Artesera 06

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N°6 MAGGIO 2011

pubblicazione gratuita / Mensile / Anno I / Numero 6

la città si scrive



l’editoriale Si guardano, si leggono. Aprono il cuore, l’immaginazione, i sensi. Danno emozioni, fanno vibrare. Oltrepassano il tempo e lo spazio. Instaurano con ciascuno un rapporto unico e personale, un dialogo aperto, ogni volta suscettibile di nuovi significati. I libri si possono toccare e possedere, le opere d’arte no. La differenza maggiore sta proprio nell’accessibilità. Per il resto esiste tra loro una relazione di familiarità, uno scambio osmotico, per cui spesso gli artisti si nutrono di libri e letteratura, hanno le stanze piene di volumi e ne usano il corpo come materiale creativo. La gallerista Liliana Dematteis è un’intenditrice d’eccezione in questo settore e ci conduce per mano in un viaggio parallelo alla sua attività storica. Abbiamo pensato di fare un numero in cui si parli proprio di questa liaison tra arte e letteratura, tra opera e scrittura, libro come oggetto materico e d’amore. Torino ha una vicenda personale storica in questa direzione, una città innamorata del libro in ogni suo aspetto, dalla produzione letteraria all’editoria, come ci racconta Paolo Verri. Non è un caso che a Torino Maggio sia ormai per tradizione il mese del Salone del Libro, con il Lingotto che diventa un’enorme libreria di volumi e

volumetti che arrivano da tutte le parti, dove perdersi, tra scrittori ed editori, stampatori e agenti letterari. Stai lì dentro e non può non venirti l’impulso

compulsivo a comprare, guardando titoli, copertine, trame e vite degli autori. È un approccio estetico prima che concettuale. Scatta come gli amori, a volte passioni altre fuochi di paglia. Alcuni vanno con gli zaini da riempire con quelle piccole case editrici che per l’occasione hanno la distesa di tutta la loro produzione, altri comprano il best seller rintracciabile anche sul bancone del supermercato.

Una sorta di “Infinite Library”, per citare il nome di un progetto affascinante messo in piedi dagli artisti Daniel Gustav Cramer e Haris Epaminonda.

Andare in libreria è visitare una mostra, un’esperienza come “coccola” rigenerante. Ma dove sono finiti i librai e quelle piccole librerie come Therese

in barriera Vanchiglietta (Un invito: cercate le librerie dei vostri quartieri, dove vi accoglierà un libraio vero, che vi ascolta e suggerisce, facendovi ugualmente sconti come i grandi supermercati)?

Rubiamo a Christopher Morley questa citazione: ”Quando si vende un libro a una persona, non gli si vendono soltanto dodici once di carta con inchiostro e colla, gli si vende un’intera nuova vita”…..

Per dar parola e voce al numero di maggio è venuto naturale invitare degli scrittori, con percorsi e attraversamenti del mondo dell’arte, tra passato e

presente, teoria e pratica. Giuseppe Culicchia, Alessandro Defilippi, Gian Luca Favetto, Andrea Ferrari, Davide Longo, Margherita Oggero, Alessandro Perissinotto e Elena Varvello. Piccole e grandi storie, riflessioni, metodi, in cui la scrittura si fa giornalismo, narrativa, fiction, memoir, opera a sé che

parte e arriva all’arte. Sono affondi che donano sguardi esterni, un altro tipo di scrittura, un altro passo e respiro. Le loro storie si mescolano alle immagini

di opere fatte di libri e letteratura, dalle icone di artiste storiche e meravigliose come Maria Lai a cui dedichiamo la copertina (sacerdotessa sarda di un

mondo arcano fatto di memoria ed energia vitale, con una serie di libri in forma di opera, che ha fatto innamorare anche la gallerista Isabella Bortolozzi, italiana che vive a Berlino. Isabella ne ha visto la sua universalità oltre il tempo, il suo essere un’artista formidabile e contemporanea, ed è diventata uno

dei nomi “di punta” della sua galleria), l’amatissima per noi torinesi Carol Rama e Anna Maria Maiolino, brasiliana di origini italiane (altri due nomi

eccezionali di eterne ragazze, dalla tensione elettrica che continua a mordere la vita e donare scariche a chi le approccia) a Marco Cordero che è l’ospite della Collezione ArteSera per la sua processualità artistica legata al libro come materiale e sorgente, insieme alle parole di Filippo Santarossa. E poi Nicus Lucà, Ester Viapiano, Gregorio Botta, Ketty La Rocca, Marina Sagona, Luca Coser, Marco Baroncelli, Sabrina Mezzaqui, Peter Wuthrich, Manuela Cirino, Leandro Agostini, Maura Banfo, Nicola Ponzio, Meri Gorni, Stefania Ricci.

Poi c’è la storia di “Mosaico”, un’incredibile avventura editoriale, una rivista animata da Andrea Massaioli e Natalia Casorati negli anni Ottanta, ogni numero un pezzo unico, con copertine d’artista ed esplorazioni delle realtà artistiche di altri città europee. Una madrina d’eccellenza per noi, a cui rendiamo un omaggio. E per finire una ricetta di Alexandre Dumas, che di parole e cibo faceva arte.

Olga Gambari e Annalisa Russo

Mensile / Anno I / Numero 6 Maggio 2011

Direttore Editoriale Annalisa Russo Direttore Responsabile Olga Gambari Progetto grafico e impaginazione www.dariobovero.it Copertina Fronte: uno dei ‘libri’ di Maria Lai, courtesy the artist and Galerie Isabella Bortolozzi Retro: Carol Rama, Nuoviidilli (fax), 1997, courtesy Franco Masoero

Hanno collaborato Natalia Casorati, Marco Cordero, Giuseppe Culicchia, Alessandro Defilippi, Liliana Dematteis, Gian Luca Favetto, Andrea Ferrari, Davide Ferraris, Davide Longo, Andrea Massaioli, Margherita Oggero, Alessandro Perissinotto, Davide Ruffinengo, Filippo Santarossa, Elena Varvello, Paolo Verri Contatti Arte Sera Produzioni Via Lamarmora, 6 - 10128 Torino MAIL: redazione@artesera.it

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il racconto dell’arte

TORINO CITTà DI CASE (EDITRICI) testo di Paolo verri*

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o cominciato così: passeggiando in mezzo ai libri. Mettendo da parte i cento lire che sarebbero dovuti servire per comprare il biglietto per il 16 che avrebbe dovuto portarmi da casa – corso Regina – a scuola – corso Tassoni. Ma volevo avere dei libri. Più libri. La colpa era del nonno. Un nonno falegname, ma non di nome Geppetto. Un nonno di nome Paolo, come me, ma con le mani d’oro. Ebanista, c’era scritto sulla sua carta d’identità, sempre ben tenuta, mai una piega, nel suo portafoglio di pelle nera che metteva nella giacca pesante tutti i giorni quando andava a lavorare. In via degli Artisti. Che lavoro poteva fare, lì? Io non lo sapevo, a me non interessava il nonno lavoratore, mi interessava solo lo sgabuzzino dove teneva tutti gli arnesi, chiodi viti martelli pinze tenaglie, e la sua passione per la lettura. In famiglia da me nessuno leggeva tanto, soprattutto nessuno leggeva libri. Ci sarebbe voluto Wilbur Smith per smuovere mio padre dai suoi torpori alla Diabolik – visto che fino agli anni Ottanta leggeva solo fumetti. Mia nonna (la mamma di mio papà) e mia mamma non leggevano quasi nulla, qualche rivista dalla parrucchiera, tipo Stop o Gente o Novella 2000. Mio nonno leggeva tutto il giornale da cima e fondo, e mi insegnava a leggerlo. Soprattutto, non so perché, mi aveva dato un metodo: un libro alla settimana. Tipo una mela al giorno. Io dovevo leggere un libro alla settimana, meglio dal lunedì al sabato, e poi raccontarglielo. E quel libro, per molto molto tempo, fu di un solo autore: Emilio Salgari.

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algari nelle edizioni Vallardi, copertina rilegata, sovraccoperta disegnata e stampata a colori, dentro poche illustrazioni, suggestive. Lo si comprava prevalentemente a Sanremo, in una cartolibreria di piazza Colombo. E’ lì che è nato il bisogno di stare tra i libri, di stare con i libri. Poi la mia professoressa delle medie, Maria Luisa Bar, ha innestato su questa abitudine un po’ di cultura. Aiutata da una Antologia straordinaria, dal nome semplice e severo Antologia 80, curata da Lidia Defedericis e pubblicata da Loescher. Dentro, c’era di tutto: Calvino, Fenoglio, Pavese ma anche Lewis Mumford e Ada Negri. La copertina dell’antologia era rossa e nera in campo bianco, un gioco molto geometrico tra il Rodchenko e il Paolini. A Natale della prima media chiesi in regalo a mia zia, una zia acquisita sposata con uno dei tanti fratelli di mia madre, di poter avere tutto Pavese. Era nell’edizione dei Coralli Einaudi, copertina bianca e disegni pastello neri in campo beige contornati di una bella riga di azzurro. Un cofanetto che lessi tra il 25 dicembre e Capodanno e che mi fece sco-

prire al fondo un elenco di decine e decine di altri libri che non avevo. Così la Torino delle case editrici, degli autori e delle librerie cominciò a entrare in circolo. Mia mamma aveva un piccolo negozio in via Garibaldi - all’inizio era molto grande con un primo piano bellissimo fatto di mobili color panna, moquette blu savoia e molti salottini di prova, disegnava e produceva tutto lei, che era anche bravissima a vendere – ma poi alcuni errori imprenditoriali si fecero sentire e il tutto si ridusse a una vetrina e a un soppalco. Eravamo a un isolato dalla Biblioteca Civica, che peraltro era di fianco alla mia scuola media. Passavo i pomeriggi a curiosare tra gli scaffali della biblioteca, ero diventato amico della figlia del bibliotecario, una tale Roberta, e cercavo sempre più libri da leggere, sempre più case editrici di cui memorizzare il marchio e lo stile. Era aprile, era il ‘77 e stavamo finendo di leggere un bel racconto di Stevenson nella collana dei Centopagine quando sentimmo un colpo violento, un botto, pensammo a un colpo di pistola, non sapevamo cosa potesse essere ma era vicinissimo, tutti corsero fuori a vedere, era il caos in via Perrone, ma noi ragazzi non capivamo nulla, ci dissero di stare fermi, dentro la biblioteca, in attesa che si capisse meglio cosa fosse successo.

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on si poteva passare, in piazza Statuto. Era trascorso qualche giorno dall’omicidio di Fulvio Croce e c’erano manifestazioni ovunque, specie in piazza Solferino, dove parlava Almirante. Noi di corso Regina e corso Principe Eugenio giocavamo a calcio con ragazzi più grandi che stavano proprio lì sulla piazza, figli di una signora che aveva un negozietto di calze e filati. Io mi portavo già dietro un libro al giorno, i miei amici mi prendevano in giro, quasi fosse la coperta di Linus. Ma per me era facile concentrarmi, leggere qualche pagina, immaginare mentre andavo e tornavo da casa come sarebbe andata a finire. Comiciai a collezionare Einaudi, a cercare via Biancamano, a scoprire che ogni indirizzo di una casa editrice mi portava in un quartiere nuovo della città che ancor non conoscevo. Le case editrici religiose erano fra Maria Ausiliatrice, dove preparavo la cresima, e via della Consolata, dove ogni tanto mamma andava a pregare. Io guardavo soprattutto i libri illustrati delle Edizioni Paoline, ma mi piacevano molto anche i grandi libri della SEI, che campeggiava con il suo logo sul rondò della Forca, dove passavo – correndo velocemente nel sottopasso di corso Regina corso Principe Oddone – per andare a scovare Paola Porta, una mia compagna di cui ero innamorato, che abitava in via Alessandria. Al liceo, anzi al ginnasio, rimandato in inglese, capii che molte case editrici erano anche in San Salvario, e che erano collegate spesso – con

mia grande sorpresa - a una libreria. La Claudiana aveva libri miracolosi, tra Lutero e Kierkegaard, mentre poco più in là scoprivo libri di viaggio da Zanaboni, immerso tra cartine e libri tecnici. Ma la biblioteca personale aumentava sempre grazie a corso Siccardi, ai libri usati, agli scambi con gli amici, a qualche piccolo furto veniale quanto portavo via qualcosa di appena uscito da casa di amici dei miei. Con il liceo venne il tempo della libertà, si girava fino a tardi, ci si perdeva nella ricerca di Campus e si imparava che i libri non erano solo letteratura, ma contenevano anche cose noiose come le scienze e i numeri. Molti torinesi illustri – leggendo i nomi delle strade in lunghi pomeriggi annoiati d’estate – avevano fatto la storia del Paese e ci si riprometteva di imitarli.

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opo il liceo, fu un’esplosione. Libri, biblioteche, editori, si trasformarono in persone in carne e ossa. Non erano tutti morti. Non erano solo ombra. Non stavano sulla torre d’avorio. Fogola, libraio e editore, aveva due bei baffi e molte collane di classici e di contemporanei. Entrare da lui era scoprire un pezzo di passato portato in un presente immobile eppure carico di frutti – in cima alle scale dietro il bancone di ingresso c’era tutta la Oxoniense con sovraccoperta verdina e le edizioni critiche di Lucrezio e Tito Livio, nonché tanti volumi delle Belles Letteres, tra il salmone e l’arancione, a seconda della luce presa dalla carta. Pezzana vagheggia un Salone del Libro stile francese, alternativa locale alla Buchmesse. Io passeggiavo per Chieri e mi domandavo se mai avrei potuto fare un lavoro simile, chiedere un testo ad un autore, leggerlo insieme, rileggerlo e poi… ma come si faceva a trasformare il tutto in forma di libro?

