Artribune Magazine #54

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#54 MARZO L APRILE 2020

centro/00826/06.2015 18.06.2015

ISSN 2280-8817

ARTRIBUNE MAGAZINE

CONTIENE L'INSERTO

Cronache, riflessioni, consigli editoriali e ricadute economiche nell'epoca del contagio.

Da Città del Messico a Mérida, un viaggio all'insegna della scoperta e dell'impronta femminile.

Da 50 anni l'arte ci invita a rispettare il pianeta. A che punto siamo con il disastro ambientale?

CORONAVIRUS

REPORTAGE DAL MESSICO

CLIMATE CHANGE

ANNO X




#54 Columns

DIRETTORE Massimiliano Tonelli

8 L PHOTO ROOM Emilia Giorgi Giovanna Silva

DIREZIONE Marco Enrico Giacomelli [vice] Santa Nastro [caporedattrice] Arianna Testino [Grandi Mostre] REDAZIONE Irene Fanizza Claudia Giraud Desirée Maida Helga Marsala Roberta Pisa Daniele Perra Giulia Ronchi Valentina Silvestrini Valentina Tanni Alex Urso Alessandro Ottenga [project manager] PUBBLICITÀ & MARKETING Cristiana Margiacchi / 393 6586637 Rosa Pittau / 339 2882259 adv@artribune.com Arianna Rosica a.rosica@artribune.com EXTRASETTORE downloadPubblicità s.r.l. via Boscovich 17 - Milano via Sardegna 69 - Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it

16 L Massimiliano Tonelli Cambiare tutto 17 L Renato Barilli

Biennale 2021. Consigli per Cecilia Alemani Aldo Premoli Streetstyle senza barriere

18 L Christian Caliandro L’arte rotta

19 L Marcello Faletra

L’intrattabile Claudio Musso La posizione critica del critico

20 L Fabio Servolo

REDAZIONE via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma redazione@artribune.com

STAMPA CSQ - Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 - Erbusco (BS) DIRETTORE RESPONSABILE Marco Enrico Giacomelli

28 L SERIAL VIEWER Santa Nastro Russian Doll

29 L L.I.P. – LOST IN PROJECTION Giulia Pezzoli In mani sicure (Pupille)

30 L OSSERVATORIO CURATORI Dario Moalli Giovanni Paolin

32 L LIBRI

Marco Petroni & Marco Enrico Giacomelli La comunità delle immagini et al.

35 L DIGITAL MUSEUM Maria Elena Colombo 36 L DURALEX Raffaella Pellegrino

Circolazione dell’opera d’arte e autenticità

38 L NUOVI SPAZI Massimiliano Tonelli

News

22 L LA COPERTINA Tatanka Journal con

Ferdinando Spagnolo

24 L TALK SHOW Santa Nastro

COMMUNICATIONS

Roberta Vanali Walter Larteri

Katie Price

Laura Krifka

Chiuso in redazione il 4 marzo 2020

27 L LABORATORIO ILLUSTRATORI

21 L Mariasole Garacci

23 L OPERA SEXY Ferruccio Giromini

Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011

Dalla Cina, il disco-design di Passepartout Duo

34 L APP.ROPOSITO Simona Caraceni

Panic

EDITORE Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma

26 L ART MUSIC Claudia Giraud

Scrivere la protesta: quando la tipografia parte dai fatti

Coronavirus. Il turismo e la zona rossa Fabio Severino Musei e ristorazione a Roma

PROGETTO GRAFICO Alessandro Naldi

ARTE

ARTE

MARZO L APRILE 2020

Musei e collezioni: la sfida del presente

40 L GESTIONALIA Irene Sanesi EBITDA ergo sum

41 L TOP 10 LOTS Cristina Masturzo 42 L DISTRETTI Marco Enrico Giacomelli Milano. Anzi, Greco

44 L STUDIO VISIT Treti Galaxie Irene Fenara

COMMUNICATIONS


www.artribune.com

artribune

artribunetv

Stories

48 L Silvia Barbotto Forzano Il Messico al di là delle nuvole 56 L Maurita Cardone Emergenza? No, disastro

Ending

82 L SHORT NOVEL Alex Urso

Fumettibrutti

84 L RECENSIONI 86 L IN FONDO IN FONDO Marco Senaldi L’astuzia della (s)ragione

In apertura

66 Arianna Testino Punti di vista su Henri-Cartier Bresson

#21

copertina di Maurizio Ceccato

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Opinioni

68 Massimiliano Zane Non tutti i virus vengono per nuocere Antonio Natali E ora tocca a Raffaello 69 Stefano Monti Produzione di mostre ed export culturale Fabrizio Federici Mostre e musei: dall’“inimicizia” all’ibridazione

Percorsi

70 Santa Nastro Tra Abruzzo e Molise

Oltreconfine

72 Federica Lonati A Bilbao con Olafur Eliasson Grandi classici

74 Stefano Castelli Simone Peterzano maestro e allievo Dietro le quinte

75 Marta Santacatterina La luce e l’anima di Gaetano Previati Rubriche

76 C laudia Zanfi Arte e paesaggio Lorenzo Madaro Il museo nascosto 77 M arco Enrico Giacomelli Il libro Cristina Masturzo Aste e mercato Recensioni

78 S erena Tacchini Padova. ‘900 italiano Margherita Zanoletti Varese. Villa Panza

Questo numero stato fatto da: Alberto Arceo Silvia Barbotto Forzano Renato Barilli Laura Barreca Javier Barrera Sylvain Bellenger Tobia Bezzola Christian Caliandro Simona Caraceni Maurita Cardone Stefano Castelli Maurizio Ceccato Maria Elena Colombo Jorge Cortés Ancona Agnes Denes Piernicola Maria Di Iorio Marcello Faletra Roberto Fassone Nicoletta Favari Fabrizio Federici Irene Fenara Fumettibrutti Mariasole Garacci Marco Enrico Giacomelli Emilia Giorgi Claudia Giraud Ferruccio Giromini Christian Greco Newtown Harrison Matthieu Humery José Kuri Walter Larteri Marigusta Lazzari Federica Lonati Luca Lo Pinto Niccolò Lucarelli Lorenzo Madaro Desirée Maida Marco Marica Cristina Masturzo Osvaldo Menegaz Leonardo Merlini

Julio Millan Dario Moalli Stefano Monti Claudio Musso Valentina Muzi Santa Nastro Antonio Natali Virginia Negro NILS-UDO Raffaella Pellegrino Marco Petroni Giulia Pezzoli Aldo Premoli Letizia Ragaglia Sergio Risaliti Giulia Ronchi Patrizia Sandretto Re Rebaudengo Irene Sanesi Marta Santacatterina Marco Scotini Massimiliano Scuderi Marco Senaldi Fabio Servolo Fabio Severino Giovanna Silva Valentina Silvestrini Alan Sonfist Ferdinando Spagnolo Serena Tacchini Valentina Tanni Tatanka Journal Arianna Testino Antonello Tolve Massimiliano Tonelli Treti Galaxie Alex Urso Roberta Vanali Chiara Vorrasi Francesco Wurzburgher Massimiliano Zane Claudia Zanfi Margherita Zanoletti


June 18 – 21, 2020 Park Chan-kyong: Citizen’s Forest (2016), Art Basel in Basel, 2017 [Top]; Jeppe Hein: Appearing Rooms (2004), ART 37 in Basel, 2006, by Kurt Wyss [Bottom]


Two Thoughts / Svenja Deininger In dialogo con quattro opere di Władysław Strzeminski dal Museo Sztuki di Łódz 8 marzo – 26 luglio 2020 giovedì – domenica via Fratelli Cervi 66 42124 Reggio Emilia +39 0522 382484 info@collezionemaramotti.org collezionemaramotti.org


PHOTO ROOM MARZO L APRILE 2020

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EMILIA GIORGI [ curatrice ] #54

oma, 1980: Eleonora Giorgi scende da un taxi a Piazza Mincio. È notte fonda, una goccia di sangue appare sulla sua mano. Questa celebre sequenza del film Inferno di Dario Argento è la mia prima occasione di conoscenza del Quartiere Coppedè. Da lì, questo sperimentale quanto autonomo brano di città – acquisito nel 1916 dalla Società Anonima Cooperativa Edilizia Moderna e interamente progettato dall’architetto fiorentino Gino Coppedè – resta chiuso nel mio immaginario come un misterioso paesaggio dell’occulto. Un paesaggio ideato e costruito secondo un piano urbano rigoroso che ne interpreta e definisce anche il più minuto dettaglio, in una vertigine di decorazioni che si moltiplica in ciascun elemento, dalle strutture architettoniche fino agli arredi. Un quartiere che si estende per 31mila mq come un corpo unico e molteplice al contempo, tracciato da edifici fortemente eterogenei ma connessi (anche fisicamente) come una grande e complessa rete. Un luogo poco valorizzato da studi specifici, mentre nei numerosi testi divulgativi è spesso il dato esoterico a dominare, alla ricerca dei possibili significati nascosti dietro ciascun elemento. Proprio da qui, a partire dal Coppedè esoterico, inizio ad avviare uno scambio di riflessioni con Giovanna Silva, fotografa milanese, temporaneamente a Roma come fellow dell’American Academy. Le porto una guida al “quartiere più misterioso di Roma” come benvenuto nella città. Un invito veloce e leggero a sfuggire dalla tradizionale immagine dell’urbe, per esplorarla verso i suoi margini fisici e immateriali e, al contempo, un tentativo di iniziare un lavoro sul quartiere, mia costante ossessione. L’occasione si presenta in breve tempo, quando la Silva, per l’esposizione Cinque mostre 2020: Convergence, curata da Elizabeth Rodini e Ilaria Gianni (American Academy in Rome, fino al 29 marzo), realizza il progetto Le Sante Quattro. Emilia, Letizia, Rä, Veronica. Le “Sante Quattro” sono guide speciali per intraprendere una “conversazione” con altrettante zone della capitale, esplorate a piedi, macchina fotografica al collo. Ci vediamo in centro e camminiamo insieme verso i villini del Quartiere Coppedè. L’esito di questi incontri è una breve e netta sequenza di immagini, dalla firma dell’architetto incisa sulla pietra al Palazzo del Ragno e oltre. A questo nucleo corrisponde una moltitudine di immagini a raccontare tutti i percorsi, gli attraversamenti, le derive alla scoperta della capitale, dal punto di avvio alla meta. Perché la fotografia per Giovanna Silva è uno strumento narrativo, è parte di una tessitura nello spazio e nel tempo. Non è il singolo scatto ad acquisire valore, quanto la relazione tra le immagini, il montaggio della storia che deriva dall’accostamento di una fotografia all’altra. Come avviene nei libri, il mezzo da sempre privilegiato per esporre il suo lavoro.

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Roma. Il Quartiere Copped secondo Giovanna Silva R

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BIO Giovanna Silva vive a Milano. Ha collaborato continuativamente con le riviste Domus e Abitare. Ha pubblicato Desertions (A+M bookstore, 2007), Orantes (Quodlibet, 2009); per Mousse Publishing la serie “Narratives/Relazioni”: Baghdad, Green Zone, Red Zone, Babylon (2012), Libya: Inch by Inch, House by House, Alley by Alley (2013), Foxtrot Gate: Cyprus (2014), Syria: a Travel Guide to Disappearance (2016), Afghanistan: O Rh- (2017), 17 April 1975 (2018), Tehran (2019); per Motto Publishing Good Boy (2016) e Walk Like an Egyptian (2017); per Art Paper Editions Palmyrah (2019) e Niemeyer 4ever (2019). Ha partecipato alla 14. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia con il progetto Nightswimming, Discotheques in Italy from the 1960s until now. Il progetto è stato pubblicato da Bedford Press nel 2015. Ha fondato la rivista di architettura San Rocco e la casa editrice Humboldt Books, di cui è direttrice editoriale. Insegna fotografia editoriale alla NABA di Milano, allo IUAV di Venezia e all’ISIA di Urbino.

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SUL PROSSIMO NUMERO Le fiere d’arte fotografate da Corrado Sassi

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In cammino sulle strade delle migrazioni Travelling the Roads of Migration a cura di / curated by Lélia Wanick Salgado

Pistoia Palazzo Buontalenti / Antico Palazzo dei Vescovi 8 febbraio 14 giugno 2020

© Sebastião Salgado/Contrasto


© ÅBÄKE

Domus Aurea Martino Gamper, Francesco Vezzoli e le ceramiche di Gio Ponti

05.04— 30.08.2020 © Güne Terkol, Against the Current, 2013

Protext! Quando il tessuto si fa manifesto

05.04— 30.08.2020

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Sponsor tecnico

Vettore ufficiale


MASSIMILIANO TONELLI [ direttore ]

EDITORIALI

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CAMBIARE TUTTO

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on ci si nasconda dietro a un dito. Nessuno può affermare che in situazioni simili – a questo grado di inedita gravità globale – non si corra il rischio di farsi vincere dalla tristezza, addirittura dalla depressione. Ma se è fondamentale tenere altissimo il livello di responsabilità e consapevolezza, non bisogna dimenticarsi mai di guardare al dopo. Ogni grande crisi porta a un cambiamento e, visto che qui si parla di creatività, l’auspicio diffuso e collettivo è quello di affrontare le criticità in maniera creativa. Si può e si deve fare, perché il dramma economico, sociale, psicologico che seguirà il dopo-virus non deve andare “sciupato” e deve servire a qualcosa. Ecco quale può essere la risposta creativa all’incubo del contagio. Questa situazione di temporanea difficoltà deve essere sfruttata. Deve essere il bagno dove immergiamo i nostri difetti di Paese e lo tiriamo fuori ripulito. Una abluzione bollente dolorosa nell’immediato, ma benefica nel medio periodo. Il Paese ha dei problemi, dei difetti, delle tare non più accettabili. Tutto questo ne costituisce cancrena e zavorra, ne limita clamorosamente la crescita nonostante le potenzialità siano le più straordinarie al mondo. Non è più accettabile: si utilizzi questo frangente per cambiare tutto dal punto di vista delle norme penalizzanti, della burocrazia vessatoria, della corruzione, delle leggi che premiano i furbi più che gli onesti, della privacy che pare contare di più della giustizia o della sicurezza. Parliamo di cose grandi che riguardano il patto sociale che tiene in piedi un grande Paese: dopo quello che stiamo vedendo, dopo la prova del servizio sanitario pubblico, dopo questo delirio collettivo, possiamo immaginare di accettare ancora in Italia la presenza dell’evasione fiscale? La presenza di una giustizia lenta che non dà certezza della pena e che allontana gli investimenti internazionali? Possiamo ancora accettare scelte fatte sull’onda dell’ideologia e non del pragmatismo e del buon senso? Deve cambiare proprio la partita e questa è l’unica occasione possibile per le caratteristiche che ha, raffrontabili per certi versi solo al grande conflitto mondiale degli Anni Quaranta.

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Parliamo invece delle piccole cose del nostro piccolo mondo. Dopo quello che abbiamo vissuto, dopo un’epidemia che ci ha colto come una popolazione inerme in pieno Medio Evo, ci possiamo ancora permettere sprechi, dispendi inutili di energia, campanilismi? Ci possiamo permettere – giusto per accennare a mo’ di esempio a un articolo che abbiamo pubblicato qualche giorno fa tra i tanti che hanno accompagnato le settimane della crisi sanitaria – di avere tre, quattro, cinque fiere d’arte contemporanea invece di una sola fiera, grande, forte, significativa? È un esempio simbolico, ovvio. Ma ci siamo capiti: cambiare tutto. O meglio, cambiare quello che deve essere cambiato perché è indifendibile. Il resto: valorizzarlo, conservarlo, rilanciarlo.

Questa situazione di temporanea difficoltà deve essere sfruttata. Deve essere il bagno dove immergiamo i nostri difetti di Paese e lo tiriamo fuori ripulito. Una abluzione bollente dolorosa nell’immediato, ma benefica nel medio periodo.


RENATO BARILLI [ critico d’arte militante ]

ALDO PREMOLI [ trend forecaster e saggista ] #54

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pur vero che esangui manifestazioni ispirate a un’ormai melanconica couture ancora appaiono qua e là, è pur vero che le performance camp a Sanremo hanno contribuito – in Italia e solo in Italia – a sette giorni di follia mediatica, ma a dare la sveglia su quanto in realtà sta accadendo nel fashion arriva la notizia che Louis Vuitton – il marchio di punta di LVMH, il più potente gruppo del lusso esistente – sta orientando il proprio marketing verso l’area dello sport agonistico. Lo ha fatto costruendo un partenariato pluriennale con la NBA, la lega professionistica di pallacanestro di Stati Uniti e Canada: l’accordo include una capsule collection disegnata da Virgil Abloh, direttore artistico di Louis Vuitton uomo. Il boom dello streetwear è un dato di fatto che sta portando i marchi del lusso ad approfondire le loro relazioni con l’atletica. Da tempo David Beckham, Victor Cruz, Russell Westbrook effettuano campagne per orologi, profumi e biancheria intima, ma collaborazioni strutturate con i marchi top di gamma sino a oggi non se n’erano viste. Tuttavia, a una singola performance possono assistere milioni di persone contemporaneamente durante un evento come i Giochi olimpici: Tokyo 2020 è alle porte. Non si conoscono i termini dell’accordo firmato da Louis Vuitton con l’NBA, ma certo deve contenere cifre impressionanti visti i competitor in gioco: colossi come Nike o Adidas, che da sempre dominano le sponsorizzazioni atletiche. Questi ultimi, dal canto loro, stanno intrecciando la medesima traiettoria – anche se Louis Vuitton – il marchio percorsa in senso inverso – lasciandosi coinvolgere di punta di LVMH, il più nelle fashion week. Nike potente gruppo del lusso ha aperto il ciclo delle esistente – sta orientando ultime settimane della moda dando vita a un il proprio marketing imponente show focalizverso l’area dello sport zato sulle uniformi olimagonistico piche realizzate per il team USA di Tokyo 2020. In passerella la campionessa di salto in alto Vashti Cunningham, la skateboarder Sky Brown, la cestista Diana Taurasi. E ancora leggende olimpiche quali Lisa Leslie, Carl Lewis, Brandi Chastain e Joan Benoit Samuelson. All’accordo con l’NBA, LVMH ha affiancato la campagna autunno/ inverno 2020 di Loewe scattata da Steven Meisel con Megan Rapinoe, capitano della squadra nazionale di calcio femminile USA vincitrice della Coppa del Mondo. Dal canto suo, Prada ha annunciato nel novembre scorso una nuova partnership con Adidas: una limited edition costituita da una sneaker ribattezzata Superstar in abbinamento con una borsa, la Bowling. Quasi contemporaneamente, LVMH – questa volta con Dior uomo – ha presentato il frutto di una collaborazione che dalla prima sneaker realizzata con la Jordan Brand di Nike sta evolvendo verso una collezione prêt-à-porter completa. “Abiti che si basano sullo stile, fuori dal campo di gioco di Michael Jordan”, ha dichiarato il direttore artistico Kim Jones.

EDITORIALI

metà gennaio, su artribune.com, avevo svolto un duro attacco a Paolo Baratta, in quanto, al momento di lasciare il suo pluri-mandato di presidente della Biennale di Venezia, con un colpo di coda si era arrogato il diritto di anticipare scelte future, nominando il direttore del settore visivo nella persona di Cecilia Alemani. Ma forse è vero che il ministro competente, Dario Franceschini, gli aveva dato un via libera in quanto già rivolto a nominare un presidente della Biennale, per il prossimo quadriennio, nella persona di La Alemani rimetta in Roberto Ciccutto, piedi la distinzione tra esperto più che altro un Padiglione centrale di cinema, quindi ai Giardini, chiamato a abbastanza indifferente per quanto ospitare presenze ormai riguarda l’altro setstoricizzate, collocando tore. Del resto, bisoinvece all’Arsenale le più gna riconoscere che giovani e promettenti la Alemani è stata negli anni passati la emersioni. migliore curatrice del Padiglione Italia, invitando, nell’edizione 2017, due ottimi esponenti, Roberto Cuoghi e Giorgio Andreotta Calò. Quindi, bando alle polemiche, passo piuttosto a permettermi di dare consigli alla neo-eletta direttrice, in base alle mie esperienze, di persona per due volte coinvolta nelle Biennali passate, e attento cronista di quasi tutte le varie edizioni, fin da una lontana del 1956. Dunque, tenti la Alemani di andare oltre il corto respiro proprio della categoria dei curators, collocando nel Padiglione centrale ai Giardini non già una furba accolita di artisti alla moda del giorno, quelli che i suoi colleghi si passano per le mani, rispettando una sorta di manuale Cencelli. Cerchi di cogliere qualche tendenza dominante del momento, anche se senza dubbio siamo in regime di eclettismo dominante, ma in definitiva anche questo ha le sue regole, i suoi ritmi. Per esempio, vogliamo mettere a fuoco il fenomeno che prende il nome di “glocalismo” nelle sue varie componenti? Ma soprattutto, rimetta in piedi la fondamentale distinzione tra un Padiglione centrale ai Giardini, chiamato a ospitare presenze ormai storicizzate e comunque di grande respiro, collocando invece alle Corderie dell’Arsenale le più giovani e promettenti emersioni. Ovvero, rilanci la fortunatissima sezione detta dell’Aperto, con una corretta distribuzione delle parti tra i due spazi. E pur avendo ben operato a suo tempo per quanto riguarda la partecipazione italiana, abbia il coraggio di farle abbandonare i remoti stanzoni posti alla fine del percorso dell’Arsenale, ne riporti le presenze, quali che siano, nel Padiglione centrale, dedicando loro un’intera ala di questo. Il Paese ospitante, e pagante le spese generali della manifestazione, se lo merita, di mettere in bella evidenza le sue promesse del presente-futuro, invece di quasi nasconderle alla vista, cedendo a quella sorta di esterofilia di cui siamo vittima. E non è finita qui: come direttrice, potrebbe anche riprendere una facoltà che un tempo era riconosciuta ai suoi predecessori, di concertare con l’infinita serie dei padiglioni stranieri qualche linea-guida, evitando che questi si mutino in una insopportabile arlecchinata di proposte tra loro disparate, in un coro discorde e stonato.

STREETSTYLE SENZA BARRIERE

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BIENNALE 2021 CONSIGLI PER CECILIA ALEMANI

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CHRISTIAN CALIANDRO [ storico e critico d’arte ]

EDITORIALI

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L’ARTE ROTTA

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a “likeability”, l’atteggiamento in base al quale non dico più ciò che realmente penso, ma sottopongo ciò che dico a un vaglio preventivo, e dico ciò che immagino gli altri si aspettino da me; e questo in funzione appunto dei like, dell’approvazione, dei sorrisi e degli applausi metaforici. È un tipo di approccio tutto basato sul criterio della risposta, della validazione altrui, della ricezione, in cui l’autocensura si spinge a una tale profondità da spostare l’intero asse dei comportamenti verso l’ipocrisia, il conformismo, e da improntarli costantemente al “mettersi-in-posa”. Nel momento in cui la likeability come atteggiamento e disposizione d’animo è tracimata dai social ed è divenuta la struttura stessa di una cultura, l’assetto fondamentale dei nostri comportamenti e delle nostre scelte e del nostro pensiero, ha mutato molto probabilmente anche il nostro modo di “immaginare” l’imprevisto. È sufficiente basarci, in questo senso, sulla nostra esperienza quotidiana. Ciò che nell’immaginario collettivo presente passa per “imprevisto” culturale è nella stragrande maggioranza dei casi un evento o un oggetto ampiamente prevedibile, qualcosa che viaggia tranquillamente su binari prestabiliti, e che nel fare questo si appoggia invariabilmente alla nostalgia, alla consolazione del già noto, del già dato, del già esperito: è come se volessi farmi sorprendere, ma non troppo, da qualcosa che non sia troppo diverso da ciò che già conosco. Un imprevisto che tende stranamente a rimanere all’interno di una comfort zone; qualcosa che si atteggia per così dire a imprevisto, ma che non lo è sul serio. Il lieto fine, così come il mettersi-in-posa, è likeable: la likeability è ossessivamente permeata di “pensiero positivo”, di positività a tutti i costi che elude inevitabilmente le frizioni, ogni frizione. Le cose “storte” invece sono spiacevoli, sgradevoli – almeno nell’immediato. Ma, appunto, che succede se proprio le persone e le cose negative, complicate, storte sono proprio quelle “autenticamente interessanti, affascinanti e fuori dal comune” (Bret Easton Ellis)? LLL L’opera d’arte è in fondo un difetto, un’incoerenza. Un incidente. L’opera costituisce appunto uno scarto vero rispetto alla cornice data, a ogni cornice data.

Nel momento in cui la likeability come atteggiamento e disposizione d’animo è tracimata dai social ed è divenuta la struttura stessa di una cultura, ha mutato molto probabilmente anche il nostro modo di "immaginare" l’imprevisto.

Il problema dunque è che la likeability si nutre totalmente di finzione (eventi opere persone che vogliono piacere a tutti i costi, a tutti, e che sono “progettati e costruiti” per piacere, sono intrinsecamente finti, artificiali), e che al centro di tutto questo c’è il controllo. L’opera non ha nulla, per sua natura, a che fare con questo territorio: l’opera è un attrito, un disaccordo. Uno scarto e un imprevisto vero. Nasce da un fastidio, nei confronti del mondo e della realtà. L’opera reagisce (o dovrebbe reagire) a tutti i tentativi di irreggimentarla, di renderla innocua, di inserirla all’interno di una cornice; l’opera funziona come un modello di fuoriuscita dal programma. Dal Controllo, che poi è il grande tema del presente (non a caso alcuni degli artisti più interessanti degli ultimi anni lavorano proprio su questo). Se l’opera ricade serenamente dentro il recinto del controllo e della likeability, risulterà inevitabilmente prevedibile. La “rottura” dell’arte risiede in fondo in questa cosa qui: nell’essersi cioè affidata pericolosamente a questa dimensione di finzione, e di aver progressivamente abbandonato invece la sua natura unlikeable. Di verità, fatta di incoerenze inciampi difetti scarti contraddizioni. Di negatività.

La negatività di cui parlo è esattamente ciò che permette la fuoriuscita rispetto al controllo; è quello che sostanzia lo scarto, che consente all’opera di riuscire nel suo intento affrontando sul serio il rischio del fallimento, e non proteggendosi dietro la cortina delle abitudini consolidate: “Con il progredire delle tecniche del cinema e di tutti i sistemi di riproduzione dell’immagine, il pittore deve essere sempre più inventivo. Deve reinventare il realismo, riportarlo al sistema nervoso attraverso la sua invenzione, perché in pittura una cosa come il realismo naturale non esiste più. Ma si sa perché molto spesso, o quasi sempre, le immagini accidentali sono le più reali? Forse non sono state alterate dal pensiero cosciente e perciò si impongono in modo più autentico e più vero rispetto a qualcosa che sia stato manomesso dalla nostra coscienza?” (Francis Bacon in David Sylvester, Interviste a Francis Bacon, Skira, Milano 2003, p. 158).


MARCELLO FALETRA [ saggista ]

CLAUDIO MUSSO [ critico d’arte e docente ] #54

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l 12 gennaio mi sono ritrovato sul supplemento “Arte” del Corriere della Sera a rappresentare la figura del critico d’arte under40 – non a mia insaputa, a dire il vero. Non posso negare che sia stata una piacevole emozione leggere l’interesse del giornalista verso il mio profilo professionale, nonché una notevole responsabilità (almeno percepita), quella di fungere da esempio di una categoria, se così la si può chiamare. Immediatamente dopo queste prime sensazioni, l’accaduto mi ha portato a riflettere proprio su quella posizione, scomoda diciamolo pure, che occupa il critico in questo periodo storico. A partire dalla mancanza di riconoscibilità del ruolo, sono tante le questioni che contribuiscono all’impopolarità se non addirittura al tramonto della figura, ma anche dell’operato precipuo (ammesso che esista, direbbe qualcuno). Sono frequenti le invettive condotte da Renato Barilli anche su queste pagine contro quelli che lui alla anglosassone definisce i curator, rei tra l’altro a suo dire di aver usurpato le mansioni e gli incarichi che una volta spettavano ai critici. Più che avvalorare questa tesi, essa offre lo spunto per sottolineare che di fronte alla diffusione tuttora in voga di master, dipartimenti e corsi per curatori, la stessa attenzione e la stessa forza non venga profusa verso gli argomenti della teoria dell’arte tantomeno della critica. Dove si educano i “nuovi” critici? Quando anche numerosi artisti si chiedono pubblicamente le ragioni della difficoltà di analisi, della carenza di giudizio, della (quasi) totale assenza Dove si educano i di recensione, la risposta, "nuovi" critici? Quando seppur parziale, potrebbe anche numerosi artisti cadere sulla formazione. Ammesso però che siasi chiedono le ragioni no sopravvissute sacche di della difficoltà di analisi, buona preparazione critidella carenza di giudizio, ca, quali sono gli sbocchi della (quasi) totale professionali? Generalizassenza di recensione, la zando, potrei dire che la rispostapotrebbe cadere gran parte dei colleghi ha assunto l’insegnamento, sulla formazione. soprattutto nelle Accademie pubbliche e private come prima risorsa professionale ed economica, mentre molto esiguo è il numero di coloro che ricoprono cariche direttive all’interno di musei, gallerie e fondazioni. Senza contare che anche le testate giornalistiche, con rare eccezioni, non offrono spazi, men che meno retribuzioni alle righe redatte dagli appartenenti a questo particolare albo. A volte poi oltre il danno la beffa, i testi e gli articoli che a fatica vengono prodotti e pubblicati in occasione di esposizioni o a commento di tali attività subiscono una vera e propria (ingiustificata?) indifferenza dell’ambiente accademico, di quello universitario per lo più, perché non appartenenti per lessico, formato e impostazione ai ben più premiati per quanto omologati papers. Non era insita nella scrittura critica anche la necessità di innovare il suo stesso linguaggio oltre all’onere di affiancarsi a quello artistico tout court? Consoliamoci con un passo de Il critico come artista di Wilde: “Quanto è diverso il mondo dell’Arte! […] Non v’è aspetto della passione che l’Arte non ci possa dare, e quelli fra noi che hanno scoperto il suo segreto possono determinare in anticipo quale sarà l’effetto delle loro esperienze”.

EDITORIALI

l pittore Franz Kline e la moglie di de Kooning – Elaine – si trovavano al Cedar Bar, luogo d’incontro degli artisti newyorchesi, quando improvvisamente li avvicina un collezionista. Era appena uscito dalla prima personale di Barnett Newman alla Betty Parsons Gallery (1950) e rivolgendosi a loro dice: “Dove vuole arrivare il ‘Minimalismo’, credete che se ne uscirà così?”. “Niente?”, chiede sorpreso Kline con un grande sorriso. “Quante tele c’erano?”. “Oh, dieci o dodici, forse, ma tutte esattamente simili, con una sola banda in mezzo e basta!”. “Tutte della stessa misura?”, chiede Kline. “Oh, no; c’erano misure differenti, da uno a due metri circa”. “Ah bene, da uno a due metri, e tutte dello stesso colore?”, domanda Kline. “No, no, c’erano colori differenti, rosso, giallo, verde... ma ogni quadro era uniforme, vede, degno di un imbianchino, e con una banda in mezzo”. Kline, non soddisfatto delle risposte, incalza: “Tutte le bande erano dello stesso colore? Tutte della stessa larghezLa presunzione di avere za?”. “No”. L’uomo in pugno il "significato" di cominciò a rifletterci un’opera è dello stesso tipo su. “Vediamo un po’... del consumatore di feticci, No. Non credo. Alcune bande erano larghe che apprezza l’arte solo a due centimetri, altre condizione di vederla come dieci, altre tra le due merce. misure”. E Kline: “E tutti i quadri erano messi in altezza?”. “Oh, no; alcuni erano in orizzontale”. “Con delle bande verticali?”, insiste Kline. “Eh, no... Credo che ci fossero alcune bande orizzontali”. Kline non molla più il suo interlocutore e lo incalza: “E le bande erano più scure o più chiare del fondo?”. “Credo che fossero più scure”, risponde il collezionista, “ma ce n’era una bianca o forse più di una...”. “E questa banda era dipinta sul fondo o il fondo era dipinto attorno alla banda?”. A questo punto il collezionista cominciò a essere un po’ a disagio. “Non so”, concluse Kline liquidandolo, “ma tutto ciò mi sembra diabolicamente complicato”. Questo episodio è rivelatore del fatto che l’arte, nelle sue soluzioni più estreme, esige dallo spettatore un mutamento di coscienza: non sempre l’arte concilia soggetto e oggetto, ponendosi come loro sintesi, ma fa esplodere le contraddizioni interne al rapporto fra individuo e società. Newman, in piena saturazione urbana (New York), ricrea l’equivalente del deserto, che non ha significato, esiste senza supplemento di senso. E il deserto ha ispirato i grandi mistici. Il collezionista è disorientato nell’anti-estetica dell’oggetto (ad esempio, l’arte del bronzo non implica che l’arte sia bronzo). La presunzione di avere in pugno il “significato” di un’opera è dello stesso tipo del consumatore di feticci, che apprezza l’arte solo a condizione di vederla come merce. L’alterità dell’arte gli sfugge e vacilla quando essa si sottrae all’imperativo della comunicazione. Contro la saturazione estetica, Newman sceglie un vuoto incomparabile. Come il rettangolo nero di Anish Kapoor al Madre di Napoli, di cui non si riesce a percepire il fondo. E suggerisce che in ogni individuo c’è qualcosa che non è scambiabile nel linguaggio, perché è inalienabile e per ciò intrattabile.

LA POSIZIONE CRITICA DEL CRITICO

MARZO L APRILE 2020

L’INTRATTABILE

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FABIO SERVOLO [ brand explorer ]

MARZO L APRILE 2020

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SCRIVERE LA PROTESTA: QUANDO LA TIPOGRAFIA PARTE DAI FATTI

EDITORIALI

L

a protesta non va solo pensata, va anche scritta. Il modo in cui le parole prendono forma deve trovare uniformità con l’ideologia che viene promossa. In assenza di aderenza fra contenuto e forma, tutto verrebbe a meno. E chi vuole scrivere un pensiero controcorrente è facile preda dei cacciatori di incoerenza. Scrivere la protesta è uno sforzo costante. Ambiente, politica, libertà individuale, femminismo. Non abbiamo ancora dato tutto, ma la direzione sembra essere quella giusta. L’anno appena trascorso è stato visivamente prolifico e dovrebbe senz’altro esserci di ispirazione per i prossimi dodici mesi. Chi si occupa di comunicazione, nello specifico chi si muove nel mondo della progettazione tipografica, ha avuto molte occasioni per farsi vivo. Il disegno delle lettere richiede grande rigore, si tratta di individuare un modulo e ripeterlo con coerenza su tutto l’alfabeto. Ma questo schema ha bisogno di libertà poetiche. Se il type design è una disciplina fortemente progettuale, ci sono casi in cui diventa più simile a un atto romantico. Si preferisce raccontare una storia, prima di trovare la perfezione delle forme. In questi casi l’ispirazione può arrivare osservando un gesto, lontano dai manuali. LLL

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Da quando i cancelli del Parlamento svedese sono stati animati con i cartelloni del Skolstrejk för klimatet (lo Sciopero scolastico per il clima), abbiamo imparato a conoscere Greta Thunberg. L’abbiamo vista rimanere adolescente mentre si trasformava in icona del cambiamento climatico. Dai suoi cartelloni di protesta è nato anche un font: il Greta Grotesk. Ispirandosi a quei tratti imperfetti e istintivi, il designer newyorkese Tal Shub ha digitalizzato ogni lettera, creando un intero set di caratteri. Un font che prima di tutto è a supporto di un messaggio, un tentativo di prolungare l’eco delle parole di Greta. Il 2019 è stato un anno di nuove voci, ma anche di ricorrenze storiche. In onore del trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, lo studio di comunicazione Heimat Berlin ha realizzato un carattere tipografico a partire dai graffiti di opposizione disegnati sul muro

stesso. Un incredibile tuffo dentro infiniti archivi storici e fotografici. Quello spazio verticale divenne, seppur soltanto sul lato ovest, una tela per attivisti locali ma anche artisti internazionali. Se oggi il muro potesse parlare, cosa direbbe? Questa la domanda che ha portato alla nascita di Voice of the Wall, un alfabeto organico, metafora visiva di coesistenza e diversità. Le lettere riportate alla luce possono essere usate, su una piattaforma online, per creare e condividere nuove dichiarazioni di libertà, e ricordarci gli effetti negativi di ogni barriera. LLL Un caso di approccio creativo fuori dagli schemi, impossibile da non citare, è quello che ha coinvolto la Feminist Library di Londra. Si tratta di un vasto archivio di letteratura femminista prodotta fra il 1960 e il 1990. La collezione è composta da più di cinquemila volumi e circa cinquecento poesie. Nata nel 1975, ha saputo creare una comunità viva e aperta a chiunque ne avesse bisogno. Durante l’anno appena trascorso, la libreria ha portato avanti una campagna di fundraising per rendere possibile il trasloco dell’intera collezione nella nuova sede e costruire un vero spazio di condivisione. A supporto della campagna è stato disegnato un carattere tipografico, un lavoro di squadra coordinato da Anna Lincoln, designer attiva a Londra.

L’ispirazione proviene dallo studio dei manifesti di protesta dei movimenti femministi. Superfici dedicate a ospitare messaggi spontanei e nati in corso d’opera, che non potevano permettersi i tempi e i vezzi estetici della stampa tradizionale. Le parole erano composte da nastri in tessuto, piegati, tagliati, cuciti su un supporto. Dall’osservazione di questo approccio è nato il carattere dedicato alla libreria, il FL_I Sans. Un design dal tono umile ma irriverente, facilmente riproducibile da chiunque anche manualmente, senza passare dagli strumenti digitali. Riproducibilità, in questo caso, significa possibilità di prendere parte al processo. Un impianto creativo autonomo e flessibile, libero dalle rigidità della progettazione, che sia capace di adattarsi alla futura comunicazione della fondazione. Impegnata ora con le operazioni di allestimento, la libreria riaprirà le porte questo febbraio. Ogni protesta ha la sua superficie, i suoi strumenti del mestiere, ereditati dal contesto sociale nel quale mette radici. La protesta di Greta scritta a pennello, il muro di Berlino ricoperto da strati di vernice, gli slogan della lotta femminista nati da nastro e forbici. Una risposta visiva di assoluta coerenza, un’intuizione che precede il progetto. D’altro canto la protesta è prima di tutto una manifestazione d’identità. Va messa in atto, anche prima di essere discussa.


