta di donne, uomini, bambini e vecchi, bianchi, neri. E poi ancora di gioia e dolore, di vita e morte, amanti, figli. E’ l’esistenza a scorrere sulle facce di ognuno, così come sulla loro pelle: rende i corpi materiali plasmabili, mutevoli, che diventano racconto simbolico trasformandosi in pittura, in materia pittorica. Alla Fondazione Stelline
di Milano l’artista sudafricana, che da tempo vive in Olanda, presenta Sorte, un nuovo ciclo di lavori a cui sta lavorando da qualche tempo. L’ispirazione è Pier Paolo Pasolini, il suo mondo concettuale, le sue riflessioni, ma anche il suo cinema e il suo stesso volto. Si aprono figure cristologiche crocefisse che puntellano lo spazio come travi della struttura, e poi interpretazioni disegnate del volto di un uomo che continua, con il suo pensiero, a sezionare società e animo umano. E a illuminare senza sconti, con una drammatica lucidità.
da sinistra a destra: Marlene Dumas, Amy – Pink, 2011, olio su tela, 40x30 cm courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra, ph. ©Alex Delfanne Marlene Dumas, Hommage to Michelangelo, 2012, olio su tela di lino, 50x40 cm courtesy the artist, ph. ©Peter Cox Marlene Dumas, Tree of Life, 2011, olio su tela, 200x100 cm courtesy the artist and Frith Street Gallery, Londra, ph. ©Alex Delfanne
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svago
falso d’autore
di Annalisa Russo
Trova le 3 differenze tra l’originale e la copia di quest’opera di Yoshitomo Nara (Sorry, couldn’t draw left eye, 2003)
storie di cucina kitchen stories Kitchen Stories è il nome di un progetto che mette insieme una serie di appuntamenti/aperitivi in cui l’arte si unisce alla cucina, o meglio la cucina interpreta l’arte, la prolunga, ne distende i sensi. Il tutto curato e ideato da Chicca Vancini e Maura Banfo. Con loro collabora Valeria Morichi, in cucina, è lei che prepara tutti i piatti. Kitchen Stories è un bel nome, nel 2003 era il titolo di un film norvegese, una commedia surreale in cui un buffo “controllore” osservava le mansioni quotidiane in cucina di un signore, in casa sua, dall’alto di un seggiolone, per stilare una ricerca sociale. A Madrid si chiama così un ristorante a la page. Qui a Torino, invece, le Kitchen Stories sono storie di cucina come luoghi di incontro, in cui il cibo dialoga con le opere che gli artisti sono invitati ad esporre e presentare. Artisti in senso aperto, perché gli ospiti possono essere anche scrittori, designer, stilisti. Il progetto è al suo secondo anno di vita, partito dal Caffè del Progresso e passato per altri spazi cittadini come il Diwan Cafee, ora è approdato all’Astoria a San Salvario (via Berthollet 13), un martedì al mese. Maura è un’artista che ha iniziato ad affermarsi negli anni Novanta, e si occupa principalmente di fotografia (http://maurabanfo.com); Chicca arriva dalla discografia e ha creato AncheNo, struttura che organizza eventi in ambito artistico e musicale (http://ancheno.org) oltre ad essere la web master di molti artisti torinesi.
dell’artista sono degli aperitivi particolari, raccontati anche attraverso delle ricette stampate, che vengono poi regalate a fine serata per entrare, magari, nella quotidianità del pubblico, nelle bocche e nelle pance delle persone. Un modo per fare saltare naturalmente l’arte nella vita, anche fisicamente. Ad ogni appuntamento, poi, si sono sempre dei ricettari a disposizione da consultare. Il tutto accompagnato da buona musica, altro elemento fondamentale, scelta per l’occasione. Maura, Chicca e Valeria hanno un sogno, “che un giorno grandi cuochi interpretino le opere d’arte con Kitchen Stories e la loro cucina”. Perché no? Lanciamo l’invito.
Per il secondo anno Kitchen Stories presenta ogni volta un progetto realizzato da un autore diverso. Quest’anno gli ospiti sono stati Tullio Deorsola, Paolo Leonardo, Nicolò de Rienzo. Altri ne verranno. Ad accompagnare il lavoro
artoku
di Danita
il segno del mese ariete
di Serbardano
20 marzo / 20 aprile
Caro Ariete, se in questi giorni senti una gran confusione in testa, non ti preoccupare: non è la primavera né il passaggio all’ora legale. E’ semplicemente che nel tuo segno c’è un gran viavai di pianeti… Giove, Mercurio, Venere, Marte e il Sole, tutti affaccendati a creare intorno a te condizioni favorevoli e stimolanti: per concludere affari, per nuovi incontri sentimentali e un sacco di altri accadimenti meravigliosi. Certo, siamo nel 2012 – l’anno più sfigato della storia, a quanto pare - e non è che si possa pretendere; ma tu ne uscirai a testa alta, non prima però di aver imparato una lezione fondamentale: per aggiustare le cose, alle volte, bisogna prima avere il coraggio di romperle. Shirin Neshat (26 Marzo 1957) è un’artista iraniana che vive tra il suo paese d’origine e New York. Il suo lavoro è incentrato su cinema, video e fotografia: il suo primo lungometraggio, Donne senza uomini (2009), le è valso il Leone d’argento al Festival di Venezia. Come fotografa e video artista, Neshat racconta l’identità delle donne nel mondo musulmano.
Le nostre storie di donne continuano su www.youtube.com/ArteSeraTO