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n forma di libro. Instar Libri. L’ultimo grande editore nato da queste parti. L’erede di Bollati e di Einaudi, dell’enciclopedismo della UTET e della voglia di scoprire, di anticipare tendenze. L’ultima volta che ho visto Gianni Borgo è stato nel dicembre del 2000, quasi capodanno 2001, Istanbul, Topkapi. Io in vacanza con la famiglia, lui lì per lavorare, in giacca e cravatta, impeccabile come sempre. Avevamo cominciato insieme, lui pubblicava un libro l’anno, magari due, ma eccezionali, unici, imperdibili. Noi, tutti gli altri, razza che rimane a terra, formati alla scuola di Accornero, libridine come esperienza insostituibile, cercavamo di fare fatturato, di mettere in fila gli autori nuovi (Voltolini ne era il capofila) e di riunificare le due culture. La Torino anni Novanta era così, un crogiuolo di libri quadri musica serate viaggi fiere amicizie litigi. Son passati vent’anni siamo cresciuti e quasi


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Leandro Agostini Libro muto, 1991 Vasi in vetro, libri non stampati, inchiostro tipografico - 15 elementi. C’era una volta So¯, un albero maestoso. Non era questo a renderlo speciale, no davvero. So¯ aveva bellissime, enormi foglie bianche. Analfa, una maga cattiva, invidiosa di tale bellezza, una notte raccolse tutto il nero del mondo e lo trasformò in pioggia, scatenando un terribile temporale. Le gocce scure scivolarono sulle foglie che a quel contatto si seccarono. Al mattino gli abitanti del villaggio accorsero ai piedi dell’albero e rimasero senza parole. Pag, una piccola bimba del villaggio, si accorse che la pioggia aveva lasciato sopra le foglie segni bellissimi. I suoi occhi si illuminarono. “Ognuno raccolga quante foglie può, cucitele assieme e sedetevi accanto a me”, disse. Fu così che quelle foglie leggere diventarono storie da leggere.

invecchiati, è nata la Holden, Gianni Borgo è morto, Instar pubblica Fabio Geda che porta altrove il nostro sguardo, il Salone del Libro si è trasformato in fiera per tornare Salone, Lindau ci ha fatto capire il cineme, EDT la musica, Allemandi l’arte, Tallone è rimasto il nostro esempio sempre lontano e sempre vicino, ora si tratta di aggiungere qualcosa, di fare libri doppi o trini, così è nata anche ADD. Per scoprire davvero il mondo a Torino si pubblicano in italiano le Lonely Planet, sempre EDT, sempre idea di Accornero, quante ne ha saputo fare quel diavolo d’uomo, al suo fianco per tanti anni Beniamino Placido novello Diogene, uno che con la lanterna ci sapeva fare.

tano dal libraio e gli dicono “questo libro è immortale”. Fraternali con i suoi occhiali spessi è ricco d’ironia e non lo dice mai. Biscotti è tornato al mestiere dopo aver avuto un eccezionale ristorante in collina. Non so quanto conoscano quelli delle case editrici, un altro mondo di curiosi che si divide tra dipendenti assetati di novità e proprietari e direttori assetati di potere. Potere intellettuale, dominio del campo di gioco. Ora il tavolo su cui mettere le pedine molto spesso se lo sono portati altrove (Bollati Boringhieri non abbiamo saputo rilevarla, Einaudi al solito fa corsa a sé, stiamo aspettando si palesi un altro Borgo che ci metta tutti insieme sotto le stesso ombrello).

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i lettori? E noi lettori? Ci hanno regalato nuove librerie, qualcuna ha anche chiuso (come dimenticare la signora Druetto in bici che ci sgrida perché non leggiamo in tedesco e quindi perdiamo il 70% della vera cultura?), ora tra FNAC e Feltrinelli, tra le GRU e Porta Nuova si trova quasi ogni cosa, anche se certi consigli te li danno solo alcuni piccoli librai infallibili. I lettori sono merce rara. Servono soprattutto ai promotori, popolo ramingo che si aggira con decine di titoli la settimana da vendere in “tredicesime” ovvero tredici alla volta. I promotori sono, o dovrebbero essere, i protolettori. Quelli che escono dalla casa editrice con la copia staffetta e la por-

lettori non sanno quasi nulla di cosa accade dietro le quinte. Per fortuna. Non esperti di editoria, o di promozione, o di distribuzione. Per loro il libro non è una saponetta. Alla peggio è un volto, una storia, o una zeppa da usare in cucina. Il Salone del Libro forse non li ha allargati ma li ha educati. Li ha fatti incontrare con l’altra faccia della luna. Il Salone ha fatto crescere ormai un paio di generazioni di scrittori ed editori; li ha fatti crescere proprio nel confronto con i lettori. Che alla fine si sono coalizzati e hanno il loro Circolo, la loro fortezza. Sono loro, ora, sulla torre d’avorio. Il mondo si è ribaltato, si pubblica on line e ci si legge sui blog.

* Paolo Verri è nato a Torino nel 1966. Si è laureato in comunicazione di massa all’Università Cattolica di Milano con una tesi sul rapporto tra libro e televisione, poi pubblicata dalla Eri con il titolo “Il libro in televisione”. Dal 1991 al 1993 ha diretto la casa editrice Pluriverso. Dal 1993 al 1997 è stato direttore del Salone del Libro e del Salone della Musica di Torino. Dal 1998 al 1999 ha diretto la comunicazione dell’Associazione Italiana Editori, inventando insiema a Paolo Taggi il programma “Per un pugno di libri”. Dal 2000 al 2006 è stato direttore del Piano strategico di Torino, della Fondazione Atrium Torino e dello Sponsor Village di Torino 2006. Dal 2007 al 2010 ha lavorato come direttore per il Comitato Italia 150, con il compito di organizzare i festeggiamenti per il 150° dell’Unità d’Italia. Scrive e lavora per molte amministrazioni pubbliche italiane e straniere. Ha collaborato con numerose case editrici, per cui ha curato pubblicazioni più o meno serie. E’ stato il fondatore e il presidente dell’Osvaldo Soriano Football Club, la nazionale italiana scrittori di calcio, nella quale gioca – con molta applicazione e scarso successo – dal 2001.


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mosaico testo di Natalia Casorati e Andrea Massaioli*

1982. Avevamo 22 anni e avevamo fondato MOSAICO, una rivista d’arte contemporanea. Non avevamo internet: può sembrare un dettaglio, ma è una cosa enorme.

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sempio: partecipando alla prima biennale dell’area mediterranea in Spagna, incontriamo diversi artisti di Barcellona, e subito cerchiamo di organizzare una loro pubblicazione sulla rivista, e magari esporre delle loro opere a Torino. Per realizzare tutto ciò siamo ritornati fisicamente a Barcellona, in diverse occasioni, visitato gli studi dei giovani artisti, vissuto con loro per diversi giorni…solo così potevi renderti conto quali artisti erano più interessanti di altri…insomma niente email,siti di artisti, ma mettersi in gioco fisicamente, il che voleva dire, da giovanissimi, vivere qualcosa di epico. Chiarite le modalità e i tempi lunghissimi, diciamo che il progetto MOSAICO era quello di coagulare tutte le giovanissime energie artistiche e intelletuali che ribollivano nel sottosuolo di una città ancora abbastanza chiusa sull’arte emergente e collegarle con quello che succedeva fuori Torino. Quello che abbiamo fatto a Barcellona, è proseguito a Londra, Roma, Milano, Bologna… La rivista era solo l’ultimo tassello che concludeva e sintetizzava tutto un lavoro di coinvolgimento di collaboratori che si occupavano di arte, cinema, teatro, musica, architettura, televisione concretizzandosi ad ogni pubblicazione con un“evento performativo”dove si organizzavano esposizione di opere, performance, reading, concerti…un qualcosa a metà tra un happening e un vernissage, ogni volta in spazi differenti…dalla Facoltà di Architettura a Torino, all’Accademia di Brera a Milano, ad uno spazio visivo a Bologna… Per rendersi conto della Torino di quegli anni, bisogna ricordare che la Gam era chiusa, il museo al castello di Rivoli doveva ancora nascere, le gallerie d’arte più affermate erano legate all’arte povera, poche iniziative per i giovani artisti, niente movida, insomma una città ancora più grigia e nebbiosa. Ma per fortuna c’erano delle eccezioni, altri luoghi di aggregazione, oltre ai classici Metro e The Big Club -il giovedì sera con le prime installazioni artistiche- il Cabaret Voltaire diretto da Fadini che portava l’avanguardia teatrale, il nascente Cinema Giovani…e un piccolo gruppo di gallerie che si occupavano della giovane avanguardia. Tra queste ci fu una collaborazione stretta con MARGINALIA, il cui nome era già una bandiera, uno spazio gestito da Mutus Liber, un gruppo di teatro d’avanguardia,

la cui programmazione internazionale spaziava dall’arte al teatro alle performance...lì ho fatto la mia prima personale, ricordo anche che dopo la mia mostra ci fu quella di Gina Pane, che abbiamo anche intervistato per la rivista. Un altro luogo“marginale”, rispetto alla cultura ufficiale, molto interessante fu l’ex colorificio di Lungo Dora, non a caso il primo numero dedica la foto di copertina a questo sito industriale abbandonato, un enorme labirinto devastato, dove si trovavano in abbondanza colori, sacchi e montagne di pigmenti puri, una location magica e inquietante dove giovani artisti facevano installazioni foto,video, e sempre

nel primo numero riservammo un articolo alla Mazz’art, che di quel luogo fu vero testimone. Se l’obiettivo era quello di creare nuove occasioni di incontro e visibilità per le giovani realtà artistiche emergenti, parallelamente MOSAICO organizzava delle AZIONI specifiche. Come ad esempio“l’Operazione Libretti”dove abbiamo invitato 50 artisti di diverse discipline e generi ad intervenire come meglio credevano su un libretto preconfezionato per creare un loro libro d’artista…esposti alla Galleria Martano nel 1986 e poi al Salone del Libro nel 1988, a cui parteciparono anche artisti di un’altra generazione, Zorio, Mainolfi, Gastini…e gli allora esordienti Sosta Palmizi

(danza contemporanea). Altra Azione è stata quella di invitare gli artisti ad intervenire con una loro riflessione su una scheda dove avevamo prestampato una frase. Le risposte le abbiamo pubblicate su ogni numero della rivista (tra le molte quelle di Lawrence Weiner, Luca Maria Patella, Fabio Mauri, Antonio Carena, Niele Toroni…). E ancora quando ci siamo ritrovati per 2 giorni, una quindicina di artisti e abbiamo creato 50 copertine fatte a mano per il numero 9 di Mosaico…un vero happening, ripreso con la telecamera, esposte poi all’Unione Culturale Antonicelli nel 1989. Insomma con tutte queste occasioni di incontro si voleva creare una rete tra artisti, e per avviare un confronto critico ed estetico più serrato abbiamo organizzato delle tavole rotonde tematiche, che pubblicavamo sulla rivista, tra i nostri collaboratori ricordo Alessando Baricco, Stefano Della Casa, Beatrice Merz, Alberto Jona, Daniele Segre, Carlo Actis Dato, Emanuela Piovano, Turigliatto, Giulia Carluccio, Sara Cortellazzo, Dario Tomasi, Gianni Colosimo, Giulio Castagnoli, Silvia Chessa, Mutus Liber, Andrea Balzala, Aldo Pozzato… Un altro elemento importante erano le interviste ad artisti affermati, come quelle a J-F. Lyotard, Meret Oppenheim, Emanuele Anati, Gianni Vattimo, Gina Pane. Oltre alla situazione artistica torinese cercavamo di entrare in contatto con critici d’arte di altre città, ad esempio Paolo Fossati (il nostro punto di riferimento importante per Torino) ci mise in contatto con critici bolognesi, Cerritelli e Trento, che a loro volta ci presentarono artisti di Bologna (Cascio, Gasparini, Manai, Cuniberti…). Oppure per Milano il critico Tommaso Trini con Norese, Carraro e altri artisti ), o il critico Lambarelli con i romani (Pizzicanella, Nunzio…). Naturalmente opere eseguite in originale per noi da parte di questi artisti venivano pubblicate all’interno della rivista, insieme a quelle di altri artisti che esponevano di passaggio in città o che noi visitavamo in Italia e all’estero (come Antony Gormley, Shirazeh Houshiary, Judith Cowan, Stephen Cox, Paul Renner, Silvio Wolf…). 1986, numero 9, l’ultimo, ormai MOSAICO per sopravvivere doveva entrare nel mercato dell’editoria artistica o sciogliere tutto e tuffarsi completamente nella danza e nella pittura. * Natalia Casorati e Andrea Massaioli hanno fondato e diretto dal 1982 al 1986 la rivista MOSAICO. Successivamente Natalia Casorati fonda dal ‘93 l’Associazione >Mosaico, occupandosi dal 1980 anche di danza. Dal 1994 organizza il festival Contrappunti, e dal 2001 il festival INTERPLAY. Andrea Massaioli dopo la prima personale nel 1984 a Marginalia, continua nella sua ricerca utilizzando principalmente i linguaggi della pittura e della scultura.



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IL LIBRO NON SI LEGGE, SI USA! testo di Liliana Dematteis*

Gli artisti visivi che nel secolo scorso hanno avuto coinvolgimenti continui e importanti con la letteratura e la poesia svolgendo un lavoro legato al linguaggio, al libro, ed anche più ampiamente ad ogni tipo di prodotto cartaceo come la rivista, la cartolina postale, il volantino, ecc... sono parecchi.