MARIASOLE GARACCI [ guida turistica ]

FABIO SEVERINO [ economista della cultura ] #54

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oma è la città del food e del vino naturale. Ha 24 ristoranti stellati (Milano si ferma a 20). Vuoi la vocazione turistica, vuoi il clima che invita a uscire, vuoi la cultura leggera dei romani, storicamente conviviali: Roma conserva anche in questo decennio buio la leadership nella sperimentazione enogastronomica. La Roma metropolitana conta 5 milioni di residenti e 20 milioni di arrivi turistici, quasi 47 milioni di presenze (senza contare il sommerso extraricettivo). Sono volumi importanti. Nonostante questo, non si è riusciti a cogliere ancora a pieno il treno del ristorante di qualità nei musei. E sì che Roma è un museo a cielo aperto: dal centro storico Unesco all’immenso sito archeologico diffuso, alla miriade di musei comunali e statali. Parliamo di centinaia di opportunità. Ma non c’è ancora un progetto pienamente convincente negli spazi culturali. Il più apprezzabile per anni è stato l’Open Colonna, ma oggi il team e la gestione è cambiata e il famoso chef Antonello si è spostato a Milano e alla Stazione Termini di Roma. O il Colbert Bistrot a Villa Medici, davvero molto gradevole. Il resto, incagliato – anche nel pensiero – nello schema dei “servizi aggiuntivi”, ha sempre fatto oggettivamente fatica anche a fronte di iniziative di buona volontà da parte dei soggetti: location poco ospitali, programmazione d’intrattenimento assai migliorabile, menu non allettanti, lista vini neanche a parlarne, prezzi sopra la media, qualità del servizio sovente non all’altezza (a partire della mancanza dell’inglese). Insomma appare durissimo trovare l’equilibrio per far convivere il luogo pubblico con l’imprenditoria privata. Perché non c’è dubbio che lo spazio e il servizio ristorativo all’interno di un museo (o di un teatro o di un sito archeologico: sono decine le tipologie di location appetibili) nasca a servizio del Location poco ospitali, visitatore e della funzione scarsa programmazione lì svolta, da cui devono d’intrattenimento, menu conseguire presupposti quali il rispetto di detere carte modeste, lista minati orari, menu accesvini neanche a parlarne, sibili e calmierati, cura del luogo e del suo decoro prezzi alti, qualità del estetico e monumentale. servizio non all’altezza. Allo stesso tempo, hanno la fortuna di essere erogati dentro luoghi unici, per bellezza, panorama e ubicazione geografica, quindi da meri servizi possono assumere una propria identità, infatti spesso hanno un loro nome. E, come detto tante volte, possono essere per di più un nuovo centro di ricavo per l’istituzione culturale, quasi sempre languente di risorse economiche. Si pensi alla bellezza di Terrazza Caffarelli, al Macro, alla Casa del Cinema o al piazzale del Maxxi. Spazi che si è cercato di mettere a sistema ma che potrebbero essere sfruttati ancor meglio, con operazioni per la città, per i cittadini, per la cultura. Chiudiamo con un esempio ben riuscito (il Wunderbar nei giardini della Galleria Nazionale nell’estate 2019) e con una speranza: il nuovo bando per il ristorante alla Galleria Borghese.

EDITORIALI

el giro di pochi giorni, se non ore, il settore turistico (che in Italia occupa oltre il 6% dei lavoratori) ha subito i primi danni economici del Coronavirus. Danni disastrosi. Mentre scrivo, siamo già nella seconda fase: quella in cui il peggio è arrivato. Effetto collaterale diffuso in tutto il Paese, senza distinzione di confini fra le zone individuate dai decreti ministeriali, sulle guide turistiche autorizzate attive in Italia si è abbattuta una vera pandemia, con la cancellazione di tutti i servizi prenotati e le commesse. Confturismo e Confcommercio calcolano 31,625 milioni di turisti in meno e 7 miliardi di euro persi tra il 1° marzo e il 31 maggio. Proprio l’inizio dell’alta stagione, quel periodo in cui questa categoria di lavoratori realizza l’introito di tutta l’annata. Chi conosce gli andamenti della domanda sa bene che, anche quando l’allarme sanitario sarà cessato, per riprendersi ci vorranno mesi. In termini brutali ma veridici, significa che molti saranno spinConfturismo e ti sull’orlo della povertà. Confcommercio Mentre si richiede a calcolano 31,625 milioni tutta la popolazione di di turisti in meno e 7 rispettare norme comportamentali che tutelino il miliardi di euro persi tra sistema sanitario nazioil 1o marzo e il 31 maggio. nale da un collasso nocivo anche per l’economia, è necessario che venga operata un’oculata selezione dei settori di intervento e destinazione delle risorse. Il 28 febbraio (sembra passata una vita!) è stato convocato dal Ministro Franceschini un tavolo al MiBACT per discutere con le associazioni di categoria sui danni al settore turistico causati dal Coronavirus. Tuttavia le misure accordate non bastano, e non bastano le promesse. In questo momento i provvedimenti relativi alla zona rossa sono assolutamente ininfluenti sul turismo: il Governo deve includere con urgenza le guide turistiche e gli altri professionisti a partita IVA del settore turistico di tutta Italia, prevedere sussidi economici e il rinvio dei termini d’imposta. È necessario segnalare, del resto, che la situazione attuale non ha fatto che aggravare problematicità già presenti e da sempre segnalate dalle associazioni di categoria. Le guide turistiche sono lavoratori autonomi con regimi vari di partita IVA che comportano un tributo dal 32% al 40% tra INPS e IRPEF e che non prevedono alcun tipo di agevolazione. Ora più che mai, questi lavoratori sono soggetti, inoltre, alla consueta concorrenza sleale dell’abusivismo e a un pericoloso dumping sociale interno: fenomeni, questi, sui quali è necessario ricevere aiuto, controllo e protezione da parte dello Stato.

MUSEI E RISTORAZIONE A ROMA

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CORONAVIRUS IL TURISMO E LA ZONA ROSSA

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LA COPERTINA MARZO L APRILE 2020

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TATANKA JOURNAL

in collaborazione con FERDINANDO SPAGNOLO

La galleria massimodeluca di Mestre cambia nome. Nasce la Marina Bastianello Gallery SANTA NASTRO L La storia del nome di questa galleria di Mestre è in effetti un po’ particolare. Nata nel 2012 per volontà di Massimo De Luca e Marina Bastianello, la galleria è sempre stata identificata da tutti con il volto di quest’ultima: una signora che ci ha messo la faccia e tanto lavoro e che finalmente nel 2020, dopo otto anni di attività, ha deciso di dare il proprio nome alla creatura. In una Mestre che nell’ultima decade è molto cambiata (non più periferia di Venezia, ma interessante hub creativo e culturale)… tre domande a Marina Bastianello. Perché hai deciso di fare questo grande passo? Per una conferma, per ricomporre la discrepanza tra la denominazione della galleria e chi la guida: ora non ci saranno più dubbi. Citando il pensiero scritto da un mio carissimo amico curatore, raccolto insieme ad altri in un piccolo libriccino che ho consegnato a tutte le persone vicine alla galleria, “era eccentrico, infatti, che essa avesse un nome maschile mentre in galleria sono sempre state solo donne”.

NEWS

PANIC A che profondità i media entrano nella nostra vita? Il panico a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane ci dimostra, ancora una volta, quanto il sistema d’informazione sia un organismo complesso e irrazionale. È un sistema che vive della stessa emotività del suo pubblico e come tale è naturalmente teso a esasperare le proprie storie, le curiosità maniacali, la paura: più grande è la notizia, più distorte e fuorvianti sono le sue interpretazioni. È in situazioni delicate e convulse come questa che abbiamo bisogno di sentire la voce di un giornalismo razionale e puntuale, che distingua l’allerta dall’allarme, che segua l’etica del servizio pubblico e non la logica del mercato. Se questo viene a mancare, restiamo in balia di un’informazione distorta che ci schiaccia e si diffonde come un’epidemia, lasciandoci soli con un ragionevole dubbio: questa capillare iniezione di ansia era davvero un antidoto necessario alla circoscrizione del contagio? Tatanka Journal è una rivista indipendente che dal 2018 racconta l’attualità attraverso le immagini, la grafica e le illustrazioni, coinvolgendo artisti nazionali e internazionali. Nel 2020 inizia la collaborazione con Artribune, insediandosi sulla superficie della rivista per creare un progetto editoriale parallelo, in grado di innescare delle riflessioni che nell’arco del nuovo anno indagheranno il contemporaneo. TATANKA è un progetto di SARA CERADINI, FRANCESCO FADANI, JACOPO UNDARI

tatankajournal.com tatankajournal@gmail.com tatanka_journal

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Come è nata la galleria? La galleria è nata nel 2012 dalla mia volontà e da quella di Massimo De Luca. Dal 2013 a oggi è rimasta sempre sotto la mia guida. La caratteristica originaria della galleria è stata quella di rappresentare quasi esclusivamente artisti nati (anagraficamente) dagli Anni Ottanta in poi, seguendoli passo dopo passo e costruendo in questo modo un fulcro culturale per talenti emergenti, diventando punto di riferimento anche per i curatori sensibili ai futuri artisti. Cosa significa fare il gallerista oggi? Essere un gallerista è certo una professione, con tutto quello che ne consegue: servono esperienza, formazione, continuo aggiornamento, curiosità. Ma è soprattutto una passione sconfinata, un impegno, una missione. marinabastianellogallery.com

Nasce Smithsonian Open Access: 2.8 milioni di immagini libere del più grande museo del mondo CLAUDIA GIRAUD L Il colosso americano Smithsonian Institution ha aperto, infatti, i propri archivi digitali e li ha resi di pubblico dominio grazie alla sua nuova piattaforma Smithsonian Open Access. Si tratta di un’iniziativa che rimuove le restrizioni del copyright da circa 2,8 milioni di immagini de lla sua collezione digitale e da quasi due secoli di dati, provenienti dai suoi 19 musei, 9 centri di ricerca, librerie, archivi e dallo Zoo Nazionale di Washington. Ciò significa che le persone di tutto il mondo possono ora scaricare, modificare e condividere contenuti ad accesso aperto per qualsiasi scopo, gratuitamente, senza ulteriore autorizzazione da parte dello Smithsonian, istituzione fondata a Washington nel 1846 grazie a un lascito dello scienziato britannico James Smithson (1765–1829). “L’accesso aperto rientra pienamente nella missione principale dello Smithsonian: l’aumento e la diffusione delle conoscenze che la nostra istituzione promuove da quasi 175 anni“, dichiara John Davis, direttore ad interim del Cooper Hewitt Smithsonian Design Museum, che ha guidato l’iniziativa fin The Smithsonian Building, Washington D.C. dalla sua nascita. “Con Smithsonian Open Access, invitiamo le persone di tutto il mondo a fare proprie queste conoscenze – condividendo e sviluppando in questo modo le nostre collezioni digitali per qualsiasi cosa, dalle opere creative, all’istruzione e alla ricerca accademica, alle innovazioni audaci che non abbiamo ancora immaginato“. si.edu


OPERA SEXY

FERRUCCIO GIROMINI [ storico dell'immagine ]

#54

laurakrifka.com

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LAURA KRIFKA

Laura Krifka, The Dream, 2017, olio su tavola

Ognuna di queste scene ha per sfondo pareti fasciate di incongrue tappezzerie optical, del tutto fuori moda, che bidimensionali invadono con prepotenza lo spazio tridimensionale attirando oltremisura il nostro sguardo e tingendo tutto – a contrasto percettivo ma anche psicologico – di un tono quasi surreale. L’episodio più eclatante in tal senso è The Dream, dove la fanciulla che sbadiglia semiaddormentata atteggia la bocca a uovo come il motivo decorativo sulla parete, mentre le areole dei suoi capezzoli richiamano con esattezza i tuorli delle stesse uova. Ma in questo caso il voyeurismo appare candido, addirittura comico, e per una volta esente dai sottili disagi di tutte le altre storie di desideri oscillanti tra espressione e repressione. In tale commedia a base di sguardi illeciti, noi guardanti ci scopriamo in definitiva guardoni di voyeurismo, costretti a riconoscere che l’atto del guardare è una (forse: la) componente centrale del desiderio. Così Laura Krifka, che dipinge superfici nitide con pennellate controllate, sulle tracce dei campioni del più tradizionale realismo figurativo americano quali Maxfield Parrish e Norman Rockwell, e pertanto la si direbbe franca e lineare, viceversa le sue intenzioni si rivelano ben oblique, accostandola a un maestro della provocazione più lontano per geografia e cultura, l’europeo Balthus. Non ci si stupirà dunque se la giovane artista viene spesso percepita da molto pubblico statunitense, soprattutto in ambienti non-artistici ma generalisti, una vera weird-lady. In realtà Laura Krifka, che vive a San Luis Obispo, dalla sua calda California esce raramente. Anche le sue opere sono esposte e collezionate quasi esclusivamente lì. Pur vantando un’attività espositiva imponente, le sue puntate altrove (New York, Miami, Las Vegas, St. Louis, Chicago) si contano esattamente sulle dita di una mano. Ennesima prova che la cultura dell’oltraggiosa California fa ancora e sempre caso a sé. D’altronde i titoli delle sue mostre personali sono spesso rivelatori: First Blush, Viper Kingdom, Reap the Whirlwind, Between You and Me, The Game of Patience... Rossori, serpi in seno, turbini sconvolgenti, faccia a faccia, giochi di pazienza: è decisamente maliziosa, perlappunto, la 35enne losangelina.

NEWS

Alquanto maliziosa è la pittura della 35enne losangelina Laura Krifka. Difatti la sua figuratività di stampo iperrealistico, venata però di uno spiazzante onirismo, si esercita quasi esclusivamente sui temi del voyeurismo. I suoi giovani protagonisti, maschi e femmine visti soli o colti in interazione, occupano angusti interni domestici, nell’intimità presentandosi o del tutto nudi o vestiti a metà, e in ciò si mostrano di volta in volta oggetti di sguardo o soggetti guardanti, quando non interpretano insieme entrambe le parti. È necessario dunque descrivere qualcuno degli oli dell’artista, realizzati in imponenti dimensioni ora su tela e ora su tavola. In Woman Drying Herself vediamo una giovane appena uscita dalla doccia (o dalla vasca) che, sulla soglia della stanza da bagno, sta finendo di asciugarsi; inquadrata frontalmente, illuminata da luce spiovente, incorniciata da pareti decorate con pattern di pesci stilizzati, è colta nel momento esatto in cui alza lo sguardo ed ecco che incontra il nostro, forse colpevole e forse no. Invece protagonista di Cover Up è un bel giovanotto a mezzobusto nudo che ci guarda tenendo in mano un reggiseno: per farne che? In Twin Pucker si dividono il campo una lei in solo reggiseno e un lui tutto spogliato, che chiacchierano spremendo limoni e mettendo in aperto e morbido confronto il solco tra i seni di lei e quello tra le natiche di lui; intanto fuori dalla finestra, oltre la tenda veneziana, si scorge qualcun altro che si tuffa in piscina: se uomo o donna non si capisce. Anche in Lions si gioca sull’ambiguità: un ragazzo seduto al tavolo legge un libro alla luce di una lampada; dietro di lui, oltre il vetro della finestra che dà sul giardino all’imbrunire, un’altra figuretta lo spia e intanto si tocca: noi non siamo in grado di capire se è femmina o maschio, ma adesso, quasi per caso, vediamo che dall’asciugamano che cinge i fianchi del lettore spunta appena appena la punta di un glande. Un’altra situazione di notevole tensione erotica si svolge in Blue Bowls tra due protagonisti entrambi colti di spalle tra le piastrelle geometriche di un lucido bagno, mentre lei si volta ad accendere una lampadina e lui, completamente svestito, ne approfitta per un fuggente gesto autoerotico.

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MUSEI E COLLEZIONI: LA SFIDA DEL PRESENTE SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

Cosa significa lavorare su una collezione museale/privata oggi? Quali strategie si possono adottare per renderla intelligibile al pubblico e per accrescerla? Quali per arricchire il patrimonio di un museo/ collezione privata? Rispondono nove direttori e presidenti di musei e fondazioni private da Venezia alla Sicilia, da Torino a Lugano.

TALK SHOW

LAURA BARRECA DIRETTRICE MUSEO CIVICO CASTELBUONO DIRETTRICE CENTRO ARTI PLASTICHE CARRARA Significa essere investiti della responsabilità istituzionale di gestire un dispositivo di narrazione del patrimonio materiale e immateriale di una società, cui è affidata la memoria del nostro presente storico. Le collezioni museali contemporanee – almeno quelle dei musei di medie o piccole dimensioni – oggi vengono riorganizzate secondo criteri tematici e non necessariamente cronologici, secondo approcci interdisciplinari e con una maggiore apertura verso aspetti contestuali, sociali, antropologici. In alcuni casi, la logica dell’identità nazionale ha ceduto il posto ad acquisizioni di opere nate dal dialogo tra artisti chiamati a rileggere lo spazio e a relazionarsi col pubblico. Se le istituzioni culturali infatti rappresentano il luogo della formazione e della proposizione artistica, le collezioni permanenti sono il risultato di azioni realizzate in un dato momento, per mezzo di differenti processi e di nuovi sistemi di produzione. L’obiettivo strategico è la costruzione di un valore duraturo e consapevole: una collezione infatti non è né “cronaca del presente” né una “raccolta di capolavori”.

LETIZIA RAGAGLIA DIRETTRICE MUSEION – BOLZANO

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Qualsiasi collezione a mio avviso va considerata non come “statica” e conclusa, ma come qualcosa di estremamente fluido e dinamico. La sfida oggi è rendere le opere della collezione attuali e saperle rivedere con i canoni odierni,

naturalmente senza distorcerle. Penso ad esempio al nuovo display del MoMA, che intreccia arte, design e fotografia con attenzione a posizioni femminili e “globali”. Credo che qualsiasi collezione dovrebbe essere resa accessibile al pubblico attraverso sguardi non canonizzati: ciò significa lavorare in un’ottica di inclusività, rinunciare ai display cronologici per cercare punti di vista che vadano oltre, come quelli di artisti e artiste, o mettere le opere in dialogo con quelle di altre collezioni. Questa idea di dinamismo dovrebbe accompagnare anche le nuove acquisizioni: credo sia importante capire come l’opera che entrerà in collezione possa dare nuova linfa a quelle che già ne fanno parte.

CHRISTIAN GRECO DIRETTORE MUSEO EGIZIO – TORINO La parola che descrive al meglio il lavoro che svolgiamo quotidianamente sulla collezione del museo è “cura”. Questo vuol dire riconoscerne il grande valore e, allo stesso tempo, sentire la responsabilità di un patrimonio collettivo che deve essere intelligibile, accessibile e inclusivo. All’interno di questa cornice è per noi centrale la ricerca. È attraverso la ricerca che aumentiamo la fruibilità delle nostre collezioni: sia con strumenti digitali, sia valorizzando i materiali d’archivio, utili a illuminare i reperti con nuove informazioni sul loro contesto e la loro storia. È la ricerca, ancora, che ci permette di arricchire il museo e l’esperienza che i visitatori ne fanno: non attraverso nuove acquisizioni – che a oggi non sono previste – ma mettendo a disposizione informazioni nuove e inedite, che permettono di migliorare la comprensione del patrimonio del museo. Senza contare che, dal 2015, abbiamo implementato il percorso di visita con le Gallerie della cultura materiale: oltre 10mila reperti, fino a quel momento indisponibili, restituiti al pubblico.

TOBIA BEZZOLA DIRETTORE MASI – LUGANO Il collezionista privato deve rispondere solamente a sé, al proprio gusto e ai propri interessi e, anche rispetto agli investimenti che affronta, deve rendere conto solo a se stesso. Quando si tratta di una collezione pubblica, è sostanzialmente diverso. Chi colleziona per conto di un museo pubblico deve sempre rispettare l’evoluzione storica del contesto artistico, culturale e sociale della collezione che vuole accrescere. Il patrimonio conservato contribuisce al progressivo formarsi dell’identità museale e per questo motivo è necessaria una politica di acquisizione mirata e in armonia con questa stessa identità. Per ogni nuova acquisizione, oltre alla qualità artistica, bisogna inoltre valutare attentamente e in anticipo come e in quale misura si potranno rendere accessibili al pubblico le nuove opere.

SYLVAIN BELLENGER DIRETTORE MUSEO DI CAPODIMONTE NAPOLI È una grande responsabilità gestire una collezione come quella di Capodimonte, che si identifica con la storia stessa della Reggia, costruita per ospitare la collezione Farnese. Il museo oggi conta 47mila opere d’arte, dal Duecento fino all’arte contemporanea, con un ricchissimo Gabinetto di disegni e stampe, un prezioso nucleo di arti decorative e una nutrita sezione dedicata all’Ottocento. Un patrimonio immenso che un direttore ha il compito di rendere fruibile, nel modo più largo possibile, anche ricorrendo all’aiuto dei privati e delle tante


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Da alcuni anni il personale della Fondazione Querini Stampalia è coinvolto in un percorso di formazione e aggiornamento, alla luce dei nuovi studi in materia di pubblici e accessibilità. L’obiettivo è individuare e mettere in atto strategie e azioni efficaci affinché l’identità dell’istituzione venga comunicata e percepita in modo corretto e completo. Questo anche nell’ottica di una maggior sostenibilità economica in termini di aumento del numero dei visitatori, conseguenza di una migliore narrazione di ciò che è la Querini Stampalia. Le analisi fatte su chi frequenta l’istituzione hanno confermato la necessità di valorizzare in modo diverso le collezioni, le attività e i servizi proposti. Risulta dunque inevitabile rielaborare e attualizzare il tradizionale modo di comunicarsi, ripensare il coinvolgimento dei pubblici, aprirsi a nuovi pubblici e rendere più chiara la missione dell’istituzione nella percezione collettiva. È necessario lavorare sulla divulgazione e sull’accessibilità, rivedendo le strategie di comunicazione, ridefinendo i compiti e il ruolo del museo e dell’intera Fondazione oggi, all’interno del tessuto sociale contemporaneo.

La nostra collezione è un patrimonio artistico privato messo al servizio del territorio. Per la sua intelligibilità abbiamo pensato soluzioni curatoriali che ne propongono letture anticonvenzionali, ad esempio il progetto Sarà presente l’artista, che affida a un artista il riallestimento della collezione in dialogo con il proprio lavoro. Un altro punto per noi centrale è quello della didattica, che interpreta la collezione come piattaforma per affrontare le questioni centrali della contemporaneità – come l’identità o il rapporto con la natura – attraverso laboratori con le scuole. Oltre le canoniche acquisizioni, l’arricchimento della collezione si svolge tramite progetti di residenza che risultano in opere site specific, in dialogo con il territorio: l’esplorazione delle possibilità contemporanee del ricco patrimonio di tecniche artigianali è uno degli assi programmatici della Fondazione, che si propone come presidio della contemporaneità in un contesto laterale come quello abruzzese. Credo sia fondamentale oggi per una fondazione proporre sempre contenuti di alta qualità, in grado di stimolare una riflessione sociale e culturale sul mondo in cui viviamo e attrarre un interesse anche da parte del pubblico del nostro territorio.

LUCA LO PINTO DIRETTORE MACRO – ROMA Sviluppare e immaginare una collezione è una delle sfide e delle responsabilità più complesse per un museo. Da un lato, se parliamo di collezioni pubbliche, la maggioranza delle opere è inaccessibile, in quanto non ci sono spazi sufficienti per esporle. Basti pensare che il Metropolitan ha due milioni di oggetti e ne mostra il 3%. Dall’altro, la rivoluzione digitale ha prodotto un’esperienza della realtà – arte inclusa – sempre

PATRIZIA SANDRETTO RE REBAUDENGO PRESIDENTE FONDAZIONE SANDRETTO RE REBAUDENGO – TORINO La collezione privata, che ho avviato nel 1992, è stata decisiva nella costituzione della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo venticinque anni fa. Anche se non è esposta in permanenza nelle nostre sedi, è un motore della nostra attività, è presentata nei musei e nelle istituzioni in giro per il mondo ed è uno strumento di relazioni internazionali. La collezione è a disposizione dei curatori e dunque le opere entrano spesso a far parte delle mostre, condividendo tutte le metodologie che la Fondazione dedica ai suoi visitatori: la mediazione culturale, i laboratori, le visite, l’e-learning, come nel caso del progetto I Speak Contemporary, che attraverso alcune opere della raccolta unisce la lettura dell’arte contemporanea all’insegnamento della lingua inglese. Per arricchire il patrimonio della Fondazione investo sulla sperimentazione e sulla formazione, perseguendo l’idea di un museo impegnato nella produzione culturale, uno spazio di discussione e confronto democratico. Quanto alla collezione, continuo a seguire il principio della qualità: non punto sul nome ma sul contenuto dell’opera e della ricerca dell’artista.

TALK SHOW

MARIGUSTA LAZZARI DIRETTRICE FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA – VENEZIA

OSVALDO MENEGAZ PRESIDENTE FONDAZIONE MALVINA MENEGAZ – CASTELBASSO

più mediata dalle immagini piuttosto che da un’esperienza diretta. I grandi musei, oltre a esporre a rotazione le collezioni, si sono mossi sul fronte della digitalizzazione come nuova forma di accessibilità, con significativi investimenti in entrambe le direzioni. Servono quindi risorse, oppure nuove soluzioni per interpretare e attivare le collezioni, oltre che farle circolare all’esterno. Queste riflessioni mi hanno portato a rileggere la collezione del MACRO in una chiave più sperimentale e interrogativa rispetto allo status di un’opera e di una collezione nel XXI secolo, senza ignorare l’importanza dell’oggetto “reale”. Una delle sezioni di Museo per l’Immaginazione Preventiva, RETROFUTURO, è concepita proprio su questa duplicità di sguardi temporali e concettuali. Un ritratto della collezione passata che accoglie una collezione del futuro.

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realtà associative che quotidianamente ci sostengono. In quest’ottica, con le nuove acquisizioni cerchiamo di incrementare i nuclei collezionistici originari e lo facciamo ricorrendo all’art bonus e agli altri strumenti di sostegno e partecipazione dei privati. È questo il “metodo Capodimonte” che ha permesso l’ingresso nella collezione delle porcellane della Manifattura di Carlo di Borbone, del gruppo Apollo e Marsia, recente dono dei Cavalieri del Lavoro-Gruppo Mezzogiorno. A breve, grazie al dono di altri imprenditori, la preziosa Coppaflora di Vincenzo Gemito, unico esemplare in argento nelle collezioni pubbliche italiane, completerà il racconto della poliedrica attività dello scultore napoletano, dopo la corposa acquisizione ministeriale della Collezione Minozzi nel 2014.

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ART MUSIC

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CLAUDIA GIRAUD [ caporedattrice musica ]

Dalla Cina, il disco-design di PASSEPARTOUT DUO passepartoutduo.com

NEWS

Passepartout Duo, New Promo. Courtesy Passepartout Duo

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Se c’è una cosa che la musica ha in comune con l’arte visiva, è il concetto. Su questa idea basilare Passepartout Duo, una pianista e un percussionista, ci ha costruito un disco. “La composizione musicale è basata su un concept e sulla creazione di strutture formali, complementate da ciò che gli strumenti stessi ci dettano: i loro limiti diventano il campo ideale per la nostra creatività”, ci spiega Nicoletta Favari, originaria di Verona, che ha fondato il duo quattro anni fa insieme al suo compagno, Christopher Salvito, lavorando da allora tra residenze artistiche e tour musicali in giro per il mondo, collaborando con ballerini e artisti di ogni disciplina, e creando anche installazioni sonore. “Ci piace parafrasare Charles Eames: l’artista deve riconoscere le costrizioni e lavorare entusiasticamente assecondandole”. Anche il processo diventa motivo di costante riflessione: “Durante la nostra residenza allo Swatch Art Peace Hotel di Shanghai stiamo creando un nuovo strumento, un sintetizzatore modulare, e stiamo sperimentando con il carillon, affascinati dall’aspetto elettronico e da quello meccanico nella produzione del suono”. Pittori, scultori, registi, scrittori, designer sono i frequentatori abituali del Bund di Shanghai, il quartiere con gli edifici storici in stile europeo, dove ha sede la residenza internazionale degli artisti di Swatch: è questa la tappa più recente del peregrinare di Passepartout Duo, prima dell’uscita il 10 aprile di Visà-Vis. “Questo progetto è nato dall’intersecarsi di due condizioni: il nostro primo viaggio in Cina e la proposta estemporanea, fattaci da una ditta di design a Pechino, di utilizzare degli strumenti musicali artigianali”, continuano i due musicisti che hanno curato proprio tutto, dall’ideazione degli strumenti alla composizione, dalla registrazione delle tracce al design del vinile. Un album con una forte componente visiva, realizzato in collaborazione con la piattaforma curatoriale AnyOne di Pechino: un prodotto di design, con fogli colorati e intagliati i quali, sovrapposti in varie combinazioni, creano figure geometriche in sintonia con i ritmi della musica. Il disco sarà anche protagonista di una serie di concerti e presentazioni con sette tappe in Cina. “Nella seconda metà di marzo saremo in tour con i due artisti cinesi che hanno fondato AnyOne e che supportano il nostro progetto, Yannis Zhang e Yumo Wu. Con loro lo presenteremo in gallerie, musei, salotti musicali in varie città, e concluderemo il tutto con un video sulle montagne dello Yunnan. Uno degli edifici dove ci esibiremo è firmato da Renzo Piano a Hangzhou per il marchio di moda JNBY”.

Mr. Brainwash aprirà un museo pop-up a Los Angeles. Con opere sue e di altri street artist DESIRÉE MAIDA L Tra i tanti musei pop-up che hanno inaugurato e continuano a inaugurare negli Stati Uniti (e di cui vi parliamo spesso), uno in particolare di prossima apertura attirerà l’attenzione di appassionati del genere, curiosi e media. Si tratta del museo che lo street artist Mr. Brainwash (pseudonimo di Thierry Guetta) aprirà a Los Angels e dedicherà a se stesso. L’artista francese infatti prenderà in affitto l’ex Paley Center for Media di Beverly Hills, progettato dall’architetto Richard Meier nel 1996, per allestire il suo museo temporaneo. Nato in Francia nel 1966, Mr. Brainwash si avvicina alla cultura e all’ambiente della street art quando si trasferisce a Los Angels. Agli inizi degli Anni Zero comincia a realizzare riprese video di street artist in azione, seguendo e documentando così le loro gesta e i loro spostamenti: tra gli artisti immortalati da Mr. Brainwash sono anche Invader, suo cugino, e Obey. Ma la svolta per il writer francese giungerà dall’incontro con Banksy, il misterioso street artist originario di Bristol con cui Mr. Brainwash collaborerà per la realizzazione del film Exit Through the Giftshop. Lo spazio pop-up di Mr. Brainwash inaugurerà con una mostra che include le sue opere, per poi proseguire con esposizioni personali e collettive dedicate ad altri artisti. “È un sogno diventato realtà, non riesco ancora a crederci”, ha dichiarato Guetta a The Art Newspaper. “Voglio mostrare diversi lati di me stesso, tutto ciò che ho tenuto dentro per così tanti anni. Immaginate una pentola a pressione che sta per esplodere. Sono io!”. Lo spazio aprirà le sue porte con un “soft opening” per eventi privati, ma l’artista promette che una parte delle mostre sarà gratuita e aperta al pubblico. mrbrainwash.com

Nasce The Spark Creative Hub. Una mega libreria multiservizi nel cuore di Napoli CLAUDIA GIRAUD L Ha aperto a Napoli The Spark Creative Hub, una maxi-libreria di tre piani nel centro storico della città, nei pressi della elegante Piazza Bovio, un tempo Piazza Borsa, punto strategico di snodo tra stazione ferroviaria di Piazza Garibaldi e il Molo Beverello, e a pochi passi dall’Università Federico II. Si tratta di uno spazio polifunzionale di oltre 500 metri quadrati che include una libreria con più di 20mila titoli e una selezione di vinili, cd e dvd sulle tendenze musicali del momento e sui film in uscita, un laboratorio di fabbricazione digitale, un co-working, un’area specifica dedicata alla formazione e agli eventi di musica, teatro, scrittura creativa, fotografia, cinema e un coffee break. “Dare vita a una libreria indipendente di ampia metratura, che non vuole vivere di sole novità ma che offre una profondità di catalogo da ambire a essere punto di riferimento per curiosi di ogni specie, richiede un lavoro di preparazione notevole. Tocca instaurare sinergie di intenti con le case editrici che apprezziamo, presentarsi, proporre condizioni che facciano conciliare respiro economico e diversificazione di offerta rispetto all’asfissiante omologazione dettata dai monopoli della distribuzione e franchising”, racconta l’ideatore di questa avventura, insieme a familiari e amici, con esperienze in tutta la filiera del libro Francesco Wurzburgher, che coordina la squadra di librai. L’altro cuore pulsante della struttura sarà, infatti, il FabLab, uno spazio dotato di stampanti 3D, macchine a taglio laser, plotter progettato dall’architetto e designer Michela Musto, nota per le sue collaborazioni con studi internazionali come Foster+Partners di Londra: “Un luogo dove la creatività si presta alla sperimentazione per un’espressione totale e incondizionata delle proprie capacità ideative e progettuali”, spiega. thesparkhub.it


LABORATORIO ILLUSTRATORI ROBERTA VANALI [ critica d’arte e curatrice ]

#54 MARZO L APRILE 2020

WALTER LARTERI 31enne genovese, Walter Larteri è amante dello studio e dei viaggi e si identifica con la figura romantica dell’architetto e dei suoi ideali umanistici. Descriviti con tre aggettivi. Introverso, testardo, lunatico. Qual è la tua formazione? Accademicamente ho frequentato l’Università di Genova, laurea magistrale in Architettura. Lavorativamente, dopo la laurea sentivo il bisogno di nuovi stimoli e punti di vista: ho iniziato così un periodo di spostamenti che è durato quattro anni, durante i quali ho lavorato a Parigi, Innsbruck e Lisbona.

Definisci il processo creativo di una tua illustrazione. Le illustrazioni rispecchiano due aspetti per me molto cari: il viaggio e lo studio. Molte delle illustrazioni sono “appunti” di viaggio o programmi per il futuro. Quando procedo, cerco di capire le proporzioni tra i vari elementi, come la luce colpisce le superfici, il rapporto tra pieni e vuoti. Il tentativo di capire l’edificio che ho davanti mi aiuta a sintetizzarne le forme, i tratti e la palette da utilizzare. In che modo l’architettura influenza l’ambito illustrativo? La contaminazione fra architettura e arti plastiche e figurative è antica. Molti sono gli esempi del passato che ci presentano figure di architetto-artista, come peraltro non è nuovo, per l’artista puro, cimentarsi nella progettazione dello spazio architettonico o urbano, o per l’architetto essere coinvolto dalle indagini della ricerca artistica a lui contemporanea. Spesso le ricerche artistiche più significative hanno anticipato o influenzato il mondo del design, dell’architettura, della comunicazione.

NEWS

Modelli di riferimento. Mi sento molto vicino alla “poetica” di Aires Mateus, Peter Zumthor e Barozzi/Veiga. La loro “monumentalità sentimentale”, intesa come una condizione di “equilibrio tra la specificità di un luogo e l’autonomia della forma” architettonica, mi ha sempre affascinato. Per quanto riguarda le illustrazioni, cerco anche riferimenti nel cinema che ha fatto della simmetria uno dei suoi principali fondamenti, così come l’architettura. Chi riesce a combinare perfettamente questi due elementi è Wes Anderson. Walter Larteri, Casa de Vidro, Lina Bo Bardi, São Paulo, Brazil, 1950-1951 © Walter Larteri per Artribune Magazine

Qual è il ruolo precipuo dell’architettura in questo scenario? Oggi l’architettura è estremamente attenta alle relazioni con il contesto mediatico e sociale, mediando da essa graduali e significative modificazioni nell’approccio alla progettazione, la quale, se da un lato è sempre più spesso transdisciplinare e ibrida, dall’altro è sempre meno coerente e sempre meno definita sia nella forma che nelle funzioni. Grazie a questa mediazione, l’architettura è diventata lo specchio di una società culturalmente e socialmente diversificata, dove il divenire compulso delle immagini del quotidiano ha condotto le forme espressive verso il provvisorio, introducendo l’idea che per architettura si intenda non solo il costruito e l’abitato, ma anche il temporaneo, il precario, l’instabile, l’effimero. L’ultimo libro letto e l’ultimo film visto. Chi manda le onde di Fabio Genovesi e Jojo Rabbit di Taika Waititi.

Cosa ti piacerebbe illustrare? La copertina di Domus e quella del New Yorker. Da dove origina la tua ricerca e in quale direzione si orienta? L’architettura non interessa più a nessuno. L’enorme disinformazione che esiste nei confronti della disciplina genera architetti disorientati, spinti a coltivare una pura professionalità, oppure ad avere una formazione figurativa stravagante e attraente. Legato alla figura romantica dell’architetto capace di rispecchiare quei valori umanistici che lo hanno caratterizzato per secoli, cerco di raccontare a modo mio questa figura e il suo ruolo chiave nella società. A cosa stai lavorando? Ho in programma di sviluppare degli itinerari di architettura: un focus su una città o su un architetto con un percorso ideale, allegando a una mappa le illustrazioni.

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SERIAL VIEWER MARZO L APRILE 2020

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SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

RUSSIAN DOLL

NEWS

USA, 2019-ongoing Ideatore: Natasha Lyonne, Leslye Headland, Amy Poehler Genere: tragicommedia, mistery Cast: Natasha Lyonne, Greta Lee, Yul Vazquez, Charlie Barnett, Elizabeth Ashley Stagioni: 1 | Episodi: 8 | Durata: 24’-30’ a episodio

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Nadia è una ragazza americana di origine russa, vive a New York e crea videogiochi. È il giorno del suo 36esimo compleanno e le sue amiche Maxine e l’artista Lizzy le hanno organizzato una festa. Ma le cose non vanno per il verso giusto e Nadia muore. Peccato che, risvegliandosi nel bagno di Maxine, si ritrovi a rivivere una, dieci, cento volte la stessa identica giornata (e il proprio decesso). Con qualche piccola differenza. Detta così sembrerebbe la trama già scritta di Ricomincio da capo, l’indimenticabile “giorno della marmotta” interpretato da Bill Murray nel film del 1993. L’ispirazione non manca, ma Russian Doll – una delle serie Netflix più riuscite del 2019 – è un prodotto veramente originale. Ideata da Natasha Lyonne, Leslye Headland e Amy Poehler, la serie, che non manca di spiccate dosi di senso dell’umorismo, racconta i loop e le trappole in cui ciascuno di noi si caccia per non superare i traumi e le sfide della vita. I lutti, le sconfitte, gli amori finiti, la paura del fallimento, i sensi di colpa per qualcosa che si è fatto o non si è fatto diventano le scuse e i legacci per cacciarsi all’interno di una comfort zone dalla quale non uscire mai, ripetendo pedissequamente le stesse azioni e ricreando progressivamente un ambiente cristallizzato nel quale non si cambia mai. Peccato che non sia così, peccato che nel frattempo il tempo passa e non ci accorgiamo che le cose che ci circondano marciscono (nella serie, persone, rapporti, cibi vanno a male). La ricerca di Nadia (Natasha Lyonne) e di Alan (Charlie Barnett), che la bella ragazza russa incontra sulla sua strada, si compie nel tentativo di scardinare la trappola, le matrioske cui allude il titolo, di trovare il bug, e così andare oltre. Nonostante la narrazione si svolga come in una qualsiasi serie tv, la regia e i personaggi di Russian Doll assomigliano a un certo teatro sperimentale newyorchese, anche nei costumi. Una nota per gli appassionati d’arte contemporanea: se ne parla spesso e volentieri, con interpretazioni argute, ironiche e interessanti.