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gnuna di queste opzioni permette infatti di supportare il pensiero - oltre alla forma - e di distribuirlo diffusamente; ognuna permette una creazione libera nonostante l’impiego di strumenti comunicativi “usurati”, come la scrittura; ognuna corrisponde a un mezzo di comunicazione facile e diretto. Già nell’ambito delle avanguardie storiche di inizio Novecento abbiamo degli esempi illustri, come la collaborazione fra Blaise Cendrars e Sonia Delaunay ed il sublime risultato del poema-pittura La Prose du Transsiberien del 1909, o quel movimento futurista con a capo Marinetti di cui ben conosciamo l’atteggiamento dissacratorio e aggressivo con cui mise in discussione il linguaggio del proprio tempo, rinnovandolo radicalmente, o quei libri imbullonati di Depero pieni di architetture di parole che raccontano-descrivono stati d’animo o vedute newyorchesi fatte di sole deliranti parole. Nella prima metà degli anni sessanta è stato Eugenio Miccini, uno dei primi poeti visivi, a dire che il libro “… oggetto da sempre privilegiato dalla cultura d’élite poteva combattere su entrambi i fronti, quello della pittura e quello della letteratura e della poesia e con un colpo di mano poteva liberarsi dalla dimensione editoriale ristretta ospitando una nuova espressività e criticando dall’interno la precedente”. E’ nel Gruppo 70 dei poeti visivi fondato appunto da Miccini, e Pignotti insieme a Giuseppe Chia-

ri, Sylvano Bussotti che troviamo una giovanissima ma determinata Ketty La Rocca che si situa con originalità nell’ambito della poesia visiva con opere e azioni collettive Poesie e no alla Libreria Feltrinelli e Volantini sulla strada (entrambi a Firenze) che si propongono quali linguaggi alternativi ai codici della società ed alla letteratura consumistica. Dopo il 1968 il suo lavoro si focalizza su una linea di ricerca autonoma sulla funzione dei linguaggi comunicativi utilizzando il video e la performance ed elaborando a partire dal 1971 la serie dei polittici in cui, con una minuta calligrafia quasi automatica e ossessiva ripassa i contorni di fotografie (di figure, monumenti celebri, paesaggi, locandine cinematografiche) azzerandone l’immagine cui la consumazione turistica e pubblicitaria ha tolto significato, e con pochi segni grafici la riduce e traduce poi personalizzandola ridando all’icona un nuovo segno ed una nuova “aura”. In questi anni settanta in cui le lotte per l’affermazione delle donne è stata molto importante, sono state numerose le artiste che vi hanno militato ed hanno preso la parola usando la voce o la penna o il loro stesso corpo per esprimere il loro pensiero chiedendo e finalmente ottenendo un po’ di parità e dignità anche nell’agone artistico; penso ad alcune di loro particolarmente vicine al mondo letterario che condividono il desiderio di esprimersi raccontando ed adeguandosi talvolta a stili letterari esistenti (la biografia e l’autobiografia, il diario, il racconto, il romanzo), come Annette Messager, che trascrive la sua collezione di proverbi o che spiega e disegna i giochi che sa fare con le mani, a Irma Blank alle sue scritture inventate, ad Hanne Darboven (che trascrive capolavori letterari e filosofici rendendoli illeggibili), a Sophie Calle nei cui lavori l’equivalenza tra l’autore, il narratore e il personaggio principale scatena le dissociazioni responsabili di quella che viene chiamata autofiction, o ancora a Louise Bourgeois attraverso i cui appunti intimi dà senso all’invisibile, a Rebecca Horn con il suo lavoro su Buster Keaton in forma di sceneggiatura cinematografica, a Bianca Menna (in arte Tomaso Binga) che in un percorso sempre coerente lavora su sottili varianti tecniche e di supporti a scritture poetiche in tutte le sue forme, visiva, sonora, performatica. O alla torinese Laura Castagno nel cui ultimo lavoro, partendo da Weimar, ripercorre il viaggio di Goethe in Italia fino ad

Agrigento e ritorno con l’elencazione in lettere d’oro di ogni luogo ed ogni data. Non solo donne, naturalmente, la lista potrebbe essere ancora lunga, ma qui voglio almeno ricordare Emilio Isgrò che sente pesante la dittatura della poesia sulle arti visive e con un segno pittorico la cancella, e Vincenzo Agnetti, che m piace definire il padre nobile dell’arte concettuale in Italia; penso innanzitutto al suo Libro dimenticato a memoria, un lavoro del 1969 in cui la parte scritta delle pagine viene asportata lasciando al suo posto un rettangolo vuoto poiché se per l’artista la cultura è “l’apprendimento del dimenticare” gli oggetti erano dei rammentatori di un processo di pensiero che si visualizzava nell’assioma e l’opera d’arte aveva senso in quanto traccia di quel processo. Agnetti è presente nel contesto culturale degli anni Sessanta con contributi critici alla lettura del lavoro di amici artisti come Manzoni e Castellani, e pubblica nel 1963 con Scheiwiller un primo “romanzo” sconvolgente e novissimo, Obsoleto, in cui il testo talvolta scivola e si fluidifica sulla pagina, si frammenta e si dissolve per ritornare poi nitido e conseguente, come un romanzo appunto. Agnetti affronta l’attività artistica e letteraria riproponendo il fare arte come pura analisi di concetti, proposizioni e teoria operante. Ed in questo contesto mi è d’obbligo ricordare ancora la sua Macchina drogata, una calcolatrice Olivetti dai numeri sostituiti con lettere dell’alfabeto che produce pagine di letteratura per l’appunto “drogata” dalla manipolazione dell’uomo. Insomma, qualcuno più legato alla sfera del mondo reale e della concretezza, altri a quello della fantasia, ci sentiamo di dire che sono moltissimi gli artisti che condividono il desiderio di esprimersi narrando, favorendo un’apertura a una comunicazione interdisciplinare e introducendo nuovi valori e sistemi espressivi. * LILIANA DEMATTEIS è co-fondatrice della galleria Martano nel 1965, ne è direttore dal 1971. Si è occupata in particolare di astrattismo fra le due guerre, di arte concettuale, di libri d’artista, di Pinot Gallizio. Ha insegnato Storia della comunicazione visiva al Politecnico di Torino fino al 2008.



c ol l ez io ne


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collezione arte sera

MANU SCRIPTU

di filippo santarossa*

Riguardo allo scritto di Filippo Santarossa, che accompagna il suo lavoro su ArteSera, Marco Cordero dice: “Ho chiesto a Filippo non un testo su, ma un testo che viaggiasse un po’ in parallelo con il mio lavoro, per reazione e per suggestione. Lo scritto che ne è venuto fuori parte con immagini dure, con una cruenza che non mi appartiene, ma che, appunto per questo, diventa altro da me, con una sua identità e autonomia, in dialogo produttivo e aperto con il mio lavoro.” il rutto delle bocche gassate. di vecchie donne obese. prive dell’umanità. il ciclo completato. l’animale grasso pensa poco e mangiatanto. pesa poco di testa l’animale grasso. si sposta poco. così poco. che pare. che si dimeni solo. ma che soprattutto. solo si dimeni. spostamenti minimi. senza sosta. senza meta. homo staticus o parastaticus. homo paraliticus. l’uomo e la scimmia. l’uomo è la scimmia. ci vuole poco per cambiare un senso. ad esempio un caporivolta. un caporeparto. un capocomico. un dio. un circolo vizioso e per viziosi che fa così. dio sale l’uomo sale dio scende l’uomo scende. la discesa. si dice sia più facile. ma ciò non corrisponde al vero. nulla di per sé corrisponde al vero. spostare lo sguardo. da altrove a altrove. postare lo sguardo. da altrove a altrove. divertirsi. convertirsi. sentirsi figli della terra. figli della merda. che è la stessa cosa in stati diversi. l’assurdità del confine. si presenta sempre. il confino non fa convenevoli. da dove vieni? dove vai? chi sei? l’interrogazione incessante da demente a demente. il non so ricorrente e ricorsivo. non un diversivo. una tattica. ma il fatto bruto.

MARCO CORDERO Marco Cordero scolpisce le opere rapprese nei libri, libera le forme racchiuse dentro pagine e copertina. E’ come se ne sentisse la voce e con le mani, che si fanno scalpello, togliesse la materia in più. Carta e inchiostro prendono vita, come onde, montagne, valli. Sono rilievi orografici di paesaggi mossi dalle parole e dall’immaginazione.

POST SCRIPTUM lasciare le cose come stanno. dove stanno. come vogliono essere. fare un passo e un passato. farne fagotto. metri sotto la terra. presentarsi. rendersi presentabili. darsi un nome. stringere la vita fra le mani e farla cessare. rendere presentabile questa esperienza. renderla positiva. farne un positum. comunque un resto.

In questo progetto per ArteSera Cordero presenta il fare processuale del suo lavoro, che parte da un gesto, dalla mano a coppa che batte, segna, legge, ripulisce, scava, come un rabdomante alla ricerca della parola magica, la pietra filosofale di ogni opera.

abbandonare il giudizio come metro. e non fare più né giudizo né metri. universali o particolari che siano.

Marco Cordero: Aria

Marco Cordero: Inbianco

Marco Cordero: Battere piano

* Pordenone 15 marzo 1981. Vivo. A poca distanza. Con me una gatta e un amore.


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racconto

VAI AD APRIRE E NON C’E’ NESSUNO testo di GIAN LUCA FAVETTO

Una cagata! - detto con il tono, fra l’incredulo e il sorpreso, con cui il bambino può esclamare - il re è nudo! - accompagnando le parole con un sorriso metà birbante e metà imbarazzato. A volte capita di reagire così, sbottando.

M

agari, poi, te ne penti e provi a ragionare, paziente, poiché è probabile che uno sbotto simile non serve a nessuno, forse. E allora ascolti prediche e spiegazioni: sai, ci sono il contesto storico, le buone intenzioni, la buona fede da considerare. C’è sempre una buona ragione, una, per tornare sui propri passi e dare ragione, tutta la ragione, agli altri. Di solito, ne sanno di più, gli altri; hanno studiato la materia, libro dopo libro, vernissage dopo vernissage, consulenza dopo consulenza, chiacchiera dopo chiacchiera; hanno affinato il gusto e conoscono i retroscena; sanno come funziona il mondo, quel mondo lì; fanno girare i soldi e ne ricavano vantaggi e privilegi, anche quelli di far pesare di più le loro parole; sono un circolo ristretto, autoreferenziale, ma agguerrito; mostrano una sensibilità internazionale che tu, provinciale, non avrai mai; e poi, insomma, non si può liquidare tutto con una reazione così rozza e fuori dal tempo: come puoi pensare che sia una cagata?, quella è un’opera d’arte! Oh, cazzo, un’opera d’arte. Ciò che hai davanti, ciò che validi, brillanti, coscienziosi appartenenti al mondo dell’arte, critici, studiosi, galleristi, collezionisti, artisti, chiamano opera, a te sembra –con tutto il rispetto e tutta la franchezza possibili, con quel po’ di vergogna che una simile definizione fuggita di senno provoca e con la leggerezza di una sincera onestà intellettuale-, beh, con tutto questo e magari anche altro, a te sembra solo una cagata, una furbata, un ammicco, un ammanco, un bluff, un’occasionale infantile esibizione di sé e di una presuntuosa vaghezza. La vedi che sta all’opera come una barzelletta sta all’Ulisse, come una battuta sta all’Amleto.

Il nulla: questo è il rischio ancora più grave e subdolo, il rischio che la sedicente opera non ti sembri nulla. Non sembra un’idea, né dà un’idea: nulla. Toc toc, bussano alla porta. Vai ad aprire e non c’è nessuno, non c’è nulla. Era l’opera d’arte. Il fatto è che, di fronte a molte di esse, non viene un pensiero, non viene un’emozione, non viene un sentimento, piuttosto il sospetto di una, anche involontaria, presa in giro. E così sbotti. Di fronte a buona parte della produzione classificata come arte contemporanea, se non fai parte del sistema, se non mangi e vivi con quel sistema, reagisci d’istinto con un rifiuto, non hai più voglia di essere fregato, gabbato, truffato nella tua disponibilità. L’accusa che si può fare a gran parte dell’arte contemporanea è di renderti sospettoso e tirare fuori il peggior qualunquista che si cela in fondo al tuo animo. L’arte sciocca, furbastra, inutile, modaiola rende sciocco furbastro inutile e modaiolo anche te. Operazioni ombelicali e supponenti, troppo zavorrate dal proprio io -quindi povere di magia, poesia, intelligenza, sfida-, respingono, inducono sulla difensiva, ombelichizzano chi si confronta con esse. E’ che l’arte, in certi casi e situazioni, non sembra una necessità condivisa, non è intima relazione fra persone attraverso un manufatto che incarna un mondo, una visione. L’arte spesso non dice più una visione, uno sguardo, è solo un’affermazione di sé e una dichiarazione di intenti, una investitura, un’autoinvestituta spesso, un investimento, un gioco di lobby, l’esempio lampante che il mercato assegna il prezzo, non necessariamente dà il valore. Se il bello e il brutto stanno nello sguardo di colui che osserva, il vero o il falso stanno nel lavoro di colui che fa. Quell’etica, quel ritorno a un atteggiamento etico che si invoca in altri ambiti, forse è da pretendere anche nel mondo dell’arte. Un mondo che dovrebbe sapere come etica ed estetica non siano disgiunte, non possa esserci l’una senza l’altra. E devono cominciare gli artisti a rimettere in azione l’etica del loro lavoro –non ispirazione, ma lavoro; non progetto, ma fare; non concetto, ma azione; non sbaffi, sbuffi e commenti al presente, ma architravi, architetture e mondi niovi. Bisogna incarnarli, insomma, i concetti, accenderli, pronunciarli, dare loro fiato e saliva, sudore e sorriso: così

facendo si dà loro un’anima. Devono cominciare gli artisti, perché soltanto da loro può partire la riscossa, dalle singole persone che creano, non dal sistema che si mantiene in vita sulle loro spalle. Il ritorno all’etica è il ritorno a un lavoro ben fatto, a un senso del dovere alto, all’impegno, al gesto che si incarna in un fare continuo e operoso. È che, forse, l’arte contemporanea dovrebbe provincializzarsi un po’. Dopo tanta giusta energetica innervante sprovincializzazione, forse è bene che recuperi un po’ di provincializzazione, così che possa smettere di starsene astratta su per i cieli siderali fra puri concetti e idee disincarnate, e torni a occuparsi di corpi, materie, territori, torni a essere luogo, incarnato in un sapere, torni a essere lavoro, non svelta traduzione di un’ideuzza, torni ad essere condivisa. Torni a restituire tempo a chi osserva l’opera, dandole il proprio, di tempo. Non si limiti a stupire, provocare, colpire; provi a durare un sentimento, farlo durare. Arte condivide la radice con aratro, uno strumento che fa, che opera, il primo strumento umano costruito con una serie di parti connesse fra loro. Di suo, la radice ar significa andare, mettere in movimento – che è ciò che fa l’aratro, smuove la terra, e se non è in grado di fare questo anche l’arte, che cosa fa? Il verbo greco ararisco significa comporre, organizzare, connettere, unire, adattare. La sillaba ar in sanscrito indica la connessione. Tutto da lì deriva: connettere, mescolare, condividere e muovere, far muovere, altrimenti l’arte da contemporanea diventa eterna, nel senso di eterno riposo, morta, cadavere. In effetti, il bambino direbbe non il re è nudo, ma il re è morto. Se ne potrebbe fare un altro, di re. Oppure si potrebbe scegliere la repubblica.

Gian luca favetto

da La vita non fa rumore, Mondadori, 2008

“Sembrava la fine. Se mai è possibile vederla, viverla, esserci dentro fino in fondo, quella era una fine. La sua fine. Poi comincia l’oblio. E la confusione. Luce odori rumori sangue sfregiano i sensi inconsapevoli. Vaghi, prima insinuanti; poi esplosivi, deflagrano in testa. Questa è la notizia: c’è una testa.”


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NICUS LUCà La prima pagina: in un solo colpo d’occhio, il silenzio di una parete piena di libri. Il valore del gruppo come fiori nel prato; un quadro astratto nato seguendo criteri diversi da quelli pittorici, eppure pregno di pittura, di segnali. Ogni colore un mondo. La pelle di una storia. Un sentiero da esplorare. Una lenta visione da seguire. Una possibilità... poi la prima pagina. AL DI LA’ DEL BENE E DEL MALE, 1995, marmo Fossile, corallo Thamnopora provenienza Marocco, Periodo Triassico (230 - 195 milioni di anni fa)

MARINA SAGONA Ada o ardore di Nabokov. Un paio d’anni fa, in un momento particolarmente difficile, mi impegnavo ogni giorno ad abbandonare la mia vita per andare qualche ora da Ada. Lei mi accoglieva tra I rami del suo giardino e mi rendeva complice dei suoi giochi con Van. Poi, dopo aver trascorso anni su Antiterra, aver assistito alla follia di Aqua e ai tradimenti di Marina, chiudevo il libro e tornavo da me. Leggere e’ il lusso infinito di lasciare in sospeso la propria esistenza, per poi tornarci con nostalgia.


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racconto

CHARLIE DON’T SURF testo di Alessandro Defilippi

Cattelan, Cattelan. Quel nome, me lo rigiravo nella testa come un gianduiotto. Da anni non ritornavo a Torino, e mio fratello, la sera stessa del mio arrivo, mi aveva parlato di lui.

N

on conosci Cattelan? - aveva detto, arrivati al fondo della prima bottiglia di vino. Ma come diavolo fai? E’ proprio vero che a occuparsi di medicina si perde di vista tutto. As perd ‘l bun e ‘l mej, avrebbe detto la nonna. Ma già, tu non te la ricordi, povera vecchia, ché quando è morta manco sei venuto per il funerale. E Stanford è lontana, dicevi, e poi l’America, e non posso abbandonare le mie ricerche, e quando il corpo è morto, tanto non c’è più nulla. E bravo il medico: ti occupi del corpo, così ti perdi lo spirito e diventi un somaro in fatto di arte. Mio fratello aveva scrollato la testa e ordinato un’altra bottiglia. Tanto, aveva aggiunto, con te non c’è niente da fare. Così, somaro davvero mi sentivo, quel mattino, quando il taxi mi lasciò davanti al Castello di Rivoli. Pagai il biglietto ed entrai. Il museo era deserto, anche se in lontananza si udiva un vociare attutito: una classe in visita, mi aveva detto la cassiera, spero non la disturbino. Per disturbarmi avrebbero dovuto mostrarsi, e invece continuavo ad attraversare frettolosamente le sale senza incontrare nessuno. Le opere non le guardavo nemmeno: cercavo Cattelan; un preciso Cattelan. Salta pure tutto, se vuoi, aveva detto mio fratello, ma Charlie don’t surf lo devi proprio vedere. Charlie don’surf?, avevo detto io; è pure sgrammaticato. E perché diavolo dovrei vederlo?, avevo aggiunto. Lui mi aveva fissato con il suo sguardo sornione, lo stesso di quando giocavamo in cortile e l’aveva sempre vinta. Capirai, aveva detto. Capirai quando sarai lì. Devo dire la verità: a me, dell’arte contemporanea, non importa nulla. Datemi un microscopio elettronico, delle colture cellulari, e mi farete felice. Gli impressionisti, in-

vece sì: roba che si capisca cosa si guarda, insomma. Ma quel Cattelan mi interessava proprio, perché avevo udito la voce di mio fratello -nel nominarlo- incrinarsi. Quando arrivai alla sala giusta, non me ne resi conto. Mi parve non ci fosse nulla da vedere. Poi, mi girai verso la finestra: nella luce perlacea filtrata dalle tende, c’era un bambino. Sedeva a un banco di scuola, con indosso una felpa azzurra, il cappuccio tirato sul capo. Un bambino in castigo, pensai, poi subito sorrisi. E che ci faceva un bambino in castigo al Castello di Rivoli? Era immobile, le mani appoggiate sul banco e, dalla posizione della testa, pareva fissare di fronte a sé. La tenda chiusa: fissava la tenda chiusa. Mi schiarii la voce; tossii. Nulla. Il bambino non si volse. Stavo per uscire dalla stanza, quando, su un cartellino fissato alla parete, lessi: Maurizio Cattelan: Charlie don’surf. Mi guardai intorno, alzai gli occhi verso il soffitto. Esaminai le pareti, pensando che, forse, un’opera d’arte moderna poteva confondersi con esse. Ma la stanza, a parte il bambino, era vuota; dal soffitto non pendeva nulla. Le pareti erano di marmi e decori barocchi. Così, senza rendermene conto, mi avvicinai al banco. Stando lì, provavo la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato in quel che vedevo. Eppure, era tutto normale: un bambino, un banco, una felpa azzurra. Anche se al Castello di Rivoli. Allungai la mano, sfiorando la spalla del bambino. Era rigida, forse contratta. La scossi lievemente: nulla. Allora mi sporsi in avanti. E infine capii. Avevo trovato Charlie don’t surf. Un volto da vecchio, pieghe amare ai lati della bocca; le pelle, una superficie quasi ruvida, giallastra. Un manichino, una statua. L’opera di Cattelan. Mi venne da ridere: che diavolo di scherzo era quello? Che sciocchezza; mio fratello mi avrebbe sentito. Mi voltai per allontanarmi, quando un contatto nella mia mente scattò. Fu come un click: c’era qualcosa di anomalo nella statua. Prima di tornare a girarmi, ricostruii nei pensieri l’immagine di Charlie. La felpa, Il cappuccio. Il banco di formica verde, la seggiola: uguali a quelli della mia scuola. Le mani posate... Le mani. Mi voltai bruscamente. E vidi.

Charlie teneva le mani - mani grandi, nodose, da adulto, distese sul banco. E ciascuna mano era trafitta da una matita che la inchiodava al piano. Ebbi un conato di vomito che trattenni a stento, e ricordai. Ricordai certi giochi con mio fratello: l’ago d’acciaio del compasso che mi si conficcava nei polpastrelli; le prime sigarette fumate di nascosto, spente a tradimento sulle mie ginocchia. Le matite, temperate con cura, fino a che la punta di grafite era lucida e acuminata, perfetta per piantarmisi nelle carni. Ricordai quello che avevo voluto dimenticare e fuggii. Sì; non mi vergogno a dirlo: fuggii. Corsi per le sale, in cerca dell’uscita, salii scale che mi portavano a solai illuminati dal sole; ne scesi fino a sotterranei confusi. Non trovai l’uscita. Non trovai nessuno. Non c’era più alcun rumore, nemmeno il vociare lontano degli studenti. Quando mi ritrovai nella sala di Charlie don’t surf, il sole stava calando. Non poteva essere così, ma era così. Guardai verso la finestra e, senza stupore, vidi che Charlie era scomparso. Restava solo il banco. Mi avvicinai: le matite giacevano sul piano di formica, appuntite, perfette. Due piccole macchie rosse segnavano il punto dov’erano state appoggiate le mani di Charlie. Non ero stupito, ripeto, e sentivo una grande pace. Sedetti, sforzandomi di trovare una posizione comoda sulla seggiola troppo piccola. Appoggiai la sinistra sul banco, distesa, aperta, e impugnai con la destra una delle matite. Per l’altra mano, qualcuno sarebbe venuto. Lo conoscevo, lo aspettavo. Ci avrebbe pensato lui.

alessandro defilippi

da Manca sempre una piccola cosa, Einaudi, 2010

“Seduto nella penombra, Giorgio fissa lo strumento che ha di fronte. È un oftalmometro, ha detto la Mamma, non devi avere paura, e questo signore non ti farà niente, è un oculista, un medico, come me e come il Babbo.”


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LUCA COSER In Altreversioni (2005), manometto l’immaginario con il quale certi classici della letteratura sono stati percepiti, proponendone delle copertine false ma del tutto verosimili. Classici che non è difficile indovinare quanto siano stati importanti nella mia formazione. Un gioco sulla percezione e sulla sicurezza che certi oggetti trasmettono attraverso la loro riconoscibilità, un testo che diventa identificabile attraverso l’involucro che lo presenta. Nel divertissement tra ciò che è vero e ciò che al vero somiglia, sta la chiave del messaggio. Solo il contenuto è immodificabile, il resto è involucro. Ho sovrapposto al titolo del libro presentato nella sua grafica originale, l’immaginario di una serie di miei disegni dimenticati nel tempo, scomposti dentro cassetti o vecchie teche, disegni che vanno dalla mia infanzia agli studi accademici. Ho sovrapposto alla traccia di una memoria-patrimonio collettivi una mia traccia del tutto personale, da questo incontro scaturiscono delle nuova versioni, ALTREVERSIONI, di ciò che riconosciamo dell’immagine del libro e di ciò che riconosco dell’immagine di me e del mio lavoro. ALTREVERSIONI è un tassello di una ricerca più vasta sulla memoria e sull’identità che vado portando avanti ormai da diversi anni. Lavoro che in questi ultimi due anni mi ha portato a lavorare sulla sovrapposizione tra la mia vita e quella narrata da un vecchio film di Wenders. Ne è nato 1+1=1, ciclo di opere esposte nel 2010 e 2011 in 5 personali a Milano, Napoli, New York, Modena e Livorno, più alcune collettive.


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racconto

LEONARDO ROSA, in 10 scatti testo di Davide Longo

1951 Nel salotto di un appartamento mila-

nese una decina di ragazzi in giacca e cravatta ascoltano un uomo parlare. Nella sala ci sono due donne, una si chiama Maria Luisa Spaziani, l’altra Fernanda Pivano, e un secondo uomo in pullover, cravatta e baffi: Elio Vittorini. Le due donne e l’uomo tengono d’occhio il più magro dei giovani. Si chiama Leonardo Rosa, ma tutti lo conoscono come il “traffichino” perché ha 21 anni, nessuna scuola regolare e molti talenti. Per esempio quello di aver fondato e dirigere Momenti, la prima rivista di poesia del dopoguerra. - Montale e Quasimodo si detestano – gli ha detto al telefono la Pivano - quindi devo farteli incontrare in due sere differenti. Leonardo la guarda mentre sorseggia un wisky. Lei gli sorride. Montale lascia cadere parole lente e solenni. Leonardo senza darlo a vedere guarda l’ora al polso. Non può perdere l’ultimo treno per Torino: domattina alle otto deve essere in filatura. - Ungaretti avrebbe tagliato più corto - pensa.

sapere che in città alta abita un pittore, Guerrino Assoni. Fa pittura informale. Comincia a frequentare il suo studio: non gli dirà mai di essere andato da lui per avere due dritte su come si disegna un cane.