Perrotin apre la quarta sede a Parigi. Non proprio una galleria, più un salotto per collezionisti DESIRÉE MAIDA L “L’atmosfera generale di questo luogo sarà quella di un salotto, dove spero vogliate trascorrere del tempo”. Con queste parole il galleristar francese Emmanuel Perrotin ha annunciato sul profilo Instagram della propria galleria l’apertura di un nuovo spazio a Parigi, dove ha già all’attivo ben tre sedi, per non contare poi gli avamposti a Hong Kong, New York, Seoul, Tokyo e Shanghai. Si tratterà quindi del quarto spazio espositivo nella capitale francese sebbene, come espresso dallo stesso Perrotin, il luogo e l’ambiente non saranno quelli tipici della galleria d’arte, sarà piuttosto un salotto culturale aperto ai propri collezionisti, più informale e intimo. Il nuovo spazio aprirà in primavera, nell’ottavo arrondissement, sull’Avenue Matignon, non lontano dagli Champs-Elysées e dal Grand Palais. “I visitatori saranno invitati a scoprire una selezione di opere dei nostri artisti”, continua il post su Instagram, in cui i collezionisti potranno “visualizzare qualsiasi opera d’arte, su richiesta e su vasta scala”, ha affermato in una nota Perrotin. “Non intendo ospitare mostre, ma conterrà un dispositivo che consentirà al pubblico di accedere a modelli di opere d’arte”. Il piccolo spazio di 70 metri quadrati (le altre tre sedi parigine, nell’insieme, ammontano a 2.300 mq) sorgerà al piano terra di un edificio del 1900 e sarà dotato di un dispositivo ad alta definizione in grado di proiettare riproduzioni di opere. Sarà quindi una sorta di “room” in realtà virtuale, dove però il gallerista non è intenzionato a organizzare mostre. Il salotto virtuale di prossima apertura è solo l’ultimo dei progetti firmati Perrotin: da oltre un anno sul sito Internet della galleria sono disponibili i podcast dei talk tenutisi dal 2014 a oggi in occasione delle mostre più importanti. perrotin.com

Alla Galleria Borghese di Roma nascerà un nuovo ristorante ispirato a Caffè degli Inglesi di Piranesi CLAUDIA GIRAUD L Grande campagna di rinnovamento della Galleria Borghese di Roma. Sono infatti in corso interventi di valorizzazione e adeguamento del piano seminterrato, quello dedicato ai servizi museali di accoglienza al pubblico, ovvero biglietteria, bookshop, caffetteria, noleggio audioguide, guardaroba, senza dover richiedere la chiusura della struttura nemmeno di un giorno. “I lavori sono iniziati a luglio 2019 e hanno seguito uno sviluppo temporale per lotti, al fine di limitare quanto più possibile l’impatto per i visitatori”, ci assicurano dal museo, che ha in serbo un importante “ampliamento della caffetteria in alcuni spazi precedentemente adibiti ad altri servizi”. Questo in un primo momento, mentre “in una seconda fase l’ampliamento includerà spazi esterni che si affacciano sui Giardini Segreti voluti da Scipione Borghese”. Il tutto nel rispetto dei vincoli monumentali che l’edificio esige, tanto suggestivi quanto complessi, che non verranno alterati, ma esaltati nelle loro possibilità. A occuparsi del progetto esecutivo, dopo quello preliminare di Marco Costanzi Architects, sarà l’architetto Elisabetta Fabbri, che si occuperà di una ricostruzione “per evocazione”, cioè ispirata alle due incisioni settecentesche del Caffè degli Inglesi che Piranesi riprodusse su carta, dopo aver decorato gli interni del locale un tempo presente presso Piazza di Spagna. Questo luogo d’incontro di molti pittori stranieri della zona, affrescato da Giovan Battista Piranesi e suo figlio, con allegorie egiziane, piramidi e palmizi, in omaggio ai grandi viaggiatori del momento, è ormai scomparso. Ma tornerà a vivere nella sala per la ristorazione di eccellenza della caffetteria di Galleria Borghese, che prevederà la riproduzione delle stampe di Piranesi sulle pareti. I lavori saranno ultimati entro l’anno. galleriaborghese.beniculturali.it


TUTTI GLI EVENTI RINVIATI O CANCELLATI DEL 2020

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IN MANI SICURE ( PUPILLE )

MIA PHOTO FAIR È stata la prima fiera costretta a subire un rinvio (era prevista dal 19 al 22 marzo). In data ancora da destinarsi, la prossima edizione si svolgerà come di consueto al The Mall, presso il quartiere di Porta Nuova a Milano. Un’edizione che segna un importante traguardo, quello dei dieci anni di attività che la fiera ha conseguito affermandosi nel tempo come punto di riferimento della fotografia, con un focus unico in Italia. MIART La fiera avrebbe dovuto svolgersi a Milano dal 17 al 19 aprile. La 25esima edizione di miart si terrà invece nei padiglioni di fieramilanocity dall’11 al 13 settembre, con preview al 10 settembre. Dal 7 al 13 settembre si svolgerà anche la Milano ArtWeek. Con questa nuova collocazione la fiera apre di fatto l’agenda dell’arte nazionale. BIENNALE ARCHITETTURA DI VENEZIA How will we live together?, curata da Hashim Sarkis, sarà visitabile da sabato 29 agosto a domenica 29 novembre, anziché dal 23 maggio. L’annuncio è arrivato dopo una settimana dalla presentazione ufficiale della mostra. SALONE DEL MOBILE DI MILANO La manifestazione, e con essa tutta la design week milanese, era in programma nel mese di aprile, dal 21 al 26. Vista l’emergenza Coronavirus, si svolgerà dal 16 al 21 giugno, circa otto settimane più tardi e in concomitanza con la settimana dell’arte di Art Basel. FESTIVAL DEL GIORNALISMO DI PERUGIA Previsto per aprile 2020, l’evento è stato cancellato e rimandato direttamente all’edizione del 2021, occupando le date dal 14 al 18 aprile. ART BASEL HONG KONG Anche all’estero le cose non sembrano andare meglio. Ecco che Art Basel Hong Kong, terza fiera nata in casa Art Basel, è costretta ad annunciare il rinvio. Anche in questo caso non ci sono nuove date, si va direttamente al 2021, dal 25 al 27 marzo. ART DUBAI Destino analogo tocca alla fiera Art Dubai, che in osservanza delle misure precauzionali per evitare i contagi da Covid-19 decide di posporre l’edizione prevista per marzo 2020. Non si conoscono ancora le nuove date. POPPOSITIONS Non è una vittima del coronavirus, quanto del mercato. La vivace fiera fondata nel 2012 a Brussels da Liv Vaisberg, Pieter Vermeulen ed Edouard Meier, negli ultimi otto anni, punto di riferimento per collezionisti, critica e pubblico di Brussels, ha deciso di fermarsi per rivalutare il proprio format. Nel 2019 anche la fiera Independent aveva deciso di annullare la propria tappa belga.

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Francia – Belgio, 2018 | Regia: Jeanne Herry Genere: drammatico | Sceneggiatura: Jeanne Herry Cast: Sandrine Kimberlain, Gilles Lellouche, Elodie Bouchez, Clotilde Mollet, Miou-Miou | Durata: 110’ Théo viene partorito in anonimato da una giovane studentessa e immediatamente reso disponibile all’adozione. Per i primi due mesi di vita viene affidato a un sensibile e intelligente assistente familiare ormai stanco di occuparsi di giovani adolescenti problematici e delle loro famiglie. Nel frattempo Alice, ormai da quasi dieci anni impegnata nel lungo e difficile percorso burocratico per un’adozione, non perde la speranza e continua a lottare. Sarà solo grazie all’impegno di molti intermediari attenti e competenti che Théo e Alice riusciranno a incontrarsi. Al suo secondo lungometraggio, la regista e sceneggiatrice francese Jeanne Herry realizza un’opera preziosa, in cui crudo realismo e toccante sensibilità si fondono per raccontare allo spettatore il difficile incrocio di sfortunati destini. Premiato al Festival di Namur con il Bayard d’Or per la miglior sceneggiatura e per la miglior attrice (Elodie Bouchez), Pupille racconta con grande senso di responsabilità la storia di un abbandono, di un affido e di un’adozione. Jeanne Herry utilizza uno stile documentaristico per entrare con accuratezza e dovizia di particolari negli intricati meccanismi etici e psicologici di circostanze al limite della normalità, narrando con oggettività e discrezione le strazianti decisioni che quasi sempre accompagnano queste drammatiche situazioni. Protagonisti di questa toccante pellicola non sono solo il neonato Théo e l’aspirante madre Alice, ma anche tutti gli operatori della macchina burocratica che viene attivata automaticamente dal momento della prima dichiarazione della madre naturale all’accettazione dell’ospedale. Pupille porta a riflettere sul ruolo di molte figure intermedie (selezionatori, educatori, pediatri, assistenti sociali) coinvolte in questo difficile cammino, mostra che il loro lavoro è fondamentale e terribilmente accidentato. Sono loro che devono “salvare” madre naturale, figlio e adottante: liberare la prima, accompagnare il secondo verso una vita il più possibile normale e, ancora più difficile, scegliere la terza. Ogni decisione è determinante e spesso definitiva, ogni valutazione può fare la differenza fra tragedia e normalità, tra gioia e dolore. Mentre loro lavorano, Alice combatte a denti stretti per un’adozione da single, si dichiara disposta ad accogliere bambini con bisogni speciali, si prepara, studia, cresce. Théo invece si rassegna, sembra lasciarsi andare a una sempre più profonda apatia, non piange, non reagisce agli stimoli, non cerca nessuno, non chiede da mangiare, rimane silenzioso nella sua culla in attesa di qualcosa o di qualcuno. Pupille è un film commovente ed emozionante, istruttivo e intelligente, girato e sceneggiato con equilibrio e sensibilità e sostenuto da un cast di attori eccezionali.

NEWS

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GIULIA PEZZOLI [ registrar ]

MARZO L APRILE 2020

La nuova agenda dell’arte e della cultura da marzo a settembre 2020, tra emergenza Coronavirus e vittime del mercato dell’arte.

LIP - LOST IN PROJECTON

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OSSERVATORIO CURATORI MARZO L APRILE 2020

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a cura di DARIO

MOALLI [ critico d'arte ]

GIOVANNI PAOLIN

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Una cena. Photo Giulia Fassina

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BIO fanno riferimento, ha avuto luogo in miste(Da leggere mentre si ascolta Music for riosi bagni sotterranei [Immersione LibeAirports di Brian Eno) Sono nato e cresciuto in un ra, Palazzina dei Bagni Misteriosi, Milano, Il presente testo, volutamente, non è luogo da cui ho sempre potuto aprile-maggio 2019, N.d.R.]. Qui hanno preopera di Giovanni Paolin. L’esperienza vivere la gioia dei lunghi viagso forma giganti mani di sabbia, surreali insegna che il suo modo di scrivere è troppo gi. Mi sto impegnando a rispetpavimenti a zig zag, delfini di cemento e spiconcentrato, troppo astruso, troppo occulto tare la promessa di far andare rali di bolle di sapone. perché le menti normali possano comprenbene le cose, senza perdere di Ha trascorso un lungo periodo in un’iderlo. Si è dunque ritenuto che una docuvista ciò che ritengo importansolata architettura medievale dove duranmentazione e conseguente elaborazione di te. Ho scelto un giocatore per te l’autunno si prendeva cura di portare un informazioni fornite da coloro che lo conoparlare di me, per il resto scrisano cambiamento dopo il caldo torrido scono meglio potesse essere un percorso vere a gio.paolin@gmail.com. dell’estate. Si occupava inoltre dell’attrapiù adatto alla presentazione della sua perversamento delle porte, e della storia di due sona. Tra coloro che sono stati contattapreziosi oggetti bizzarri: un silenzioso piati e interrogati circa la sua vita: la squadra di pallacanestro di Poggibonsi, la distanza tra New York e San noforte in legno e una zip senza giacca. Fu quella l’unica occasioFrancisco, il colore senape, un pile di seconda mano comprato in ne in cui ebbi l’opportunità di scambiare qualche parola con lui. Svezia, Jason Williams aka White Chocolate, il teatro La Fenice, i Mi lasciò un bigliettino che conservo dentro il mio testo di magia suoi amici Giulia e Matteo, Frater Perdurabo, una poetessa cono- preferito. Recita le seguenti parole: sciuta ieri sera, un oracolo, il primissimo Nanni Moretti, Sophie Scrivo scrivo scrivo scrivo Calle, il villaggio immaginario di Pol Sesanne e la paura di non e il tempo passa seguire le proprie vocazioni. scrivo scrivo scrivo La prima notizia che possiamo fornire sul suo conto e sule ti penso la quale tutti sembrano concordare (a parte Frater Perdurabo) scrivo scrivo è che Giovanni Paolin è in realtà Dean Moriarty, uno dei protae mi ripeto gonisti di Sulla Strada di Jack Kerouac. Si tratta tuttavia non scrivo di una manifestazione fisica del personaggio, ma proprio delle e lettere che compongono il suo nome sulla carta stampata: Dean Moriarty. Per evitare confusione nel presente testo ci riferiremo Quest’anno, in collaborazione con il caso e l’imprevedibilità tuttavia a Dean Moriarty con l’appellativo con cui i più si rivolgodell’universo, porterà avanti una performance che gli fu comno a lui: Giovanni. Giovanni, come noto, è solito ridere molto e ricercare avven- missionata dal talentuoso pittore Alessandro Fogo il giorno del turose collaborazioni. Pazzo di vita e desideroso di tutto allo suo 18esimo compleanno: graffiare la sua automobile come se stesso tempo, ha recentemente messo in scena diversi spettaco- fosse un delfino di Risso. li di quella disciplina che alcuni studiosi descrivono come arte contemporanea (ma che paradossalmente sembra essere iniRoberto Fassone Bagno a Ripoli, 28 gennaio 2020 ziata più di cento primavere fa). Uno dei più recenti, a cui molti



LIBRI

MARZO L APRILE 2020

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La comunit delle immagini MARCO PETRONI [ teorico e critico del design ]

Nell’epoca del selfie e dell’auto-rappresentazione mediata, Bianco-Valente ci invitano ad attraversare e vivere le immagini come fossero un meta-racconto. Si tratta di immagini che per il lettore esistono in quanto narrate, commentate. La coppia napoletana, non nuova a progetti coraggiosi e per certi versi spiazzanti, fa coincidere le immagini col loro racconto. A declinare questa epica iconica, Bianco-Valente hanno invitato una piccola comunità diffusa di sguardi più o meno legati al loro universo artistico, ai quali ha donato una fotografia a condizione che fosse svelata nella sua essenza narrativa e non esposta in pubblico. Emerge un tessuto narrativo volutamente frammentario ed evocativo intriso di mistero, che immerge chi legge in un flusso, un sottofondo di immagini private della condivisione pubblica. Si entra in un mondo dove le immagini consistono di una parziale e privativa condizione che ribalta l’idea che un’immagine esiste perché coincide con il suo apparire. Storie che si dilatano portando la loro origine in una dimensione che va oltre il visibile. Uno sguardo di conoscenza che si compone come racconto, come ecfrasi che sfida il suo stesso oggetto. Questa figura retorica, che ben si appunta al progetto messo in campo da Bianco-Valente con la complicità di Gianni Romano/Postmedia Books, tenta una comunicazione più espressiva e aperta di quanto possa essere un’immagine, cerca di trasmettere di più di quanto farebbe l’esperienza visiva stessa. Delizie e tormenti dello sguardo che non ha più codici stabili ma luoghi, spazi, persone dove perdersi. È qui che entrano in gioco, riverberano quei fantasmi che ci conducono in una sorta di labirinto dai sentieri frammentati e dispersi composti da ogni sorta di materiali spuri o addirittura antinomici dove trovare la via d’uscita richiede l’atteggiamento del paziente esploratore. Ne Il libro delle immagini Bianco-Valente indicano come possibilità unica dell’arte quella di una sensibilità cronicamente infantile allenata alla sconfitta e alla precarietà, che si muove attraverso una matassa di legami in cui pubblico e privato, visibile e nascosto, risultano alla fine inestricabili, confusi: una realtà che ha sempre un dietro e un altro, un complotto, un occulto. La realtà è complicata, e hanno un peso anche le passioni dei singoli, gli affetti, le frustrazioni, le ambizioni. Siamo trascinati in una sequenza di storie che vivono di continui rimbalzi e rovesciamenti, dove è possibile cogliere consonanze e dissonanze – che ci proiettano dentro un meccanismo assurdo. Del resto, come ci ha insegnato lo scrittore americano David Foster Wallace, “ogni storia d’amore è una storia di fantasmi” e scrivere è “praticare il massaggio cardiaco agli elementi di umanità e magia che ancora resistono”, e ancora, “parlare di cosa significa essere un fottuto essere umano”. Ottantaquattro racconti intimi generano un legame affettivo con l’immagine ricevuta in dono, a sottolineare un senso nuovo di comune appartenenza. “Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra che sia la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l’oscurità dei tempi” (D. F. Wallace). Bianco-Valente – Il libro delle immagini Pagg. 208, € 16,90 Postmedia Books – postmediabooks.it

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MARCO ENRICO GIACOMELLI [ vicedirettore ] ARTE: UNA META-STORIA Può sembrare incredibile, ma finora una storia della storia dell’arte in inglese non esisteva. Bisognava accontentarsi delle traduzioni dei due classici di Julius von Schlosser e Lionello Venturi (rispettivamente 1924 e 1936), o affidarsi agli studi di Udo Kultermann, Germain Bazin e Hubert Locher. E allora ci ha pensato Christopher S. Wood, storico dell’arte e docente alla New York University. Intanto chiarendo il campo a livello tassonomico, spartendo cioè la scrittura storica in tre modelli: annalistico (“la roll call di grandi artisti, spesso organizzata dagli artisti stessi”: l’esempio classico sono le Vite del Vasari), tipologico (“lo scopo o l’effetto della tipologia è anticipare o disabilitare la scrittura. La tipologia è un modo per far scrivere la storia agli artefatti stessi”, adottando una prospettiva astorica, idealistica) e favoloso (“una favola storico-artistica è una storia che relativizza un criterio convenzionale di valore, ridistribuendo lodi e colpe”). Con questa cassetta degli attrezzi, munita altresì dell’approccio empirico che emerge in ambito accademico nel XIX secolo, Wood affronta una storia che si “limita” al periodo che va dall’800 (non 1800, proprio 800) al decennio 1950-1960, analizzando l’operato di colleghi come l’annalista Zhang Yanyuan o i ben più noti Warburg, Wölfflin, Panofsky, Schapiro, Gombrich, Hauser, e sforando un poco nei Sixties quando accenna a Kubler, Berger e Baxandall. E dopo? C’è l’uso improprio della filosofia per questionare all’infinito i presupposti dell’indagine storica, che quindi resta sulla soglia. E dopo ancora? Succede la stessa cosa, ma con la politica. E la storia (dell’arte) s’inceppa ancora. Christopher S. Wood – A History of Art History Pagg. 462, $ 35 Princeton U.P. – press.princeton.edu

L UN CONNOISSEUR PANOFSKYANO Marc Fumaroli è senza alcun dubbio il più fine e celebre studioso vivente di retorica. Ma la passione per le arti visive e la loro storia lo accompagna da decenni e, in qualità di “amatore”, ha pubblicato una quantità di saggi scientificamente fondati e intellettualmente vivaci, seguendo con applicazione il metodo d’indagine iconologico propugnato da Erwin Panofsky. Questo libro di grande formato edito da Gallimard riunisce molti di questi interventi, talora inediti perché affidati a occasioni soltanto orali (una festa a Modena, una conferenza a Washington), talora pubblicati su cataloghi, riviste specializzate, volumi collettanei. Due i capitoli-contenitori: Barocco e classicismo, con pagine che attraversano l’opera – fra gli altri – dei Carracci e di Rubens, di Guido Reni e di Velázquez; Rocaille e neoclassicismo, con pagine illuminanti su questioni come la Nascita del museo moderno. Marc Fumaroli – Lire les arts dans l’Europe d’Ancien Régime Pagg. 464, € 65 Gallimard – gallimard.fr


SPORCHI NEGRIERI

Esi Edugyan Le avventure di Washington Black Pagg. 400, € 18 Neri Pozza – neripozza.it Colson Whitehead La ferrovia sotterranea Pagg. 382, € 20 SUR – edizionisur.it

7PERLIBRI SAPERE TUTTO SULLA #54

BIOARTE CLASSICO MODERNO Monumentale survey delle espressioni artistiche che s’intersecano con la scienza e la tecnologia, ha un intero capitolo dedicato alla biologia.

MARZO L APRILE 2020

Sono due storie di schiavitù, quelle raccontate da Colson Whitehead e da Esi Edugyan. Storie simili per tanti versi, e per molti altri assai diverse. I narratori sono scrittori afroamericani, l’uno che sceglie come protagonista la giovane Cora, l’altra sceglie il giovane Washington, in un intreccio speculare di generi che trova nella chiave avventurosa un tratto comune, steam-western nel primo caso, più verniano nel secondo. Simili e diversi sono i territori schiavisti che attraversano i protagonisti, partendo l’uno dalla Georgia e l’altra dalle Barbados, raccontando come anche gli Stati più progressisti avessero rigide regolamentazioni in fatto di schiavi fuggiaschi, per i quali valeva la legislazione dello Stato di provenienza. Perché parlarne qui? Perché la salvezza di Washington Black passa pure per la sua innata abilità nel disegno, grazie al quale “più che uno schizzo l’immagine

sembrava un’apparizione, una visione dell’esemplare trapassato nell’aldilà e fissato con un inchiostro lucido e spettrale”. E perché una tappa del viaggio di Cora consiste nell’impersonare una copia sbiadita della propria schiavitù in un museo: “I bambini battevano sul vetro e indicavano gli esemplari in maniera irrispettosa, spaventandoli mentre si fingevano affaccendati sui nodi da marinai. I visitatori a volte gridavano commenti alle loro pantomime, frasi che le ragazze non sentivano bene ma che avevano tutta l’aria di essere proposte volgari”.

Stephen Wilson – Information Arts The MIT Press – 2002 GILARDI RULEZ Se si parla di bioarte, in Italia è sinonimo di Piero Gilardi e PAV di Torino. Questi sono gli atti di un convegno internazionale tenutosi il 20 gennaio 2007. Dalla Land Art alla Bioarte Hopefulmonster - 2008 MALATI D’ARTE Peste, lebbra, colera, tubercolosi... Alla Patologia infettiva e contagiosa dedica pagine inquietanti questo medico appassionato d’arte. Corrado Lavini – Medicina ed arti figurative Athena - 2009

Trentacinque voci da altrettante storiche gallerie newyorchesi. Non le classiche interviste domanda-e-risposta, ma una decina di pagine per ogni interlocutore in testi scorrevoli, in prima persona, frutto dell’editing di ore di conversazione. Ci sono tutti? Quasi. Larry Gagosian, lo “squalo”, si è sottratto. Alan Jones & Laura De Coppet I galleristi di New York Pagg. 334 – € 29 Castelvecchi castelvecchieditore.com

ORRORE ILLUSTRATO Da notare che questo excursus secolare è in gran parte occupato da virus e virologie più o meno avanzate. Visti i tempi, è assai attuale.

LIBRI

Non c’è nulla da fare: ogni tanto occorre tornare ai concetti basilari, per ritrovare i fondamenti e riattualizzarli. Magari è impopolare, ma va fatto. Qui in maniera eccellente, coinvolgendo penne e menti sopraffine come Fulvio Carmagnola e Maddalena Mazzocut-Mis, Roberto Diodato e Stefano Velotti. Giovanni Ferrario (a cura di) Estetica dell’arte contemporanea Pagg. 266, € 24 Meltemi meltemieditore.it

Jonathan J. Moore Malattie terribili e atroci cure Logos – 2020 ALL’ATTACCO DELL’ARTE In epoca di timori pandemici, è bene mettere le questioni in prospettiva. E sapere, ad esempio, che anche le opere d’arte possono infettarsi. La biologia vegetale per i beni culturali 2 voll. – Nardini – 2005/2007

Prima uscita della collana NABA Insights, il volume indaga la sfida della curatela alla luce non solo della globalizzazione, ma pure di una presunta de-globalizzazione. A fare il punto della situazione, nomi altisonanti come Ute Meta Bauer e Charles Esche, Anselm Franke e Simon Njami, Hou Hanru e Vasif Kortun. Marco Scotini (a cura di) Utopian Display Pagg. 224 – € 20 Quodlibet quodlibet.it

Dalle avanguardie a oggi in 100 pagine, e con chiarezza cristallina. Discettando pure di Winckelmann e Lessing e Baumgarten. Aggiornando l’opposizione diacronia/sincronia del Laocoonte in favore della presenza o assenza di diegesi. Cioè: possiamo guardare i video d’arte per qualche minuto e poi andarcene. Renato Barilli Una mappa delle arti nell’epoca digitale Pagg. 96 – € 10 Marietti mariettieditore.it

VIRUS PERFORMATIVO La quarantena vi permette finalmente di leggere? Rispolverate questo forsennato romanzo performativo-musicale di Ilaria Palomba. Ilaria Palomba – Homo homini virus LA RIVISTA DI FAM Dal 1994 al 2001 esce la rivista Virus (mutations) diretta da Francesca Alfano Miglietti. In grande anticipo sui tempi, come ci ha abituato FAM. 1995-2015.undo.net/it/rivista/virus

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APP.ROPOSITO MARZO L APRILE 2020

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SIMONA

CARACENI [ docente di virtual environment ]

ART HEIST

Sono anni che seguo questo argomento e i miei più affezionati lettori ricorderanno le recensioni di tanti videogiochi ambientati nei musei: dai furti agli incendi da cui fuggire, fino agli educational stile caccia al tesoro per far divertire grandi e piccini. Aleggiava però sempre la mancanza di “quel certo non store.steampowered.com so che” e probabilmente qualche operatore free museale troverà beneficio psicologico in Oculus Rift uno dei giochi più violenti e sanguinosi mai ambientato in un museo. In Art Theist, infatti, sarete proiettati in un’istituzione privata, il Valentine Museum of Art, con una semplice missione: prendere più opere possibili, uccidere le guardie e darvi alla fuga. L’unica arma a disposizione è una pistola col silenziatore. Sinceramente ci aspettavamo di più. Ricordate il lavoro degli artisti Tobias Bernstrup e Palle Torsson, che nel 1999 crearono un’invasione virtuale di zombie mutanti al Moderna Museet di Stoccolma, dove fra le armi della guardia figurava anche un piede di porco?

L

NEWS

CHURCH ART OF SWEDEN

Nell’ambito del più ampio progetto Virtual Sweden, che dal lontano 1998 sta raccogliendo modelli 3D per presentare al mondo il proprio patrimonio naturale e artistico, arriva al grande pubblico questo estratto virtualsweden.se ben curato e “onesto”, sia nelle pretese che free nella resa grafica, riuscendo a presentare i Oculus Rift, HTC Vive, Valve modelli con un buon livello di dettaglio. La Index nazione stessa aveva iniziato a essere attiva su Second Life con uno spazio istituzionale e creazioni 3D che permettevano di visitare virtualmente la Svezia, fino ad arrivare a una potenziale collaborazione con Facebook grazie a Oculus, che attualmente è lo strumento di elezione per le sperimentazioni VR del colosso social, e il tour operator virtuale Ving, il quale permette questo tipo di esperienze “miste”, che possono convogliare un numero maggiore di visitatori verso il patrimonio fisico e reale.

L SMITHSONIAN

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Lo Smithsonian di Washington si butta nella mischia delle visite virtuali alle loro gallerie con questo applicativo che permette di visionare la collezione dell’American Art Museum. Questo museo virtuale include tre pezzi unici con cui gli utenti possono interagire, portando a un’esperienza si.edu più ampia e interattiva delle opere d’arte free originali. Gli utenti possono muoversi libe Oculus Rift, HTC Vive ramente all’interno dell’ala est del museo dall’interno dei loro visori e fruire di una dozzina di dipinti, quattro opere scultoree e un’installazione di videoarte in alta definizione. Quando si avvicinano all’Adams Memorial, vengono trasportati fuori dal museo, in una ricreazione volumetrica 3D nel cimitero di Rock Creek Park, possono sperimentare un video a 360 gradi e 6K di un’aurora boreale e vengono accolti da un ologramma volumetrico dell’artista Alex Prager che spiega l’ispirazione per il film del 2013 Face in the Crowd. Personalmente lo ritengo un buon esempio da seguire, anche se la vicinanza delle opere all’interno della galleria causano sovrapposizioni nelle descrizioni testuali.

Yvonne Farrell e Shelley McNamara dello studio Grafton vincono il Pritzker Architecture Prize VALENTINA SILVESTRINI L “Essere un architetto è un privilegio enorme. Vincere questo premio è una meravigliosa approvazione della nostra fiducia nell’architettura. Grazie per questo grande onore”. Così Yvonne Farrell ha commentato il conferimento a lei e alla collega Shelley McNamara del Pritzker Architecture Prize 2020, che torna di nuovo in Europa dopo le recenti assegnazioni all’architetto indiano Balkrishna Doshi, nel 2018, e al giapponese Arata Isozaki, nel 2019. La giuria, composta quest’anno da Stephen Breyer, André Aranha Corrêa do Lago, Kazuyo Sejima, Wang Shu, Benedetta Tagliabue, Deborah Berke, Barry Bergdoll e Martha Thorne, ha scelto di attribuire proprio alle due progettiste, fondatrici nel 1978 dello studio Grafton Architects, il Pritzker Architecture Prize 2020 perché “hanno costantemente e senza esitazione perseguito la massima qualità dell’architettura”. Una scelta dettata dai risultati conseguiti dal duo, in Irlanda e all’estero, ma legata anche al metodo di lavoro, caratterizzato da una profonda sensibilità geografica, e alla tenace volontà di raggiungere sempre, anche a fronte di budget contenuti, l’obiettivo dell’eccellenza in architettura. Fin dalle prime battute della lunga motivazione del riconoscimento, a essere messa in evidenza è una delle peculiarità che contraddistingue il duo: l’essere state “pioniere in un ambito professionale che è stato tradizionalmente ed è ancora dominato dagli uomini”. graftonarchitects.ie

NECROLOGY ULAY 30 novembre 1943 – 2 marzo 2020 L JAMES BROWN 11 settembre 1951 – 22 febbraio 2020 L YONA FRIEDMAN 5 giugno 1923 – 20 febbraio 2020 L CLAIRE BRETÉCHER 17 aprile 1940 – 10 febbraio 2020 L BEVERLY PEPPER 20 dicembre 1922 – 5 febbraio 2020 L ALBERTO MARANGONI 1943 – 3 febbraio 2020 L JASON POLAN 17 luglio 1982 – 27 gennaio 2020 L ADOLFO NATALINI 10 maggio 1941 – 23 gennaio 2020 L TERRY JONES 10 febbraio 1942 – 21 gennaio 2020 L BIANCA ATTOLICO 2 gennaio 1931 – 19 gennaio 2020


DIGITAL MUSEUM

MARIA ELENA COLOMBO [ museum & media specialist ]

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vam.ac.uk

quanto sia buona la nostra esperienza utente e per capire in quali punti le persone abbandonano il percorso di acquisto. Quando il fine è imparare, misuriamo il rendimento dei nostri contenuti: le persone sono interessate, stanno trovando ciò di cui hanno bisogno? Le metriche in quest’area includono, ad esempio, la frequenza di rimbalzo, il tempo di permanenza, la percentuale di un video guardato o di un articolo letto. Sul tema della visita, tracciamo quante persone che visitano il museo fisicamente hanno utilizzato il sito web come fonte di informazioni.

Quanto sono importanti la comunicazione e lo sviluppo digitali per un museo? E quanto al V&A? Negli ultimi trent’anni, i media digitali hanno aperto nuovi modi per i musei di connettersi e far crescere il pubblico. Il digitale è uno strumento vitale per aiutarci a realizzare le nostre missioni, per fornire accesso agli oggetti delle nostre collezioni. Al V&A ogni anno raggiungiamo online il quadruplo delle persone che viene al museo fisicamente. Quanto significa la digitalizzazione delle risorse e dei processi in termini di efficacia della comunicazione attraverso i social media? Stiamo lavorando alla digitalizzazione di tutti gli oggetti dei quali ci prendiamo cura: hanno dimensioni variabili da una piccola spilla Tudor a una complessa scala medievale. Avere immagini in alta risoluzione e produrre metadati di buona qualità richiede parecchio tempo. Ma una volta che avremo questi dati, potremo iniziare a creare avvincenti esperienze online e potremo servirci dei nostri contenuti per raggiungere nuove audience. Per il V&A quali attività sono rilevanti e significative? Avete attività partecipative? Il V&A ha una serie di priorità strategiche e, in ciascuna di esse, il digitale

riveste un ruolo importante; in sintesi e per temi, indico l’obiettivo specifico del digitale. Segmenti di pubblico: diversificare le audience in tutta la famiglia di siti, in crescita, del V&A e costruire un brand riconosciuto a livello globale. Collezioni: presentare per intero la portata delle collezioni del V&A, posizionando il museo al centro dei dibattiti globali su arte, design e performance. Nazionale/ internazionale: estendere e approfondire la portata della missione del V&A attraverso partnership e collaborazioni innovative in tutto il Regno Unito e all’estero. Learning/Creative Industries: attivare la collezione del V&A, programmi pubblici e reti creative per ispirare artisti, designer e innovatori. Sostenibilità: diversificare e aumentare le fonti di finanziamento pubbliche, private e commerciali a sostegno di tutti i siti e le strategie di V&A. Che tipo di metriche usi per valutare un progetto digitale? Stiamo lavorando per far maturare le nostre metriche, per superare quelle di “vanità” riferite a portata o volume verso metriche più significative e rappresentative delle prestazioni digitali. Stiamo pensando di identificare i differenti tipi di obiettivo dei nostri utenti nell’utilizzo delle risorse online e al modo migliore per sviluppare una serie di metriche che possono aiutarci a valutare, e quindi perfezionare, il modo in cui soddisfiamo le esigenze dei visitatori. Abbiamo identificato tre tipi di obiettivo: acquistare, imparare e visitare. Quando il fine della visita online è l’acquisto, impostiamo alcuni snodi di conversione per valutare

NEWS

Katie Price ricopre il ruolo di Head of Digital Media al Victoria & Albert Museum di Londra, dove ha da pochi giorni aperto una straordinaria mostra dedicata ai kimono.

Approfondiamo la relazione tra i visitatori del sito web e i visitatori del sito “fisico”. Una buona percentuale di persone che navigano il sito ha intenzione di visitare il museo. Abbiamo sviluppato contenuti più stimolanti e una migliore esperienza per l’utente al fine di trasformare una più alta percentuale di quelle visite online in visite fisiche. Ma la maggior parte dei nostri visitatori online non arriverà mai ai nostri edifici. Ecco perché è importante creare un’esperienza online avvincente che non tenti di ricreare l’esperienza museale, ma offra invece qualcosa di veramente distintivo.

MARZO L APRILE 2020

KATIE PRICE

Parlaci del rapporto con il museo per cui lavori. Quali sono i tuoi progetti preferiti? È facile lavorare su “cose digitali”? La mia relazione con il V&A è iniziata nel 1997 quando ho fatto il Master in Design History, un corso tenuto tra il V&A e il Royal College of Art. In realtà era iniziata prima, come visitatore, ma è stato solo durante i due anni del MA che ho davvero iniziato a costruire un profondo legame con le collezioni. Quattordici anni dopo sono tornata come responsabile dei media digitali. Questa è la parte preferita del mio ruolo: creare nuovi modi per le persone per connettersi con le storie dei nostri oggetti. È facile? Non sempre, ma chi vorrebbe un lavoro sempre facile? Puoi raccomandare un libro che ritieni utile per i colleghi italiani e non solo? Di recente mi è stato donato un libro intitolato Nine Lies about Work: A freethinking leader’s guide to the real world. Mette in discussione alcune delle “verità” di base sulla vita lavorativa e sottolinea gli aspetti che contano davvero sul posto di lavoro.