1964 Leonardo è direttore vendite di una

1952

grande azienda. Abita in un attico fuori Torino. Ha un’auto sportiva, due figli e una moglie che fa la vita da signora. Un giorno entrando in ufficio trova un elaboratore appena arrivato dagli Stati Uniti. Prende a portare a casa schede e bande perforate. Comincia a ritagliarle, incollarle. Alcuni amici vedono i suoi lavori e ne parlano a Lucio Fontana. Da lì in avanti mostre in Svizzera, Germania; la galleria di arte moderna di New York acquista un suo pezzo. I suoi amici diventano Antonio Carena e Pistoletto. Una sera d’ottobre del ‘68, dopo il lavoro in ditta, torna nel suo attico. I figli dormono, la moglie distoglie gli occhi dalla tv: dice che tra poco devono andare a un vernissage. Leonardo siede su una poltrona e guarda le luci di Torino oltre la vetrata. Decide che non dipingerà più.

1957 Leonardo è venditore per la Cinzano

Lei è sul letto, a pancia in giù, legge una rivista. Leonardo le siede accanto, le accarezza la schiena. La mansarda è tappezzata di carta da biscotti. Si sono conosciuti il 7 settembre, poi gli incontri in altre città, dove nessuno li poteva riconoscere. Lui ha 38 anni, Serena 22. Da qualche mese hanno preso in affitto quella mansarda, un cognome inventato sul campanello. Lui è sposato ed esiste una legge contro l’adulterio. - In ditta dicono che, visto il motto dell’azienda, non possono permettersi un direttore vendite separato. Starai con me anche quando sarò povero? - Assolutamente no. Ridono. Sui sacchetti che tappezzano la stanza lo slogan: produciamo per la famiglia.

Leonardo guida un Fiat BLR da 20 quintali in un vicolo di Genova. E’ una tiepida sera di aprile. Scarica le scatole di biscotti in una cantina, quindi sale nella stanza di sopra, si sciacqua al lavandino, cambia la camicia e scende in strada. Dieci minuti dopo beve un bianco in un’osteria di Via Gramsci guardando le donne al lavoro. Una di loro si alza dallo scalino e viene verso di lui. Lo bacia. - Andiamo a ballare? – gli chiede. - E mangiare? – fa lui. - Ho solo due uova. - Vai a prenderle, ci vediamo da me. Leonardo la guarda risalire il carruggio sulle gambe tornite. E’ passato un anno da quando frequentava la casa della Pivano. Ora vive a Genova, fa il rappresentante di biscotti e fuma sigarette nazionali. De Andrè ha dodici anni.

nella zona di Bergamo. Il sabato torna a Genova dove ora ha moglie e un figlio. Arriva la sera tardi, bacia la donna, accarezza il bambino mentre dorme; il giorno dopo vanno al mare o al parco. Alle sette lascia la paga sul tavolino e dice “a sabato”. La sera a Bergamo non esce, se uscisse non avrebbe da spendere. Ha comprato fogli e matite e se ne sta in camera a disegnare sul tavolino. Un giorno la padrona della pensione gli dice che in cambio della pigione arretrata vorrebbe un ritratto del suo cane. Leonardo viene a

1968

1974

Una mattina del ’74. Castelvecchio di Rocca Barbena, un grumo di case nell’entroterra ligure. Un vecchio cammina nella via centrale del borgo. Nello spiazzo vede un’auto ferma e due giovani che scaricano provviste: sono due matti di Milano che hanno sistemato il vecchio essiccatoio. Si dice stiano tutto il giorno buttati su una branda a fare all’amore. Entrati in casa, Leonardo accende il camino. Il mese prima ha rassegnato le dimissioni da

direttore vendite di una grande ditta di acque minerali e venduto la casa di Milano. Lui e Serena prendono il tè nel piccolo giardino davanti all’essiccatoio, guardando la valle che declina. Oltre si intuisce il mare. Alle loro spalle le rovine del paese. - Ti amo – dice Leonardo. - Vorrei ben dire – dice Serena.

1980 Leonardo bussa alla porta delle casa

dove abita la postina. Sono le undici di sera, i viottoli di Castelvecchio sono bui. La donna viene ad aprire. - Devo chiederti cinquantamila lire – dice Leonardo. - Sono per te? - Lo sai che non sono per me. La donna si guarda i piedi. - Aspetta - dice, prima di avviarsi dentro casa. Leonardo un’ora dopo è a Savona. Parcheggia, fa a piedi qualche vicolo, una scala buia, bussa a un appartamento. Ne esce dopo due minuti, risale sul furgone e percorre la strada a ritroso fino a Castelvecchio. Una volta arrivato si dirige verso il capanno in fondo al giardino che usa come studio da quando ha ripreso a dipingere. Dipingere? Toglie una chiave di tasca e apre la porta chiusa con tre mandate. Un ragazzo e una ragazza sono buttati sul divano, lui fissa il pavimento, lei è magra come una rana. Quando lo sentono sollevano la testa. Leonardo toglie dalla tasca la bustina e la posa sul tavolo. - Questa è l’ultima – dice. - Sì, sì – dice il ragazzo. Leonardo guarda i fogli macchiati di cenere, carbone, terra ed erba bruciata abbandonati sul suo tavolo. - Domattina presto partiamo per l’Umbria, proviamo da quel medico – dice Leonardo. - Sì, sì – rispondono i due. Quando entra in casa Serena è seduta di fronte alla radio. Leonardo siede all’altro capo del tavolo. - E’ mio figlio, lei è sua moglie. Se sei stanca e te ne vuoi andare, lo capisco. La mattina, quando si sveglia alle sei, Serena ha già preparato il caffè. Siedono allo stesso tavolo, insieme leggono i titoli dei giornali.

1994 Serena e Leonardo camminano le vie

di Amsterdam. Trovano Jack sulla porta della galleria. Jack ha una cinquantina d’anni e il sarcoma. L’amicizia tra lui e Leonardo dura da qualche anno e vive di pochi incontri e lunghe lettere. - Cosa sono quei bollini rossi sotto i quadri? –

chiede Leonardo. - Bollino vuol dire venduto – dice Jack. Aprono una bottiglia per brindare. - Ad aprile liberi? – chiede Jack. - Credo di sì – dice Serena – cosa c’è ad aprile? - Mi sono organizzato per morire e ci terrei ci foste, almeno alla festa che ci sarà dopo. Leonardo piange. - Controllerai tu che non faccia così alla festa? – chiede Jack. Serena lo bacia. - Controllerò io.

2001

Serena e Leonardo siedono sul terrazzo della loro casa di Antibes. - Che cosa ho fatto in questi ultimi dieci anni? - chiede lui. - Hai raccolto legni sulla spiaggia e molto dipinto. Leonardo guarda la spiaggia della Garoupe, deserta nel primo autunno. Serena versa il tè. - Finito il periodo francese di Leonardo Rosa? - ride.

2008

Quando Leonardo parcheggia di fronte al molo di Noli la barca sta rientrando. Matteo riconosce i suoi lunghi capelli bianchi e lo saluta. Una volta a terra gli porge una borsa di plastica. Leonardo guarda il dentice che ancora socchiude le branchie. - Sarà un chilo – dice. - Sette etti, posso sbagliarmi di cinquanta grammi - sorride Matteo. Leonardo rientra a Castelvecchio, Serena sta preparando la colazione. - Secondo me vale la pena farlo al vapore. - Credo anch’io. Puliscono il dentice, poi siedono al tavolo di legno su cui da trent’anni fanno colazione. Guardano la ginestra fiorire oltre il vetro. - Cosa fai oggi? – chiede Serena. - Pensavo di stare un po’ a guardarti, poi andare di là a lavorare per la mostra. - Non sei ancor stufo – sorride lei. Lui prende un pezzo di pane, lo bagna nella tazza non sua. Lo mastica guardandola da molto vicino. - No - risponde.

davide longo

da L’uomo verticale, Fandango Libri, 2010

“Leonardo scostò la tendina e diede una lunga occhiata al cortile dov’erano posteggiate tre auto, una delle quali era la sua. Lo spiazzo era cinto da una rete metallica alta tre metri sulla cui sommità correva del filo spinato.”


Leonardo Rosa, Illimitato, foto di Mara Gallo

Leonardo Rosa, Bois flottant, foto di Mara Gallo

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Leonardo Rosa con Montale, Pivano, Vittorini, Quasimodo, Porzio, Beringhelli.


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racconto

un giro alla gam testo di Andrea Ferrari

A volte, la domenica mattina, più di rado il sabato pomeriggio, mio padre mi portava alla GAM, solo che allora non si chiamava GAM, ma Galleria d’Arte Moderna.

E

ra la fine degli anni ’60, a Mirafiori c’erano cinquantamila operai, il muro di Berlino svettava più saldo che mai, Berlusconi faceva il palazzinaro e gli acronimi non erano ancora di moda. I musei torinesi erano le nostre mete preferite. Lui mi portava in giro, mi raccontava le cose e io lo tenevo per mano. Oltre alla GAM (che non si chiamava ancora così), andavamo anche al Museo del Risorgimento che adoravo perché avevo la testa piena di piccole vedette lombarde, brecce di Porta Pia, quadrati di Villafranca, dal momento che le suore, a scuola, si erano date un gran da fare per inculcarci un vivido amor patrio e così non mi pareva vero di vedermele lì davanti le sciabolone e le mitraglie che avevano fatto la storia, rugginose e ancora presumibilmente schizzettate di sangue. Durante le visite al Museo Egizio percepivo un vago sentore di sfiga, cercavo di capire che faccia avessero le mummie quando erano ancora vive senza spiegarmi perché non avessero il naso. Nel complesso mi piaceva l’egizio e ricordo che pensavo quanto sarebbe stato bello percorrerlo a tutta velocità con un vagoncino meccanico come quelli che sferragliano e scartano repentinamente dentro il tunnel degli orrori del Luna Park (che allora era in Piazza Vittorio). Quando mio padre era in vena si andava al maschio della cittadella, scendevamo nei cunicoli di Pietro Micca (un’avventura pazzesca) e, appena fuori, venivo piazzato a cavalcioni del cannone di Maometto secondo, quello della presa di Costantinopoli, oppure al Museo dell’Automobile che nella classifica stava alla pari con quello del Risorgimento perché appena entrati, sulla sinistra, c’era un’auto-

pista enorme con la quale si poteva giocare sebbene fosse difficilissimo tenere le macchinine in carreggiata. La Galleria d’Arte Moderna, invece, mi faceva paura. Sentivo confusamente che tutti quei quadri, alcuni neanche dipinti, ma fatti di lamiere contorte, materiali incollaticci, roba che avrebbe precipitato le mie brave suore nello sconforto più nero, parlavano a una parte nascosta della mia coscienza, un posto dal quale anche il più valoroso dei garibaldini si sarebbe tenuto alla larga o, se mai fosse entrato, vi si sarebbe ben presto smarrito. Così, venivo colto da una fifa blu e mi stringevo a mio padre nella speranza che almeno lui sapesse orientarsi. Una delle cose più terrificanti stava proprio all’ingresso della Galleria. Si trattava di un’enorme scultura di legno dove omoni fuor di misura, stilizzati e di profilo, aprivano verso il visitatore mani gigantesche e vuote. La scultura spargeva intorno un forte odore di legno grezzo e io mi tenevo a debita distanza casomai gli omoni si fossero risvegliati o il tutto avesse perso l’equilibrio per rovinarmi addosso. Per anni non ho più messo piede alla GAM, che con inutile spreco di fiato (e inveterata diffidenza per gli acronimi) mi ostino a chiamare Galleria d’Arte Moderna. Per mancanza di tempo, forse, o più probabilmente perché afflitto da una disastrosa pigrizia, finché qualche giorno fa la mia amica Olga mi ha chiesto di farci un giro e di scrivere queste righe cosa che puntualmente ho fatto perché Olga è deliziosa e scrivere mi piace, quasi come andare nei cunicoli di Pietro Micca. La prima cosa che ho cercato è stata la scultura con gli omoni che manco a farlo apposta era sparita. Il mio primo impulso è stato quello di domandare alle signorine di piantone dove fosse finita, ma poi non ho osato. E se me la fossi immaginata? Se non fosse mai esistita? Così ho tirato dritto. Peccato, mi sarebbe piaciuto annusare gli omoni per vedere se dopo tutto questo tempo avessero conservato il loro odore di cassapanca. Il percorso espositivo è organizzato per temi, ognuno scelto da un eminente intellettuale; Anima (Vito Mancuso, teologo), Informazione (Mario Rasetti, fisico), Malinco-

nia (Eugenio Borgna, Psichiatra), Linguaggio (Sebastiano Marchettone, Filosofo). All’interno di ogni percorso le opere sono esposte in ordine cronologico dalle più antiche alle più recenti ed inframmezzate da installazioni, neanche troppo criptiche – bella quella dei fiori che sfioriscono, strepitoso il filmato delle due donne che si cercano nella casa vuota – insomma, quasi alla portata di uno come me, che è stato a scuola dalle suore e si commuove alle sfilate (Primo Maggio, Bersaglieri, Banda municipale, chissà poi perché). C’è persino una videoteca, piazzata nell’interrato, con una fila di computer sui quali girano senza posa filmati stranissimi. Segnalo fra questi un vecchio documentario sugli scorpioni cui segue senza soluzione di continuità un film muto dove una banda di scalcinati briganti va avanti e indietro senza costrutto (sono rimasto lì a vedere se almeno qualcuno pestasse lo scorpione, ma non mi pare sia successo) poi ancora, su un altro computer, un tale che si contorce in una specie di danza ricordando da vicino lo scorpione di prima (forse l’ha pestato lui). Insomma, nel complesso tutto fila che è una bellezza. Peccato per gli omoni. A proposito di acronimi. Raddoppiate GAM, otterrete GAM GAM, refrain di una vecchia canzoncina ebraica e ottimo ristorante Kasher appena fuori dal ghetto di Venezia. Sazia il corpo e non danna l’anima. Da provare. (Sestiere Cannaregio, 1122).

andrea ferrari da H, Fazi, 2008

“Marcel amava dormire. Si disponeva al sonno come altri si apprestano a un pasto eccezionale o a un incontro galante. Siccome non sentiva la sveglia- o meglio, la sentiva benissimo, ma poi la spegneva, si rigirava e riprendeva a dormire- si era fatto tentare da un annuncio pubblicitario su “L’Orient”: Faites vous réveiller par les anges.”


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MARCO BARONCELLI Entrambe, l’immagine (con cui lavoro) e la letteratura, rientrano in una categoria definita linguaggio. All’interno del linguaggio ci sono tante altre discipline che si rapportano con la letteratura, ma credo il connubio con l’immagine vada a compensare, forse più delle altre, qualcosa che all’altro manca, e viceversa. Interno Notte consiste in una serie di ritratti fatti a persone alle quali ho chiesto di darmi un libro che in qualche modo sentissero vicino e sul quale avessero sottolineato frasi da loro considerate importanti, da cui io, poi, ho scelto un brano da riportare sulla superficie della fotografia, scansionando la pagina e includendo anche i segni. La mia ricerca fonda sul cogliere un legame tra l’immagine visiva e l’immagine scritta, o meglio, l’intento è, attraverso l’oggettivazione della parola scritta, entrare nel merito di un intimo sentire oltrepassando i limiti dell’immagine fotografica in sé, andando cioè oltre l’apparenza della superficie. Certamente una frase, un concetto, non possono essere i mezzi per definire una persona, ciò nonostante possono però rilevarne un frammento della propria realtà interiore.

manuela cirino La pioggia, nel cortile dove la guardo cadere, scende con andature assai diverse. A poca distanza dai muri di destra e di sinistra cadono con maggior rumore gocce più pesanti, individuate. Qui sembrano della grandezza di un chicco di grano, lì di un pisello, altrove quasi di una biglia. Dalla grondaia attigua dove scorre con la contenzione di un ruscello infossato senza forte pendio, cade di colpo in un filo perfettamente verticale, grossolanamente intrecciato, fino al suolo dove si rompe e rimbalza in aghetti brillanti. Ogni sua forma ha un andamento particolare; a ognuna corrisponde un rumore particolare. (Estratto dal testo La pioggia di Francis Ponge, contenuto nel libro Il partito preso delle cose, Giulio Einaudi Editore, 1979).


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racconto

occasioni perdute Giusto poche parole: per dire che Torino, città dove come sappiamo si è anche investito molto per l’arte contemporanea nel corso degli ultimi lustri, ha gettato al vento occasioni uniche e purtroppo irripetibili.

T

ra i miei ricordi più belli, per esempio, la mostra Fresh Kills di Paolo Grassino, organizzata nel 2004 dalla Galleria Persano con la collaborazione dell’architetto Zucca in via Bologna, negli spazi della ex Nebiolo, fabbrica di caratteri tipografici e rotative costruita in stile funzionalista nei primi anni Venti del Novecento. La vecchia struttura industrale, invasa e trasfigurata da una vegetazione spontanea cresciuta in modo selvaggio e lussureggiante, costituiva un patrimonio architettonico notevolissimo nel contesto di un quartiere in cui l’industria aveva segnato tante vite, entrando di fatto nella memoria collettiva dei cittadini. Inoltre i bambini e gli adolescenti della zona non disponevano di spazi in cui trovarsi al di fuori dell’orarrio scolastico: e proprio da una scuola era partita l’idea di una petizione rivolta all’amministrazione della città per salvare la vecchia fabbrica e farne un luogo dove fosse possibile immaginare un futuro a partire dalle

vestigia del passato: è noto come in Europa, dalla Ruhr a Londra passando per Zurigo e Berlino e innumerevoli altre realtà urbane post-industriali, tante vecchie fabbriche abbiano trovato nuova vita grazie a un’opera di riciclaggio che le ha fatte diventare luoghi di cultura, e dunque spazi dove hanno trovato posto gallerie e musei, biblioteche e teatri eccetera. Ma l’amministrazione della città non ha ritenuto di ascoltare le richieste dei cittadini di via Bologna e dintorni, e ha preferito seguire una strada diversa, che nella Torino di questi anni è purtroppo diventata una consuetudine. Perché a Torino, città il cui patrimonio architettonico industriale aveva pochi eguali nel resto del Paese, si è deciso di abbattere le fabbriche anziché di riciclarle e valorizzarle, per costruire condomini. Niente più mostre di arte contemporanea in via Bologna. Niente più spazi in cui immaginare un futuro a partire dal passato. E l’ex Nebiolo non è che un esempio tra tanti: si pensi innanzitutto a un patrimonio come quello della ex Michelin di via Livorno, vero e proprio gioiello dell’architettura industriale del Novecento, anch’essa rasa al suolo per far posto a nuovi condomini. Torino, ci hanno ripetuto ad nauseam in questi ultimi quindici anni, doveva trovare la sua nuova dimensione nella “cultura”. Ma la cultura, e dunque anche l’arte contemporanea, hanno bisogno di spazi. Spazi

il calzino rosso Al liceo, quando l’ho frequentato io, il ‘900 era inesistente.

I

n italiano il limite era Carducci, in storia il dramma di Adua, in filosofia Nietzsche. Nelle striminzite ore di storia dell’arte, sempre sacrificabili e sacrificate ai compiti in classe di latino e greco, pur tra sorvolamenti e omissioni ci si fermava (se andava bene) ai Macchiaioli. A noi della sezione A, con un professore spesso assente, era andata male, e ci eravamo arrestati al Canova. A me l’arte contemporanea incuriosiva e attraeva, ma non possedevo gli strumenti conoscitivi per capirla e apprezzarla: era troppo legata, molto più di quella del passato, alle contingenze politiche, ai movimenti culturali, agli scontri ideologici che a scuola non avevo studiato. (Mai creduto fino in fondo a chi dice che la fruizione dell’arte è un fatto spontaneo, che per capire non è necessario sapere, che basta lasciarsi andare con animo aperto e fiducioso per godere dell’abbraccio delle Muse.) C’erano i libri, certo, ma anche i libri –soprattutto

quando trattano della contemporaneità- hanno bisogno di chi ti aiuti a sceglierli, studiarli, sottoporli a critica. Insomma, i maestri ci vogliono, perché nessuno nasce “imparato” e pochissimi sono in grado di imparare da soli, senza suggerimenti e scambi dialettici. Io purtroppo non appartenevo alla schiera dei pochissimi. Così visitavo mostre e esposizioni museali, ma restavo perplessa, con l’unica certezza di sapere di non sapere, o meglio, di non capire, e di questa certezza sono grata ai professori del D’Azeglio, che oltre al resto, mi hanno insegnato l’arte del dubbio e la capacità di sospendere il giudizio. Poi, finalmente, ho incontrato il mio maestro, cioè mio marito, che di arte del ‘900 era un intenditore, organizzatore e critico e da allora ho cominciato ad appassionarmi. Le combustioni di Burri, i tagli di Fontana, le Amalasunte di Licini, le allucinate visioni di Tancredi, prima di loro tutto il Futurismo italiano e russo, l’espressionismo tedesco e in particolare le sconvolgenti tele di Schiele, e poi i grandi torinesi, il pop, l’arte povera, i concettuali… Il mio primo acquisto? Proprio di testa mia? Un grande

testo di giuseppe culicchia

veri, reali, non onirici, come per esempio la famosa nuova biblioteca civica del Bellini, progetto costato milioni di euro che a tutt’oggi pare irrealizzabile visti i debiti che gravano sulla città, mentre le biblioteche esistenti fanno i conti con una carenza di fondi che le obbliga a non acquistare nuovi libri e a ridurre gli orari di apertura al pubblico. E dire che gli spazi c’erano. Ed erano spazi importanti, che facevano parte della memoria storica della nostra città. Ma a Torino si è preferito fare una scelta in controtendenza rispetto a quanto accade nel resto d’Europa. E perfino il fatto che un edificio come il Palazzo del Lavoro di Pier Luigi Nervi diventi l’ennesimo centro commerciale passa per essere una buona notizia.

giuseppe culicchia da Ameni inganni, Mondadori, 2011

“È da una vita che aspetto questo momento. No, sbaglio. In realtà lo aspetto solo da quando avevo cinque anni, e sognavo che da grande avrei fatto l’astronauta. Da quel giorno d’inverno in cui anziché a Cape Canaveral venni portato al funerale della nonna. Quando la bara scomparve nella terra, chiesi a mia madre: tu non morirai, vero?”

testo di MARGHERITA OGGERO

specchio (240 x 120) di Pistoletto: Il calzino rosso, di cui mi sono innamorata alla prima occhiata. Desideri irrealizzabili? Tantissimi. Alla rinfusa: Le uova sul cassettone di Casorati, Il pino sul mare di Carrà, Nero brillante di Sam Francis (sta al Guggenheim di New York), un Jim Dine di straodinaria semplicità (Shoe, è o era di proprietà dell’artista ), un Boetti un Chia un Freud… E uno straodinario nudo di Modigliani, da starci davanti in contemplazione per ore, visto tanti anni fa da Bella Hutter, in quella sua grande casa con la terrazza-giardino alta sui tetti di Torino.

margherita oggero da L’ora di pietra, Mondadori, 2011

“La zia scaduta non è buona e neppure cattiva, più che tutto è scontenta e qualche volta arrabbiata. Io sono so come sono, so soltanto che vorrei non essere io ma un’altra persona e avere un’altra vita.”


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carol rama Le malelingue (N.I.8), 1998, acquatinta su base foto incisa su zinco, 305x230 mm, courtesy Franco Masoero


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racconto

GAS testo di elena varvello

Vorrei raccontarvi una cosa: c’è un uomo, un uomo che sta trafficando accanto a una pompa di benzina. Indossa un paio di pantaloni scuri, una camicia bianca, un gilet e una cravatta nera.

D

i fronte a lui, una curiosa, bassa costruzione, più simile a una chiesa in miniatura, dentro cui la luce è accesa; lì accanto, un palo in cima al quale svetta un’insegna. Alle spalle dell’uomo, la strada – una bordura d’erba secca, che pare piegata dal vento – e, più in là, il bosco, alberi fitti e impenetrabili che si perdono nel buio oltre la curva della strada. Il buio: terribile e meraviglioso. La luce accesa nella bassa costruzione bianca, il modo in cui si riverbera all’esterno, e lui, esattamente al centro, le spalle al bosco, in abiti curiosi per un uomo che lavora in una stazione di rifornimento. Lui, e nessun altro. Non una macchina, nessuno che percorra la strada, muovendosi verso il buio o provenendo dal buio. Guardo l’uomo, lo guardo a lungo, lo guardo da anni, colma di stupore, e ogni volta mi domando: “Chi sei? Cosa stai aspettando? Cosa sta per accadere? Cosa sta per accaderti?”. Perché continuo a pensare che qualcosa stia per accadere. Continuo a pensare che questo sia soltanto l’inizio. L’inizio di una storia. Continuo a pensare che il quadro – perché di un quadro si tratta, ma questo l’avete capito, immagino. Gas. Edward Hopper. 1940: sono certa che lo conosciate – racconti una storia. Una storia che non accade mai. Una storia che non comincia mai, ma che è sempre sul punto d’iniziare. Un’attesa inesauribile, quindi, destinata a non compiersi, a non trovare soluzione né risoluzione. Dunque, per me, per quanto mi riguarda, una storia perfetta, che conserva il massimo grado di ambiguità possibile, il massimo grado di mistero, che custodisce tutti gli sviluppi possibili e tutti i possibili finali. Tutte le domande a cui un narratore tenta di rispondere, quando racconta una storia: cosa sta per succedere? Come andrà a finire? Qual è il segreto annidato nel cuore di ogni storia? Raccontare una storia, che poi è il mio mestiere, ha a che fare con questo. Guardo l’uomo come guarderei il personaggio di un racconto. Guardo il quadro come guarderei la scena di un racconto, una scena da cui potrei partire. Il quadro è una

visione, e insieme è pura narrazione congelata in un istante, in un inizio aperto e senza fine. Mostro il quadro, quando mi si chiede di ragionare sul mio mestiere, di ragionare sulla scrittura, sulla narrazione. Quando mi si chiede cosa faccio, in cosa consista il mio mestiere. Leggo un racconto e poi, di solito, mostro il quadro. Dico: “Provate a immaginare cosa può succedere, adesso. Ascoltate. Per caso sentite il rumore di una macchina? Una macchina che sta arrivando?” Perché io la sento. La sento arrivare da anni. Da anni immagino che si fermerà alla stazione di servizio, poco prima che l’uomo se ne vada. Cosa rappresenta il bosco? Cosa rappresenta il buio? E la luce accesa dentro la bassa e curiosa costruzione? Be’, trovo meraviglioso il fatto che continuerò a chiedermelo ancora, come, d’altra parte, continuiamo a porci domande, no?, di fronte alle grandi narrazioni. Raccontare una storia, per me, ha a che fare con quel bosco. Ha a che fare con quel buio e con quell’attesa. Con quell’uomo. Il suo curioso abbigliamento. Il fatto che stia per arrivare una macchina. Il fatto che forse l’uomo stia per voltarsi verso i fari accesi della macchina. Il fatto che senta la macchina arrivare, così come la sento io. Il fatto che possa pensare qualcosa che non mi è dato sapere, ma solo immaginare. È proprio questo il punto. È questo che volevo raccontarvi.

elena varvello da La luce perfetta del giorno, Fandango Libri, 2011

“La prima volta, l’inizio, è un tardo pomeriggio di ottobre - la luce è un orlo rossastro, un lembo di cielo spoglio all’orizzonte contro cui premono nuvole scure e pesanti. Il posto si chiama Croci, ed è molto diverso, adesso, da com’era allora, un piccolo centro abitato circondato da boschi e da campi di granturco.”