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DURALEX RAFFAELLA PELLEGRINO [

avvocato esperto in proprietà intellettuale ]

MARZO L APRILE 2020

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CIRCOLAZIONE DELL’OPERA D’ARTE E AUTENTICITÀ

NEWS

© Walter Larteri per Artribune Magazine

La circolazione delle opere d’arte è inevitabilmente condizionata dalla loro autenticità, quale fattore che incide sulla natura del bene oggetto di scambio e sul suo valore commerciale. L’essenza dell’autenticità – prendendo come riferimento la Legge sul diritto d’autore n. 633/41 – risiede nel legame tra l’autore e l’opera, che è il frutto del lavoro intellettuale dell’artista, titolare dei diritti morali e patrimoniali d’autore. La questione dell’autenticità può essere presa in considerazione sotto diversi punti di vista e può coinvolgere soggetti diversi tra loro. Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, per esempio, parla di Attestati di autenticità e di provenienza delle opere che devono essere obbligatoriamente consegnati all’acquirente da parte di “chiunque esercita l’attività di vendita al pubblico, di esposizione a fini di commercio o di intermediazione finalizzata alla vendita di opere di pittura, di scultura, di grafica

ovvero di oggetti d’antichità o di interesse storico od archeologico, o comunque abitualmente vende le opere o gli oggetti medesimi”; in mancanza di tali attestati, c’è l’obbligo di rilasciare “una dichiarazione recante tutte le informazioni disponibili sull’autenticità o la probabile attribuzione e la provenienza”. Il Codice dei beni culturali non indica il contenuto di tali attestati o dichiarazioni, lasciando agli operatori l’onere di colmare questa lacuna. Nel 2017, a supporto e delucidazione dell’art. 64 del Codice dei beni culturali, il MiBACT ha emanato la circolare relativa al Certificato PACTA – Protocolli per l’autenticità, la cura e la tutela dell’arte contemporanea, da utilizzare in caso di acquisizione di opere d’arte contemporanea da parte dei musei, fondazioni e istituzioni private. La circolare propone un modello di certificato di autenticità, da allegare al contratto di compravendita di opera d’arte da artista, contenente – fra le altre – indicazioni sull’opera, sugli autori, sulla data di creazione, istruzioni per l’allestimento e sulla conservazione, sui diritti di utilizzazione eventualmente trasferiti e altre informazioni. Il rilascio di attestazioni di autenticità

Pantone mette in commercio 315 nuovi colori

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GIULIA RONCHI L Ultime notizie dal mondo Pantone: l’istituto statunitense specializzato in catalogazione cromatica, dopo aver decretato la tonalità del 2020 – l’intramontabile Classic Blue – ora lancia ben 315 nuovi colori che tengono conto dei cambiamenti dell’attualità legati a tecnologia , intrattenimento, economia, stili di vita, stili di gioco, influenze culturali e sociali. Le nuove tonalità saranno come sempre indirizzate al mondo del design, della creatività e della progettualità in generale, e saranno integrate nella tavolozza Pantone Fashion + Home. Ma quali sono, in sostanza, i nuovi colori Pantone? Difficile riuscire a elencarli tutti qui, ma vi garantiamo che passarli in rassegna è un’operazione divertente e non poco. Tra le nuove tonalità, ad esempio, c’è il gusto della joie de vivre: a partire dal rosso Winery o dal rosa Sangria Sunset, dal viola Bonbon e dal marrone Chocolate Martini. Ci sono i colori ispirati alla natura, come lo Yellow Plum, il verde Tea Leaf o l’azzurro Frozen Fjord; quelli tratti dagli animali, ad esempio Flamingo Plume e Silent Storm (un grigio); ma, soprattutto, una vasta gamma è presa dalle

e provenienza sulla base di quanto stabilito nel Codice o nella circolare ministeriale rientra a pieno titolo fra le condotte suggerite nel Decalogo per l’acquisto di opere d’arte contemporanea, messo a punto dai Carabinieri dei Beni Culturali e dagli esperti della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma per evitare l’incauto acquisto di opere d’arte e la commissione di illeciti. Le 10 regole suggerite sono: 1. verificare sempre che l’opera sia corredata da certificati di autenticità o provenienza; 2. acquistare con fattura o scontrino con descrizione dell’opera; 3. prima dell’acquisto, verificare l’autenticità del certificato presso l’artista, l’archivio o il soggetto autorizzato ad archiviare le opere; 4. controllare la corrispondenza tra foto autenticata e opera originale; 5. rivolgersi a venditori inseriti da anni sul mercato, preferibilmente che abbiano avuto rapporti stretti con l’artista; 6. diffidare di expertise fornite da persone che non abbiano titolo a farlo e rivolgersi pertanto a fondazioni, archivi ed esperti con titoli accademici; 7. diffidare dell’“affare”; 8. informarsi sull’opera dell’artista e sui riferimenti accreditati di quell’artista; 9. seguire il mercato e le quotazioni; 10. evitare intermediari non facenti parte del settore ufficiale. A ben vedere si tratta di regole espressione di veri e propri obblighi di legge, ma anche di un generale canone di diligenza e attenzione che viene richiesto sempre più spesso dai giudici nazionali ai soggetti che comunque operano sul mercato.

varietà della terra e delle particelle pulviscolari, come Lava Smoke, Volcanic Ash e Summer Sand. I più curiosi, però, rimangono quelli legati alla sfera di sensazioni, emozioni, a cui l’istituto catalogatore ha voluto affibbiare un colore (nonostante in natura non esista): stiamo parlando del rosso Adrenalin Rush, del rosa Tender Touch, del bianco Baby’s Breath e del nero Unexplored. Pantone ha anche ridisegnato la sua collezione di guide e cataloghi, e revisionato il software della sua app includendo le nuove aggiunte 2020. pantone.com


Dior per l’ambiente: la maison e il Louvre si alleano per la sistemazione del Jardin des Tuileries

MARZO L APRILE 2020

GIULIA RONCHI L Dior, Parigi e le buone cause: una tripletta diventata ormai un segno distintivo. La battaglia al fianco dei valori femministi intrapresa da Maria Grazia Chiuri, creative director della maison, si era già resa manifesta nel prêt-à-porter autunno-inverno del 2019, nei giardini del Musée Rodin, con la collaborazione di Tomaso Binga; e, recentemente, in quella primavera-estate, stesso luogo ma con il supporto artistico della storica femminista militante Judy Chicago. L’ultimo show targato Dior si è invece spostato al Jardin des Tuileries ma questa volta, alla causa del women empowerment, se ne è aggiunta una ulteriore e affatto slegata: quella della salvaguardia del pianeta. Un obiettivo che il brand LVMH si è preso a cuore, tanto da siglare un accordo della durata di cinque anni, assieme al Museo del Louvre, per contribuire al restauro del polmone verde del primo arrondissement parigino. Il programma di restauro del Jardin des Tuileries comincerà in aprile, con la riapertura del boschetto nord-orientale di 3.000 metri quadrati popolato da 116 alberi di quattro specie diverse. Una missione green che riguarda anche la sfera culturale e del decoro urbano, date le numerose fontane e sculture che popolano questo sito. Ma pure turistica: creato nel 1564 sotto Caterina de’ Medici e poi ridisegnato da André Le Nôtre per Luigi XIV, il Jardin des Tuileries è uno dei giardini più noti al mondo, che accoglie 14 milioni di visitatori ogni anno. “Questo patrocinio porta con sé un messaggio che è più vitale che mai”, ha affermato la maison in una nota riportata da WWD. “Ognuno di noi può essere un agente di cambiamento per

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gli ecosistemi di domani, sia naturali che culturali”. L’ultima sfilata autunno-inverno 2020-2021, invece, ha visto la collaborazione di Claire Fontaine, entità creativa composta da Fulvia Carnevale e James Thornhill, di origine francese ma attualmente di base in Sicilia. Il duo ha creato l’intera scenografia, a partire dalla porta di ingresso padiglione adibito a ospitare la sfilata: “I say I”, scritto a grandi lettere, ovvero “io dico io”, un omaggio a Carla Lonzi, critica d’arte e attivista femminista italiana. dior.com

NEWS

IL PREMIO RINASCIMENTO + E LA RIVOLUZIONE CULTURALE FIORENTINA VALENTINA SILVESTRINI Ha già attivato un primo “rapporto virtuoso” Rinascimento +, il nuovo riconoscimento internazionale dedicato al collezionismo e al mecenatismo nell’arte, istituto dal Museo Novecento di Firenze con MUS.E. A margine della cerimonia di conferimento dei premi, che si è svolta lo scorso 23 febbraio nella Sala dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, Ursula Hauser – che ha condiviso con Laurent Asscher, Paolo Fresco e Rosella Nesi l’onore dell’assegnazione di Rinascimento + nella prima edizione assoluta – ha infatti espresso il desiderio di esporre parte della propria collezione nel capoluogo toscano. Un proposito affiancato da una serie di sopralluoghi in città, necessari per avviare la ricognizione sulla sede di questo progetto espositivo, atteso per il 2021: dal Forte Belvedere a Palazzo Vecchio, dal Museo Stefano Bardini al Museo Novecento. Ad annunciarlo in anteprima ad Artribune è Sergio Risaliti, cui si deve l’ideazione del premio e il proposito di riconoscere un valore nuovo al collezionismo privato moderno. La volontà è riaffermare la centralità di tale pratica nella stessa città in cui, non solo in passato, si è espressa con particolare vigore,

incentivando un sistema di relazioni, contatti, scambi. Firenze, dunque, intesa come “città universale”, magnetica e attrattiva per artisti, collezionisti, mecenati, studiosi e appassionati, ieri come oggi. Ma anche città-laboratorio, proiettata verso il futuro, poiché la feconda stagione del Rinascimento, cui la denominazione del riconoscimento attinge esplicitamente, “non è conclusa”: anzi, “la passione per l’arte e il gusto della sperimentazione non si sono esauriti”. Nelle parole dello stesso Risaliti, che quest’anno è stato coadiuvato nella selezione da Giovanni Iovane, Laura Lombardi e Giorgio Verzotti, “poche altre città sembrano destinate a consegnare l’’Oscar’ del collezionismo come Firenze”. Parte integrante del coraggioso percorso, promosso e sostenuto dall’amministrazione comunale fiorentina, di avvicinamento ai linguaggi dell’arte contemporanea, Rinascimento + è stato assegnato a personalità distinte, le cui raccolte riflettono interessi e traiettorie indipendenti e riconoscibili. Sofisticata e raffinatissima, la collezione di Ursula Hauser rappresenta un unicum nella scena culturale elvetica e, probabilmente, globale: “Fin dall’inizio, lei si è

dedicata al sostegno delle donne dell’arte e negli ultimi decenni anche alle giovani generazioni”, ha evidenziato il direttore del Museo Novecento. Laurent Asscher viene presentato come “un collezionista di nuova generazione, con un senso altissimo della qualità, che sceglie in modo quasi chirurgico”. Il suo amore verso l’Italia si è concretizzato nell’acquisto dello storico palazzo veneziano Molin del Cuoridoro, sede della sua AMA Collection. La Crisalide di Sole, il premio progettato dalla designer Maria Sole Ferragamo per “incarnare” lo spirito di Rinascimento +, è stato inoltre consegnato a Rosella Nesi. In una città come Firenze, “a lungo impermeabile al contemporaneo, lei è stata una pioniera e ha dato un esempio a tutti: ha messo da parte il suo iniziale interesse per la stagione macchiaiola e si è addentrata in nuovi territori”, ha ricordato Risaliti. Infine, Paolo Fresco, “filantropo generosissimo e collezionista attento, che ha saputo miscelare i suoi interessi, sperimentando ad esempio incontri come quello tra il Rinascimento fiorentino e la Pop Art americana”. museonovecento.it

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a pick gallery Torino

Via Bernardino Galliari 15c

Siamo in due a gestire la galleria: Emanuela Romano e Valentina Bonomonte. Insieme abbiamo già fondato un’altra galleria, un’associazione culturale, abbiamo collaborato con istituzioni museali e abbiamo curato diversi progetti artistici.

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Torino Porta Nuova

Via Niz za

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partecipazione a fiere e la partnership con altre gallerie estere. Inoltre, portiamo avanti un progetto parallelo con Opere Scelte, una galleria senza sede che supporta artisti italiani ed eventi off.

info@apickgallery.com apickgallery.com

Via G

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A Pick Gallery è il punto di convergenza di varie esperienze. È una galleria d’arte contemporanea “classica”: un luogo dove accadono molte cose, non si programmano solo mostre o si vendono opere; è un luogo, non solo fisico, dove attivare connessioni, dove scoprire nuove realtà, dove discutere e appassionarsi.

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A Pick Gallery è un progetto in continua evoluzione, aperto alle sperimentazioni, che punta a mostrare al pubblico torinese artisti internazionali e inediti. Allo stesso tempo puntiamo a entrare nei mercati internazionali attraverso la

NUOVI SPAZI

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bianchi zardin Milano

Puntiamo a un pubblico interessato, curioso e appassionato, sicuramente internazionale ma anche locale, rafforzando la nostra presenza sul territorio.

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Lo spazio è di circa 300 mq suddiviso su due piani. Crediamo che l’ampiezza della galleria e la sua conformazione siano perfette per accogliere qualsiasi tipologia di mostra o evento. Prima di noi c’era una birreria e prima ancora una bottega di falegnameria. Questi cambiamenti ben si prestano al territorio di San Salvario, che è in continuo movimento e molto variegato; e noi ci sentiamo perfettamente in linea con il quartiere.

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ragionamenti; formazione significa dialogare con il nostro pubblico e organizzare eventi, tavole rotonde, lezioni e laboratori.

Via Maroncelli 14

Andrea Zardin appartiene alla quarta generazione di una famiglia di galleristi e ha una passione istintiva verso l’arte contemporanea. Per quanto riguarda me, lavorando come advisor mi sono anche occupata di ideare e condurre percorsi d’arte per i collezionisti, da qui il colpo di fulmine per il settore educational, che ho approfondito prima con un’esperienza in un grande museo a Londra e poi con una mia attività.

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Cimitero Monumentale

sio ere li cel ron Ma Via

Si tratta di un nuovo inizio, facendo tesoro dell’esperienza passata. La famiglia Zardin si occupa d’arte da quattro generazioni e Andrea, che è cresciuto respirando arte nel corso della sua esperienza lavorativa con il papà, Gianni Zardin, nella galleria Carte Scoperte che si occupava prevalentemente di opere su carta del primo Novecento, ha sempre più sviluppato interesse e affinità con il mondo dell’arte contemporanea. Io, Gaia Bianchi, Io ero reduce da una lunga esperienza estera durante la quale mi sono specializzata nel settore educational. Lui è interessato a sostenere e scoprire giovani artisti in Italia e all’estero con cui crescere e condividere progetti di ricerca. I differenti percorsi professionali si sono così fusi per dare vita alla nostra idea di galleria: uno spazio dove vivere l’arte attraverso gli incontri con artisti, curatori, collezionisti e appassionati. Un luogo dove è possibile parlare d’arte e scambiarsi opinioni e visioni, un luogo che vive l’arte condividendone tutte le sfaccettature.

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Le parole chiave del nostro progetto sono ricerca, collaborazione e formazione. Ricerca significa confrontarsi continuamente con tutto ciò che succede nel mondo dell’arte contemporanea per intuire i progetti giusti per la nostra galleria; collaborazione significa lavorare a stretto contatto con i protagonisti del mondo dell’arte permettendo uno scambio di idee e

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Andrea e io ci occupiamo in prima persona della galleria, condividendo ogni decisione, e sicuramente nel tempo ci avvarremo dell’aiuto di altri giovani collaboratori. Riteniamo essenziali le collaborazioni con curatori esterni tanto che la galleria sostiene il progetto hyphen, uno spazio dedicato alla pratica della curatela. Non è una galleria ma un progetto di un anno composto da cinque mostre. Ogni mostra è il risultato della residenza di ciascun curatore, concepita in dialogo con i restanti quattro.

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info@bianchizardin.com bianchizardin.com

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Le collaborazioni ci piacciono molto! Non lavoriamo con curatori o collaboratori interni, ma a seconda dei progetti attiviamo delle partnership con curatori esterni e altre gallerie. Fra le nuove collaborazioni citiamo il Fringe Festival, che a maggio entrerà in galleria.

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Milano negli ultimi anni ha vissuto una grande trasformazione assumendo sempre più le caratteristiche di una città internazionale e con la nostra galleria desideriamo far parte di questo processo promuovendo l’arte contemporanea nella nostra città e all’estero, dialogando con le altre gallerie, le istituzioni private e gli enti pubblici, ma sarà soprattutto con la formazione che intendiamo avvicinare la nostra città all’arte.

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La nostra galleria era lo studio personale di Grazia Neri, la fondatrice dell’omonima agenzia fotografica, e siamo onorati di continuare a dare vita a questo luogo che da sempre ospita creatività. Lo spazio era già stato ristrutturato da Gianni Zardin, noi abbiamo migliorato l’impianto di illuminazione e ricavato una terza sala espositiva trasformando una zona che era utilizzata come ufficio. Sosteniamo l’Associazione di Via Maroncelli e ci impegneremo nello sviluppo di quest’area di Milano collaborando con i nostri colleghi e trovando progetti d’interesse comune volti alla promozione di tutte le attività della nostra via.

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1. C om’è nata l’idea di aprire questa nuova galleria? Da

quali esigenze, da quali istanze, da quali punti di partenza?

collaboratori interni? Vi avvalete di curatori esterni?

5. Su quale tipologia di pubblico (e di clientela ovviamente) puntate? E su quale rapporto con la città in cui aprite?

3. C hi siete? Quale è la compagine che affronta questa avventura? Cosa avete fatto prima?

small cube Bologna

6. U n cenno ai vostri spazi espositivi. Come sono,

come li avete impostati e cosa c’era prima? E come vi interfacciate col territorio circostante?

Il vero progetto è iniziato con Doors, inaugurato il 25 gennaio. Con questa mostra proviamo a creare un passaggio per tutti i mondi e le dimensioni.

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2 . Descrivete in tre righe il vostro nuovo progetto.

4. A livello di staff come siete organizzati? Avete

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Via San Vitale 21a

Siamo un team di persone che amano l’arte e che non hanno paura di andare controcorrente. Per questo motivo, chi vuole collaborare con noi deve accettare di trovarsi in luogo non convenzionale.

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smallcubegallery@gmail.com smallcubegallery.com

Via San Vitale Le due Torri

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Abbiamo collaboratori interni e ci avvaliamo, inoltre, di collaborazioni esterne per la ricerca degli artisti.

Non abbiamo una tipologia di pubblico specifica, la nostra galleria è aperta a tutti. Per quanto riguarda il territorio, si inizierà da Bologna e Milano, e dopo ci si sposterà.

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la portineria Firenze

Il nostro spazio è molto piccolo, ma a misura d’uomo. Prima c’era un ex negozio in disuso da tanti anni. Si compone di sole tre pareti (due fisse e una mobile). Lo descriverei come un piccola dimensione a sé stante, in cui poter riprendere fiato e perdersi tra le opere. Ogni tanto non sembra nemmeno di essere dentro il caos di Bologna. L’intento è quello di aprire spazi minimi in più città.

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dell’architettura e della funzione originarie del luogo, vengono proposti progetti di artisti di varia provenienza e differente generazione, secondo dei formati che cambiano ogni anno.

info@laportineria.art laportineria.art

L’ideazione e la direzione del progetto è di Matteo Innocenti, curatore indipendente che nel corso degli anni ha collaborato con varie istituzioni, spazi pubblici e privati, residenze d’artista; recentemente ha avviato insieme ad altri fondatori Estuario project space presso il complesso degli ex Macelli di Prato (Officina Giovani), in collaborazione con l’amministrazione cittadina. Satellite è un progetto di Francesco Ozzola, direttore di Suburbia Contemporary, galleria con sede a Granada, in Spagna.

NUOVI SPAZI

L’idea di partenza è stata quella di poter dare spazio ad artisti che creano arte non per farsi un nome ma per un’esigenza di vita. La loro tecnica artistica è come uno strumento del pensiero, che serve per intraprendere un sorta di cammino spirituale. Loro non si preoccupano del sistema dell’arte occidentale.

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Campo di Marte (Stadio)

Viale D use

La Portineria, spazio indipendente per l’arte contemporanea a Firenze, ha tra i suoi obiettivi primari la sperimentazione progettuale, nonché, più nello specifico, la stimolazione di un rapporto tra gli abitanti del quartiere in cui si trova e le attuali modalità artistiche - la conformazione degli ambienti, interni a un palazzo ma ben visibili dall’esterno grazie a delle vetrate che possono servire da accesso, suggerisce di per sé questa funzione. L’occasione è stata la ristrutturazione dello stabile che ci ospita, situato nella zona residenziale Campo di Marte. Si tratta di un edificio di valore storico ed estetico, realizzato dall’architetto Oreste Poli nei primi Anni Settanta, in cemento a vista, con un’articolazione singolare dei volumi e forte sviluppo verticale; fu una delle prime costruzioni a proporre questo stile in città e a oggi ne rimane in effetti uno degli esempi più interessanti.

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Si tratta di un nuovo spazio per l’arte contemporanea e l’attivazione culturale di una zona urbana. Nel rispetto

Trattandosi di un progetto non profit, almeno nella prima fase dobbiamo di necessità mantenere basse le spese, anche per questo il sostegno del Gruppo Poli, proprietario dell’edificio, e di PMG Italia si è rivelato essenziale. Stiamo lavorando come un piccolo network: a cui ognuno contribuisce con le sue competenze e la sua passione.

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Da una parte ci aspettiamo che il progetto attiri l’interesse del pubblico che già conosce l’arte contemporanea e che frequenta le mostre, dall’altra invece abbiamo il desiderio di incuriosire e rendere partecipi le persone che abitano questa parte della città: l’aspetto dialogico con la comunità è fondamentale.

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Si tratta di due spazi identici, ognuno di circa 20 mq. Oltre ad avere la particolarità di trovarsi in un palazzo abitato, hanno entrambi una vetrata di affaccio sull’esterno che è anche un ulteriore accesso: è importante, perché permette di rendere visibili i progetti in modo costante, senza limiti orari, per tutte le persone che si trovano a passare dalla strada.

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GESTIONALIA

BIENNALE ARTE 2021: I PADIGLIONI ANNUNCIATI

EBITDA ERGO SUM

DESIRÉE MAIDA L La Biennale Arte di Venezia si svolgerà da maggio a novembre 2021 e sarà diretta da Cecilia Alemani. Nel frattempo però si annunciano i primi padiglioni. Una carrellata da Gran Bretagna a Nuova Zelanda.

IRENE SANESI [ dottore commercialista ]

AUSTRIA Sono Jakob Lena Knebl e Ashley Hans Scheirl le artiste selezionate per rappresentare l’Austria alla prossima Biennale d’Arte di Venezia. Il Segretario di Stato austriaco per gli Affari Culturali Ulrike Lunacek ha dichiarato che il progetto proposto dalle due artiste per il Padiglione ai Giardini è “vivace”, e non mancheranno umorismo e satira. Stando alle prime indiscrezioni, Jakob Lena Knebl e Ashley Hans Scheirl installeranno all’interno del Padiglione dipinti, opere tessili, fotografie, oggetti, opere audio e video e ologrammi per creare “spazi del desiderio”.

NEWS

© Walter Larteri per Artribune Magazine

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Povero Cartesio, penseranno molti di voi. E come darvi torto: pensando di stare sulla macchina del tempo, il filosofo si troverebbe oggi in mezzo a una giungla di acronimi, parte integrante e identitaria della nostra routine. Inclusi gli acronimi che riguardano il conto economico di un bilancio, come l’Ebitda. Che cos’è questo indice (di performance) e perché può sollevare anche per le imprese culturali una serie di riflessioni? Cominciamo intanto a spiegare il significato letterale di Ebitda: Earnings Before Interest Taxes Depreciation and Amortization. Si tratta cioè dell’avanzo di gestione prima di pagare gli interessi (passivi), le tasse, le svalutazioni e gli ammortamenti. Perché l’Ebitda per le imprese culturali è ancora più pregnante che per le for profit? Avete trovato spesso imprese culturali con finanziamenti/mutui/leasing (che generano interessi passivi) finalizzati a investimenti (che generano ammortamenti)? E ancora: salvo le tasse sul costo del lavoro (Irap), grazie anche ai benefici della norme per gli enti del terzo settore, non sono molte le imprese culturali che pagano altri tipi di tasse (qualcuno qui pensa all’IVA a costo per pro rata, ma quella è un’altra storia). Non parliamo poi di svalutazioni: i bilanci delle imprese culturali sono talmente tirati che non hanno margini per operazioni prudenziali simili. Ecco allora che il margine che si ottiene togliendo dai proventi i costi, incluso quello del lavoro, rappresenta il risultato effettivo perseguito da un’impresa culturale, la sua reale capacità di generare valore. L’Ebitda (in italiano definito MOL – Margine Operativo Lordo) inoltre ci fornisce indicazioni riguardo al flusso di cassa potenziale per l’impresa. Va indagato sia in termini assoluti (come risultato in euro e anche come capacità dell’impresa di generare valore) sia in termini relativi, come percentuale sui proventi (così da consentire una confrontabilità con anni precedenti o anche con altre imprese). Concludiamo con qualche riflessione. Nel presente, lo abbiamo detto, si tratta di un indice che fotografa la generazione di valore e come tale è importante da misurare. Il futuro ci impone una valutazione riguardo alla difficoltà (a volte incapacità) delle imprese culturali di investire (ricorso al capitale di credito in primis). Gli investimenti sono fondamentali per la sostenibilità e la crescita, anche se implicano rischio e pianificazione: ma non è forse proprio di questo – soprattutto di pianificazione – che le imprese culturali hanno bisogno? Ben venga l’Ebitda, dunque.

OLANDA Il Paese a sorpresa ha annunciato di lasciare il proprio spazio ai Giardini, il Padiglione in stile modernista progettato nel 1954 da Gerrit Thomas Rietveld, riadattando un edificio risalente al 1916, in precedenza occupato dalla Svezia. Il Padiglione Olanda, in occasione della prossima Biennale d’Arte, sarà occupato dall’Estonia, mentre ancora nulla si sa sulla sede alternativa degli olandesi. AUSTRALIA Nato a Melbourne nel 1964, sarà Marco Fusinato a rappresentare l’Australia: è un artista multidisciplinare, che spazia tra musica, installazioni, fotografia fino alla performance. Il suono nelle sue opere è utilizzato come strumento per dare vita a nuove forme di percezione, e i suoi lavori spesso indagano concetti e “forze” contrapposti, come cultura alta-cultura bassa, rumore-silenzio, minimalismo-massimalismo. FINLANDIA “Sono entusiasta di fare un nuovo lavoro per il Padiglione della Finlandia a Venezia”. Con queste parole la video e performance artist Pilvi Takala ha commentato la sua partecipazione alla Biennale d’Arte di Venezia 2021 rappresentando la Finlandia. La mostra all’interno del celebre Padiglione ai Giardini progettato da Alvar Aalto sarà commissionata e prodotta da Frame Contemporary Art Finland e curato da Christina Li. FRANCIA L’artista franco-algerina Zineb Sedira rappresenterà la Francia alla Biennale d’Arte di Venezia 2021. Sarà la prima artista di origini algerine a ricevere questo onore. Con mostre al Palais de Tokyo di Parigi, al Musée d’Art Contemporain di Montréal, alla Tate Britain, al Mori Art Museum di Tokyo e al Brooklyn Museum di New York, per citarne solo alcune, indaga il tema della memoria intergenerazionale, come nella retrospettiva tenutasi al Jeu de Paume a Parigi: qui video, film, installazione e fotografia concorrono al collezionare, registrare e trasmettere storie proprie della ricerca di Sedira. GRAN BRETAGNA Durante le prime fasi dell’era post-Brexit, per rappresentare il Paese alla prossima Biennale è stata scelta l’artista di origini afro-caraibiche Sonia Boyce. La partecipazione di Boyce rappresenta inoltre il primo caso di donna di colore selezionata per realizzare un progetto


all’interno del Padiglione della Gran Bretagna. “Il lavoro di Boyce solleva importanti domande sulla natura della creatività, mettendo in discussione chi fa arte, come si formano le idee e la natura dell’autorialità”, ha commentato Emma Dexter, direttrice delle Arti Visive del British Council.

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CRISTINA MASTURZO [ esperta di mercato ]

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NUOVA ZELANDA L’annuncio è giunto addirittura con Biennale 2019 ancora in corso. Sarà Yuki Kihara a rappresentare il paese. Nata sull’isola di Samoa, in Polinesia, da madre samoana e padre giapponese, Yuki Kihara a 15 anni emigra a Wellington, in Nuova Zelanda, per proseguire gli studi. L’artista è una fa’afafine, termine con cui a Samoa vengono chiamate le persone che si identificano in un terzo sesso, similmente alle identità LGBTQ+ in Occidente. Il lavoro di Kihara, che si sviluppa attraverso i linguaggi della fotografia, del video e della performance, affronta temi legati al colonialismo e all’impatto che quest’ultimo ha avuto nel corso della storia sul genere e sulla sessualità, in particolare nelle comunità del Pacifico CANADA Tocca nel 2021 a Stan Douglas, con un progetto commissionato dalla National Gallery of Canada in Ontario. Tra gli artisti più noti del Paese per le sue opere multidisciplinari – che includono video, fotografia e produzioni teatrali – Douglas è stato scelto da una giuria formata dal direttore e chief curator del Musée d’art contemporain de Montréal John Zeppetelli, dal direttore della Polygon Gallery Reid Shier, e da Sasha Suda e Kitty Scott, rispettivamente direttore e vicedirettrice della National Gallery of Canada, per la “reimmaginazione” che l’artista sperimenta con i media e per il suo impegno per l’indagine sociale.

Un’arte più democratica? Ai Weiwei mette in vendita un’opera su un sito di fai-da-te VALENTINA TANNI L “L’arte è di tutti. Tutti possiedono la capacità di farla. Devi provarlo in un ambito molto più ampio rispetto alla ristretta cerchia del mondo dell’arte”: ecco l’ultimo progetto di Ai Weiwei, Safety Jackets Zipped the Other Way. L’artista cinese, che in molte altre occasioni ha espresso questa idea egualitaria dell’attività artistica, ha deciso di mettere in piedi una collaborazione con Hornbach, marchio tedesco che vende materiali per il fai-da-te. L’idea è quella di produrre un’opera che si rivolga a tutti e non soltanto agli addetti ai lavori. La “scultura”, che può essere acquistata online in diverse configurazioni e poi montata a casa propria seguendo le istruzioni (con certificato di autentica, però), consiste in una serie di giacche di segnalazione arancioni allacciate tra loro e poi appese a una struttura di pali d’acciaio. A livello estetico, l’oggetto cita altre opere di Ai Weiwei: quelle fine Anni Ottanta, in cui utilizzava impermeabili abbottonati tra loro, ma anche le installazioni più recenti dedicate al tema dei migranti, contraddistinte dall’uso ricorrente di gommoni e giubbotti di salvataggio. L’opera può essere composta di 4, 5 o 7 giacche e può essere montata a terra o a muro; la versione piccola è disponibile per 150 euro, mentre la grande per 500. I riferimenti alla storia dell’arte non si contano. La superficialità dell’approccio, però, è 100% farina del sacco di Ai Weiwei: secondo quale principio questo oggetto – viene da chiedersi – può essere definito, come recita lo statement, “un’opera d’arte democratica”? Forse perché possiamo montarcela da soli come fosse un mobile Ikea? C’è da sperare che almeno le istruzioni vengano ignorate o volontariamente travisate dagli acquirenti, come succede da sempre con gli oggetti più popolari di Ikea, dando vita a una serie di opere diverse e impreviste. hornbach.de/aiweiwei/

David Hockney, Splash, 1966. Courtesy Sotheby's

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David Hockney, Splash, 1966 £ 23,117,000 Sotheby's

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Jean-Michel Basquiat, Rubber, 1985 £ 7,487,600 Sotheby's

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Francis Bacon, Turning Figure, 1963 £ 7,032,000 Sotheby's

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Yves Klein, Untitled Anthropometry (ANT 132), 1960 £ 6,177,750 Sotheby's

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Christopher Wool, Untitled, 2007 £ 6,156,809 Sotheby’s

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Andy Warhol, Andy Warhol, 1977 £ 4,973,250 Christie’s

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Adrian Ghenie, The Arrival, 2014 £ 4,184,500 Sotheby's

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Jean-Michel Basquiat, The Mosque, 1982 £ 3,951,729 Christie's

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Ed Ruscha, God Knows Where, 2014 £ 3,375,000 Phillips

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David Hockney, Walnut Trees, 2006 £ 3,251,250 Christie’s

NEWS

labiennale.org

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Campione di analisi: Sotheby's, Contemporary Art Evening Auction, Londra, 11 febbraio 2020 Christie's, Post-War and Contemporary Art Evening Auction, Londra, 12 febbraio 2020, Phillips, 20th Century & Contemporary Art Evening Sale, Londra, 13 febbraio 2020 I prezzi indicati includono il buyer’s premium.

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INVERNOMUTO HQ Dalla collaborazione tra Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi nasce questo duo piacentinomeneghino. Qui c’è il loro headquarter, dove nascono e prendono fantasmaticamente corpo visioni video, performative, plastiche, editoriali e musicali. Un mondo tutto da scoprire. via de marchi 33 invernomuto.info

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TRATTORIA IL BORGHETTO La tradizione toscana importata da Emilio Cecchi in una ex cascina, condita da una gentilezza comprovata e da un magnifico giardino esterno, che nei mesi caldi la rende un luogo immancabile. Carni alla brace da urlo, selezionate tra fiorentina Chianina, filetto di Kobe... via comune antico 1 ristoranteilborghetto.it

LEONCAVALLO Luogo storico della cultura alternativa, lo si può accostare da vari punti di vista. Se siete cultori della street art, qui c’è un museo a cielo aperto. Se amate il vino, c’è la La terra trema, ottima occasione per un tour italiano (e francese) della micro produzione di qualità. via watteau 7 leonacavallo.org

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REFETTORIO AMBROSIANO Si dà da mangiare ai bisognosi, ma con dignità. Gli ideatori sono Massimo Bottura e Davide Rampello. I tavoli sono prodotti da Riva 1920 su disegno di 13 designer (da Aldo Cibic a Italo Rota). Alle pareti opere, fra gli altri, di Enzo Cucchi e Maurizio Nannucci. Chiaro? piazza greco 11 refettorioambrosiano.it

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Fino a un secolo fa, precisamente il 1923, era un Comune autonomo. Questo non significa che Greco abbia perso la sua identità. Abbiamo fatto una passeggiata da sud a nord per l’ennesima zona del capoluogo lombardo in pieno sviluppo. Con qualche deviazione meritevole.

CIMITERO Enorme area verde, se la si rapporta all’ampiezza del borgo. Qualcosa come 38mila metri quadri, intorno ai quali si snoda una pista ciclabile. Se pure in Italia iniziassimo a rendere più umano il rapporto con la morte e con i morti, non sarebbe affatto male. via de marchi comune.milano.it/servizi/ cimiteri-comunali

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EAST RIVER Qui intorno ci sono tanti binari e viadotti ferroviari, d’accordo, ma anche la mitica Martesana. Lungo il canale sta nascendo questo progetto, teso a trasformare una ex carrozzeria in un luogo che unisce serre e orto didattico, ciclofficina e pontile, ristoro e sport. via jean jaurès 22 eastriver-martesana.it

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STAZIONE RADIO Una sottostazione elettrica dismessa di Centrale, che si affaccia a sud-est sui binari e a nordovest sulla ciclovia della Martesana. Qui ha sede una radio digitale, che è anche un luogo dove si tengono corsi, eventi e servizi di promozione turistica. via tofane 25 stazioneradio.eu

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DANDELION L’indirizzo non c’è perché è un secret cocktail bar e per sapere l’indirizzo dovete risolvere un rebus, poi prenotare, poi risolvere un altro enigma così da avere la parola d’ordine per entrare. Ne vale la pena? Assolutamente sì. Ambienti disegnati da Alice Frana, drink preparati da Manuel Quintiero e Stefano Foglini. facebook.com/dandelion.bar/

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TRETI GALAXIE [ art project ]

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Irene Fenara HO PRESO LE DISTANZE, 2013 33 Polaroid

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Ho iniziato con la Polaroid perché mi interessava l’oggettualità della fotografia. La intendevo più come oggetto che come immagine, perché la puoi toccare prima ancora di poterla vedere. Questo è stato l’approccio iniziale al mezzo. Ho lavorato tanto con fotografie che per me erano innanzitutto oggetti, quindi Polaroid, o fotografie trovate nei mercatini, e poi pian piano sono passata alla smaterializzazione, a foto che nessuno guarda, quelle delle videocamere di sorveglianza. Quello che ho presentato da Prada era un lavoro sulla prossemica. Avevo letto dei libri di Edward Hall e mi aveva colpito il modo in cui, in maniera scientifica e specifica, andava a parlare di qualcosa di astratto come gli affetti. Ad esempio, si usa dire “ti sono vicino” se ci si sente vicini affettivamente a una persona. Hall nei suoi libri dichiara, in maniera precisa e definita, che la distanza da 0 a 21 centimetri è una distanza intima, mentre da 21 a 120 cm è una distanza personale. Ho deciso di testare nella mia esperienza quotidiana queste teorie e ho iniziato a fotografare amici, parenti, conoscenti e le persone che incontravo in quel periodo. Prima scattavo la fotografia nella maniera più istintiva possibile, in seguito andavo a misurare con un metro la distanza che mi separava dal soggetto.

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SELF PORTRAIT FROM SURVEILLANCE CAMERA Ho iniziato a fare gli autoritratti perché avevo la necessità e la voglia di andare fisicamente in questi luoghi, che per me erano solo virtuali. Sono quattro anni che raccolgo queste immagini, ma sono solo due che faccio gli autoritratti. Nei due anni precedenti, le immagini di questi paesaggi le guardavo solo al computer. A volte è strano, perché guardandole dal monitor in modo continuativo prendi una certa familiarità con i luoghi, e quando poi li vai a visitare riconosci tutto, ma li vedi dall’angolazione opposta, al rovescio. Mi sento un po’ come un ladro, che studia accuratamente la destinazione del suo colpo. Prima di andarci fisicamente osservo per giorni, mesi, a volte anche anni. È un modo strano di viaggiare, un turismo personale. Quando faccio le ricerche per gli autoritratti ho cartelle piene di immagini dello stesso posto, prese in diverse ore del giorno e in diversi periodi dell’anno, per scegliere il momento esatto in cui mi inserirò io. Mi sono data poi una regola per la stampa, nel senso che tengo la misura del mio corpo sempre della stessa dimensione, così che diventi l’unica unità di misura di questo mondo controllato.

IDENTIKIT NOME E COGNOME: Irene Fenara ANNO E LUOGO DI NASCITA: 1990, Bologna LUOGO DI RESIDENZA: Bologna ISTITUTO DI FORMAZIONE: Accademia di Belle Arti di Bologna MEDIUM PREFERITO: immagine (fotografia, video, installazione) ULTIMA MOSTRA PERSONALE: Distant Eyes, a cura di Christiane Rekade, Kunst Meran/o Arte 2019 ULTIMA MOSTRA COLLETTIVA: Metafotografia, a cura di Mauro Zanchi e Sara Benaglia, BACO, Bergamo 2019 PROSSIMA MOSTRA IN PROGRAMMA: Giovane Fotografia Italiana, a cura di Ilaria Campioli e Daniele De Luigi, Festival Fotografia Europea, Reggio Emilia 2020

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SUPERVISION, 2018 screenshot, stampa su carta blue back, cm 300x600 Photo Cosimo Filippini Courtesy l’artista e UNA galleria Esiste una quantità enorme di dispositivi che acquisiscono immagini e dati che non hanno nessun tipo di valore estetico. Ho scoperto che vi si poteva accedere in maniera molto casuale; un amico aveva installato a casa della nonna una videocamera e mi fece vedere che poteva guardarla dal telefono. La cosa mi ha fatto impazzire e ho iniziato a fare ricerche su come funzionasse. In generale mi interessano tutti quei dispositivi che non sono stati creati per fini artistici ma che hanno delle funzionalità molto specifiche, come appunto le videocamere di sorveglianza. Questo strumento, che nasce come funzionale, può produrre situazioni estetiche inconsapevoli, lontane da quelle che ci aspettiamo da questa tecnologia. La serie Supervision è basata proprio su queste situazioni inaspettatamente estetiche. Raccolgo immagini in cui la visione viene offuscata, o sono presenti elementi che funzionalmente risulterebbero come difetti, ma producono effetti interessanti, come le gocce d’acqua sull’obiettivo che vanno ad astrarre un cartellone pubblicitario. Alcune di queste immagini sono completamente astratte, nemmeno io ho capito di cosa effettivamente trattino. Poi ce ne sono molte che per errore sono state spostate, e l’inquadratura punta un muro o sotto un tavolo. Forse qualcuno le ha dimenticate, e rimarranno lì per sempre a trasmettere la ripresa di un angolo. Sono tantissime.


Three Thousand Tigers nasce da un concetto che si può applicare a quasi tutto, a parte forse agli oggetti industriali che vengono prodotti in milioni di pezzi, ovvero che nel mondo ci sono più immagini che rappresentano tigri che vere e proprie tigri viventi. Mi interessava farlo sulla tigre perché è una figura molto presente nel nostro immaginario, dalle scatole di cereali ai loghi delle case di moda, ma in realtà la tigre in quanto animale sta scomparendo. Ho lavorato con un algoritmo generativo che ho costruito insieme a un programmatore. Il programma dovrebbe imparare a riconoscere quello che tu gli stai proponendo e “capire” successivamente come riprodurlo. Solo che io gli ho fornito un dataset di sole 3mila immagini di tigri, che è il numero di quelle viventi: una quantità di dati troppo bassa affinché l’algoritmo possa imparare effettivamente come è fatta una tigre. In realtà avrebbe bisogno di milioni di immagini per riuscire a farlo. Il risultato sono visioni astratte, che riportano i colori della pelliccia dell’animale più che le sue forme. Ho deciso di tradurre queste immagini digitali in arazzi, e li ho fatti produrre in India, dove si trovano la maggior parte delle tigri viventi. Il modo in cui lavora la tessitura è simile al modo in cui lavora l’algoritmo. La trama e l’ordito del tessuto si muovono in maniera analoga alle stringhe di codice del programma. Mi interessa come i dispositivi possano aggiungere un ulteriore livello di significato. In questo caso mi interessava il generare e il riprodurre, sia in termini biologici che in termini digitali. Riprodurre e generare sono, infatti, termini usati in tutti e due gli ambiti e si viene a creare così un parallelismo linguistico.

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THREE THOUSAND TIGERS, 2020 arazzo, lana, 200x300 cm, dettaglio

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IL MESSICO AL DI LÀ DELLE NUVOLE SILVIA BARBOTTO FORZANO [ semiotica dell’arte ] JAVIER BARRERA [ fotografo ]

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Da Città del Messico a Mérida, dal Distrito Federal allo Yucatán. Un viaggio centro-americano alla scoperta di un Paese ricco di storia e futuro.

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DAGLI ATZECAS A OGGI

Sembra che la città, il cui nome originale fu Mexico-Tenochtitlán, sia sorta con gli aztecas, anche chiamati mexica. Di affiliazione nahua, questo popolo si stabilì intorno alla prima metà del 1300 d.C. sull’isola del lago Texcoco, con ricche credenze religiose, astronomiche, filosofiche e artistiche, e raggruppava usanze tipiche della cultura Mesoamericana: usava l’ossidiana per fini chirurgici e bellici e il suo calendario (quello rituale di

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MORELOS

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STORIA DI UN AMORE

In città arriva chiunque e per i motivi più vari; c’è anche chi ci è nato e la conosce attraverso i racconti dei genitori o degli antenati. Ora è uno spazio immenso, più ci si addentra più emerge un ciclo sconfinato di metacittà, a sua volta potenzialmente divisibili tra centro e periferia, microcosmi sinergici collegati ma lontani, diversi ma attraenti. E se la si ingloba nella Zona Metropolitana della Valle del Messico, allora risulta ancor più grande e conta più di 22 milioni di abitanti: di qui sono passati i grandi del cinema e della musica, dell’arte e dello spettacolo. Pensiamo a Rivera e Frida, immaginiamo la “Roma” di Alfonso Cuarón, El gran calavera e Los olvidados di Luis Buñuel o Un duelo a pistola en el bosque de Chapultepec del 1896, una delle prime registrazioni filmografiche mute. Ricordiamo i grandi Octavio Paz, Juan Rulfo, David Siqueiros, Clemente Orozco, per citarne alcuni. Attraverso questi personaggi e le loro opere, captiamo la poesia e il fermento della città, le sue strade e la sua gente, ci addentriamo nel raccontato dei versi, nella critica dei murales. Certo di storia ce n’è parecchia alle spalle di questo grande territorio: eccone un rapidissimo excursus.

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eraviglia mi assale al sorvolare la città: l’illusione dell’arrivo viene a lungo sospesa e il lento attraversare dell’aereo si fa infinito. Ancor prima di metterci piede, se arrivi dal cielo, ne intuisci la magnitudine. Via terra è diverso: dagli Stati Uniti in avventura, dalla costa per un weekend lungo, dal sud con tante tappe intermedie, dall’altrove per trovare un perché che solo lei sa, da ovunque per conoscerla e viverla.

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LOS REYES AVANTE PEDREGAL DE SAN AGELS

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UNA CARTINA SMISURATA LA METROPOLI NELLE PAROLE DI VALERIA LUISELLI Una “pura nostalgia del futuro”. C’è molto di Borges (ma anche della filosofia hauntologica di Mark Fisher) nel modo in cui Valeria Luiselli [Carte False, La Nuova Frontiera, Roma 2020, pagg. 128, € 15 ] descrive come gli abitanti di Città del Messico pensano all’idea di pianificazione urbana per la loro città. Tutti “intuiscono che se è mai esistito un progetto, al massimo è stato un abbozzo” e che oggi, in quella metropoli che stringe il tempo in un nodo impossibile da sciogliere, “abitiamo, come i discendenti di quell’impero che descriveva Borges, tra le ‘rovine di una cartina smisurata’”. Queste parole mi fanno venire in mente la mappa di Venezia, effettivamente oversize, che se ne sta appesa, noncurante, in uno dei principali saloni di Palazzo Balbi, sede della Regione Veneto. Una mappa che ha la folle pretesa di rappresentare tutti gli edifici della città lagunare; tutti, uno per uno, con una discreta presenza di dettagli. E mi rendo conto che in questa smisuratezza (di dimensione, ma anche di volontà) c’è esattamente il senso del fallimento di ogni racconto, a Venezia come nel Distrito Federal. “Scrivere di Città del Messico”, aggiunge la Luiselli, “è un’impresa destinata all’insuccesso”. A partire dalla semplice mancanza di un punto di partenza: la somiglianza. “Nell’ultima mappa che conserviamo, Città del Messico non assomiglia a niente, a niente, almeno, che non sia una macchia, lontana reminiscenza di qualcos’altro”. Una macchia come quella di umidità che, si dice, un giorno sia apparsa sul mosaico di un altare, con la forma esatta della Vergine di Guadalupe, la “madre di tutti i messicani”. Oppure come quelle tracce che hanno lasciato sul terreno di un giardino privato nel DF i piedi di Maria Fònt e Juan Garcia Madero, mentre facevano l’amore, in piedi, appoggiati a un albero ne I detective selvaggi di Roberto Bolaño. Macchie come quelle che restano quando si toglie un quadro da una parete dopo molti anni, al momento di lasciare per sempre la casa in cui siamo cresciuti. O come quelle dei corpi disintegrati da un’esplosione nucleare. Macchie delle lacrime che Valeria Luiselli non trattiene ogni volta che sta per atterrare in quel luogo senza più confini che, per convenzione, chiamiamo Città del Messico.

LEONARDO MERLINI


MÉRIDA

CITTÀ DEL MESSICO

CANCÚN

VERACRUZ

ACAPULCO

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MONTERREY

260 giorni e quello civile di 365) era molto avanzato. Successivi agli olmechi e toltechi, gli aztechi situavano la loro origine mitica nel Chicomóztoc, il “luogo dalle sette caverne”, e comunicavano in nahuatl classico, che ancor oggi è la lingua indigena con maggior parlanti sull’intero territorio messicano.

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2250 m s.l.m. superficie

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8.918.653 (2017) SPAZI EMERGENTI INDIPENDENTI

SPAZI ISTITUZIONALI 1 MUSEO JUMEX

densità

6.055 ab./km²

fundacionjumex.org

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MASHIMÓN

mash1m0n.tumblr.com

2 CENTRO DE CULTURA DIGITAL centroculturadigital.mx

3 CENTRO DE LA IMAGEN

3 LADRN

4 MUSEO DE ARTE MODERNO

4 SALÓN SILICÓN

5 MUSEO SOUMAYA

casaequis.com ladrongaleria.com salon-silicon.business.site

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BIQUINI WAX EPS

fb.com/biquini.wax

centrodelaimagen.cultura.gob.mx mam.inba.gob.mx

museosoumaya.org

6 MUSEO DEL PALACIO DE BELLAS ARTES museopalaciodebellasartes.gob.mx

6 ACAPULCO 62

7 MUSEO EXPERIMENTAL EL ECO

7 POLÍGONO

8 ESTANCIA FEMSA

instagram.com/acapulco_62 casapoligono.com

GALLERIE

eleco.unam.mx

estanciafemsa.mx

9 CASA WABI casawabi.org

1 KURIMANZUTTO

10 MUSEO TAMAYO

2 LUIS ADELANTADO

11 FUNDACIÓN MARSO

3 EDS GALERÍA

12 MUSEO NACIONAL DE LA ESTAMPA

4 PATRICIA CONDE

13 LABORATORIO ARTE ALAMEDA

5 ARRÓNIZ

14 EX TERESA ARTE ACTUAL

6 PROYECTOS MONCLOVA

15 MUSEO JOSE LUIS CUEVAS

7 OMR

16 MUSEO DEL ESTANQUILLO

8 LICENCIADO GALERÍA

17 MUSEO UNIVERSITARIO DE ARTE CONTEMPORÁNEO

9 NINA MENOCAL

18 MUSEO UNIVERSITARIO DEL CHOPO

10 MACHETE GALERÍA

19 INSTITUTO ITALIANO DE CULTURA

11 LODOS GALLERY

20 MUSEO DE ARTE CARRILLO GIL

12 GALERÍA BREVE

21 MUSEO FRIDA KAHLO

kurimanzutto.com

luisadelantadomx.com facebook.com/eli.diazsoto pcg.photo/inicio

arroniz-arte.com proyectosmonclova.com galeriaomr.com licenciado.gallery

ninamenocal.com macheteart.com

lodosgallery.info

galeriabreve.com

museotamayo.org

fundacionmarso.org

museonacionaldelaestampa.inba.gob.mx artealameda.bellasartes.gob.mx exteresa.bellasartes.gob.mx

museojoseluiscuevas.com.mx

museodelestanquillo.cdmx.gob.mx

muac.unam.mx

chopo.unam.mx

iicmessico.esteri.it/iic_messico/ museodeartecarrillogil.com museofridakahlo.org.mx

13 LE LABORATOIRE lelaboratoire.mx

14 ALMANAQUE FOTOGRÁFICA almanaquefotografica.com

15 JUAN MARTIN

galeriajuanmartin.com

16 GAM – GALERÍA DE ARTE MEXICANO galeriadeartemexicano.com

17 GALERÍA LÓPEZ QUIROGA lopezquiroga.com

In effetti la popolazione indigena messicana è molto diversificata e ancora vivissima. La questione è assai viva e costituisce un nucleo patrimoniale di grande importanza per il Messico, il quale conta, su tutta la Repubblica, 68 lingue indigene. È ben noto come il periodo della colonizzazione spagnola fu caratterizzato da un cospicuo asservimento nel quale, gradualmente, la società ormai ibrida iniziò a costruirsi una nuova identità. È in corso, da alcuni anni un interessante processo definito decolonialismo, di ordine simbolico-fenomenologico più che giuridico-politico, che si propone una presa di coscienza e di potere da parte di coloro che sono stati colonizzati: una sorta di lotta pacifica, impercettibile e spesso intrapersonale, per la libertà. E l’aspetto culturale è evidente: la tendenza alla copia, la mitizzazione di ciò che c’è aldilà, l’adulazione di coloro che vengono da lontano, la necessità di fuggire altrove per trovar fortuna sono condizioni sempre meno presenti. Ci troviamo piuttosto in un contesto multisfaccettato e capace di inglobare le diversità più disparate, coniugando antichità e avanguardia. L’estetizzazione della tradizione, insieme alla sperimentazione tecnologica e metodologica, creano una commistione peculiare tra l’aspetto latino e quello nordico. La semplificazione storica appena avvenuta non è altro che un invito ad approfondire gli accadimenti del passato in chiave organica rispetto a quel che possiamo osservare del presente: una sorta di autorganizzazione omeostatica per cui la contemporaneità come processo in continuo divenire può esser colta appieno solo se contestualizzata rispetto a un arco temporale amplio che include visione indietro (storia) e avanti (avanguardia).

STORIES L MESSICO

2 CASA EQUIS

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MÉRIDA: DAI MAYA ALL’AVANGUARDIA MARZO L APRILE 2020

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IL CONTEMPORANEO IN CITTÀ

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La descrizione di ciò che succede in città rischia di richiamare aneddoti simpatici ma insignificanti, eventi di poca lungimiranza e scoop di scarso rilievo. Il contemporaneo invece è quell’imminente evocazione suscitata dal giorno per giorno, quell’ingorgo che permette alla grande idea di emergere, quel collettivo pop up che si ritrova a seguito di un terremoto dissipatore di palazzi ma stimolatore di coscienze. Veniamo dalla settimana dell’arte guidata dalla fiera ZONAMACO, che si è svolta nei primi giorni di febbraio. Qui vi raccontiamo invece della quotidianità popolare dell’arte di strada, del camminare tra architetture sbalorditive, del ritrovarsi agli opening negli angoli più remoti della metropoli, del conoscere persone di ogni parte del mondo: artisti, galleristi, docenti, amanti dell’arte. Tutta quella serie di gallerie, laboratori e musei che potete vedere nella mappa della città offre quotidianamente sfiziosi pretesti per ritrovarsi ed essere partecipanti culturali attivi, raffinati percettori dai gusti più svariati. Ma sono numerose anche le possibilità di far parte dell’agency artistica, unendosi a collettivi aperti o proponendo azioni indipendenti, come fanno ad esempio alcuni dei gruppi di arte giovane quale Cráter Invertido, che nel 2012, dopo una congiuntura di effervescenza politica, diede vita a una cooperativa di artisti che usano la stampa come pretesto per unire e tessere comunità, recuperando capacità condivise in un progetto a lungo termine. Biquini Wax EPS, Casa Equis, Salón Silicón o Poligono costituiscono realtà di simile indole: artisti attivisti collaborativi e indipendenti, spazi espositivi e zone di co-working. Ci sono poi gallerie ampiamente affermate sul territorio locale e globale: pensiamo alla Karimanzutto, uno spazio inizialmente itinerante aperto ad artisti emergenti; o la Galería Nina Menocal, che propone anche artisti delle generazioni precedenti, mentre la López Quiroga e Machete Galería sono focalizzate su una meticolosa selezione di arte latino-americana.

A Mérida ci vivo da anni: arrivai nel 2010 con una borsa di Studio SRE che mi permise di portare avanti il Dottorato in semiotica e arte iniziato anni prima alla San Carlo di Valencia. Mi accolsero l’Università Autonoma dello Yucatán e una città meravigliosa dove pensavo di trascorrere un solo anno e dove, ancora adesso, vivo parte della mia quotidianità, concreta o virtuale a seconda delle stagioni. Raccontarla risulta dunque un’azione epistemologica assai contagiata dall’affetto che sin dai primi tempi iniziai a provare per questo luogo. Ho deciso quindi di coinvolgere le opinioni di due tra i maggiori esperti dell’arte locale, ricercatori, docenti e promotori culturali: Jorge Cortés Ancona e Alberto Arceo. Qual è il rapporto tra centro e periferia? Jorge Cortés Ancona: Quando, dopo la Rivoluzione, il Messico si stabilizzò e pacificò come Paese, ci fu una grande tendenza a centralizzare vari tipi di servizi (soprattutto quello educativo) e questo perdurò per varie decadi. Nonostante ciò, da circa quarant’anni, hanno iniziato a sorgere altri poli, che però non hanno mai raggiunto le dimensioni della capitale. C’è stata una sorta di decentralizzazione: ora ad esempio la fiera del libro più

grande si trova a Guadalajara, così come gran parte della produzione cinematografica; Monterrey ha un museo d’arte contemporanea molto avanzato, Tijuana un enorme centro culturale dall’architettura molto prestigiosa, inaugurato negli Anni Settanta. Si è quindi creato un equilibrio, che però ripropone la dicotomia centro-periferia anche a livello regionale. Nello Yucatán è evidente: Mérida è la città più grande, con una densità abitativa molto maggiore rispetto al resto della regione, e concentra la maggior parte della produzione artistica. Qual è la storia della proliferazione artistica nello Yucatán? J. C. A.: Dalla fondazione della Scuola di Belle Arti nel 1916 iniziò un lavoro di produzione e diffusione, le notizie importanti entravano nei bollettini del governo e iniziavano a costituire una storia dell’arte locale. La Scuola fu creata dal generale Salvador Alvarado, un innovatore nel campo sociale, educativo, economico e ideale. In quei tempi arrivarono anche maestri stranieri che diedero un’aria nuova e costruttiva alla pratica artistica, per esempio lo scultore italiano Alfonso Cardone. Con parecchi alti e bassi, soprattutto per le incertezze economiche, la Scuola persevera e nel 1944 Eduardo Urzaiz aveva già creato una ricerca che


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Come è strutturata la comunità artistica di Mérida oggi? Alberto Arceo: Se me l’avessi chiesto dieci anni fa ti avrei detto che Mérida si stava trasformando in un nuovo epicentro di produzione artistica con vari movimenti in crescita. Ora però direi che vi è una sorta di autoregolazione, cioè di trasformazione in base ai criteri che lei stessa genera; vi è anche un’autodeterminazione che avviene attraverso propri canali di legittimazione. Al tempo stesso ci sono varie porte aperte con altre realtà, con potenzialità di diffusione globale, però l’arte che si sviluppa nello Yucatán è particolare ed è bene che si autolegittimi innanzitutto a livello regionale. E a livello di spazi qual è l’articolazione? A. A.: Dopo la fierizzazione dell’arte e

Se non sbaglio c’è un aneddoto riguardante Diego Rivera e il suo rapporto con lo Yucatán... J. C. A.: Sì, Diego ricevette una borsa di studio dal governatore e visse in Europa dagli inizi del XX secolo fino al 1921. Al suo ritorno, i cambiamenti in Messico erano numerosi e così José Vasconcelos decise di proporre a Diego, a Roberto Montenegro e ad altri pittori di conoscere più a fondo il loro Paese – non solamente la capitale, ma anche altre zone della Repubblica. Arrivando nello Yucatán, in un momento piuttosto effervescente in cui governava Felipe Carrillo Puerto, Diego visitò la Scuola di Belle Arti. Ai tempi vi studiavano operai, contadini, bambini; venivano rappresentati temi della vita quotidiana e tradizionale; le idee vigenti erano di tipo socialista, un ibrido tra il profilo marxista e quello anarchico, e Diego ne rimase abbagliato. Vi erano anche alcuni studenti maya, uno di nome Miguel Rodríguez lo colpì particolarmente, tant’è che decise di portarlo con sé in città. Al ritorno rilasciò un’intervista, in cui disse che la miglior arte del Messico si stava facendo nello Yucatán.

DERIVE MESSICANE

In una città così grande è bene dunque organizzarsi e pianificare cosa interessa e come arrivarci. Rimane però fondamentale rimarcare la bellezza del lasciarsi andare nella consapevole possibilità del deambulare, almeno nel centro: i grandi Musei dagli eclatanti contenuti artistici e storici, e dalle meravigliose architetture transculturali, si susseguono instancabilmente in uno spazio che ispira e respira, alternandosi nei quartieri del centro, ma raggiungendo anche zone più remote. Ciò che permette agli abitanti di ossigenare la loro permanenza in città è l’ampia scelta di aree verdi: la principale è il Bosco di Chapultepec, all’interno del quale si trova un grande lago e il Castello Virreinal della Nuova Spagna. A pochi chilometri dalla città vale la pena dirigersi verso Popocatépetl, arte naturale e vulcano attivo la cui ultima fumata è avvenuta pochi mesi fa; vicino alla sorella Malinche, entrambi sono viva ispirazione degli artisti locali di ogni tempo, come il paesaggista Dr. Atl. Nei pressi della città troviamo anche la vastissima zona archeologica di Teotihuacán, centro culturale e religioso mesoamericano che misura circa 32 kmq. La messicanità scaturita da una storia così fitta – e ancora tangibile negli edifici rimasti e leggibile nei racconti letterari – ha un carattere diffuso e ovviamente identitario, a priori: è però particolarmente evidente in alcuni artisti i quali ne fanno un sostrato su cui creare. Una delle tecniche più frequentate della valorizzazione storica e indigena è la tessitura: pensiamo a Gabriel Dawe e ai suoi finissimi orditi, a Javier Senosiain e al suo Giardino di Quetzalcoatl, ad Abraham Cruzvillegas che, nato in periferia, cerca di cogliere quotidianamente le tante sfaccettature usando materiali che per altri sono immondizia e che lui invece definisce “oro”, e ancora alla mostra Los huecos del agua. Arte actual de pueblos originarios allestita alcuni mesi fa al Museo Universitario del Chopo.

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comprendeva l’arte dai tempi coloniali al 1940: ad esempio, si sa che erano diffusissime la litografia e poi la fotografia, e questo fu un buon punto di partenza che facilitò ricerche posteriori. Io ho proseguito la ricerca storica, scaturita nelle pubblicazioni Panorámica Plástica yucatanense 1916-2007 e Las artes visuales all’interno della Enciclopedia yucatanense, relativa al periodo dal 1980 al 2017.

Qual è l’influenza straniera sull’ambito artistico locale? A. A.: Il tema degli stranieri, nello Yucatán, è sempre stato determinante; è un riflesso di sé per conoscersi attraverso gli occhi dell’alterità. Così inizia a generarsi un avvicinamento alla produzione artistica altrui: tanti stranieri che vengono a conoscere la città poi decidono di rimanerci per le sue caratteristiche specifiche, per la sua luce, per la temperatura, per la gente, e questa dinamica ha creato nuovi spazi di incontro e interazione con artisti locali. Sono numerosi anche gli expat, canadesi e nordamericani, che decidono di stabilirsi a Mérida alcuni mesi all’anno, comprano case coloniali e le ristrutturano, sono interessati all’arte e quindi sono potenziali acquirenti.

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quindi il quasi completo controllo del mercato dell’arte in ambito fieristico, le stesse gallerie o i gruppi di artisti stanno cercando modi diversi di autofinanziarsi o autopromuoversi e così nascono progetti interessanti. Ci sono nicchie aperte in cui gli artisti si muovono e qui a Mérida ci sono vari scenari in cui si sta cercando di attivare anche l’aspetto finanziario. Ci sono gallerie di impresari yucatechi che aspirano a collezionare arte a carattere regionale, ma al tempo stesso esistono gallerie di taglio nazionale o internazionale che hanno trovato a Mérida un luogo ideale, alla moda, sicuro, piacevole e vicino al mare. C’è anche una terza tipologia di gallerie, numerose a Mérida, più informali, con meno infrastrutture: spesso sorgono in modo effimero o intermittente e generano i propri circuiti di esposizione e vendita.

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LA GALLERIA COME PERMACOLTURA PARLA KURIMANZUTTO

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Il contemporaneo è quell’evocazione suscitata dal giorno per giorno, quell’ingorgo che permette alla grande idea di emergere, quel collettivo pop up che si ritrova a seguito di un terremoto dissipatore di palazzi ma stimolatore di coscienze.

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UNA CITTÀ AL FEMMINILE

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Impossibile non nominare Frida Kahlo, l’adulata pittrice dallo sguardo ambiguo, i cui quadri sono diventati icone diffuse e stampe sul biglietto da 500 pesos. Passare da Coyoacán senza entrare in quella che era la sua casa sarebbe una mancanza insensata: è meravigliosa e piena della sua vita. I vestiti che indossava, le decorazioni sul volto e tra i capelli si possono ancor oggi ritrovare in loco, ma anche in molte campesinas, nel look delle ragazze del centro o tra le donne dell’alta società. Certo lei era maestosa, nei suoi quadri e nella sua storia si ritrova una parte di ogni storia al femminile: il suo dolore rappresentato, il suo amore indicibile, la sua estetica vistosa diventano internazionalmente riconosciuti. L’arte messicana prolifera però anche di geniali figure femminili quali Carmen Mondragón aka Nahui Olin, Lilia Carrillo o Lola Alvarez Bravo, inizialmente assistente del famoso fotografo nonché marito Manuel e poi fotografa indipendente. Seguono cronologicamente tutta un’altra serie di artiste, tra le quali la pittrice Rosario Cabrera, e Ángela Gurría, che nel 1974 divenne la prima donna membro dell’Accademia di Belle Arti, ed Helen Escobedo, con una lunga carriera specializzata nell’arte ecologica e urbana. Fra le esponenti delle generazioni più recenti, Silvia Gruner, Yolanda Andrade, la celebre Teresa Margolles (vista alla Biennale di Venezia nel 2017 e 2019), l’attivista Lorena Wolffer, la cui proposta si impronta sulla critica politica in chiave femminista, e l’attualissima Tania Franco Klein, fotografa classe 1990. Particolarmente interessanti il lavoro dell’artista 40enne Pia Camil nonché la fashion designer Bárbara Sánchez-Kane, che

Mónica Manzutto e José Kuri. Photo Pia Riverola

Era il 1999 quando Mónica Manzutto e José Kuri decisero di aprire uno spazio che accogliesse la generazione di artisti messicani, capeggiata da Gabriel Orozco, che a quel tempo popolava Città del Messico. Al principio fu proprio la città. L’inaugurazione avvenne nel Mercato di Medellín, dove le opere si vendevano al chilo, come i pomodori. In due posti affittati a fianco di Don Ceferino, il venditore di frutta, vennero esposti pezzi realizzati con materiali dello stesso mercato. Prezzo massimo: dieci euro. Un esperimento che dimostrava il potenziale delle nuove strategie di promozione dell’arte, mentre José a quel tempo dichiarava: “Non siamo uno spazio alternativo e non siamo nati come spazio per artisti. Ci concepiamo come una galleria commerciale in cui stabiliremo regole chiare e rispettose con i produttori in modo che possano vivere del loro lavoro. Lavoreremo per gli artisti”. In questa mostra-mercato, qualche fortunato si accaparrò per pochi euro un mixiote sospeso con una palla all’interno, frutto del genio di Gabriel Orozco. Vent’anni dopo fu lo stesso Orozco, uno degli artisti più emblematici del Paese, a espandere l’esperimento di Economía de mercado nel mondo globale, aprendo nella galleria un OXXO, il nostro Lidl, dove tra le lattine di fagioli si trovavano le sue opere, e invitando gli spettatori a comprarle. Nel 2008 si iniziò a sentire il bisogno di un punto di gravità, racconta José, e fu allora che trovarono in questa falegnameria della San Miguel Chapultepec una nuova stabilità geografica. Il modello della guerrilla artistica però non viene abbandonato e la capitale messicana continua a essere protagonista e scenario di numerosi interventi: uno fra tutti, i billboard che per due anni svettarono sulle strade cittadine con le opere degli artisti della galleria. Da sempre è il dialogo con gli artisti il motore di Kurimanzutto e Città del Messico è il posto dove si può effettivamente sperimentare con le idee: “Gli affitti non sono quelli di New York e la burocrazia è meno rigida”, racconta José, ricordando che New York è una seconda casa della galleria. Parte di quella che Jose definisce “un’ecologia sana dell’arte” è l’elettricità che si genera al confronto con gli altri spazi

artistici: una competizione positiva, per “creare un mondo dove vivono molti mondi”. Per José l’arte è uno strumento di trasformazione politica e sociale, ed è per questo che Kurimanzutto continua a ravvivare il fuoco inquieto della ricerca. “Come si può re-immaginare Kurimanzutto a vent’anni dalla sua nascita?”. A partire da questa domanda la programmazione del 2020 prende il titolo di Siembra, ‘semina’, con “un ritmo che riflette la cadenza del raccolto enfatizzando la biodiversità, la permeabilità dei tempi di crescita e l’importanza della varietà, necessaria per la permacultura: uso intelligente e rispettoso del suolo a beneficio di tutti. L’esperimento in galleria dà la priorità alla particolarità dei processi creativi di ciascun artista che partecipa a questo ecosistema di lunga durata”. E così, proprio come diverse specie si completano a vicenda condividendo lo stesso suolo e alimentandolo, le mostre all’interno di Siembra convivono con la galleria e rispondono al contesto in cui si sviluppano. Il progetto propone una biodiversità in cui tempi diversi convergono e si nutrono della porosità delle idee, senza risultati prestabiliti. La galleria è divisa in sette sale indipendenti e interconnesse in cui sono esposte singole mostre degli artisti che verranno aggiunte al programma. Ogni proposta avrà una durata diversa. “Per celebrare il nostro compleanno vogliamo trasformarci ancora, non so quanto durerà questa nuova logistica, ma l’intenzione è quella di non darle una scadenza. L’idea è di accogliere sette artisti diversi ogni volta, non necessariamente in contemporanea. Uno spazio si chiude mentre un altro continua, tutto in una rotazione silenziosa”. Il progetto di Siembra permette di mostrare al pubblico non solo gli artisti affermati che la galleria rappresenta, ma anche i nuovi talenti, senza per forza dover investire tutto lo spazio della galleria e una curatela ad hoc. “In un’epoca globalizzata in cui le gallerie cercano tutte gli stessi grandi nomi, è importante non perdere la ricchezza della diversità”, sottolinea José. La lotta al capitalismo selvaggio per una società più giusta passa anche per il mercato – dell’arte, certo.

VIRGINIA NEGRO


L’ITALIA NEL CUORE DI COYOACÁN INTERVISTA CON MARCO MARICA

Come è evoluta la presenza dell’Istituto in città e qual è la relazione con il territorio? L’Istituto Italiano di Cultura di Città del Messico si trova nel cuore di Coyoacán dal 1976. Occupa una bella casa coloniale dei primi dell’Ottocento, in parte rimaneggiata nel Novecento, con un cortile porticato a mo’ di chiostro con una fontana al centro e un grande giardino alberato sul retro. L’Istituto è molto conosciuto in tutta la città, tuttavia i frequentatori più assidui sono le persone del quartiere o gli studenti della vicina UNAM – Universidad Nacional Autónoma de México, che qui vengono a studiare l’italiano o ad assistere agli eventi culturali, che sono sempre gratuiti, o infine per prendere in prestito libri della biblioteca, che con i suoi oltre 23mila volumi in italiano custodisce un patrimonio librario unico in tutto il Messico. L’Istituto è aperto al pubblico tutti i giorni della settimana e con la sua intensa vita culturale rappresenta un punto di riferimento per gli abitanti della zona.

Che ruolo ricopre l’arte nelle azioni proposte e come interviene l’Istituto nella scena artistica contemporanea? L’arte è uno degli assi principali dell’azione di promozione della cultura italiana svolta dall’Istituto, che collabora insieme alle istituzioni messicane alla realizzazione di mostre d’arte italiana presso i principali musei del Paese. Ultimamente stanno prendendo particolare rilevanza le mostre multimediali, che attraggono in particolare il pubblico giovanile. L’Istituto ha

insieme al marito Pedro Reyes costituisce una tra le più ammirate coppie della creatività messicana contemporanea. Sono numerose anche le artiste straniere che negli anni hanno raggiunto Città del Messico per poi radicarvisi: l’italiana Tina Modotti, che verrà omaggiata da una grande mostra al Mudec di Milano dal 7 maggio, o la russa Angelina Beloff, quasi sconosciuta in vita ma poi elogiata come protagonista nella novella semi-biografica scritta da Elena Poniatowska, Querido Diego, te abraza Quiela. È la stessa Elena, di origine polacca e nata a Parigi, scrittrice e interstizio intellettuale tra molti artisti, a prendere la nazionalità messicana. E poi c’è Joy Laville, nata in Gran Bretagna e morta nel 2018 a Cuernavaca; Marta Palau, artista spagnola tra le prime a lavorare su temi riguardanti le donne e i migranti; la talentuosa Remedios Varo,

Come viene vissuta l’italianità dalla comunità locale? La comunità italiana di Città del Messico non è molto numerosa ed è formata in gran parte da persone giunte di recente. Vi sono professionisti che lavorano per le imprese italiane, alcuni dei quali si sono trasferiti in pianta stabile, giovani studenti e artisti attratti dalla vorticosa vita culturale della città, imprenditori che qui hanno trovato opportunità di sviluppo per le loro imprese; infine vi è un nutrito manipolo di “cervelli in fuga”, che hanno trovato ottime posizioni nelle università locali. Vi è poi una parte di connazionali che è giunta in Messico per ragioni familiari, avendo sposato un/a messicano/a. Trattandosi di una comunità di recente immigrazione, l’italianità è vissuta con naturalezza, come parte della propria identità. Grazie alla facilità di comunicare tramite Internet e i social media e al fatto che molti connazionali si rechino in Italia almeno una volta all’anno, la lontananza dal Paese d’origine non viene vissuta in modo traumatico. La comunità italiana è piuttosto coesa e l’Istituto stesso è un fattore di aggregazione. Qui si tengono infatti la festa del 2 giugno, la Domenica italiana, la Festa delle regioni e il Mercatino di Natale, eventi in cui i nostri connazionali si ritrovano e festeggiano insieme nel grande giardino dell’Istituto un pomeriggio di svago sentendosi a casa, in un pezzo d’Italia nel cuore di Coyoacán. L’Istituto è anche la sede dell’ARIM – Associazione dei Ricercatori Italiani in Messico recentemente fondata, e offre spazio alle loro conferenze, alle giornate di studio dei soci e alle loro riunioni periodiche. Come possono gli italiani (residenti e non) collaborare con l’Istituto a livello artistico? Tutti gli italiani, residenti in Messico e non, possono proporre all’Istituto attività culturali, dall’arte al cinema, dalla musica alla fotografia, dalla scienza alla letteratura. Le proposte vengono vagliate dalla direzione e, compatibilmente con il budget disponibile, la fattibilità e la coerenza dei progetti con gli assi tematici di promozione culturale indicati dal Ministero degli Esteri, si inizia a lavorare alla loro realizzazione.

I vestiti che indossava Frida, le decorazioni sul volto e tra i capelli si possono ancor oggi ritrovare in molte campesinas, nel look delle ragazze del centro o tra le donne dell’alta società.

STORIES L MESSICO

Quali sono le azioni che avete immaginato per ampliare il raggio d’azione? Stiamo cercando di intensificare sempre più gli eventi che si tengono il sabato e la domenica, giorni in cui viene pubblico anche da altri quartieri di Città del Messico, spesso scoraggiati ad attraversare la sterminata e congestionata città nei giorni feriali. Con oltre 100 eventi culturali realizzati ogni anno a Città del Messico e in altre città messicane, e con circa 1.200 studenti di lingua e cultura italiana, l’Istituto svolge un’ampia azione di promozione culturale dell’Italia, presentando un’immagine attuale del nostro Paese nel campo della cultura e della scienza.

poi al suo interno un piccolo spazio espositivo e un portico, nei quali si presentano mostre di artisti contemporanei, sia italiani che messicani. Sebbene la galleria dell’Istituto sia attiva da solo quattro anni, la sua presenza nella scena artistica si sta rafforzando e sono sempre più numerose le richieste di coloro che chiedono di esporre qui da noi, attratti anche dallo splendido contesto coloniale e dalla posizione centrale dell’Istituto in un quartiere a vocazione turistica come Coyoacán.

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Si trova nel quartiere bohémien della capitale, quello con i musei di Frida Kahlo e Leon Trotsky, con le architetture coloniali e le gallerie. È l’Istituto Italiano di Cultura di Città del Messico. Che ruolo ha nella metropoli lo abbiamo chiesto al suo direttore, Marco Marica.

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anch’essa spagnola, che proprio a Città del Messico esordì in una mostra collettiva. Ma la storia più curiosa è quella della britannica Leonora Carrington: approdata all’Ambasciata messicana di Lisbona in seguito alla fuga da un ospedale psichiatrico spagnolo e in attesa dell’esilio negli Stati Uniti, incontra Max Ernst, con cui sembra aver avuto una stretta relazione nonostante la presenza della futura moglie Peggy Guggenheim. Nel 1942 la Carrington raggiunge il Messico, dove fiorirà come scrittrice e pittrice.

[in collaborazione con Julio Millan]

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EMERGENZA? NO, DISASTRO COSA DICE L’ARTE A PROPOSITO DEL CLIMA

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MAURITA CARDONE

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I

[ giornalista ]

n un editoriale di quindici anni fa, il fondatore del movimento 350.org, Bill McKibben, sosteneva che ciò di cui il nostro surriscaldato Pianeta aveva bisogno era l’arte: riteneva che solo questa sarebbe stata in grado di dare espressione alla crisi più grave mai vissuta dalla specie umana. “Stranamente”, scriveva, “per quanto siamo a conoscenza di questa crisi, non lo siamo davvero. Non la sentiamo nelle viscere; non è parte della nostra cultura. Dove sono i libri, le poesie, le opere teatrali?”. Era il 2005, il Protocollo di Kyoto era appena entrato in vigore e l’umanità poteva ancora sperare che la politica internazionale trovasse soluzioni condivise per contenere il riscaldamento globale e garantirci un futuro su questo pianeta. Poi ci fu il 2009, l’anno della disastrosa COP15 a Copenhagen, la Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, dove apparve chiaro che l’accordo non sarebbe arrivato. Negli anni successivi il mondo sembrò rassegnarsi all’inevitabile. Ma la speranza, si sa, è l’ultima a morire e di recente è tornata nelle piazze grazie a un movimento animato da giovani di tutto il mondo che si rifiutano di accettare di non avere un futuro. La giovane attivista Greta Thunberg e i Fridays for Future hanno riportato la questione climatica sulle pagine dei giornali, nei discorsi della gente, nelle strade. La politica internazionale non ha potuto ignorare quel dito puntato contro l’inerzia dei governi, né ha potuto tapparsi le orecchie a quel grido di rivolta e sdegno lanciato da chi, per definizione, rappresenta la speranza e il futuro. Nel grido di quei ragazzi non c’è solo rabbia ma soluzioni, innovazione,


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Il merito della giovane attivista Greta Thunberg è di aver riportato all'attenzione un problema che conosciamo da anni, anzi da decenni. Anche in questo frangente, l'arte e gli artisti sono stati precursori, attivisti, agitatori, propositori. Da Joseph Beuys fino a Tomás Saraceno e Olafur Eliasson.

freschezza, la ricerca di un modo nuovo di parlare della questione climatica. Per lungo tempo, il principale problema della comunicazione ambientale è stato l’incapacità di parlare in maniera empatica di questioni complesse e scenari terrificanti. La sovraesposizione alle preoccupanti notizie sul riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacci, l’estinzione delle specie, i profughi ambientali e via dicendo lascia attoniti e spinge verso un individualismo accorato ma passivo. Il rischio dell’allarmismo, per quanto giustificato, è quello di creare un senso di impotenza. L’urgenza è, allora, quella di trovare modi nuovi di comunicare. Quindici anni dopo l’appello di McKibben, risvegliata dai giovani del mondo, l’arte ha risposto alla chiamata.

L’ARTE DELL’ATTIVISMO

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Justin Brice Guariglia, Climate Signal, Castle Williams, New York 2018. Photo Lisa Goulet

Oggi, sempre più spesso, l’attivismo si veste di forme creative per comunicare il proprio messaggio. Sono tanti i gruppi e i movimenti che hanno iniziato a servirsi dell’arte per parlare di clima. Uno dei più attivi è Extinction Rebellion, che usa la forza delle immagini a partire dal logo, una clessidra stilizzata all’interno di un cerchio che rappresenta il mondo, attribuito a un artista londinese dall’identità ignota, ma a disposizione di chiunque lo voglia utilizzare. Il Victoria and Albert Museum ne ha recentemente acquisito una copia digitale per la sua collezione permanente. Extinction Rebellion si serve di forme creative in molte delle sue azioni, mescolando performance, arti visive, musica. L’idea è di offrire una rappresentazione visiva dell’emergenza che stiamo vivendo e creare situazioni a cui il pubblico può reagire in maniera diretta, fisica. Un’immagine diventata ormai iconica è quella delle Red Rebel Brigade, cortei di figure in tonaca rossa e volto bianco, ideati da Doug Francisco dell’Invisible Circus di Bristol, per rappresentare il sangue che scorre nelle vene di tutte le specie. “È la cosa più forte che abbia mai detto... senza parlare!”, spiega Francisco. “L’arte può mandare un messaggio potente e quando risuona si connette con noi in un modo molto più forte e profondo delle parole”.

LA SCIENZA È UN’ARTE

Ma non è solo nelle strade e nelle piazze che si ricorre all’arte per parlare di clima: anche la scienza ha scoperto che la divulgazione può essere più efficace quando trova linguaggi diretti, fruibili, empatici e accattivanti. Sempre più frequenti sono le collaborazioni tra ricercatori e artisti che dialogano per tradurre concetti complessi in un vocabolario di facile decodificazione. Un esempio semplice quanto efficace è quello delle Warming Stripes ideate dal ricercatore Ed Hawkins, colorate

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L’AMBIENTE DELLE ARTI

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Non è solo con l’arte visiva che si parla di ambiente. In ogni disciplina, e nelle intersezioni tra esse, si moltiplicano sperimentazioni con cui creativi, attivisti e scienziati di tutto il mondo cercano di elaborare linguaggi in grado di colpire l’immaginario collettivo. Abbiamo raccolto qualche esempio tra i più originali. INSTALLAZIONI IMMERSIVE Commissionata per la mostra After the End of the World, allestita al CCCB – Centre de Cultura Contemporània de Barcelona nel 2017, l’installazione win > < win, creata dalla compagnia teatrale tedesca Rimini Protokoll, porta lo spettatore in un mondo in cui le meduse sono la specie dominante, invitandolo a un confronto con la struttura organica della specie umana che, per via della sua maggiore complessità, risulta meno efficiente e quindi a rischio.

TEATRO Creata nel 2015, la Climate Change Theatre Action è una serie di spettacoli e reading teatrali presentati in coincidenza con le conferenze delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Ogni due anni, a cinquanta drammaturghi professionisti da tutto il mondo viene dato un incipit e chiesto di scrivere una pièce di cinque minuti. Queste vengono poi messe a disposizione di artisti che vogliano sviluppare il lavoro accompagnandolo con un’azione di sensibilizzazione o informazione sul tema.