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PETER WUTHRICH Bookbutterfly, 2009, ritagli da copertine di libri, cm. 100x70 (le farfalle sono ritagliate da copertine di libri scientifici sulle farfalle di una determinata zona climatica). Peter ritaglia le copertine dei libri in forma di farfalla. Esse sono tutte di dimensioni diverse e diversi sono i colori, i testi, la grafica e la teca è in realtà anche una biblioteca: un’immagine rinvia all’altra, un livello ne prevede il successivo.

ketty la rocca

MERI GORNI In tutte le mie immagini (disegni e fotografie), c’è un libro. Il libro è un compagno silenzioso , un appoggio, un luogo capace di placare l’ansia di una risposta, sa rammendare un vuoto, tenere in pugno chi legge. Mi ha sempre affascinato l’intreccio tra la vita e i romanzi. Ogni romanzo è un frammento di un universo al quale noi stessi apparteniamo. (dal libro-catalogo di Meri Gorni Ti mando, come promesso, il mio ritratto, Archivio di Nuova Scrittura, 2009)


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racconto

IO ODIO L’ARTE CONTEMPORANEA testo di alessandro Perissinotto

Questa è “scrittura concettuale”. Non capite? Ve lo spiego.

E

faccio l’esperto, cito Sol LeWitt: « Nell’arte concettuale l’idea o concetto è l’aspetto più importante dell’opera. Quando un artista usa una forma concettuale d’arte, vuol dire che tutta la pianificazione e le decisioni sono prese prima e l’esecuzione non è altro che un affare superficiale. L’idea diventa una macchina che crea l’arte. » Non ho fatto molta fatica a trovarla questa citazione, è la prima che compare cercando “arte concettuale” su Wikipedia. E poi, perché dovrei sbattermi per cercare qualcosa di più raffinato? È l’idea che conta, l’esecuzione, la messa in atto di quell’idea è solo una questione superficiale, non conta che io scriva, basta l’idea e l’idea è questa: io odio l’arte contemporanea. Vado ancora avanti con Wikipedia: “Si definisce arte concettuale qualunque espressione artistica in cui i concetti e le idee espresse siano più importanti del risultato estetico e percettivo dell’opera stessa. Vi elenco tre idee per i miei futuri romanzi: un uomo si innamora della cameriera di un bar, ma, quando richiede i documenti per il matrimonio si accorge che è sua sorella; una giovane coppia compra una casa isolata, ma, fin dalla prima notte, i due sentono rumori strani e strazianti provenire dal sottotetto: fantasmi o roditori importuni? (il finale è aperto); due calciatori di serie A vivono, tra loro, una bellissima storia d’amore, ma quando uno dei due viene venduto a Real Madrid, il rapporto entra in crisi: sarà un incidente di gioco a far ritrovare loro la gioia di stare insieme. Ecco tre idee, ma no, cosa dico? Tra l’idea e l’opera non c’è alcuna differenza, dunque eccovi tre romanzi, tre romanzi concettuali: me li pagate subito i diritti d’autore o volete parlare con il mio agente? E pensate a quanto è agevole girare dei “film concettuali”: niente attori, niente macchine da presa, niente sala cinematografica. Agli spettatori paganti viene consegnato un biglietto con sopra scritta l’idea di fondo del film. L’importante è che i soldi non siano solo concettuali; pare che questo abbia avuto un certo peso anche per i gran-

di esponenti dell’arte concettuale: chissà perché ai loro compratori chiedevano di firmarli gli assegni? Non bastava l’intenzione? Perché quando si parla di assegni l’atto realizzativo non è una mera questione superficiale? Ma poi, perché continuo a scrivere questo articolo? Questo è giornalismo concettuale e l’idea l’ho già espressa: io odio l’arte contemporanea. Se volete la ribadisco in dettaglio. La “merda d’artista” mi fa andare di corpo, è un effetto di empatia. Quando vedo le tele di Fontana mi viene voglia di prendere la Singer: rammendare gli strappi di Fontana non può essere arte? La Tate Modern mi fa vomitare, per fortuna basta sporgersi dalla balaustra del Tamigi proprio lì davanti. Scandalo: perché mai questo giornale ospita un intervento così corrivo, così pietosamente demagogico? No, state al gioco, questa è una provocazione passatista, è arte! No, non ci caschiamo, tu l’arte non la capisci. Non è vero, una volta l’ho capita. Avevo fatto un viaggio nei Paesi Baschi e avevo visto Guernica, la cittadina intendo: avevo provato a immaginare i rombo degli aerei, le bombe che cadevano, le urla della gente, ma non ero riuscito a sentire nulla o quasi. Poi ho fatto scalo a Madrid, mezza giornata, il tempo di un giro al Museo Nacional Reina Sofia: ho visto Guernica, il quadro; per dieci secondi, per un minuto, per cinque, per un quarto d’ora, immobile, la schiena appoggiata al muro di fronte, e ho pianto.

Alessandro Perissinotto da Semina il vento, Piemme, 2011

“Mio padre mi dice che, prima o poi, ci si abitua, dice che un giorno entri, fai quello che devi fare, poi esci e, nello spazio di un gesto qualsiasi, mentre metti in moto la macchina o mentre ti soffi il naso, ti accorgi che non hai provato nulla.”


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NICOLA PONZIO Penso sia impossibile slegare il libro come oggetto dalla promessa che veicola attraverso la scrittura. Con i libri che amo si instaura un rapporto affettivo, confidenziale, legato anche alla qualità del manufatto, alla grafica, alla consistenza e all’odore della carta, alle immagini della copertina. Quasi un’identificazione tra il contenitore e il contenuto, tra l’oggetto l’opera e l’autore. Nonostante l’era digitale il libro rimane una specie di feticcio, un talismano in grado soltanto con la sua presenza di evocare idee, storie, letteratura, poesia.

SABRINA MEZZAQUI “… Seguendo l’esempio dei semplici pallottolieri per bambini, si costruì un telaio con alcune dozzine di fili tesi sui quali poteva allineare perle di vetro di diversa grandezza e forma e di diverso colore. I fili corrispondevano al rigo musicale, le perle alle note, eccetera. Così con perle di vetro formava citazioni musicali o temi inventati, li modificava, li trasponeva, li sviluppava, li modulava o vi contrapponeva altri temi… … Un giuoco poteva, per esempio, prendere le mosse da una data configurazione astronomica o dal tema di una fuga di Bach o da una tesi di Leibniz o dalle Upanishad, e da questo tema, a seconda delle intenzioni e dell’ingegno del giocatore, l’idea conduttrice che ne era evocata poteva o continuare e ampliare la sua espressione o arricchirla con reminiscenze di idee affini…” (Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, ed. Mondadori).


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GREGORIO BOTTA Io lavoro spesso con l’acqua, e Bachelard scrive che c’è un nesso segreto tra l’acqua e la scrittura: entrambe scorrono, segnano una direzione nello spazio e nel tempo, si vestono degli stessi nomi e aggettivi, sono fluenti, sono chiare od oscure, e le fonti o sorgenti non definiscono solo l’origine di un torrente, ma anche il carattere tipografico. La scrittura può essere fluviale. I fiumi generano mondi fertili, irrorano le civiltà che nascono sulle loro rive. Le parole generano altri mondi. Quando apri un libro cominci un viaggio in una terra incognita che viene rigenerata ogni volta dall’incontro tra le parole dello scrittore e la mente del lettore. Acqua e terra.

MAURA BANFO A che serve un libro, pensò Alice, senza figure né dialoghi? Leggere è vivere, sognare, anche attraverso gli occhi di un altro. I libri sono magici. Profumano. Quell’odore di carta appena stampata che ti apre i polmoni. Che al tatto trasmette sensazioni impossibili da trasformare in parole. La necessità di raccontare è uno dei desideri ancestrali dell’umanità. Narrare una storia è la più grande invenzione dell’uomo. Non potrei vivere senza libri.



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extra

profumi di libri testo di davide ferraris e DAVIDE RUFFINENGO

“No signora, non sono ricco di famiglia, questo è proprio il mio lavoro!” “Si, penso che una libreria in Vanchiglietta fosse proprio quello di cui il quartiere aveva bisogno” “E’ vero, qui non c’è mai stata una libreria. Si, forse c’è un motivo, ma se non proviamo non lo scopriremo mai” E poi ancora “non prestiamo i libri”, “le sigarette le trova dal tabaccaio qui di fronte”, “non abbiamo carta da pacchi”. Questa cosa del vendere libri suscita diverse reazioni: da chi ha una sincera preoccupazione per la tua sopravvivenza a chi proprio non si spiega cosa ti sia venuto in mente di fare, che Vanchiglietta non è certo il posto adatto per questo genere di cose. Eppure io non ci ho mai visto nulla di stravagante. A vent’anni mi guadagnavo qualche soldo facendo i pacchetti al Melograno, a 27 gestivo la Città del Sole-Libreria 2000, a 32 inorridivo al trovare le Lettere luterane nel settore religione di una grande libreria di catena: così, una volta messo a posto Pasolini, ho pensato che ora toccava trovare un posto anche a me, perchè li davvero non ci potevo stare. Ed è nata Thérèse, prosecuzione naturale della mia esperienza, aperta a Giugno 2007 e dedicata a un personaggio della letteratura che ho amato visceralmente: non dico di chi si tratta, altrimenti userei a giustificare tutto lo spazio su questa pagina, dirò solo che qualunque sia la Therese che intende chi entra in negozio, per me va bene, non sono geloso. Therese è piccola, credo accogliente, incastrata tra la Mole e Superga e vende i libri che scelgo, non uno di più non uno di meno; certo, deve sopravvivere, così capita di trovarci il Papa, Vespa e Dan Brown, ma le storie che amo proporre non guardano classifiche, editori importanti o mostri sacri. Mi sento, in una parola, indipendente. “Mi da un consiglio?” “Certo, mi dica un libro che le è piaciuto tantissimo”. Comincia sempre così. Si parla da Therese, e si racconta. Lo faccio io che ho imparato a fare il libraio in questo modo e non saprei farlo diversamente e lo fanno i clienti, forse per contagio, o forse perchè i propri incontri è bello condividerli. Dev’essere per questo che un pomeriggio è entrato Davide Ruffinengo. Un libraio itinerante nella mia testa è qualcuno che gira mercati con la sua bancarella: “ah, un ambulante!” ho detto io, il suo viso si è fatto viola e ho capito che la mia definizione non doveva essergli piaciuta tanto. Poi abbiamo cominciato a raccontarci e da quel pomeriggio non ci siamo più separati: la mia libreria è diventata la nostra, il suo progetto il nostro. Mi ha insegnato a fidarmi della voce, a portare fuori quelle storie che mi era così facile raccontare tra le mura di casa mia ma che faticavano a uscirne, ha vinto la mia naturale

timidezza. Ora salgo sulla book car ogni volta che qualcuno vuole un consiglio di lettura, i primi minuti sono i più difficli, quelli in cui le remore tornano a farsi vive poi mi sciolgo, guidato dal nostro sogno comune, quello di promuovere la lettura, prima di tutto come piacere, irrinunciabile. In 15 anni tra i libri ho cambiato lavoro molte volte, ho percorso alcune delle migliaia di chilometri che il mio socio macina ogni giorno e ho capito che la nostra non è una professione, è un mestiere: si fa con le mani, che portano scatole, con la pancia, che vomita storie e con le gambe, che servono a camminare. (Davide FERRARIS)