MULTIMEDIA Dear Climate è un progetto di ricerca creativa che dal 2012 esplora modi non catastrofici di comunicazione sul climate change, guidando il pubblico verso una relazione più consapevole, realistica e amorevole con la componente non umana del mondo, attraverso audio-meditazioni, lettere e poster. Questa primavera, all’interno del campus della Appalachian State University, Dear Climate presenterà Signs, Wonders, Blunders, un percorso che consentirà al pubblico di esplorare fisicamente la scienza e le conoscenze interdisciplinari necessarie per comprendere i cambiamenti climatici.

visualizzazioni grafiche di dati sull’innalzamento delle temperature. Altri progetti sono più complessi, come quello di Sustainability in an Imaginary World, in cui l’arte viene utilizzata per dare forma all’analisi di scenari elaborati con metodo scientifico. O come quello dell’artista Tomás Saraceno che, nella sua incessante ricerca sui temi ambientali, è arrivato a creare biosfere gonfiabili, morfologicamente simili a bolle di sapone, ragnatele o nuvole, che sono modelli speculativi di modi alternativi di vita per un futuro sostenibile. Tra i primi ad aver intuito il potenziale dell’interazione tra arte e scienza è stato l’artista David Buckland che, con il suo programma Cape Farewell creato nel 2001, promuove progetti di collaborazione tra artisti, ricercatori e divulgatori in tutto il mondo, con tanto di spedizioni nell’Artico, con lo scopo di creare una nuova narrativa e una cultura dei cambiamenti climatici. Uno dei progetti più recenti promossi da Cape Farewell è quello dei Pollution Pod di Michael Pinsky, cupole geodetiche che riproducono l’ambiente inquinato delle grandi metropoli e che nel corso del 2020 faranno tappa in varie città del mondo.

FILM Il regista russo Victor Kossakovsky è riuscito a confezionare quella che è probabilmente una delle rappresentazioni più terrificanti dei cambiamenti climatici. Non c’è narrazione nel film immersivo Aquarela, solo le disastrose conseguenze del nostro presente. Con un’estetica da film dell’orrore, la protagonista, l’acqua, viene mostrata in tutte le sue pericolose forme e in tutta la potenza destinata a essere innescata dal riscaldamento globale.

MUSICA Numerosi sono gli esempi di dati scientifici sui cambiamenti climatici trasformati in composizioni musicali. Uno degli esperimenti più convincenti è Arctic Sea Ice Sonification di Judy Twedt, che per trentasei anni ha raccolto dati sui livelli dei ghiacci artici per poi trasformarli in una composizione per pianoforte in cui con la mano sinistra suona sempre le stesse quattro note, a simboleggiare il passaggio delle stagioni, mentre con la destra suona una nota che rappresenta il livello dei ghiacci in un determinato mese. Note più basse indicano una minore quantità di ghiaccio.

Tomás Saraceno ha dato vita a modelli speculativi di modi alternativi di vita per un futuro sostenibile.

IN ORIGINE C’ERA LA NATURA

Ma se un rinato interesse per i temi ambientali offre maggiori occasioni di visibilità a un’arte preoccupata per l’ambiente, non è certo cosa inedita che gli artisti, da sempre antenne del proprio tempo, si interroghino sul futuro del nostro pianeta. Anche prima che il clima fosse sulla bocca di tutti, c’erano stati artisti che fin dagli Anni Settanta avevano rivolto il proprio sguardo all’ambiente. Le origini di quella che oggi potremmo definire arte ecologica (ma le etichette sono diverse e dai contorni sfumati) possono essere rintracciate nella Land

Art (o Earth Art: anche qui le definizioni sono fluide) che, per quanto non avesse un messaggio intenzionalmente ecologico, cercava un rapporto di armonia con la natura. Nello stesso periodo, tuttavia, emergevano già pratiche artistiche che non si limitavano a uscire dalle gallerie per fare esperienza dell’ambiente naturale, ma che interrogavano le relazioni tra uomo e natura con un più prosaico intento critico. Tra i primissimi ad affrontare consapevolmente il tema della distruzione dell’ambiente fu la coppia Helen e Newton Harrison. Come ci racconta Newtown Harrison dalla sua casa di Santa Cruz (una versione completa dell’intervista verrà pubblicata su artribune.com), “la nostra filosofia è: non fare alcun lavoro senza aver prima consultato la rete della vita. A partire dalla fine degli Anni Sessanta, decisi di non fare alcun lavoro che non andasse a beneficio dell’ecosistema. E se volevamo parlare di ecosistema su scala globale, allora aveva senso che fossero un uomo e una donna a farlo, in opposizione a quel mondo dominato dall’uomo in cui vivevamo”. Ci vollero anni di studio per definire cosa significasse lavorare sugli ecosistemi e comprendere le interconnessioni


IL GRANO A MANHATTAN INTERVISTA CON AGNES DENES

Lei è stata tra i primissimi artisti a portare preoccupazioni ambientali nel suo lavoro. Cosa significava fare arte che parlava di ambiente negli Anni Settanta e Ottanta? La gente condivideva le sue preoccupazioni? Capiva il suo lavoro? Niente affatto, la gente pensava che stessi camminando ssu un filo e, guardando indietro, è vero. Quando ho iniziato a combinare scienza e filosofia con l’arte, ero sola. Se c’era qualcun altro, non ne ero a conoscenza. Ho sempre lavorato da sola e per lo più da sola ho tratto le mie conclusioni. Ho dovuto insegnare questi concetti agli altri e l’ho fatto con la mia arte. Ora vediamo che ci sono voluti cinquant’anni. Beh, c’è voluto molto per una reazione globale di preoccupazione, ma lungo il percorso ne ho ricevute tante più contenute. Le interazioni fra arte e scienza stanno diventando sempre più frequenti. Un numero crescente di scienziati si rivolge all’arte per trasmettere il proprio

messaggio e sempre più spesso gli artisti si rivolgono alla scienza per dare una base solida base al proprio lavoro, ma nel suo lavoro la scienza è da sempre presente. Si considera una pioniera? Oggi questo tipo di lavoro è molto comune e in tanti attribuiscono questa diffusione all’influenza del mio lavoro. È vero, sono stata un pioniere del movimento. Alla gente piace etichettare le cose. Tuttavia, parlare di questi temi è diventato una necessità, sempre più diffusa. In che modo l’arte può entrare nella conversazione globale sui cambiamenti climatici? Prendendo in considerazione diversi aspetti dell’esistenza. Inoltre, il tema deve apparire in modo evidente nell’arte. Non tutta la produzione artistica serve questo scopo. La mia arte individua il problema e offre soluzioni benigne. Richiede molto lavoro, studio, ricerca, e poi bisogna trovare un linguaggio con cui comunicare tutto questo. Molti non sono disposti a fare quel che è necessario, o magari fanno solo alcune parti del lavoro e non tutte. Allo stesso tempo, l’arte deve anche rimanere arte. Faccio in modo che il mio lavoro sia bello e, mentre sei colpito dalla sua eloquenza, sono riuscita ad attirare la tua attenzione per insegnarti qualcosa, impartire alcune conoscenze oppure offrire una soluzione benigna a un dilemma. Vede la sua arte come una forma di attivismo? Deve anche rimanere arte. Odio le etichette, mettere le cose in scatole e archiviarle. Le idee sono organismi viventi, devono essere attivate, bisogna curarle, farle fiorire, ma soprattutto permettere loro di cambiare, di sviluppare tentacoli attraverso la specializzazione in comprensione e scopo, come una pianta, un albero.

Vede una connessione tra femminismo ed ecologia? Non ne faccio una questione di separazione tra i sessi, anche se ci sono differenze nel modo in cui reagiamo. Guardo la vita di una donna e quella di un uomo, dove le cose si differenziano, e ne sottolineo l’identità. Questa è la filosofia visiva che ho introdotto nel mio lavoro. Elaborare un concetto unico e poi essere in grado di metterlo in forma visiva. Questa è la mia invenzione, una delle parti più importanti del mio lavoro e anche più difficile da recepire, copiare o appropriare, come l’ecologismo.

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Quando si pensa al dialogo fra arte ed ecologia, la prima immagine che balza alla mente è quella dell’artista di origini ungheresi Agnes Denes in piedi circondata dalle spighe di grano che aveva seminato in un lotto a pochi metri dalle Torri Gemelle di Manhattan. Non era la prima volta che Denes si occupava di ambiente, ma Wheatfield: A Confrontation (1982) resta la sua opera più iconica e forse la più radicale. Oggi l’artista, che è considerata una veterana dell’arte ecologica, continua a concepire idee per un mondo in trasformazione, mentre vive ancora a New York, dove fino al 22 marzo è in corso una grande retrospettiva sul suo lavoro al The Shed. L’abbiamo intervistata per farci raccontare cosa significasse parlare di ambiente allora e cosa significhi oggi.

Può parlarci del suo progetto A Forest for New York? Si tratta di un progetto che ho concepito dopo che l’uragano Sandy ha colpito le nostre coste e ne ha distrutto alcune zone. Ho progettato megadune per trattenere l’acqua nelle aree sul livello del mare, non solo sulle nostre coste ma in tutto il mondo, rallentando l’assalto della distruzione causata dalle onde. Ho progettato A Forest for New York per una discarica dismessa che potesse essere usata come luogo di celebrazione, un parco di pace e una foresta con diverse funzioni: purificare l’aria, ripristinare gli ecosistemi e creare un equilibrio tra natura e struttura della città, per aiutarci a vicenda.

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Agnes Denes, Wheatfield - A Confrontation. Battery Park Landfill, Downtown Manhattan - The Harvest, 1982 © Agnes Denes. Courtesy Leslie Tonkonow Artworks + Projects, New York

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Quando lei ha iniziato a lavorare con la natura e nella natura non c’era lo stesso senso di urgenza riguardo alla crisi ambientale. Pensa che la situazione attuale cambi il significato di alcune sue opere? Decisamente. Le persone stanno iniziando a capire il lavoro, anche se solo in parte. Ma il mio lavoro non riguardava solo le crisi ambientali ma molti altri aspetti dell’esistenza, dei sistemi di credenze e dei processi di pensiero che restano ancora nel buio, ovvero non sono stati compresi. Probabilmente ci sarà bisogno di ancora un po’ di tempo e di esposizione a questi temi perché si faccia luce. È ottimista rispetto al futuro dell’umanità? Il pendolo oscilla. Spero solo che sopravvivrà abbastanza gente per ricominciare facendo tesoro del sapere acquisito da questa lezione. agnesdenesstudio.com

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CLIMATE CHANGE ALL’ITALIANA Anche l’Italia ha fatto, e continua a fare, la sua parte nel dialogo tra arte ed ecologia. Abbiamo selezionato alcuni degli artisti che hanno dato un contributo più significativo alla conversazione, cercando di coprire il raggio che dalla Land Art arriva alle nuove tecnologie.

GIULIANO MAURI

GIUSEPPE PENONE

FRANCESCO SIMETI

In un rapporto simbiotico con la natura, le strutture di Mauri si integrano nel paesaggio come architetture organiche. Il suo lavoro più noto è Cattedrale Vegetale, di cui una prima versione fu realizzata nel 2001 in occasione della rassegna Arte Sella, mentre altre due, poi distrutte dal maltempo, seguirono la morte dell’artista nel 2009. All’interno della struttura di rami intrecciati a formare una navata, l’artista aveva previsto che venissero piantati alberi che, crescendo, avrebbero seguito la forma dello scheletro da lui disegnato, che sarebbe poi marcito e scomparso. giulianomauri.com

Gli alberi sono un elemento ricorrente nella pratica di questo rappresentante dell’Arte Povera. In alcuni dei lavori di Penone l’albero è l’opera stessa ed è lasciato nella sua apparenza naturale, in altri lavori l’artista riproduce alberi in legno, bronzo e altri materiali, dando loro forme e composizioni diverse, in altri ancora combina alberi reali e riproduzioni. Penone esplora i processi naturali e il rapporto tra l’uomo e la natura e le energie che muovono entrambi.

Il lavoro dell’artista siciliano di base a New York è denso di empatia per il mondo naturale e traspira profonda preoccupazione per il suo futuro. Nelle sue composizioni, Simeti attinge dalla tradizione delle illustrazioni delle tavole botaniche e di zoologia, creando scenari insieme lussureggianti e sofferenti, invitanti e inquietanti. Nel 2017, con l’installazione Swell, ha esplorato l’impatto dell’uomo sull’ambiente, mescolando, attraverso un sistema di sagome in movimento su binari, scenari di alcuni dei canali d’acqua più inquinati di New York con immagini di flora e fauna. francescosimeti.com

complesse tra sistemi. Nel 1970 i due, che furono una coppia nella vita come nell’arte, collaborarono a un primo lavoro di arte ecologica, Making Earth, in cui riprodussero il terriccio superficiale, l’humus che contiene le sostanze indispensabili per la creazione di vegetazione. “Ci avevano chiesto di fare un lavoro sulle specie a rischio di estinzione e io pensai: cos’è più a rischio estinzione che il terriccio che è oggi impoverito in tutto il pianeta?” . Quello che fin dall’inizio distinse il lavoro degli Harrison da quello di altri artisti che avevano lavorato con la natura era la forza motrice dietro quel lavoro: non si trattava di arte concettuale, per quanto da quella attingesse a piene mani, per stessa ammissione di Harrison, non si trattava di una spinta estetica, né di semplice amore per la natura: “Era indignazione”, spiega. “Certo, non puoi lavorare su cose di questo genere senza empatia e l’empatia in un certo senso è una sottocategoria dell’amore, in senso radicale, ma poi aggiungi talento e una miscela di indignazione, ricerca e persistenza”. Negli anni il lavoro della coppia diventò sempre più

Nel 1982 Agnes Denes trasformò un ampio lotto creato da terra di scavo nel financial district di Manhattan in un campo di grano.

orientato alla scienza e alla tecnologia, fino a creare alternative concrete per le problematiche ecologiche: “Da un certo punto in poi io e Helen decidemmo che avremmo proposto una soluzione per tutto quello che criticavamo”.

PIANTARE ARTE

L’approccio fattivo alle problematiche ambientali, quello in cui l’artista diviene protagonista di soluzioni, è quanto mai evidente anche nel lavoro di Agnes Denes,

l’artista diventata celebre per il suo Wheatfield: A Confrontation (1982), con cui trasformò un ampio lotto creato da terra di scavo nel financial district di Manhattan in un campo di grano che coltivò lei stessa. Simbolo ancestrale e universale, il grano, fonte di nutrimento e materia di scambio, venne poi raccolto e inviato in ventotto città del mondo, mentre i semi vennero piantati in vari luoghi del pianeta. Ma se nel caso della più famosa delle sue opere l’azione era soprattutto simbolica, in altre gli interventi sono concepiti per avere un effetto duraturo e concreto sull’ambiente. Tree Mountain. A Living Time Capsule (1992-96) è una foresta di 11mila alberi piantati in un intricato schema matematico creato dall’artista a partire da una combinazione della sezione aurea e dello schema dei semi di girasole, su una collina artificiale di 38 metri di altezza nei pressi delle cave di ghiaia di Pinziö, in Finlandia, come parte di un progetto di bonifica: l’area sarà protetta per almeno quattro secoli e in futuro si trasformerà in una foresta vergine in cui la mano dell’artista non sarà più riconoscibile.


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GIORGIA LUPI

ANDRECO

La pratica di questo artista cuneese si potrebbe definire eco-politica, esplora l’ecologia umana e urbana, nelle sue accezioni socio-economiche e nelle sue interazioni con il paesaggio naturale, con un particolare interesse per le comunità locali. Il suo lavoro è stratificato e complesso e mescola le tecniche e i media più diversi. In Economic Geography espone immagini satellitari della Terra dei Fuochi e una mappa da cui sono stati cancellati i segni dell’Italia rurale. eugeniotibaldi.com

Nei suoi murales ricorre il tema della conservazione ambientale e sono in particolare gli oceani a stare a cuore a Federico Massa. Ma da qualche anno lo street artist milanese fa ancora di più per l’ambiente: l’ecologia non è solo nel contenuto delle sue opere, ma nella materia stessa. Per i suoi ultimi lavori, infatti, Iena Cruz utilizza la vernice Airlite, in grado di assorbire lo smog. Con questo materiale nel 2018 ha realizzato, su un palazzo di sette piani del quartiere ostiense di Roma, l’opera Hunting Pollution, considerato il più grande murale eco-friendly d’Europa, seguito nel 2019 da Anthropoceano, nella zona di Lambrate a Milano. ienacruz.com

Pioniera della data visualization e dell’information design, Giorgia Lupi è un nome ricorrente nelle tante mostre che negli ultimi anni hanno esplorato le soluzioni offerte dal design a un ambiente in trasformazione. Diversi sono i suoi lavori che affrontano questioni ambientali. Alla Triennale di Milano 2019, dal titolo Broken Nature: Design Takes on Human Survival, ha esposto The Room of Change, una tappezzeria di dati dell’estensione di trenta metri e realizzata a mano, che illustra i cambiamenti subiti dall’ambiente nei secoli scorsi, nel presente e nel futuro, raccontando la relazione tra l’uomo e il suo contesto. giorgialupi.com

Affonda le radici in una formazione in ingegneria il lavoro di questo artista che da anni si interroga su come trasferire nell’arte i concetti scientifici necessari per comprendere il cambiamento climatico. Nei murales come nelle sculture, nei video come nelle installazioni e nelle performance, Andreco indaga il rapporto tra lo spazio urbano e il paesaggio naturale e le relazioni tra uomo e ambiente. Nel suo ciclo Climate coniuga scienza del clima e attivismo ambientalista. andreco.org

Guarda a un passato precedente all’intervento dell’uomo, invece, il Time Landscape creato da Alan Sonfist nel 1978, un lotto nel quartiere del Greenwich Village di New York che l’artista ha restituito alla natura. Piantando vegetazione autoctona, Sonfist ha ricreato una piccola foresta simile a quelle che ricoprivano l’isola di Manhattan prima dello sviluppo urbano. Ancora oggi i passanti possono immergersi in quell’ambiente e godere di una natura che è stata annientata dalla città ma che, grazie all’intervento dell’artista, torna a interagire con essa. Nel corso dei decenni, Sonfist ha continuato a lavorare con alberi, piante e materiali naturali, sia in contesti urbani che in aree rurali. “Dobbiamo capire che siamo parte dell’ambiente e che non siamo qui per distruggerlo”, dice l’artista. Nel 1985, con il suo Circle of Life realizzato per l’Art Institute di Kansas City, Sonfist ha piantato erba delle praterie locali all’interno di un cerchio di alberi autoctoni, prevedendo che negli anni gli alberi avrebbero preso il sopravvento sulla prateria. Al centro, un monumento realizzato con tronchi d’albero

Piantando vegetazione autoctona, Alan Sonfist ha ricreato una piccola foresta simile a quelle che ricoprivano l’isola di Manhattan prima dello sviluppo urbano.

in via d’estinzione ricoperti di bronzo, anche questo destinato a essere fagocitato dalla vegetazione circostante. L’utilizzo delle piante per creare composizioni naturalmente destinate a modificarsi seguendo il corso della natura ricorre nel lavoro di diversi artisti e prende la forma di poesia e contemplazione nelle opere di NILS-UDO. Fin dal suo Hommage à Gustav Mahler, del 1973, l’artista tedesco piantò giovani pioppi ed erba nella campagna bavarese, circondandoli

con un intreccio di pali e spaghi, come a proteggerli: c’è la mano dell’uomo, per quanto leggera, ma la natura farà il suo corso e si riapproprierà di ciò che l’uomo ha trasformato. “Anche quando dipingevo, la natura è sempre stato il mio soggetto, ma a un certo punto ho sentito il desiderio di andare oltre e diventare parte della natura”, ci racconta l’artista, che ancora oggi vive nella campagna bavarese. La sua pratica artistica è una vocazione, un bisogno intimo e profondo. Ma dall’emozione che suscitano i suoi lavori emerge un messaggio ben preciso: “Quando ho iniziato, la situazione era diversa, non c’era la percezione di un’emergenza ambientale. Oggi continuo a lavorare con la natura, non ho cambiato il mio lavoro, ma questo viene percepito in un modo diverso e credo che abbia aperto gli occhi a molte persone riguardo ai rischi che la natura corre. Per me è un bisogno ed è il mio stile di vita da quarantacinque anni a questa parte. La mia intenzione è di rivelare la realtà della natura, aprire gli occhi e il cuore delle persone a quella realtà. In un certo senso sono un realista”.

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IENA CRUZ

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EUGENIO TIBALDI

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L’elenco di artisti che, dagli Anni Settanta a oggi, hanno lavorato con la natura, nella natura e sulla natura è lungo e ricco di variazioni sul tema. Quegli sperimentatori che per primi portarono l’ecologia nelle proprie opere oggi sono entrati a far parte della storia dell’arte e proseguono il loro discorso d’amore con la natura. Intanto, l’attuale urgenza della crisi climatica ha portato nuove generazioni a riprendere quei linguaggi e far ripartire il dialogo tra ambiente e arte. Un filo diretto tra l’arte ecologica degli Anni Settanta e nuove pratiche artistiche che sembrano attingere da quella stessa poetica è emerso nella mostra del 2018, Indicators: Artists on Climate Change, allo Storm King Art Center, il museo all’aperto ospitato in un parco nella Hudson Valley, Stato di New York. Tra i boschi, le colline, i prati e gli stagni del parco, le opere di una dozzina di artisti, tra cui David Brooks, Mark Dion, Ellie Ga e Gabriela Salazar, esploravano i diversi modi di approcciarsi al soggetto, dalla ricerca scientifica alla documentazione, fino all’attivismo, sempre utilizzando il vocabolario della natura.

NUOVE SOLUZIONI

Altre mostre e altri artisti sembrano invece voler proporre un approccio diverso, che esce dall’ambiente naturale ed entra nella società umana per lanciare l’allarme o per proporre soluzioni. Una rassegna di queste nuove visioni l’ha di recente offerta la Royal Academy of Arts di Londra che, con la mostra Eco-Visionaries: Confronting a planet in a state of emergency (2019-20), ha presentato una panoramica sulle molteplici risposte che arte, design e architettura stanno dando al climate change. Tra le opere in mostra, molte ricorrono alla tecnologia per elaborare risposte a un ambiente in trasformazione. Ne è un esempio Plastoceptor and Stomaximus (2014) di Pinar Yoldas, un apparato digerente in grado di metabolizzare la plastica. È invece un grido d’allarme forte e chiaro The ice melting series (2002) di Olafur Eliasson, in cui l’artista danese-islandese (protagonista della monografica recentemente inaugurata al Guggenheim di Bilbao, raccontata nell’inserto Grandi Mostre a pagina 72) mette insieme una serie di fotografie ravvicinate dei piccoli pezzi di ghiacciai che si sciolgono sul terreno, evocando smaterializzazione e distruzione, dal piccolo al grande, dal locale al globale. In molte delle sue opere, Eliasson usa il ghiaccio come efficace simbolo della consunzione del Pianeta cui l’uomo assiste passivo: nel 2015, durante la conferenza della Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Parigi, l’artista aveva esposto in piazza dodici blocchi di ghiaccio della Groenlandia, lasciando che si sciogliessero sotto gli occhi dei passanti; nel 2006 aveva portato in una galleria di Berlino alcuni pezzi di ghiacciai islandesi intitolando l’installazione Your Waste of Time.

ARTE & AMBIE 1965

1968

TIME LANDSCAPE All’età di 19 anni, l’artista Alan Sonfist inizia a concepire e disegnare la sua idea per Time Landscape, un monumento vivente all’ecosistema primordiale dell’isola di Manhattan. Dopo diversi tentativi, l’opera verrà realizzata solo nel 1978.

EARTH WORKS La mostra Earth Works alla Dwan Gallery di New York riunisce lavori di Walter De Maria, Richard Long, Robert Morris, Dennis Oppenheim, Robert Smithson e altri, segnando l’inizio della corrente che diventerà nota come Land Art.

1982

1982 WHEATFIELD A CONFRONTATION Nel corso di diversi mesi, l’artista di origini ungheresi Agnes Denes semina e coltiva un campo di grano su un lotto ricavato da terre di scavo nella parte più meridionale dell’isola di Manhattan.

7.000 OAK TREES In occasione di Documenta 7, Joseph Beuys realizza 7.000 Oak Trees e pianta 7mila querce in giro per la città di Kassel.

1991 REVIVAL FIELD In collaborazione con l’agronomo Rufus Chaney, l’artista Mel Chin inizia a scolpire con le piante il paesaggio di una ex discarica nel Minnesota. La vegetazione utilizzata è in grado di estrarre i metalli dal terreno contaminato, provando l’efficacia di una bonifica ambientale a basso impatto e costi ridotti.

2012

2014 ICE WATCH L’ultima variazione sul tema dello scioglimento dei ghiacci, ricorrente nel lavoro di Olafur Eliasson, è un’installazione in cui blocchi di ghiaccio della Groenlandia sono disposti a forma di orologio in una piazza di Copenaghen, in occasione della pubblicazione del quinto rapporto annuale sui cambiamenti climatici dell’IPCC.

WAITING FOR CLIMATE CHANGE Lo street artist spagnolo Isac Coordal inizia la serie che lo renderà riconoscibile in tutto il mondo, facendo dei suoi omini in salvagente un simbolo dell’urgenza della crisi ambientale.

2016 CLIMATE MUSEUM Nasce a New York il Climate Museum, il primo museo al mondo dedicato ai cambiamenti climatici e a soluzioni creative per contrastarli. Il museo non ha una sede permanente, ma promuove attività itineranti, come la mostra Climate Signals con cui, nel 2018, l’artista Justin Brice Guariglia installa in giro per la città una serie di segnali di allerta come quelli delle autostrade con messaggi sul climate change.


NTE IN 17 DATE #54

1970

WOODSTOCK Quello che diventerà l’evento musicale più famoso al mondo nasce come fiera dell’arte e della musica e a dirigere il programma d’arte c’è un ancora sconosciuto Buster Simpson, poi riconosciuto come uno dei fondatori dell’arte ambientale. La sua iniziale proposta, poi bocciata, è di coprire gli alberi locali con coperte termiche.

SURVIVAL PIECES Helen e Newton Harrison iniziano la serie Survival Pieces. La terza opera della serie, Portable Fish Farm, realizzata nel 1971 per una mostra alla Hayward Gallery di Londra, suscita polemiche e proteste sul trattamento dei pesci che sono parte dell’installazione.

1978

1973 HOMMAGE À GUSTAV MAHLER L’artista tedesco NILS-UDO realizza Hommage à Gustav Mahler spiegando che l’opera, composta e installata senza l’aiuto di alcun mezzo meccanico, è destinata a scomparire e a essere reinglobata nella natura.

1992 ARTE ECOLOGICA Nel catalogo della mostra Fragile Ecologies: Contemporary Artists’ Interpretations and Solutions, la storica dell’arte Barbara Matilsky per la prima volta stabilisce la differenza tra arte ecologica e arte ambientale, chiarendo che la prima sarebbe eticamente motivata.

2009 COP15 A Copenhagen, la 15esima Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici si apre tra grandi speranze. L’arte ha un ruolo da protagonista in città, dove si incontrano decine di opere proposte sia dagli organizzatori del summit che dai tanti attivisti arrivati da tutto il mondo.

2002 ECOVENTION Il Contemporary Arts Center di Cincinnati ospita la mostra Ecovention: Current Art to Transform Ecologies, a cura di Sue Spaid e Amy Lipton. Il titolo unisce le parole ecologia e intervento, a indicare progetti che utilizzano strategie e tecnologie innovative per trasformare l’ecologia locale. Il catalogo della mostra, accessibile gratuitamente online, diventerà il testo di riferimento per l’arte ecologica.

2017

2019

SUPPORT In occasione della Biennale di Venezia, lo scultore italo-americano Lorenzo Quinn fa uscire dall’acqua del Canal Grande due gigantesche mani di resina bianca che si aggrappano alla facciata dell’Hotel Ca’ Sagredo. Il messaggio è chiaro: il pericolo è imminente, riuscirà l’uomo a salvarsi?

COP25 La 25esima Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici segna un definitivo riavvicinamento all’arte con la mostra 25x25, che riunisce poster commissionati per la conferenza a venticinque noti artisti internazionali.

Un approccio che mescola il dialogo diretto con la natura e la ricerca di soluzioni (sociali o tecnologiche che siano) lo troviamo in ambito italiano. Il PAV – Parco Arte Vivente di Torino, ideato dall’artista Piero Gilardi, indaga l’arte del vivente, attraverso bioarte, biotech art, arte ecologica e antropologia. Il PAV ospita mostre temporanee che esplorano le varie declinazioni di un’arte che sperimenta nuovi modi di relazione tra uomo e ambiente. Dal 2014 a curare le mostre è Marco Scotini, che ci spiega: “Quando sono arrivato, il PAV stava lavorando soprattutto sulla bioarte, mentre adesso abbiamo cercato di vedere il rapporto uomo-natura sotto una luce più storico-politica. Anzi, direi biopolitica, perché abbiamo puntato il nostro sguardo su ricerche nel Sud Est Asiatico, in Cina, in Africa valutando l’impatto del colonialismo e della schiavitù su quelle aree. Credo che il cosiddetto Antropocene vada dotato di una storia e non ridotto a un’astrazione in cui tutti siamo colpevoli della crisi attuale”. Il 5 marzo ha aperto al PAV una mostra dedicata all’artista indonesiana Arahmaiani, dal titolo Politics of Disaster. Gender, Environment, Religion. “Il titolo mi sembra quanto mai adeguato alla situazione che stiamo vivendo in questi giorni”, prosegue Scotini. “La parola ‘disastro’ ricorre continuamente nelle affermazioni di Arahmaiani in rapporto alla propria storia individuale e collettiva. Il disastro, e non i suoi effetti, è il punto di partenza di Arahmaiani, che cerca di sfidare le forme di oppressione sulla natura e sulla donna attivando pratiche associative e immaginari ecologici che ci riguardano tutti”. Se, infatti, per l’arte occidentale il rapporto con la natura è stato frutto di un riavvicinamento all’interno di un dualismo di cui paga le conseguenze l’intero pianeta, l’arte orientale si nutre della simbiosi con la natura. “Il rapporto fusionale con la natura in Oriente”, conclude Scotini, “non è mai stato messo in discussione se non con l’arrivo del capitalismo e dell’idea di democrazia occidentale. Credo che il maggior contributo alla crisi ecologica attuale ci arrivi dalle donne del Sud del mondo”. Finché l’arte continuerà a essere riflesso del mondo e il mondo a essere in pericolo, continueranno a esistere interpretazioni creative di un rapporto, quello tra l’uomo e la natura, tanto simbiotico quanto conflittuale. Quando il futuro è incerto, l’arte può aiutarci a immaginare altri mondi possibili.

STORIES L ARTE & AMBIENTE

OCEAN LANDMARK Per il suo Ocean Landmark la canadese Betty Beaumont trasforma 500 tonnellate di carbone di scarto in un giardino sottomarino per la riproduzione di flora e fauna marittime al largo di Long Island. L’opera esiste ancora oggi.

INTANTO IN ITALIA...

MARZO L APRILE 2020

1969

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#21

IN APERTURA

Punti di vista su Henri-Cartier Bresson di Arianna Testino

accontare la fotografia non è mai un gesto semplice, soprattutto se a finire sotto la lente di ingrandimento è un autore-icona del linguaggio per immagini, oggetto e soggetto di mostre e retrospettive da una parte all’altra del globo. In questo orizzonte, l’impresa espositiva che sta per concretizzarsi tra le sale di Palazzo Grassi, satellite lagunare della Pinault Collection, suona ancora più coraggiosa, poiché ad “affrontare” un mostro sacro dell’obiettivo come Henri Cartier-Bresson (Chanteloup, 1908 ‒ Montjustin, 2004) sono ben cinque curatori d’eccezione, chiamati dal coordinatore della rassegna, Matthieu Humery, a offrire il proprio punto di vista su un corpus di scatti ‒ ben 385 ‒ selezionati in vita dallo stesso Cartier-Bresson, la celeberrima Master Collection. Esito di una scelta personale, i cui criteri non sono mai stati chiariti dall’autore, questo prezioso corpus di stampe a contatto trovò la sua forma definitiva nel 1973, su invito dei collezionisti Dominique e John de Menil, amici del fotografo, che decise di produrne pochissimi esemplari, includendo opere note e altre meno conosciute o riuscite, come sottolinea Humery, catalogandole in maniera semplice, quasi si trattasse di un archivio. Sono soltanto sei gli esemplari della Master Collection – conservati presso il Victoria and Albert Museum di Londra, la University of Fine Arts di Osaka, la Bibliothèque nationale de France, la Menil Foundation di Houston, la Fondation Henri Cartier-Bresson e la Pinault Collection ‒, emblema del ruolo giocato dalla soggettività e dal caso nell’opera di un artista. A misurarsi con il “peso” di decisioni individuali, intime, non codificabili, sono cinque curatori impegnati in ambiti professionali diversi, ma accomunati da una scintilla, quella della creatività, che dettava i movimenti di occhi e mani dello stesso Cartier-Bresson, e anche da legami più o meno sottili con quest’ultimo.

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HENRI CARTIER-BRESSON. Le Grand Jeu

a cura di Annie Leibovitz, Wim Wenders, Javier Cercas, Sylvie Aubenas, François Pinault, Matthieu Humery Catalogo Marsilio PALAZZO GRASSI Campo San Samuele 3231 – Venezia 041 2001057 palazzograssi.it in alto:

© Maurizio Ceccato per Grandi Mostre Henri Cartier-Bresson, Lourdes, France, 1958, © Fondation Henri CartierBresson / Magnum Photos a destra:

PERCEZIONE E INDIVIDUALITÀ

Le sorti della mostra ‒ “che non vuole essere un’altra monografica sull’artista, ma una indagine sulla percezione del suo lavoro”, afferma Humery ‒ dipendono dalla fotografa Annie Leibovitz (per la quale Cartier-Bresson fu un modello), dal collezionista François Pinault, dallo scrittore Javier Cercas (le cui radici spagnole echeggiano l’interesse del fotografo verso le vicende del Paese, esplicitate anche dalla sua produzione cinematografica), dalla conservatrice della Bibliothèque nationale de France Sylvie Aubenas e dal regista Wim Wenders (che, ricorda Humery, “incontrò Cartier-Bresson più volte e condivide con lui l’interesse per la fotografia, come dimostrato dai suoi

film”), e, ancora una volta, da una scelta, per sua stessa natura soggettiva e individuale, applicata alla Master Collection. La regola del gioco ‒ perché di un gioco si tratta, come esplicita il titolo della rassegna, Le Grand Jeu – è una e inderogabile: selezionare in piena autonomia e solitudine un gruppo di scatti e offrirli al pubblico attraverso un allestimento dettato, inutile dirlo, del proprio punto di vista. Ciascuno dei curatori non ha avuto accesso alle decisioni altrui, sperimentando una gamma di sfumature del lavoro curatoriale: l’incertezza, il dubbio, l’infinito interrogarsi sul buon esito delle direzioni intraprese, ma anche, come sottolinea Humery, la coesistenza di due sguardi, quello dell’essere umano e quello del professionista che deve difendere le sue scelte e veicolarle. IL GIOCO E L’IO

Ed è proprio qui che l’ambivalente significato del jeu emerge con più forza. Il gioco cede il passo, abbandonando una lettera, all’io – je – pilastro, motore e causa dell’essere nel mondo come individui. Una trama di ego – quelli dei curatori, ma, soprattutto, quello di Henri Cartier-Bresson – innerva la struttura concettuale di una mostra che ne racchiude cinque e che ammette la presenza di ripetizioni, “doppioni”, scelte identiche, richiamando alla mente “il gioco del cadavre exquis di matrice surrealista” e confermando tutta l’imprevedibilità di azioni dettate dal proprio “je”. È lo stesso Humery a rammentare che la “medesima immagine, scelta da curatori diversi, assume un significato completamente diverso”. L’esito finale dell’intera operazione – supervisionata da Humery, che ha aiutato i curatori a “creare una narrazione e a mettere in fila i pensieri” – sarà svelato solo alla fine, quando pubblico e curatori potranno prendere parte al “gioco”, attraversando una galleria di immagini e di scelte non fini a sé stesse, ma veicoli di una soggettività che si palesa agli occhi altrui.


IN APERTURA

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I CURATORI

1908

Nasce a Chanteloup

MATTHIEU HUMERY. Dopo aver diretto il dipartimento di fotografia di Christie’s, ha curato una serie di mostre dedicate, fra gli altri, a Irving Penn, Annie Leibovitz e Jean Prouvé. Co-fondatore del Los Angeles Dance Project, coordina progetti in cui si mescolano arte contemporanea e coreografia.

1933

Collabora con Jean Renoir

1936

Espone per la prima volta nella galleria Julien Levy a New York

SYLVIE AUBENAS. Classe 1956, è a capo del Dipartimento di Stampe e Fotografia della Bibliothèque nationale de France dal 2007. Specializzata in storia della fotografia, ha tenuto corsi all’Università di Parigi IV Sorbona e curato numerose mostre fra Europa e Stati Uniti. ANNIE LEIBOVITZ. I suoi esordi come fotoreporter per Rolling Stone risalgono al 1970 e da allora ha firmato oltre cento copertine per la rivista americana, approdando poi anche a Vanity Fair e Vogue. In parallelo all’editoria, la fotografa ha firmato molteplici campagne pubblicitarie, combinando moda e ritrattistica. FRANÇOIS PINAULT. Nato nel 1936, ha saputo distinguersi nell’ambito del commercio prima nel campo del commercio del legname e poi nel settore dei beni di lusso, acquisendo il gruppo Gucci. Nel 2003 cede la direzione operativa al figlio François-Henri Pinault e nel 2013 il gruppo è ribattezzato Kering. Oggi la collezione di arte contemporanea di François Pinault è una delle più note al mondo. JAVIER CERCAS. Nome di punta della narrativa spagnola contemporanea, classe 1962, ha conquistato la fama internazionale con Soldati di Salamina, pubblicato nel 2001. Collaboratore del quotidiano El País, lo scrittore parla delle sue opere come “storie reali”, che affondano le radici nella linea di confine tra realtà e finzione. WIM WENDERS. Il cielo sopra Berlino e Paris, Texas sono solo due delle pellicole che hanno trasformato la sua regia di in uno dei paradigmi della cinematografia attuale. Promotore del Nuovo Cinema Tedesco, il regista nato a Düsseldorf nel 1945 ha fatto incetta di premi, dall’Orso d’oro alla carriera al Festival di Berlino nel 2005 alla Palma d’oro a Cannes nel 1984.

1940

È fatto prigioniero dalle truppe naziste e fugge al terzo tentativo

1945

Gira Le Retour, documentario sul rientro in patria di prigionieri di guerra e deportati

1947

Il MoMA di New York gli dedica una mostra

Fonda l’agenzia Magnum Photos insieme a Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert

1952

Pubblica il suo primo volume, Images à la Sauvette

1954

È il primo fotografo a essere autorizzato a entrare in Unione Sovietica

1974

Riduce la sua attività di fotografo e si concentra sul disegno

2000

Crea la Fondation Henry Cartier-Bresson insieme a sua moglie Martine Franck e alla loro figlia Mélanie

2004

Muore a Montjustin


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OPINIONI

Non tutti i virus vengono per nuocere Massimiliano Zane progettista culturale

l Coronavirus ha creato I uno stato di emergenza che, tra gli altri, sta mettendo in ginocchio tutto il settore della cultura e della creatività dell’Italia, un comparto essenziale non solo per la nostra economia ma per la nostra stessa qualità della vita. Un ecosistema già endemicamente fragile, travolto da una emergenza contingente che ne ha portato alla luce difficoltà e contraddizioni. Una situazione a tratti surreale, che ha visto migliaia di operatori, di professionisti (molti dei quali senza alcuna indennità) e di imprese, accanto a milioni di visitatori e turisti, tutti “congelati” nel giro di 24 ore e fino a data da destinarsi. Una incertezza economica e sociale che potrebbe avere risvolti negativi a lungo termine e che rischia di produrre danni anche in regioni e luoghi oggi accessibili e non toccati dal virus, colpendo maggiormente realtà piccole o piccolissime e acuendo differenze geografiche e disomogeneità territoriale. Ecco allora che tra le pieghe di questa crisi emergono chiaramente due prospettive: da una parte quella politica, con il bisogno (urgente) di rafforzare e armonizzare la gestione di un settore (e la sua filiera) a oggi ancora troppo frammentato, esposto a contingenze terze imprevedibili. Un asset economico e produttivo (piace definirlo così) importante, tuttavia ancora volatile nel suo esser privo di una connotazione economica tale da permettergli di godere, tanto in tempi buoni, quanto in quelli di emergenza, di un “piano industriale” vero e specificatamente definito all’interno del quadro nazionale, che preveda azioni e supporti idonei per affrontare eventuali criticità, come qualunque altro settore produttivo cui viene richiesto di contribuire attivamente al PIL nazionale.

TECNOLOGIE E DIGITAL STRATEGY

La seconda prospettiva invece riguarda internamente il settore culturale stesso, costretto a limitare il contatto con i propri pubblici, o addirittura a cancellarlo, quindi anche a rivedere le modalità di comunicazione per mantenere vivo il rapporto con cittadini e potenziali visitatori. In questo senso sfruttare a pieno le potenzialità offerte dalle tecnologie, o dalle varie forme di smart-working, non è più solo una possibilità: oggi è una necessità. Ne sono un esempio le dirette streaming e le visite virtuali che difatti hanno già “aperto” alcuni musei tra Veneto e Lombardia che in questo modo (similmente alla scuola) hanno superato i propri spazi fisici di condivisione. Allora occorre riflettere sull’urgente necessità di una vera “digitalstrategy” per la cultura, applicata secondo un piano di sviluppo comune e nazionale. Una prospettiva, questa, che se messa in atto potrebbe sollecitare nuovi processi di contatto, offrendo ai luoghi della cultura nuove risorse e professionalità, ma anche inedite opportunità di conoscenza per i pubblici. POTENZIARE LA CULTURA

Temi questi che il COVID-19 ha reso attuali e concreti e che, forse, non sarebbero stati affrontati in altre situazioni (sicuramente non in maniera così stringente). Perché per generare “valori” attraverso il patrimonio servono le giuste condizioni, e se fino a poco tempo fa la priorità era individuare obiettivi di crescita condivisi (spesso utilizzati più per sterili classifiche che per altro), oggi appare a tutti chiaro quanto sia urgente definire un quadro di potenziamento del settore culturale e della creatività, che definisca anche tutti i mezzi e le prospettive di sostegno e superamento di eventuali crisi e flessioni, così da renderlo realmente maturo e pronto a contribuire attivamente (e non solo passivamente) allo sviluppo del sistema Paese.

E ora tocca a Raffaello Antonio Natali storico dell’arte

opo le puntate sull’Uomo vitruviano e sul Paesaggio 8P avevo pensato che per un po’ mi sarei astenuto, almeno su queste pagine, da ragionamenti sui prestiti delle opere d’arte; ma le polemiche che in questi giorni si sono pubblicamente levate intorno alla trasferta romana del Ritratto di Leone X coi due cardinali dipinto da Raffaello, m’inducono invece a riprendere subito il discorso. Non torno però sulla materia perché reputi che l’insistenza serva a favorire riflessioni in chi al governo sarebbe doveroso riflettesse (sono troppo avanti negli anni e ho accumulato troppa esperienza per coltivare l’ingenua fiducia che la riflessione sia una pratica ministeriale). Riprendo invece la questione perché in questi giorni gli strumenti di comunicazione, dando notizia delle dimissioni del Comitato scientifico degli Uffizi avverso al prestito del Leone X, evocano sovente la lista delle opere “imprestabili” della Galleria fiorentina (comprensiva del ritratto del papa), che per l’appunto fu stilata da me nel 2007 e subito spedita al Ministero. Mi contenni in questa maniera perché l’anno prima, fresco di nomina a direttore della Galleria degli Uffizi, avevo visto partire per Tokyo con il mio parere decisamente contrario l’Annunciazione di Leonardo.

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LEGGI E PARTENZE

M’ero opposto a quella trasferta non già per un capriccio, bensì per il divieto d’una legge (non d’epoca fascista, ma recente com’è il Codice Urbani, 2004) che al comma 2b dell’articolo 66 proibisce – e quasi mi ripugna citarlo per l’ennesima volta – l’esportazione fuori dal territorio nazionale di quei “beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica sezione di un museo, pinacoteca, galleria, archivio o biblioteca o di una collezione artistica o bibliografica”. E siccome per me l’Annunciazione di Leonardo calzava a pennello, avevo espresso – come m’obbligava il dovere di funzionario dello Stato e come la coscienza mi dettava – parere negativo. Ovviamente l’opera partì. E allo stesso modo sono da poco partiti per la mostra vinciana di Parigi l’Uomo vitruviano e il Paesaggio 8P, come se il primo non fosse parte del “fondo principale” della collezione di

disegni dell’Accademia di Venezia e il secondo non lo fosse di quello degli Uffizi. Per aggirare la legge sono stati addotti argomenti capziosi; e ancora s’avverte l’eco dello stridore delle unghie sugli specchi del Codice Urbani. Torno a ripetere che, quando ai ministri una legge non piace, è nelle loro prerogative – se ci riescono ‒ cambiarla. È invece giuridicamente e moralmente inammissibile che la trasgrediscano. Nel caso del Leone X di Raffaello tutto questo però non vale, giacché l’articolo della legge si volge alle opere per cui si chieda l’esportazione all’estero. Nondimeno in margine a quella lista, cui oggi ci si riferisce, avevo scritto alcune chiose che meritano in questo frangente d’essere richiamate. LA LISTA DEGLI UFFIZI

Dicevo allora ch’essa era stringatissima in sé (non avevo infatti voluto che mi si tacciasse d’esser talebano: ventitré opere in tutto) e che tanto più lo era in rapporto al numero grande di capolavori che il museo esibiva e che in essa non comparivano: del ricchissimo nucleo botticelliano – per dire – c’erano soltanto due opere e di quelli di Tiziano e Caravaggio solo una. Seguiva un’elencazione (veramente da brivido) d’artisti, dei quali nulla era incluso. Della lista pertanto io stesso denunciavo l’incompletezza, nel contempo auspicando (con buona dose d’ironia) ogni integrazione che sembrasse opportuna agli organi superiori. Ma subito esplicitamente dichiaravo che la lista contava opere di tenore storico e qualitativo a tal segno eminente da poter ben rappresentare i vertici assoluti dell’arte figurativa occidentale d’ogni tempo. Opere che (in quanto tali) non potevano essere esposte ai rischi che qualsiasi trasferta comporta, sia o non sia di lungo tragitto (rischi che sempre ci sono; e chi dica il contrario, mente). Opere dunque per le quali, proprio in virtù della loro eccellenza storica, culturale e linguistica, preannunciavo che fino al giorno in cui fossi rimasto direttore degli Uffizi avrei espresso parere contrario a qualunque prestito, all’estero o in Italia che fosse. Ventitré opere per le quali si viene agli Uffizi da Paesi che sono all’altro capo del mondo. E a chi, da quei posti lontani venga apposta a Firenze, importa poco se l’opera per la quale s’è mosso sia stata prestata all’estero o in Italia. Non la trova dove pensava fosse; e questo gli basta.


OPINIONI

Produzione di mostre ed export culturale Stefano Monti economista della cultura

indubbio: quando È sentiamo parlare di export è raro che si stia parlando di cultura, di musei o di mostre. Eppure questa associazione dovrebbe essere immediata. Naturale. Non si tratta di una riflessione meramente “economica”, ma di una visione a più ampio respiro, che coinvolge il ruolo che il nostro Paese ha affidato alla cultura: bandiera da sventolare al vento delle statistiche. Quando si parla di “viaggi e turismo”, la cultura pare essere la più importante opportunità di sviluppo del nostro Paese. Quando si tratta di fare riflessioni “strutturali”, invece, la cultura è molto più che emarginata, è ignorata. È chiaro che né la produzione né l’esportazione di mostre possono “incidere” in modo significativo sul PIL nazionale, ma possono avere degli effetti positivi che è importante considerare. Come rivelava un insolito studioso di economia, il famoso scrittore Fernando Pessoa, il rapporto tra cultura ed economia (Pessoa con più precisione parlava di “commercio”) è un rapporto consolidato fin dai tempi dei Greci: rotte commerciali e influenze culturali si sono da sempre intrecciate in uno sviluppo che, nella storia, non ha mai smesso di reiterarsi. In epoca contemporanea, questo binomio è stato guidato dagli Stati Uniti, con l’esplosione di quello che gli esperti di “cultural studies” chiamano “soft power”. LA SITUAZIONE ITALIANA

Il nostro Paese, invece, continua a giocare, in questo scacchiere, un ruolo meno che minoritario. L’influenza culturale che ci viene riconosciuta è l’influenza di un immaginario collettivo standardizzato che non risponde alle reali condizioni del nostro Paese. Se da un lato questo è un fenomeno più che auspicabile, dall’altro è inevitabile che, prima o poi, se non sapremo affermarci anche attraverso la nostra cultura, intesa come la cultura che rappresenta la nostra Italia nel nostro tempo, lo stereotipo positivo che ci mostra “meravigliosi” tenderà a svanire, e questo potrebbe avere non pochi

effetti sul resto dell’economia. I dati parlano chiaro. Secondo uno studio condotto da Promos, l’export culturale italiano è veramente molto basso: il volume d’affari di prodotti creativi, artistici e d’intrattenimento, è stato, nel 2017, di circa 200 milioni; quello degli articoli sportivi quasi quattro volte di più. L’export di giochi per computer e software è stato pari a 4 milioni, meno del fatturato estero di una singola impresa in altri settori. GLI EFFETTI SULL’ECONOMIA

In questo scenario, le mostre possono rappresentare un modo attraverso il quale raggiungere nuovi pubblici, costruire nuovi “immaginari”, affermare una produzione culturale viva, capace di rappresentare il nostro Paese con tutti i suoi limiti, ma anche con tutti i suoi pregi. È qui che risiede l’importanza dell’export culturale: se l’export delle materie prime ha effetti quasi esclusivamente economici diretti, l’export culturale è in grado di influenzare positivamente anche altri settori. Ciò non implica affermare il primato della cultura sul resto dell’economia. Implica affermare che la bilancia delle esportazioni può essere influenzata da dimensioni culturali. In Italia, ogni volta che si parla di cultura, si parla necessariamente di finanziamenti ‒ teatro, musei, bandi per associazioni culturali e chi più ne ha più ne metta. Eppure, per un settore che potrebbe avere un ruolo importante nella crescita internazionale della nostra cultura nel mondo, mancano anche misure minime di natura fiscale. Sarà forse perché il settore è popolato soprattutto da soggetti privati?

Mostre e musei: dall’“inimicizia” all’ibridazione Fabrizio Federici storico dell'arte

l fatto che la mostra si sia imposta negli ultimi decenni come il principale dispositivo di fruizione dell’arte, soppiantando il museo, obbliga quest’ultimo a una riflessione sulle proprie modalità operative, che già da più parti è stata avviata e che darà frutti sempre più tangibili negli anni a venire. Piaccia o meno, la mostra ha sostituito alla complessa polifonia del museo una tornita monodia, che è (generalmente) più facile da seguire, anche da parte di chi non ha una buona preparazione culturale e non frequenta abitualmente gli spazi dell’arte. Altrimenti detto, ciò che sorregge la mostra è una narrazione, un racconto per immagini e oggetti che solitamente fa più presa sullo spettatore rispetto alla presentazione paratattica dei pezzi, tipica del museo ottonovecentesco. Il museo deve dunque raccogliere la sfida lanciata dalle mostre, presentando le proprie raccolte sotto forma di una o più esposizioni, temporanee ma non troppo (diciamo, ad esempio, della durata di sei mesi), che puntino a illustrare al pubblico un determinato periodo della storia dell’arte, un movimento, una porzione della storia della città e del territorio in cui il museo è situato. Ne deriverebbe un maggiore dinamismo dell’istituzione museale e il cittadino sarebbe invogliato a tornarvi più spesso, per vedere “che c’è di nuovo”. Senza pretendere, peraltro, di vedere tutti insieme i pezzi più significativi del museo: alcuni di essi potrebbero non essere esposti, se non sono inseriti nei percorsi espositivi delle ‘mostre museali’ in corso.

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UN CIRCOLO VIRTUOSO

Questo aspetto si lega alla questione delle opere in prestito: alla fine di febbraio la polemica si è accesa, per motivi diversi, intorno alla concessione del Leone X di Raffaello alle Scuderie del Quirinale e sul caso della quarantina di opere di Capodimonte (tra cui molti dei dipinti più importanti del museo) spediti per quattro mesi a una mostra a Fort Worth, in Texas. Una riorganizzazione sotto forma di rassegne temporanee degli allestimenti museali

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(eventualmente integrati da pochissimi, irrinunciabili prestiti) consentirebbe di vedere sotto una luce diversa anche questo problema: a non poter essere prestate non sarebbero tanto le opere ‘identitarie’, quanto quelle che in quel dato momento sono indispensabili per le mostre che il museo ha messo in piedi al proprio interno. Armonizzando il calendario delle rassegne organizzate dal museo e quello dei prestiti si potrebbe creare un circolo virtuoso, in cui l’assenza di determinati pezzi non è avvertita dal visitatore come una mancanza. Fermi restando, naturalmente, alcuni capisaldi: le buone condizioni dell’opera e la sicurezza del trasporto, il fatto che magari non si prestano tutte insieme quaranta opere tra le più importanti, la validità scientifica e divulgativa della mostra cui il pezzo è destinato (di mostre inutili, si sa, è pieno il mondo). L’OPINIONE DI LONGHI

Le narrazioni che andranno ad animare le sale dei musei saranno di vario genere, ai direttori e al personale spetterà il piacere di escogitarne di sempre nuove e accattivanti. Certo, sembra opportuno che a sostenerle ci sia una solida visione storica, che si traduca in percorsi ordinati cronologicamente, i più facili da seguire e i più efficaci, forse, a livello comunicativo. Narrazioni di storie, insomma, da preferire a quelle “ideuzze pretestuali come ‘luce e ombra’, ‘fantastico’, ‘diabolico’” che già nel 1959 Roberto Longhi vedeva alla base di tante mostre “che si risolvono per lo più in ozii mondani e diplomatici, o in isvaghi municipali a scopo turistico”. Longhi lo scriveva in un intervento dal titolo Mostre e musei, in cui precocemente evidenziava una “inimicizia” tra le une e gli altri, cui sarebbe stato opportuno porre fine. Il grande storico dell’arte si augurava che i musei sarebbero diventati “sempre più cose vive; mostre permanenti, e dunque sempre con qualche punto di vantaggio sulle mostre improvvisate”. Se quindi Longhi sentiva, per un verso, la necessità di superare la contrapposizione, per l’altro non metteva in discussione il primato del museo. Oggi il conflitto va superato per davvero: occorre che i musei siano disposti a imparare dalle (buone) mostre. Ovvero, per chiudere ancora con Longhi: “‘Le esposizioni? Ma le esposizioni siamo noi!’: questo dovrebbero dire i musei”.


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PERCORSI

Tra Abruzzo e Molise

di Santa Nastro

CAFÉ LES PAILLOTES Piazza le Laudi 2 085 61809 lespaillotes.it fino al 20 aprile HISTORY REPEATS HISTORY a cura di Massimiliano Scuderi FONDAZIONE ZIMEI Via Aspromonte 4

fino al 28 marzo ALEXANDRA BARTH a cura di Massimiliano Scuderi SPAZIO URBAN GALLERY Via L’Aquila 31

MONTESILVANO PESCARA

SANTO STEFANO DI SESSANIO

TERMOLI

MACTE Via Giappone 0875 808025 fondazionemacte.com

CIVITACAMPOMARANO

CAMPOBASSO

SEXTANTIO Via della Torre 0862 899112 sextantio.it

fino al 15 aprile ANTONIO PETTINICCHI – VEDERE IL PAESAGGIO a cura di Lorenzo Canova, Piernicola Maria Di Iorio, Riccardo Gentile Lorusso GALLERIA G. MAROTTA ‒ L’ARATRO Via De Sanctis aratro-galleria-gino-marotta.business.site

dal 18 al 21 giugno CVTÀ STREET FEST cvtastreetfest.it

LE MOSTRE Più che una mostra si tratta di un insieme di esposizioni che inaugurano nella relativamente giovane Fondazione Zimei di Pescara. Nasce infatti nel 2015 “in un momento di totale crisi culturale del territorio. Dedicata alla memoria dell’imprenditore Antonio Zimei, è presieduta dalla figlia Sabrina e diretta da me fin dai primi istanti”, ci racconta Massimiliano Scuderi. “L’interesse principale dell’organizzazione è quello di lavorare sulle residenze di artista, mantenendo di fatto la vocazione del luogo ovvero quella di una casa aperta alla creazione contemporanea, recuperando una dimensione che spesso nell’arte sembra essersi persa ovvero la qualità delle relazioni. Da noi gli artisti non solo risiedono per un periodo, ma tornano per continuare i loro progetti. Così è stato per l’americano Peter Fend, ma anche per Luca Vitone per il quale abbiamo prodotto alcuni lavori oggi visibili fino al 15 marzo nella grande mostra a lui dedicata dal Pecci di Prato. Un altro aspetto fondamentale che emerge dal nostro programma è quello del rapporto con l’ambiente. Riteniamo che l’arte sia un punto di vista privilegiato da cui osservare i cambiamenti globali e restituire degli strumenti di lettura critica della realtà”. All’interno di questa cornice la Fondazione ha inaugurato due mostre a fine febbraio. La prima, History repeats History, riunisce Petra Feriancová, Babi Badalov, Cyril Blažo, Stano Filko, Vladimír Havlík, Július Koller, Tamás St.Auby, Milan Tittel, configurandosi come una ricognizione transgenerazionale sugli artisti di est e centro Europa. La seconda è dedicata alla pittrice slovacca, esponente della Nouvelle Vague di Bratislava, Alexandra Barth, ed è in


PERCORSI

collaborazione con lo spazio urban gallery di Pescara. “Il 2020 è un anno importante per noi in quanto siamo rientrati nella mappatura OPIAC del Comitato delle Fondazioni italiane presieduto da Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Il dossier si basa sulla qualità e sulla continuità delle fondazioni private e la Fondazione Zimei compare come unica realtà operativa in Abruzzo. Inoltre a giugno inaugureremo un secondo spazio al centro di Pescara, che lavorerà con un progetto autonomo dalla sede principale, ma sempre in stretta relazione”, conclude Scuderi. L’EVENTO Dal 18 al 21 giugno torna per le strade di Civitacampomarano, in provincia di Campobasso, il CVTà Street Fest, con la direzione artistica di Alice Pasquini (aka AliCè). Nasce da una bella storia: invitata casualmente a dipingere dalla presidente della Proloco locale, la Pasquini torna nel borgo che è in realtà il paese natio del nonno; da questo viaggio nella memoria intrapreso nel 2014 prende vita un evento che torna a riqualificare e abbellire ogni anno la piccola località in Molise. IL MUSEO Il museo si trova in Molise. È L’Aratro, la galleria dedicata all’artista Gino Marotta e collegata all’Unimol, l’Università degli Studi del Molise. Diretta da Lorenzo Canova, “nasce nel 2007 come spazio dedicato a mostre di arte contemporanea, italiana e internazionale, presentata in tutte le sue diverse forme espressive attuali: dall’installazione al video, dal digitale fino alla pittura, alla scultura e al disegno,

nel loro intreccio con il design, l’architettura e la moda. Inoltre, all’interno del centro, è presente una collezione d’arte contemporanea aperta a tutti; una raccolta utile alla didattica, alla ricerca e al mondo dell’arte contemporanea”, spiega Piernicola Maria Di Iorio, curatore delle collezioni di arte elettronica. Fino al 15 aprile è in corso la mostra Vedere il paesaggio, dedicata all’artista Antonio Pettinicchi. “Ogni uomo ha intorno un microcosmo e ogni artista, con maggiore o minore coscienza, è imbevuto di quel microcosmo e finirà in qualche modo per rielaborarlo. È anche questa la storia e la consapevolezza di Antonio Pettinicchi, il cui microcosmo è il Molise, terra di emigranti, di un’emigrazione costante e rumorosa, terra nella quale le culture e i costumi mutano lentamente e che, ancora oggi, vive un’evoluzione placida e differente. Terra, infine, i cui abitanti si distinguono per quella nota eccessiva ma genuina e vitale di attaccamento alle proprie origini, di appartenenza. Pettinicchi stesso, interprete di questi luoghi e delle sue genti, volontariamente rinuncia all’esodo moderno attuato dai suoi coevi e, cosciente di trovare nell’antica lentezza ritmica e rurale del Molise quell’infinita armonia di luci e dinamiche esigenti, riesce attraverso i suoi lavori ad attuare una visione che non è solo regionale, ma comune e trasferibile in ogni luogo”, spiega il curatore. IL LUOGO Del nuovo museo MACTE di Termoli Artribune ha molto parlato. Si tratta di un progetto cominciato ben quattro anni fa e diventato realtà nel 2019 in una struttura pensata per essere mercato del pesce, poi destinata, dopo varie vicissitudini, al primo museo

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d’arte contemporanea della città. Il museo affonda le radici nella antica storia del Premio Termoli, nato nel 1955, grazie all’impegno costante dell’artista Achille Pace. Tante le acquisizioni, realizzate grazie al Premio, che oggi costituiscono il corpus di una interessante collezione, composta da ben 500 opere e allestita parzialmente (con la curatela di Laura Cherubini e Arianna Rosica) nelle sale del museo. Tante le trasformazioni, anche architettoniche, che ben presto riguarderanno lo spazio. Nel frattempo la Fondazione che ne governa le attività ha anche lanciato un bando pubblico per trovare il direttore. MANGIARE E DORMIRE Sia in Abruzzo che in Molise non mancano i luoghi in cui sperimentare la cucina generosa di queste due magnifiche regioni, entrambe abbracciate dal mare e accarezzate dai monti. A Pescara suggeriamo il Café Les Paillotes, con la cucina dello chef Walter Canzio. Si dorme al Sextantio a Santo Stefano di Sessanio, in provincia dell’Aquila, un albergo rustico diffuso nel piccolo borgo sul Gran Sasso, per un’esperienza di ospitalità di altissimo livello (ideata dall’imprenditore Daniele Kihlgren), che affonda le radici nella tradizione antichissima del luogo.

in alto: Antonio Pettinicchi, Mahler a Lucito (part.), 2003, courtesy Galleria Gino Marotta


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OLTRECONFINE

A Bilbao con Olafur Eliasson

di Federica Lonati

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acile, stimolante e coinvolgente. Se tutta l’arte del nostro tempo fosse, al primo approccio, così immediata come l’opera di Olafur Eliasson (Copenhagen,1967), avrebbe senza dubbio un appeal maggiore nei confronti della gente. E perderebbe forse quell’aura di oscuro oggetto per pochi iniziati, troppo spesso ostico e incomprensibile. L’artista danese di origini islandesi ‒ che vive e lavora tra Berlino e Copenhagen ‒ ha il dono di trasformare l’arte contemporanea in un’esperienza individuale o collettiva attraente, che, come un gioco, coinvolge i cinque sensi per portare il suo messaggio a destinazione. Lo testimonia il numero di visitatori che ha affollato l’estate scorsa la sua prima grande retrospettiva alla Tate Modern di Londra. La mostra In Real Life, realizzata in collaborazione con il Guggenheim di Bilbao, è ora allestita nel capoluogo basco, dove sarà possibile vederla o rivederla fino al 21 giugno, con qualche piccola variazione nel montaggio. PERCEZIONE SENSORIALE Per Eliasson lo spettatore non è una figura accessoria all’interno del processo creativo: senza l’interazione con il pubblico ‒ una partecipazione anche solo emotiva o stimolata da

pura curiosità ‒, il magico mondo dell’artista scandinavo non si animerebbe, perderebbe forse parte del suo significato più profondo. È il caso dell’ombra colorata sulla parete bianca di una sala vuota (Your encertain shadow, color, 2010): nel momento in cui entra in campo un soggetto, l’ombra compare in scena per proiettare e ingigantire ogni minimo movimento. “Tu dapprima vedi l’ombra, ne percepisci con sorpresa la presenza” ‒ spiega Olafur ‒ “e poi, in un secondo momento, anche l’ombra vede te, ti segue, in una doppia prospettiva che diverte molto la gente”. Eliasson sfrutta l’effetto sorpresa, invita a interagire con i suoi giochi ottici o esperimenti naturali; stimola a riflettere sull’apparente semplicità del mondo che ci circonda, fatto spesso di polvere e acqua, luci e ombre, colori e geometrie, specchi e riflessi. Ma non tutto ciò che sembra immediato o evidente è sempre così facile da creare o da capire. La realtà è talvolta (anzi molto spesso, secondo l’artista) puro artificio: lo dimostra la cascata ricreata al di fuori dal museo (della serie Waterfall, 2019, ma iniziata negli Anni Novanta), usando un’impalcatura di undici metri d’altezza dalla quale una pompa getta con forza nel lago sottostante l’acqua, che risuona nell’aria come se ci trovassimo sulle pendici alpine.

Fino al 21 giugno

OLAFUR ELIASSON In real life

a cura di Lucía Aguirre e Mark Godfrey Catalogo Tate Enterprise GUGGENHEIM MUSEUM Avenida Abandoiborra 2 – Bilbao +34 944 35 90 00 guggenheim-bilbao.eus

in alto: Olafur Eliasson, Your uncertain shadow (colour), 2010. Photo María del Pilar García Ayensa/Studio Olafur Eliasson. Thyssen-Bornemisza Art Contemporary Collection, Vienna © 2010 Olafur Eliasson a destra:

Olafur Eliasson. Photo Runa Maya Mørk Huber / Studio Olafur Eliasson © 2017 Olafur Eliasson


OLTRECONFINE

Tutti noi siamo atomi e batteri, ossia siamo natura. Quando gli atomi cominciano a riflettere sulla realtà degli atomi stessi, allora la natura si converte in cultura TRENTA OPERE PER TRENT’ANNI In Real Life racconta, attraverso una trentina di pezzi senza un preciso filo cronologico, trent’anni di attività dell’artista multidisciplinare. La mostra a Bilbao è curata dalla spagnola Lucía Aguirre, che ha collaborato al progetto insieme a Mark Godffrey, curatore dell’edizione londinese. L’architettura del museo ‒ il visionario edificio progettato da Frank Gehry più di vent’anni fa, dai soffitti altissimi e dalle pareti spesso sinuose ‒ ha influito sensibilmente sull’allestimento e sulla scelta delle opere in mostra. Rispetto a Londra, per esempio, a Bilbao non c’è un corridoio della nebbia, ma una vera e propria stanza, (Your atmosferic colour atlas, 2009), nella quale il visitatore si immerge come nell’atmosfera inquinata delle nostre metropoli, non senza una certa sensazione di disagio. La visita è libera e permette di accostarsi a opere d’esordio, della prima metà degli Anni Novanta (come la poetica Window projection del 1990) o Wannabee (del 1991) che Olafur crea in maniera del tutto sperimentale nel bar dove lavorava da giovane; fino ai recentissimi Colour Experiment (del 2019) o The presence of absence pavilion (bronzo del 2019), che richiama idealmente le grandi installazioni-performance realizzate con i ghiacci della Groenlandia a Copenhagen nel 2014, o durante la Cop21 di Parigi, nell’anno seguente. Ma sono il passaggio attraverso il cilindro a specchi deformanti di Your Spiral view (2002), gli effetti ottici stranianti della sala illuminata da lampade a monofrequenza (Room for one color, 1997) o la meravigliosa visione di Beauty (1993) a rendere la visita alla mostra un’esperienza sensoriale forte e intensa. Nella prima sala, un’immensa scatola trasparente (Model Room, 2003) custodisce circa 450 modellini o maquettes di progetti, artistici, architettonici o scientifici, datati tra il 1996 e il 2014, prima cioè dell’avvento del 3D. Stupisce la quantità e varietà delle ricerche che Eliasson affronta da anni nel suo studio di Berlino, insieme a un centinaio di collaboratori dalle più svariate specializzazioni, come architetti, artigiani, biologi, storici dell’arte e persino cuochi. L’arte di Olafur Eliasson è immersiva e affascinante: l’immagine riflessa upside down nello specchio concavo; l’aroma che emana dalla parete di licheni bianchi, soffici al tatto; il movimento di un grande ventilatore che oscilla sulla testa del pubblico, a seconda dell’energia che sprigiona, fino alla visione falsata delle opere in una stanza divisa in due da un telo spesso di plastica trasparente. Basta poi adagiarsi comodamente su Fog couch (2018), l’enorme sofà dello studio di Olafur a Berlino, per capire lo spirito

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La cucina è un processo collettivo, un sottoprodotto sociale delle nostre culture. Ogni giorno nella cucina dello Studio ci ritroviamo non solo per un momento di pausa e di riflessione, ma anche per sperimentare con gli alimenti 1967

Entriamo in un museo per vedere la realtà con maggiore densità, per capire noi stessi. L’arte non vive isolata dal suo intorno dell’artista: ogni singola posizione delle sedute (14 in tutto) corrisponde a un momento diverso nella sua giornata lavorativa. DESIGN E IMPEGNO SOCIALE Anche gli interessi politico-sociali e le preoccupazioni etiche di Olafur Eliasson sono evidenti: l’arte è riflessa nella geometria dell’universo e nelle sue leggi scientifiche, ma le meraviglie della natura ‒ i ghiacciai e fiumi che spesso fotografa ‒ sono contaminati dall’azione dell’uomo. L’arte si converte non solo in un mezzo straordinario per riflettere sul presente e indagare il passato, ma anche in uno strumento per agire sul futuro. Da qui le azioni di Olafur Eliasson fuori dai musei, che nascono spesso con una coscienza ecologica o con un proposito umanitario, e che l’anno scorso gli sono valsi il titolo di Ambasciatore di buona volontà nel programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile. “L’arte non è l’oggetto ma ciò che l’oggetto fa al mondo”, dichiara l’artista. Nascono così i suoi tanti progetti etico-solidali ed eco-sostenibili, come The Sun Light (2012), per portare la luce nei luoghi dove l’assenza di elettricità non permette ai giovani di studiare; The Green Light, frutto di un doppio workshop artistico con immigrati e richiedenti asilo, in collaborazione con TBA21, la fondazione di Francesca Thyssen; e la recente SammanLänkad, serie di piccoli pannelli solari domestici esito della partecipazione dell’artista ai Democratic Design Days promossi da Ikea.

1990-1994

1995

Nasce a Copenhagen da genitori di origini islandesi

Esordio nel mondo dell’arte Fonda a Berlino lo Studio Olafur Eliasson

2003

Rappresenta la Danimarca alla Biennale d’Arte di Venezia con The Blind Pavilion

2010

Prima personale negli Stati Uniti al MoMA di New York

2012

Little Sun, la lampada ricaricabile a energia solare per dare luce alle popolazioni africane senza elettricità

2014-15

Ice Watch/Melting, a Copenhagen prima performance pubblica con il ghiaccio portato degli iceberg della Groenlandia

2016-17

Green Light, workshop artistico con la partecipazione di immigrati richiedenti asilo e rifugiati politici, a Vienna

2019

Nomina ad Ambasciatore di buona volontà del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile


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GRANDI CLASSICI

Simone Peterzano maestro e allievo di Stefano Castelli

Fino al 17 maggio

TIZIANO E CARAVAGGIO IN PETERZANO

a cura di Simone Facchinetti, Francesco Frangi, Paolo Plebani e M. Cristina Rodeschini ACCADEMIA CARRARA Piazza Giacomo Carrara 82 ‒ Bergamo 035 234396 lacarrara.it

Simone Peterzano, Venere e Cupido con due satiri in un paesaggio (part.), 1570, Pinacoteca di Brera, Milano

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llievo di Tiziano, maestro di Caravaggio: Simone Peterzano (Venezia, 1535 circa ‒ Milano, 1599) si colloca in una posizione di crocevia fondamentale nella storia dell’arte. Ma la sua opera, studiata approfonditamente solo in tempi recenti, ha un grande valore autonomo al di là di tale contingenza. La monografica che gli dedica l’Accademia Carrara di Bergamo (ospitata negli spazi dell’adiacente GAMeC) ne ristabilisce l’importanza ricostruendone tutto il percorso, dalla fase veneziana a quella lombarda. Ed è una mostra da non perdere per diversi motivi. Per l’ampiezza della gamma di opere di Peterzano presentata, in primis. Per il valore di ricerca e aggiornamento dell’esposizione, dato che nuovi particolari biografici e artistici, nuove attribuzioni e scoperte sono fioriti solo negli ultimi decenni. E non da ultimo per la presenza di prestiti di clamorosa importanza: basti citare, per quanto riguarda Caravaggio, i Musici (1597) dal Metropolitan Museum di New York e il Bacchino malato (1595-96) dalla Galleria Borghese e, di Tiziano, il San Girolamo penitente (1575) dal Thyssen-Bornemisza di Madrid e l’Annunciazione (1535) dalla Scuola grande di San Rocco a Venezia. SOBRIA MAESTOSITÀ Si parte da una sala-prologo che immerge immediatamente nella maestosità della pittura di Peterzano con i due monumentali teleri per la chiesa dei Santi Paolo e Barnaba di Milano (1573-74). Il restauro di uno dei due dipinti è stato appena terminato, quello dell’altro viene completato durante la mostra, alla presenza del pubblico. Il percorso vero e proprio, sistematico e cronologico, parte poi con gli anni giovanili dell’artista, quelli veneziani. Subito prende avvio il confronto con il maestro Tiziano, in particolare tra due Annunciazioni. Dipinti come la Cena in Emmaus e la Madonna col bambino (entrambi del 1560-65), poi, danno già da subito un’idea dell’eloquenza fortissima ma contenuta e sobria dello stile di Peterzano. Il confronto con Tiziano ma anche con il

Veronese, di cui è esposta una Madonna col bambino del 1555-60, evidenzia come la collocazione stilistica di Peterzano nell’ambito della pittura veneta del Cinquecento non sia discutibile, al di là delle prove documentarie. Seguono le sezioni sui soggetti profani. Prima le scene musicali, nelle quali l’artista si specializzò all’interno della bottega di Tiziano, e poi quella sui soggetti erotici, dove il confronto tra Peterzano (Venere con cupido e un satiro, 1565-70 e Venere con due satiri, 1568-70), Tiziano (Venere con cupido dal Prado di Madrid, 1550-55) e Tintoretto (Venere, Vulcano e Marte, 1550-52 dalla Alte Pinakothek di Monaco) è di vertiginoso livello, anche emotivo. GRANDEZZA E AUTONOMIA Al piano superiore, la fase lombarda viene esplorata con dovizia di particolari. Non solo grazie al confronto diretto con i capolavori dell’allievo Caravaggio, ma anche con una sezione sulla pittura sacra ‒ il confronto qui è tra due Resurrezioni di Peterzano e di Tiziano, mentre fra gli altri dipinti spicca un peculiare Cristo morto del 1582-84, che permette di apprezzare i cambiamenti, piuttosto veloci, nello stile dell’artista. Da ammirare anche la piccola e preziosa Deposizione di Cristo dalla croce su ardesia (1572-75), con un serratissimo rapporto tra l’estensione orizzontale e quella verticale della scena e una drammaticità accentuata dallo spazio ristretto. E c’è anche una sala con disegni di grande pregio ormai certamente attribuiti alla mano di Peterzano o in qualche caso alla sua bottega. Non mancano poi i documenti, come il contratto di apprendistato di Caravaggio e un esemplare delle Rime di Lomazzo che testimoniano dell’atto di commissione a Peterzano di Angelica e Medoro del 1571-72, altro straordinario dipinto esposto. Anziché cercare pretestuosamente consonanze letterali con Tiziano e Caravaggio, la mostra ricostruisce dunque la grandezza e l’autonomia di Peterzano, ricollocandolo definitivamente nell’ambito della pittura veneta e ristabilendone con completezza l’apporto a quella lombarda.


DIETRO LE QUINTE

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La luce e l’anima di Gaetano Previati di Marta Santacatterina

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n ponte tra Simbolismo, Divisionismo e Futurismo: la curatrice Chiara Vorrasi presenta così Gaetano Previati (Ferrara, 1852 – Lavagna, 1920), uno dei rari artisti – con Giovanni Segantini, Medardo Rosso, Pellizza da Volpedo – a salvarsi dall’accusa di “passatismo” scagliata da Umberto Boccioni il quale, vedendo nel 1910 Paolo e Francesca del pittore ferrarese, ne rimase profondamente colpito, spingendolo a scrivere che con Previati le forme cominciavano a parlare come musica, i corpi aspiravano a farsi atmosfera e il soggetto era pronto a trasformarsi in stato d’animo. Quegli stati d’animo che, da fine Ottocento, divennero cruciali per tante discipline artistiche, dalla poesia di Baudelaire alla musica e alla pittura. Ma ci sono voluti cent’anni, dichiara ancora Vorrasi, “perché ci si ponesse il problema di riaprire il caso Previati, un artista che va considerato il padre dell’avanguardia del Novecento nonostante illustri storici dell’arte come Argan e come Longhi lo considerassero un fenomeno di superficie, un innamoramento causato dallo scientismo dell’Ottocento, tutto sommato non troppo convincente”; la mostra di Ferrara che ora ne celebra il centenario dalla morte finalmente lo riafferma quale caposaldo della via italiana alla modernità. LE OPERE IN MOSTRA Gli esordi di Previati si collocano in un contesto romantico che caratterizza la sua formazione e che lo porta a scegliere temi tradizionali, ma solo per poco; in breve, infatti, “capisce qual è la sua direzione e approda al Simbolismo, all’arte di esprimere l’inesprimibile, di varcare le apparenze reali e la gabbia che costringe le apparenze dentro la forma. Accede alla dimensione interiorizzata della fantasticheria e del sogno: le linee diventano fluide come la musica, mentre il colore è in grado di accendere la risposta empatica alle emozioni”, racconta sempre la curatrice. La mostra si apre allora con due sorprendenti versioni di un soggetto che riprende l’immaginario dei poeti maledetti intenzionati a superare la barriera della realtà oggettiva, cioè Le fumatrici di oppio, nonché con

un’inquietante, quasi gotica – e chi se lo aspettava, dal “pittore della luce”? – Prima comunione del 1884. Ma ben presto l’attenzione del pittore si rivolge a quella suggestione luminosa che solo il colore diviso può dare: ecco Pace (titolo originario di Nel prato, del 1889-90), con cui Previati aderisce al Divisionismo, tecnica che gli consente di esprimere una sensibilità moderna che, dopo l’avvento della fotografia, non è più disposta a credere all’apparenza sensibile delle cose. L’artista allora “scarta la realtà e recupera tutti gli stimoli che gli vengono dalla scena contemporanea e le atmosfere sfumate della Scapigliatura per creare un coinvolgimento in chi osserva l’opera, per invitarlo ad accedere alla dimensione dell’immaginazione”. UN PITTORE MODERNO Preziosa per la mostra – che riunisce 98 opere, compresi alcuni documenti inediti – è la collaborazione con l’archivio degli eredi poiché, oltre a rivelare la concezione originaria di alcune opere, ha permesso di studiare le ricerche di Previati sul connubio pittura e musica, e disegno e teatro. A tal proposito sono esposti dei lavori in cui l’artista ha dato un’interpretazione moderna a due temi prettamente ferraresi: uno centrato sul recente e inaspettato ritrovamento del quadro giovanile raffigurante Torquato Tasso e che si pensava perduto. Il secondo è rappresentato da un’opera totale che prevedeva la musica di Vittore Veneziani, la poesia di Domenico Tumiati e la proiezione dei disegni di Previati, che ora si possono ammirare e che raccontano la tragica storia di Ugo e Parisina, episodio di sangue avvenuto nel 1425 proprio nelle carceri del Castello Estense. Un’accelerazione improvvisa chiude il percorso: La ferrovia del Pacifico è un grande quadro databile attorno al 1914, e la data merita di essere sottolineata perché l’Italia in quegli anni era immersa nel turbinio futurista, con i suoi inni alla velocità e all’energia. L’anziano Previati non abbandona la tecnica divisionista, cifra del suo stile, ma accetta la sfida della modernità, e in quella locomotiva sbuffante che attraversa rapida un ponte sospeso in ferro c’è un po’ di quel sentimento che animava i suoi giovani “figli” futuristi.

fino al 7 giugno

TRA SIMBOLISMO E FUTURISMO. GAETANO PREVIATI

a cura di Chiara Vorrasi Catalogo Fondazione Ferrara Arte CASTELLO ESTENSE Largo Castello 1 – Ferrara 0532 299233 castelloestense.it

Gaetano Previati, Paolo e Francesca, 1909, Museo dell’Ottocento, Ferrara


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RUBRICHE

Arte e paesaggio

Il museo nascosto

asa Wabi è una fondazione con sede sulla costa di Oaxaca, in Messico. Nasce dal progetto visionario di Bosco Sodi e viene progettata dall’architetto Tadao Ando nel 2014. A questi nomi si affianca il ‘landscape designer’ Alberto Kalach, che sviluppa un giardino di 27 ettari, con l’obiettivo di catalogare e conservare le specie circostanti e di promuovere l’educazione ambientale. Oltre a varie specie di palme, cactus e succulente, il giardino ospita in particolare l’albero di guayacan, una specie autoctona quasi estinta. Questa pianta veniva utilizzata per scopi medicinali e la fondazione intende dare priorità alla sua sopravvivenza.