La Libreria Profumi per la Mente è una storia di riscatto. Come direbbe l’amico Carlton McGill Leggere storie è curare il tempo, a piccoli sorsi. Così ho riscattato il mio tempo, leggendo. La mia scelta non ha alcun legame con la passione: vivere di libri è qualcosa che si avvicina alla necessità. Profumi per la Mente nasce ad Asti in quella torrida estate del 2003. Il primo riscatto fu realizzare un disegno impossibile. In quel periodo le banche investirono del denaro per comunicare a noi giovani quanto credessero nelle nostre idee. La realtà ridimensiona il sogno e così seduto in quell’ ufficio al mio dettagliato progetto si sovrappose una perizia asseverata della casa sul Gargano ereditata dai miei genitori. La vista sul mare non fu sufficiente per raggiugere l’obiettivo. Capii subito che questo è un paese che offre formazione agli eroi: per costruire qualcosa devi essere un paladino della motivazione e il tuo sogno deve essere ragione di vita. Altrimenti non ce la fai. Nella cantina letteraria di via Brofferio passarono tre anni di rara intensità: le tante presentazioni con gli scrittori, le favole, le mostre di Tino Stefanoni, Daniele Fissore e la Cracking Art, le letture ad alta voce con degustazione di barolo chinato. Primavera 2006: dopo mille giorni passati in libreria senza soluzione di continuità una riflessione si presentò sulla mia scrivania. Il bottino più sostanzioso dell’esperienza astigiana non era certo il denaro; il margine di guadagno e il coefficiente di difficoltà rendono questo mestiere una missione laica. Il vero patrimonio sono state le relazioni con le persone, l’affetto e la disarmante partecipazione al progetto. E così aprii un cantiere creativo: studiai lo strano

mercato dei libri determinato da un’offerta straripante che non considera l’inappetenza dei suoi interlocutori e osservai con attenzione i miei faticosi tentativi per avvicinare i lettori. Analizzai i limiti demografici e logistici di un territorio provinciale e la relativa mentalità; compresi che le persone hanno poco tempo per la libreria e che molti neanche ci pensano a dialogare con un libraio. Con la complicità di un carattere movimentato decisi che bastava fare il contrario: invece di aspettare i lettori nel tradizionale negozio, avrei portato fuori la libreria e quel dialogo sui libri. Anche la libreria itinerante è una storia di riscatto. E’ stato difficile spiegare cosa intendessi per libraio a domicilio, è stato faticoso comunicare l ‘obiettivo di portare i libri dove non ci sono. L’idea ha preso forma rapidamente. E’ piaciuta. Incontrare uno scrittore in una casa di campagna mentre ti cucina la panissa, giocare a pallone con la nazionale scrittori in un piccolo borgo dell’astigiano, parlare di libri nel proprio ufficio in pausa pranzo, simulare una libreria virtuale su Primaradio, raccontare favole ai bambini e aneddoti librari a domicilio e sempre su appuntamento, mai a sorpresa. Vendere libri è un compito arduo ma credo che la letteratura sia l’arte del possibile come scrive Bjorn Larsson in Otto personaggi in cerca (con autore) edito da Iperborea. Un giorno quest’arte del possibile diventò realtà: organizzavo una piccola rassegna con Duccio Demetrio, Marco Malvaldi e Simone Perotti, siccome nessuno di loro è piemontese pensai di coinvolgere dei colleghi per trasformare una presentazione in un piccolo tour. Ne parlai con la giornalista Silvia G. - per lei un grazie permanente - che mi consigliò una nuova libreria in corso Belgio, enfatizzando la gentilezza del libraio. Composi lo 011882631. Dopo poco mi ritrovai a leggere una frase appesa in libreria: Che se ne fa di tutti quei libri ? Come se potesse leggerli tutti in una volta... e sentii un alto tasso di letteratura, la sensazione che in quel luogo si leggesse per necessità e non per passione. Incontrai così Thérèse, Davide Ferraris e la loro unicità. Scoprimmo di avere in comune il mestiere, l’esigenza di conoscere nuove storie, il nome, il 1975 e un secondo cuore, granata, cucito sul petto. L’incontro con Thérèse è stato un nuovo riscatto, il tempo in cui la cicatrice diventa forza, coraggio e voglia di ricominciare ancora. Come nelle favole Profumi per la Mente ha trovato una casa. Per osmosi il libraio stanziale ogni tanto esce dalla libreria tradizionale: Il libraio suona sempre due volte è il nostro modo di portare in giro le storie che ci piacciono, la voce dei librai e la battaglia dei librai indipendenti, consapevoli - come diceva Morley - che Quando si vende un libro a una persona, gli si vende un’intera nuova vita. (Davide ruffinengo)


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stefania ricci La copertina del libro e’una porta, varcarla significa vivere una realta’ parallela con spazio e tempo propri, una volta richiusa rimangono le sensazioni, i profumi, i ricordi. Il libro e’ uno spazio di creativita’ sia per chi scrive che per chi legge, è una vacanza da se stessi.

anna maria maiolino Traiectory I, Livros Objetos (Book Objects), serie, 1976 immagine tratta dal Catalogo Anna Maria Maiolino, Order and Subjectivity, Pharos Centre of Contemporary Art.


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ESTER VIAPIANO Racconti di carta . Le pagine di tre libri compongono il lavoro. Acid House di Irwin Welsh, La Nausea di Sartre, La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, una sorta di smontaggio e rimontaggio del segno, in cui prendono vita piccole sculture che nella loro forma rendono visibili suggestioni e significati. Le parole diventano immagine, il testo sembra muoversi, come ologrammi alcune figure fuoriescono dalla battuta del testo di cui sono composte. Quando leggiamo, non è solo il racconto a risuonare, ma l’eco della parola visualizza immagini. Io cerco di bloccare quelle immagini con una struttura che inganna l’occhio. La scelta di questi tre romanzi è avvenuta per la loro capacità evocativa. La lettera Scarlatta avrà come testo un ruolo importante, per il racconto ed il significato psicologico attribuito al segno (A) elemento portante della storia.

the INFINITE LIBRARY www.theinfinitelibrary.com: il sito si apre sul doppio cerchio incrociato del segno dell’infinito. Piccolo e nero in alto a sinistra. Clicchi e arrivi a una tavola di numeri compresi da 1 a 40. Sono i libri speciali che compongono il progetto The Infinite Library, a cui i due artisti Daniel Gustav Cramer e Haris Epaminonda hanno dato vita nel 2007.

Un’operazione artistica in cui l’arte contemporanea si sposa con l’idea di libro e con la dimensione dell’editoria. Un catalogo che è in continua espansione, volumi fatti di altri libri, lavori artistici che mescolano saperi e immaginari diversi, parole e immagini, incrociandoli, assemblandoli a livello di senso e allo stesso tempo fisicamente. Cramer ed Epaminonda sono felici quando si parla del progetto, ma preferiscono che a scrivere siano altri, per mettere in azione quel movimento di immagine che produce pensiero e scrittura, che è il vero motore di tutta l’operazione.


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svago

la ricetta del mese

a cura di Alexandre Dumas

les madeleines

C’era uno scrittore che era un cuoco, un goumard e un gourmet, un mangione e un fine intenditore. Un uomo onnivoro di bellezza e di gusto, della vita che si fa letteratura e cibo cucinato e impiattato. Alexandre Dumas non ha eguali, ma epigoni, nei molti scrittori che si dilettano di cucina. L’autore di Il conte di Montecristo e de I tre moschettieri diceva :”Voglio concludere la mia opera letteraria in cinquecento volumi con un libro di cucina”, e così fece, mettendo mani al monumentale Grand dictionnaire de cuisine, pubblicato postumo nel 1873 dall’editore Alphonse Lemerre e oggi in circolazione in Italia nella bellissima edizione di Sellerio. Tremila ricette che ripercorrono continenti e millenni di umanità, in una miscellanea dove, tra gli ingredienti dei vari piatti, si fondono storia, geografia, scienza, tradizione, antropologia, aneddotica, etnografia, mito e letteratura. E’ un gran piacere sfogliare il dizionario che vola dall’Africa all’Europa all’Asia, tra nomi familiari e altri esotici e sconosciuti. Decine di potage e salse di tutti i tipi, carni di pellicano, usignolo, armadillo, elefante e delfino e poi apar, cabelan, osmazoma, salep, zander... Cosa scegliere in questo universo rutilante? Abbiamo pensato a un dolce, quel sapore che piacevolmente accompagna la lettura di un libro, acuendo la concentrazione e insieme la fantasia. E per fare un altro salto, quale ricetta più adatta delle madeleines, dolcetti di proustiana memoria?

buonumore

Per quanto riguarda l’eccellente dolce chiamato anche Madeleine, che merita una grande attenzione per la reputazione che gode, è l’artefice di una piccola avventura capitata a un nostro amico e che raccontiamo. Alcuni anni fa, uno dei nostri amici, recandosi da turista a Strasburgo, si fermava volentieri per riposare e anche per osservare i diversi usi e costumi degli abitanti in ogni città o villaggio che attraversava. Un giorno si mise in viaggio più tardi, pensando di arrivare nella città successiva prima che facesse buio per sostarvi. Lungo il cammino non intravide traccia di nessuna abitazione; solo verso le undici, scorse al chiaro di luna la sagoma scura e slanciata di una chiesa. Intorno tutto era nero e silenzioso, nessuna luce brillava; il nostro viaggiatore era molto preoccupato, soprattutto per non aver trovato una buona tavola per rifocillare lo stomaco e un letto per riposare le membra stanche dalla fatica. All’improvviso, scorse nel buio una luce che sembrava provenire da terra; si diresse verso quella luce, la sola che vide e che per lui rappresentava la salvezza. Bussò alla porta da dove usciva quel bagliore che gli faceva battere il cuore. Gli rispose un grugnito. Bussò nuovamente, ma questa volta più forte, e udì allora una voce strana e cavernosa rispondere: “Chi siete, cosa volete?” “Sono un viaggiatore stremato dalla stanchezza e dalla fame, apritemi, per favore, non ve ne pentirete”. Sentì dei passi avvicinarsi alla porta, venne tirata una pesante sbarra di ferro, la porta si aprì e vide apparire un uomo dall’aspetto selvatico imbrattato di farina, la cui barba e i capelli ispidi contribuivano a rendere il suo aspetto ancor più spaventoso; l’uomo era nudo dalla cintola in su. “Via, entrate e sbrigatevi!, disse al viaggiatore con voce cavernosa. Il nostro amico non si sentì molto rassicurato, e per un istante pensò di tornare indietro e andare a bussare ad un’altra porta, ma l’uomo aveva rimesso alla porta la sbarra di ferro ed egli non ebbe il tempo di indietreggiare.

di Stefania Sabatino

Entrò in una grande stanza dove un immenso forno acceso illuminava ogni angolo. “Scusate signore” disse il viaggiatore garbatamente, “ho percorso sedici o diciotto leghe, senza mangiare. Potete procurarmi, pagando beninteso, qualcosa per placare la fame e una stanza per far riposare il mio corpo?”. “Non ho che il mio letto” rispose l’uomo rudemente. “Per quanto riguarda il mangiare, non manca, sempre che sia di vostro gradimento”. “Mi piacerà tutto, purché mangi. Che cosa avete da offrirmi?”. L’uomo si diresse verso un armadio, lo aprì e tirò fuori una piccola scodella con dentro circa dodici dolci di forma ovale e di un bel colore dorato. “Prendete”, disse al viaggiatore, “mangiatene e ditemi cosa ne pensate”. Poggiò la scodella sul tavolo che si trovava accanto al viaggiatore e, posando le mani sui fianchi, lo guardò. Il nostro amico prese un dolce e lo morse a pieni denti e in un istante lo divorò interamente; ne prese un secondo, poi un terzo, un quarto e ogni dolcetto che mangiava l’uomo lo guardava sorridendo con soddisfazione. Infine quando nella scodella non rimase più un solo dolce, gli disse: “Che cosa ne pensate delle mie madeleines?” “Da bere, prima” disse l’ospite con voce strozzata. L’uomo si diresse verso l’armadio e prese una bottiglia coperta da un venerabile strato di polvere, la stappò, poi prese due bicchieri, li riempì e ne porse uno al viaggiatore. “Bevete, non voglio che vi strozziate con i miei dolci”. Lo straniero bevve d’un fiato. Era eccellente vino di Bordeaux. Poi tenendo il bicchiere disse: “Alla vostra salute buon uomo, mi avete fatto fare uno dei migliori pasti della mia vita. Ma ditemi, qual è il nome di questi deliziosi dolci?” L’uomo, meravigliato, rispose: “Come, non conoscete le madeleines di Commercy?” “Sono dunque a Commercy?” “Sì, e avete gustato senza dubbio i migliori dolci del mondo”. Senza parteggiare interamente l’entusiasmo del brav’uomo per i suoi dolci, il viaggiatore fu costretto a confessare che erano eccellenti

e che aveva mangiato bene. L’uomo gli offrì allora il proprio letto. Al risveglio, fece una colazione più sostanziosa della cena della sera precedente; ciò non gli impedì di fornirsi di una certa quantità di madeleines che il brav’uomo lo forzò ad accettare in ricordo della paura che gli aveva fatto inizialmente prendere e per la cattiva notte trascorsa. *** Ecco ora una ricetta di Madame Paumier, pensionante e anziana cuoca di Mme Perrotin de Barmond. Grattugiate su un pezzo di zucchero la scorza di due piccoli cedri (o di due limoni o di due melangole), pestate lo zucchero molto fine, mescolatelo con altro in polvere, pestatene nove once, che metterete in una casseruola con otto once di farina stacciata, quattro tuorli e sei uova intere, due cucchiai di acquavite di Andaye, un po’ di sale e mescolate con una spatola. Quando la pasta è legata, lavoratela ancora per qualche minuto. Questa regola è di rigore se si vogliono ottenere delle belle madeleines, altrimenti se il composto è lavorato di più, i dolci richiedono una più lunga cottura con il risultato di renderli più duri e il risultato di farli attaccare agli stampi, e l’aspetto che ne risulterebbe sarebbe misero. Subito dopo, chiarificate in una casseruola dieci once di burro di Isigny; man mano che bolle, schiumatelo. Quando non spumeggia più, vuol dire che è chiarificato, quindi, versatelo in un’altra casseruola, imburrate altri otto stampi e procedete così fino ad arrivare a 32 stampi imburrati. Non bisogna capovolgere gli stampi dopo averli imburrati, poiché devono conservare il poco burro che si raccoglie nel fondo. Mischiate quindi il burro all’impasto e cuocete a fuoco dolce; scuotete leggermente il composto in modo che non si attacchi alla pentola, e quando comincia ad essere liquido ritirate dal fuoco. Prima che diventi freddo riempite gli stampi con un cucchiaio di questo composto e infornate a fuoco moderato.


N째6 MAGGIO 2011

pubblicazione gratuita / Mensile / Anno I / Numero 6

Numero Speciale con scritti di: Giuseppe Culicchia, Alessandro Defilippi, Gian Luca Favetto, Andrea Ferrari, Davide Longo, Margherita Oggero, Alessandro Perissinotto, Elena Varvello


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