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THE UNDERGROUND SCULPTURE PARK Presso la Fondazione Casa Wabi si è da poco inaugurato The Underground Sculpture Park, il parco delle sculture seppellite, realizzato dal francese Loris Gréaud, primo artista a utilizzare tutto lo spazio del Palais de Tokyo di Parigi con il suo progetto Cellar Door (2008-11). Per Casa Wabi ha selezionato una ventina di opere iconiche, le ha distrutte e poi ha seppellito i resti per sempre lungo i sentieri vegetali cresciuti all’interno dei giardini. Questo vero e proprio ‘parco di sculture’ rimarrà di fatto nascosto al pubblico. Solo una serie di panchine, con la data di apertura ufficiale del parco, saranno collocate sopra gli spazi scavati per l’interramento delle opere, in attesa che la vegetazione torni a ricoprire i sentieri del giardino. I visitatori potranno sedere su di esse, godere con uno sguardo contemplativo il paesaggio circostante e riflettere sulle opere d’arte che – di fatto ‒ giacciono a pochi metri sotto i loro piedi. ARTE E IMMAGINAZIONE Il concetto veicolato da Gréaud, semplice e al tempo stesso estremamente intricato nella sua esecuzione, parte dall’idea di un luogo liberamente accessibile, apparentemente senza tempo, e in perfetta armonia con l’ambiente circostante. Le opere sono invisibili, ma fisicamente presenti. I visitatori sono quindi incoraggiati a pensare a questi pezzi, a immaginarli, a fantasticare su di essi. L’intenzione dell’artista non è quella di porre fine alle sue opere d’arte, ma di iniziare un’esplorazione delle loro potenzialità attraverso l’immaginazione di tutti, utilizzando questa forma di autonegazione. L’Underground Sculpture Park invita a osservare questo evento poetico, in cui l’opera d’arte è accessibile solo attraverso la mente delle persone. Un intrigante percorso tra archeologia e spazio vegetale, che pone domande sulla questione della visibilità delle opere d’arte e sulla loro potenziale destinazione. Claudia Zanfi

PUERTO ESCONDIDO Carretera Federal Salina Cruz Santiago Pinotepa Nacional Km. 113 casawabi.org

ella sua casa anche le ombre sono amiche, diceva Alfonso Gatto a proposito del palazzo di Girolamo Comi a Lucugnano. Siamo nel Salento estremo, a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca. Qui – dopo gli anni della formazione tra la Svizzera e Parigi e dopo una lunga permanenza a Roma – ritorna a casa il poeta Girolamo. Siamo nella seconda metà degli Anni Quaranta e con sé ha esperienza, visione e la voglia di impegnarsi per costruire in questo lembo periferico un’esperienza di condivisione e pratica, intellettuale e letteraria, insieme ai suoi compagni di strada.

Loris Gréaud, The Underground Sculpture Park, courtesy Fondazione Casa Wabi, Messico

LA STORIA DEL PALAZZO In un fatidico 3 gennaio 1948 al Palazzo Comi di Lucugnano fonda l’Accademia Salentina. Con lui gli scrittori e poeti Oreste Macrì, Michele Pierri e Maria Corti e gli artisti Vincenzo Ciardo e Ferruccio Ferrazzi. Il Palazzo, poco prima della sua morte nel 1968, viene venduto alla Provincia di Lecce per le difficoltà economiche di Girolamo. Prima di quel periodo drammatico per la sua vita, il collettivo si incontra, trascorre dei giorni insieme, vive le stanze dense di libri – una straordinaria biblioteca in lingua francese, anzitutto –, dipinti, arazzi e grandi sale accoglienti, dove vivono sotto l’occhio vigile della governante di casa, Tina Lambrini, che sarà poi moglie di Comi e, da vedova, straordinaria luce di questa grande casa, custode di una memoria densa. Concepiscono anche una rivista, a cui collaborano grandi firme del panorama culturale italiano.

Il giardino di Casa Wabi

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IERI E OGGI “‘Una generosa utopia’. Così Maria Corti nella premessa all’antologia della rivista ‘L’Albero’, curata da Gino Pisanò per Bompiani, definisce il progetto culturale di Girolamo Comi. L’Accademia Salentina, che muove i suoi primi passi all’inizio del gennaio del 1948, nasce con un respiro nazionale, a dispetto della perifericità geografica e culturale di Lucugnano e del Salento”, ricorda oggi Luigi De Luca, direttore del Polo biblio-museale di Lecce, all’interno del quale rientra anche Palazzo Comi grazie all’impegno della Regione Puglia. Ed è proprio l’assessore regionale all’industria turistica e culturale Loredana Capone a rammentare che “Girolamo Comi ha forse inventato la pratica delle residenze d’artista, quando ha aperto il suo palazzo di Lucugnano agli amici intellettuali e artisti dell’Accademia Salentina. Trascorrevano dei lunghi periodi di comunione, studiando, discutendo, scrivendo, ma anche passeggiando alla scoperta del Capo di Leuca”. Oggi un’associazione di giovani operatori culturali (dedicata alla memoria di Tina Lambrini) si rimbocca le maniche, giorno dopo giorno, per renderlo spazio fruibile dalla comunità. Quotidianamente è infatti spazio di impegno e progettualità. Lorenzo Madaro

LUCUGNANO (LE)

Palazzo Comi Via delle Grazie 1 380 4580810

Interno di Palazzo Comi. Photo Maurizio Buttazzo. Courtesy Polo biblio-museale di Lecce


RUBRICHE

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Aste e mercato

Il libro

arigi e Francis Bacon (Dublino, 1909 – Madrid, 1992) hanno avuto sempre un legame strettissimo. Basti pensare che la personale che lo consacra si tiene nel 1971 al Grand Palais e che la retrospettiva che lo celebra è allestita nel 1996 al Centre Pompidou. Per non parlare dell’amicizia intellettuale più stimolante, quella con Michel Leiris, e dell’autore della monografia indubbiamente più profonda, firmata da Gilles Deleuze.

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BACON 2019 A rinsaldare il legame tra la Ville Lumière e uno dei più grandi pittori del secondo Novecento è stata la mostra, ancora una volta al Pompidou, che si è tenuta da settembre 2019 allo scorso gennaio e che fino al 25 maggio è visitabile al Museum of Fine Arts di Houston. Una rassegna più contenuta rispetto a quella mastodontica del 1996, ma non per questo meno interessante: era focalizzata, infatti, sul rapporto tra Bacon e la letteratura, in particolare quel pugno di autori che hanno influenzato più direttamente (e talvolta esplicitamente) l’opera matura del pittore, cioè a partire dal 1971: Eschilo, Nietzsche, Bataille, Leiris, Conrad ed Eliot. Ad accompagnare l’esposizione, naturalmente un catalogo, curato da chi si è occupato anche della mostra stessa, Didier Ottinger. Il quale, stavolta in coppia con Anna Hiddleston, ha selezionato anche i saggi raccolti in Francis Bacon au scalpel des lettres françaises, antologia che presenta un’infilata di autori del calibro di Jean Clair, Hervé Guibert, Milan Kundera, Jonathan Littell, Philippe Sollers. COME SE NON BASTASSE... Patria par excellence del libro, poteva la Francia limitarsi a queste due pubblicazioni in un’occasione tanto propizia? Naturalmente no, e allora s’è mossa pure la corazzata Gallimard, chiamando a raccolta le forze intellettuali e memoriali di Yves Peyré, professione bibliotecario, alla direzione della Biblioteca letteraria Jacques Doucet prima, poi della Sainte-Geneviève – quella in cui lavorò Marcel Duchamp, sia detto en passant. Peyré ha conosciuto e frequentato Bacon nelle sue scorribande parigine, e già nel 1991 aveva pubblicato un bel libretto sulla sua opera, L’Espace de l’immédiat. Nulla a che vedere, però, con l’imponente monografia qui in oggetto. Che nulla ha a che vedere con quei table book tanto belli e curati quanto scarni nell’apparato testuale. Il libro Gallimard è insieme un lodevolissimo libro d’arte, con stampe precise e qualitativamente ineccepibili, quanto un approfondito studio della vita e della pittura di Francis Bacon. Che per una cinquantina di euro è assai onesto. Marco Enrico Giacomelli

YVES PEYRÉ

Francis Bacon ou la mesure de l’excès

Gallimard, Parigi 2019 Pagg. 336, € 49 ISBN 9782072847868 gallimard.fr

l debutto in asta e fresh to the market, Turning Figure di Francis Bacon ha guadagnato il terzo gradino sul podio dei top lot di arte contemporanea, in una Londra sottotono rispetto alla sessione analoga del 2019. A due settimane dall’uscita ufficiale del Regno Unito dall’Europa, infatti, una leggera fiacchezza ha serpeggiato nelle sale delle grandi case d’asta. Prudenza nelle stime, di poco più del 20% inferiori alle stesse aste del 2019, e pochi lotti aggiudicati oltre i 5 milioni di sterline: questi gli elementi che hanno contraddistinto le evening sale di metà febbraio. La sessione di Sotheby’s dell’11 febbraio è stata una contenuta eccezione, con un sale total da £ 92.5 milioni (nel 2019 erano stati 93.3), da una stima pre-asta di £ 85-118.8 milioni (omogenea a quella del 2019), con solo 3 invenduti su 46 lotti e 5 opere – di David Hockney, Jean-Michel Basquiat, Francis Bacon, Yves Klein e Christopher Wool – oltre i 5 milioni di sterline.

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I LOTTI DELLE SERATE Ad aprire la serata due recenti market darling: Julie Curtiss e Nicole Eisenman (così come la sera dopo i primi lotti da Christie’s sono stati di Jordan Casteel, Dana Schutz e Tschabalala Self). Top lot, invece – e già traino delle campagne di marketing di Sotheby’s –, Splash (1966) di David Hockney, con una stima di £ 20 milioni e la protezione di una garanzia, che è andato aggiudicato, dopo soli due rilanci, per £ 23.1 milioni (terzo miglior prezzo per l’artista). A pochi lotti di distanza da Hockney è arrivato il turno di uno dei grandi padri e maestri della pittura, Francis Bacon, già protagonista in Italia, con Lucian Freud e la Scuola di Londra, della recente e più che apprezzata mostra al Chiostro del Bramante a Roma (in collaborazione con la Tate di Londra). TURNING FIGURE L’opera Turning Figure arrivava in asta per la prima volta, dopo essere stata custodita nella stessa collezione europea dal 1986. Datato 1963, il dipinto appartiene a una fase della produzione di Bacon segnata, nello stesso anno, il 1962, dalla morte dell’amato Peter Lacy e dalla consacrazione critica della grande retrospettiva alla Tate Gallery, inaugurata solo 6 mesi prima della realizzazione di Turning Figure. Con un curriculum espositivo di rilievo, tra Marlborough Fine Art nel 1963 e i grandi musei europei, dalla Kunstverein di Amburgo al Moderna Museet di Stoccolma e The Municipal Gallery of Modern Art di Dublino, e poi, sul finire degli Anni Ottanta, con la retrospettiva della Galerie Beyeler di Basilea, l’opera è stata offerta nel catalogo di Sotheby’s con una stima pre-asta tra i 6 e gli 8 milioni di sterline, per andare aggiudicata a 7 milioni, terzo miglior risultato dell’intera sessione londinese. Cristina Masturzo

LONDRA

Sotheby’s

FRANCIS BACON

Francis Bacon, Turning Figure (part.), 1963, courtesy Sotheby’s


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RECENSIONI accontare il Novecento italiano in novantadue opere è l’ambiziosa sfida colta dalle curatrici della mostra ’900 italiano. Un secolo di arte ai Musei Civici agli Eremitani di Padova. Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti raccontano “una storia” del XX secolo, documentando senza pretese di esaustività una delle sue infinite letture possibili. I capolavori selezionati contestualizzano il susseguirsi e l’intrecciarsi delle correnti artistiche italiane, intrappolate nel cortocircuito dell’eterno ritorno della classicità, interpreti della parabola di peccato e redenzione del nostro Novecento. Dai voli pindarici nell’utopico universo futurista ai tragici abissi dei conflitti mondiali, il filo rosso della mostra è il tempo: è lui a cadenzare le sperimentazioni italiane e a condurle alla non figuratività.

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PADOVA fino al 10 maggio

’900 ITALIANO. UN SECOLO DI ARTE

Giorgio de Chirico, La partenza del cavaliere, 1923, Roma collezione privata

a cura di Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti Catalogo Skira MUSEI CIVICI AGLI EREMITANI Piazza Eremitani 8 ‒ Padova 049 8204551

GLI ARTISTI L’uomo-titano di Boccioni divampa di cieca fiducia nel progresso, come l’Italia nelle mani dei futuristi. Il “ritorno all’ordine” di de Chirico richiama l’arte alla chiusura nel silenzio metafisico, tra le macerie della Prima Guerra Mondiale. Alla deriva in un mare oscuro come l’Isola dei giocattoli di Savinio, gli artisti respirano la lucida consapevolezza dei limiti di essere umani: Morandi e Carrà si rifugiano nella poesia quotidiana del Realismo magico; si rincorrono l’austero Primordialismo plastico, il

oco fuori dal centro di Varese, una stradina in salita. Un ingresso tutt’altro che appariscente. Una della tante ville storiche del quartiere di Biumo, si direbbe. Non appena dentro, però, si intuisce all’istante che Villa Panza, dal 1996 proprietà del Fondo Ambiente Italiano, è un luogo fuori dall’ordinario. La mostra Villa Panza: un’idea assoluta. Giuseppe Panza di Biumo, la ricerca, la collezione offre l’occasione di fermare il tempo e fare esperienza della dimora così come fu concepita, ripresentando l’allestimento museografico originale indicato dal conte Panza, proprietario originario dell’immobile, al momento della sua donazione al FAI.

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VARESE fino al 19 aprile

VILLA PANZA: UN’IDEA ASSOLUTA a cura di Anna Bernardini VILLA E COLLEZIONE PANZA Piazza Litta 1 ‒ Varese 0332 28396 villapanza.it

Villa e Collezione Panza, Scuderia grande piano terra. Desire di Martin Puryear. Photo Michele Alberto Sereni, Magonza 2020 ‒ FAI Fondo Ambiente Italiano

MEZZO SECOLO DI STORIA Giuseppe Panza nasce a Milano nel 1923 da una famiglia che possiede un’azienda viticola in Piemonte. Villa Menafoglio Litta, successivamente Villa Panza, viene acquistata dal padre nel 1935. Dopo la laurea in legge, nel 1954 Giuseppe compie un viaggio nelle Americhe, e il soggiorno negli Stati Uniti influenzerà particolarmente il suo immaginario estetico e lo stimolerà a dare vita a una collezione internazionale e anticonvenzionale. Per Giuseppe Panza l’arte è significativa se esprime dei valori fondamentali della vita. Dopo l’iniziale interesse per l’arte informale e la Pop Art, negli Anni Sessanta e Settanta la collezione si concentra sull’arte minimalista, concettuale e ambientale. In questo

monumentalismo di Severini e Sironi, il realismo di Guttuso, mentre sotto la cupola di San Pietro si profila il suggestivo espressionismo della Scuola di Via Cavour. Sulle sue ali di aquilone l’angelo di Licini traghetta il visitatore nella seconda parte del secolo. Il Novecento lotta per la sopravvivenza della forma, rinnegata perché specchio delle angosce umane: nella necessità di uscire dalle regole estetiche di una società dalle mani insanguinate, gli artisti conducono il figurativo alla morte insieme al loro dio, lo sostituiscono con l’idea e si aprono al segno, allo spazio e alla materia. UN SECOLO IMPREVEDIBILE Isgrò salva parole che rischiano di scomparire per sempre, imperano i sacchi laceri di Burri e il gesto “sacerdotale” di Fontana. Le ricerche del gruppo Forma e della Pop Art italiana, l’Arte concettuale di Boetti e Paolini, l’etica dell’Arte Povera, insieme alle provocazioni del Gruppo Enne, sono solo alcuni dei volti in mostra di questo Novecento, mascherato da angelo del progresso e demone della guerra. Il capolinea è il ritorno al figurativo della Transavanguardia alla fine degli Anni Settanta: si scende, anche se il viaggio è appena iniziato. Serena Tacchini

periodo scopre Dan Flavin: a Villa Panza le sue installazioni occupano buona parte di un’ala del piano superiore. Si affiancano gli interventi site specific di James Turrell e Robert Irwin: white box con squarci acustici e architettonici, dove interno ed esterno si fondono e confondono. Più recente il corpus di monocromi di Phil Sims, Ruth Ann Fredenthal, Ford Beckman, Max Cole, Ettore Spalletti e Alfonso Fratteggiani Bianchi, simbiotico con gli arredi sontuosi e la luminosità naturale della villa. Risalgono agli ultimi decenni della vita di Panza le opere d’arte africana e primitiva allestite nell’ex salotto della casa, al piano superiore. UN’ESPERIENZA DI BELLEZZA Oltre che un luogo fisico, la villa è uno spazio mentale, e per Giuseppe Panza l’arte è stata la via per raggiungerlo. In tutti gli ambienti c’è il tocco di Panza, che da un momento all’altro sembra poter fare capolino. Chissà se il conte, il cui padre spirituale per molti anni è stato David Maria Turoldo, preferiva meditare nelle stanze al neon di Flavin o in quelle inondate di luce naturale di Robert Irwin e Turrell. “Per tutta la vita”, confessò anni fa a Philippe Ungar, “non ho fatto altro che cercare la bellezza. In sua presenza, ho l’impressione che la mia vita sia immersa nell’infinito. Mi capita di sentirmi così nel parco della Villa a Varese”. Margherita Zanoletti


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DAL 16 GENNAIO AL 28 MARZO 2020

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DA APRILE A GIUGNO 2020

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PATRIZIA PEPE VIA GOBETTI 7/9 50013, CAPALLE, FIRENZE

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ORTOLANI

A CURA DI PAOLO GRASSINO ART DIRECTION ROSANNA TEMPESTINI FRIZZI



ALEX URSO [ artista e curatore ]

Nel 2019 abbiamo incluso il suo ultimo libro tra le migliori uscite editoriali dell’anno. Oggi torniamo a parlare di Fumettibrutti, al secolo Josephine Yole Signorelli (Catania, 1991), l’autrice più letta e chiacchierata del fumetto italiano contemporaneo. Abbiamo scambiato qualche parola e ci siamo fatti lasciare una tavola inedita.

MARZO L APRILE 2020

Fumettibrutti

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Cosa significa per te essere fumettista? A parte una breve parentesi nell’adolescenza, diventare fumettista è sempre stato il mio sogno. Con mio fratello ne fantasticavamo in continuazione, inventandoci un sacco di storie matte. P. La mia adolescenza trans è stato uno dei casi editoriali dello scorso anno. Nel libro affronti la tua “riscoperta” sessuale. Quanto è stato difficile metterti in gioco? P. è arrivato al momento giusto. Non sarei stata in grado di parlare di determinati argomenti senza la dovuta maturità o senza l’aiuto di una rete di persone che mi hanno sostenuta durante la lavorazione. Sono soddisfatta di ogni linea, lettera, lacrima versate sulle tavole di quel libro.

Quant’è importante il riconoscimento del pubblico dall’altra parte? È bello ma non fondamentale. Parlando di me e della mia storia, sto solo “donandomi” senza ricevere nulla in cambio.

SHORT NOVEL

Sembra che tu intenda la pratica del disegno come una valvola di sfogo. Purtroppo è così. Mi dispiace perché quando sono felice non disegno.

Se il fumetto è per te uno “strumento” liberatorio, cosa speri che ricevano quelli che ti leggono? Non ho mai scritto per gli altri, ma sono contenta della risposta che sto ricevendo dal mio pubblico, che sui social chiamo “stelle”. Penso che i miei fumetti siano come delle canzoni che ascolti per stare meglio. I tuoi sono disegni “sbagliati”, eppure la tecnica non ti manca. Da dove nasce l’esigenza di un disegno “brutto”? In questi anni per disegnare mi sono servita di esigenza e pigrizia, svogliatezza e urgenza. Tutto questo si sposa con la mia visione o i miei messaggi, quando ce ne sono. Per il momento sto seguendo questo flusso, ma non escludo che un giorno potrei sorprendervi e mettermi a disegnare in un altro modo. Il prossimo libro chiuderà la trilogia dedicata al tuo passato. Hai già iniziato a metterci mano? Ci sto già lavorando. La protagonista sarò sempre io, perché gli incubi della realtà possono essere più brutali della finzione e io non ho ancora finito di raccontare i miei. Chi pensava che dopo P. i problemi si fossero attenuati o risolti, rimarrà sconvolto. La copertina sarà blu e chiuderà la trilogia che ormai definisco “La fine della felicità”. fumettibrutti

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MARZO L APRILE 2020

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Antonio Rovaldi. Il suono del becco del picchio. Installation view at Accademia Carrara, Bergamo 2020. Photo Antonio Maniscalco

ANTONIO ROVALDI

FABIO MAURI

fino al 17 maggio ACCADEMIA CARRARA lacarrara.it | gamec.it

fino al 10 aprile MUSEO NOVECENTO museonovecento.it

RECENSIONI

BERGAMO

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Fabio Mauri, Linguaggio è guerra, 1974, particolare. Courtesy the Estate of Fabio Mauri & Hauser & Wirth

Una cartografia d’artista metodica ma libera, perché si affida alle armi dell’estetica: per il suo progetto End-Words from the Margins, New York City, Antonio Rovaldi ha percorso le zone estreme dei cinque distretti della Grande Mela raccogliendo immagini e oggetti che evocano la presenza umana senza raffigurarla direttamente. Il progetto, che ha vinto la quinta edizione dell’Italian Council e comprende anche un libro pubblicato da Humboldt Books, diventa ora una mostra alla GAMeC di Bergamo (ospitata però negli spazi dell’adiacente Accademia Carrara). L’esposizione si presenta come un’unica grande installazione che occupa un’intera sala, trasformandola in un peculiare panorama semiurbano. Partendo dal dato concreto del territorio oggetto di studio, la riflessione si amplia diventando indagine sul concetto di limite, di confine, di terrain vague. Ma gli affondi specifici su New York (allo stesso tempo fedelmente rappresentata e trasfigurata) sono ben presenti. Vengono così messe in comunicazione l’effettiva situazione sociologica di New York e la sua natura di luogo sintomo (più che simbolo) delle trasformazioni globali. L’intensità delle singole immagini e il loro valore simbolico sono marcati. Ma l’accostamento degli scatti e la disposizione generale costituiscono un punto in più. Si

incontrano raggruppamenti basati su consonanze iconografiche discrete e non banali, alternanze di pieni e vuoti, rapporti reciproci tra le linee e le geometrie che non alterano l’efficacia del singolo scatto, né sfociano nel formalismo. Tracce di pneumatici nella neve, scarpe abbandonate, recinzioni ormai inutili, alberi, animali, monumenti, piccoli oggetti quotidiani: come una mappa di relazioni sociali ormai terminate o pronte a rinascere appena il visitatore distoglie lo sguardo. La “classicità” delle immagini è solo apparente: la fotografia non è mezzo espressivo puro ma strumento di indagine e parte di un insieme che comprende anche tracce audio e video. E poi ci sono le sculture, che collegano idealmente passato remoto, presente e futuro. Una rappresenta un limulo, animale tuttora presente nella baia di New York, dalla morfologia marcatamente preistorica. L’altra è la tastiera di un computer ormai inutilizzabile, come un reperto del presente ritrovato in un tempo futuribile. Tra sociologia visiva e archeologia del presente, la mostra è un progetto ambizioso che si porge allo spettatore con discrezione, scegliendo la strada della sintesi piuttosto che la tentazione dell’archivio completo ma fine a se stesso. STEFANO CASTELLI

FIRENZE

Fabio Mauri non ha semplicemente attraversato gran parte del secolo breve. Scomparso nel 2009, ne ha conosciuto in prima persona abissi, lacerazioni, inganni, utopie. Esponente di indiscusso rilievo delle neo-avanguardie della seconda metà del XX secolo, ha descritto con la propria arte una traiettoria autonoma e personalissima, osservando oltre il proprio tempo. Lo testimonia il progetto espositivo, strutturato in tre parti, promosso dal Museo Novecento di Firenze: alla monografica inclusa nel ciclo espositivo Solo, in occasione del Giorno della Memoria si sono svolte la riproposizione della storica performance Ebrea ed è stato installato, a Palazzo Vecchio, il monumentale Il Muro Occidentale o del Pianto. Una “premessa necessaria”, che introduce i visitatori nelle categorie di memoria, ideologia e male così ricorrenti in Mauri. Sperimentatore fervido e insaziabile, l’artista ha agito attraverso azioni di costante scavo: si è misurato con pittura, disegno, scultura, installazione e performance, talvolta ibridando queste discipline. Solo. Fabio Mauri rinuncia a propositi di ricomposizione dell’intera parabola dell’autore, concentrandosi sul disegno. Una volontà coerente con la linea curatoriale del museo fiorentino, che tuttavia non produce una visione limitata del percorso di

Mauri. È infatti imprescindibile sottolineare, come fatto anche dai curatori Giovanni Iovane e Sergio Risaliti, il senso del disegno per l’artista. Tale pratica è intesa come “un atto performativo e simbolico a un tempo. È denuncia iconica e tracciato grafico di un dolore violento”. E, ancora, “il disegno è essenzialmente progetto” e il suo esercizio riflette l’idea che “cambiando il linguaggio, si migliora il mondo”. È, dunque, già negli Schermi, strategicamente collocati all’inizio del percorso espositivo, che avviene il primo incontro con la visionarietà di Mauri, così acuto da elevare, già alla fine degli Anni Cinquanta, un oggetto simbolo della società contemporanea a propria “dimensione ideale”. Sulla scia della sperimentazione, il registro muta, accogliendo guizzi cromatici e tratti morbidi nella serie figurativa Apocalisse. Traducono sulla superficie bidimensionale la suggestione verso la predestinazione i magnifici Dramophone, nei quali la ripetizione di segni, simili ma con diametri crescenti, evoca il concetto di ossessione. Completano la mostra gli scatti confluiti nel libro-opera Linguaggio è guerra, del 1975. Impossibile non riconoscere in essi, ancora una volta, l’attualità di Mauri e la sua capacità di assegnare al linguaggio, ben 45 anni fa, la natura di arma. VALENTINA SILVESTRINI


IVANA SPINELLI BOLOGNA

Eugenio Tibaldi, Habitat #1, 2020. Installation view at La Galleria Nazionale, Roma 2020

INGRASSIA + TIBALDI ROMA

#54 MARZO L APRILE 2020

fino al 28 marzo Gallleriapiù gallleriapiu.com

Prende spunto dalle ricerche archeomitologiche di Marija Gimbutas (1921-1994) la seconda personale di Ivana Spinelli (Ascoli Piceno, 1972) alla Gallleriapiù di Bologna, collocata nella vivace zona della Manifattura delle Arti. Il titolo della mostra, Contropelo, riassume efficacemente in una sola parola la rivoluzionarietà delle tesi proposte dalla studiosa lituana, le quali permetterebbero di rileggere la storia per l’appunto in contropelo. Segni alfabetici e ideogrammatici ricorrenti in civiltà distanti nel tempo e nello spazio diventano materiale preliminare per le riflessioni dell’artista di stanza a Berlino, che costruisce frasi probabilmente sensate ma mute su molteplici supporti, dai taccuini alle lastre per incisione, fino a renderle elemento funzionale e insieme decorativo di sculture semoventi e opere bi-tri-dimensionali a parete, che accolgono commistioni di materiali naturali e artificiali, di ovatta e legno, di tessuti e plastilina. MARCO ENRICO GIACOMELLI

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DANIEL GUSTAV CRAMER PISTOIA

Il duplice disegno concepito da Eugenio Tibaldi e dai fratelli Carlo e Fabio Ingrassia nell’ambito del Notturno con figura. Primo corollario sulla vibrazione, la mostra curata da Lucrezia Longobardi nel corridoio Bazzani della Galleria Nazionale, ha tutto l’aspetto di un dialogo affrontato sul campo largo dello spazio, inteso come luogo in cui esercitare forze riflessive, utili a far percepire problematiche legate all’arte del vivere in un limo fluttuante che continuiamo e ci ostiniamo a chiamare società. La mostra propone una doppia operazione che coniuga il micro e il macro in uno spazio di passaggio che si fa percorso esperienziale, sguardo sul paesaggio, sul vivente, sull’uomo che si adatta alle temperature del mondo. Il dialogo tra Tibaldi e gli Ingrassia è un gioco di dilatazione e di restringimento, di eco e scia e risonanza e ripercussione che le due opere producono in diversa misura lungo il percorso. Sintesi di un lungo e paziente lavoro sulle periferie, sulle lateralità, sugli adattamenti e sugli accomodamenti, sugli agglomerati e sulle instabilità, l’Habitat #1 (2020) di Tibaldi è davvero qualcosa di unico, di avvincente: avvolge lo spettatore per invitarlo a seguire un percorso che svela via via tutta una serie di piccole cose, di oggetti squillanti (riciclati, immaginificamente

rifunzionalizzati) che si assiepano o si fondono a un unico grande agglomerato ligneo attorno al quale è possibile cogliere raffinati dettagli, punti di vista differenti, variazioni temperamentali, momenti lirici e ibridi che agiscono dentro di noi come misteriose ferite nel preciso momento in cui incontriamo angoli, eterotopie, misteriosi e vagamente inquietanti ricordi che appartengono non solo al mondo del mendicante o del vagabondo, ma anche a quello del bambino, a quello magico dell’infanzia. Con un ritaglio di paesaggio collocato come un punto, come un ricordo che si raccorda piacevolmente e senza alcuna sbavatura all’ampio progetto di Tibaldi, Carlo e Fabio Ingrassia pongono al centro dell’attenzione la robustezza di un riquadro critico la cui capacità sintetizzante esplode nell’ambiente trasformandolo in frammento, in firmamento, in principio di una galassia, in tavola di collaudo per uno spazio accanto al tempo: Nineteenth Century Abstraction (2013) è un piccolissimo pastello su carta Schoeller, misura appena 7,4 x 10cm, ma ha il potere magnetico dell’abisso: e per giunta ha al suo interno l’energia di modificare l’ambiente grazie a una spinta, a una variazione estetica che spiazza, che trasporta tra le brume della memoria. ANTONELLO TOLVE

fino al 20 marzo SPAZIOA spazioa.it

RECENSIONI

fino al 13 aprile LA GALLERIA NAZIONALE lagallerianazionale.com

L’epos del Novecento, i grandi e piccoli fatti della Storia, raccontati attraverso i volti degli individui, le relazioni che li legano e i vuoti che li separano. Rielaborando questo composito materiale, Daniel Gustav Cramer (Unterfeldhaus, 1975) si fa narratore di una storia che non appare sui libri ma si svolge ogni giorno sotto gli occhi di tutti: quella dell’umanità che intesse o rompe rapporti, che getta sguardi, che chiude gli occhi, che prende decisioni e si assume responsabilità. Dinamiche che sembrano accadere a margine, ma in realtà, si scopre poi, sono centrali per lo sviluppo degli eventi. Cramer ne fa oggetto di ricerca e, accostando questi documenti, ne scopre la tensione latente e compie un gesto creativo dal significato antropologico: compone un racconto fatto dei volti dei protagonisti, dei paesaggi da loro attraversati, degli oggetti usati o soltanto sfiorati, spinge oltre il significato di questo genere artistico fra i più antichi ed enigmatici. NICCOLÒ LUCARELLI

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fino al 21 marzo Gagosian gagosian.com

Indigofera tinctoria è il nome della pianta orientale da cui si ricavava il pigmento indaco. Quest’ultimo entrò nella vasta gamma delle tonalità che, nella storia dell’arte, riconducevano a spiritualità e trascendenza. Il colore, compreso tra l’azzurro e il violetto, tinge le notti di Y.Z. Kami (Teheran, 1956). Le stesse che, anche durante il giorno, trascinano aloni di oscurità, animati da sogni e desideri intricati in nebulosi grovigli. L’artista per la prima volta si immerge nella pura astrazione, cercando di rendere raggiungibile l’inafferrabile, esortando il pubblico a una riflessione interiore. Un dipinto diverge dagli altri, è The Great Swan (2018). Un uomo in piedi parla a vigili uditori; una silente disquisizione. Tutti i volti sono evanescenti. Una pesante velatura di blu oscura metà tela, come una palpebra che inerme cede alla pesante forza della notte. VALENTINA MUZI

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a tu come stai?”. “Malissimo”. “… cioè?”. “Ho il Coronavirus”. “?! ... Nooo...”. Così, oggi, con uno scarno scambio di messaggi si viene a sapere che un vicino, un parente o, come nel mio caso, una carissima collega, è rimasto impigliato nel contagio. Questo virus è stato fatto oggetto degli epiteti più svariati: bastardo, infido, subdolo, maledetto – ma l’aggettivo usato da lei, che purtroppo se l’è preso, mi sembra il più appropriato: “è imprevedibile”, dice. “Imprevedibile” – certo una definizione che dovrebbe dar da pensare. Se questo virus è non solo ostinatamente malefico, ma esibisce una sua furbizia, una scaltrezza addirittura, beh, allora è evidente che per fermarlo non sarà sufficiente una sia pur volenterosa “intelligenza”, di qualunque genere essa sia. La domanda su cosa ci voglia “di più” è proprio quella che ci pone il virus. È per questo che credo sia venuto il momento di chiedersi quali siano le ricadute di questa pandemia non solo sulla salute, sull’economia, sull’ambiente o sulla psicologia sociale, ma a un livello autenticamente filosofico. Per prima cosa, è del tutto chiaro che questo virus è competente: non solo nel senso che pare proprio saperla lunga, ma nel senso che ci compete, sta all’altezza dei nostri tempi e ci costringe a ridisegnare le nostre categorie storico-temporali. Non voglio nemmeno soffermarmi sui paragoni bellici, per cui l’epidemia è stata trattata da certi reporter mediali come una “guerra” (il che è già di per sé è una notevole prova di ottusità), ma in queste settimane si è sentito spesso accostare questa epidemia alla peste del Trecento, o al vaiolo che distrusse le civiltà precolombiane, e persino all’AIDS di fine Novecento. Paragoni del tutto fuorvianti, dato che

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ciascuna di quelle epidemie si collocava esattamente all’interno del paradigma socio-culturale in cui emergeva: flagello di Dio nel Medioevo cristiano, fine del mondo per le civiltà sudamericane, punizione della promiscuità nell’America ostinatamente puritana del reaganismo. Ma, in pieno XXI secolo, noi apparteniamo a una civiltà ipertecnologica, abbiamo inventato l’Internet delle cose, il Forex Exchange e persino le criptovalute, dunque, che razza di malattia ci aspettavamo? Una comunissima peste? Eh, no. Il COVID19 ha la stessa consistenza ontologica dell’astuto Pacific Trash Vortex, l’immenso conglomerato di plastica che, lungi dall’essere un mucchio di spazzatura, è una poltiglia insidiosissima, invisibile persino dai satelliti, e mostra – proprio come il virus – un’indole variabile, instabile, mutagena: criptica, appunto. Per seconda cosa, questo virus ci sta costringendo a ridisegnare il nostro modo di concepire lo spazio, in tutti i sensi del termine. Il Coronavirus, che è capace di colpire con sospetta imparzialità anziani indeboliti, ma anche bimbi innocenti, sindaci, viceministri, magistrati, lombardi e coreani, smisurate megalopoli e minuscoli paesini, a volte passando inosservato, altre volte uccidendo, scompagina le categorie prestabilite e ridisegna i confini consueti. L’osservazione che si tratta di un effetto collaterale della globalizzazione è non solo banale, ma al limite ingannevole: di fronte a questo scenario stratificato, tridimensionale, onnicangiante, il termine “globale” rischia di passare per un misero eufemismo. Appesi ai muri delle nostre aule ci sono ancora planisferi disegnati mezzo secolo fa: ma oggi, invece della geografia, dovremmo studiare quella dimensione interconnettiva di cui i grafi della cosiddetta “connectografia” iniziano a offrire un’idea un po’ meno pallida

(e per capirlo basta dare una scorsa al saggio omonimo di Parag Khanna, Connectography, tradotto da Fazi nel 2016). Ma anche la connectography, senza una seria analisi del rapporto dialettico tra lo spazio virtuale e l’estensione “reale”, è del tutto insufficiente – cosa che il virus (che, come è stato giustamente notato, è anche inestricabilmente legato alla percezione che di esso offre l’infosfera) ha puntualmente messo in luce. Ma soprattutto, per terza e ultima cosa, questo virus solleva una domanda filosofica semplicemente fondamentale. Esso ci spinge a domandarci se la concezione di numerosi filosofi, da Platone a Spinoza, da Nāgārjuna a Kant e Hegel, sia stata solo un abbaglio o significhi qualcosa. Se si esaminano questi sistemi di pensiero, infatti, non si può fare a meno di notare che essi propongono, al di là del livello intellettuale, e anche di quello strettamente “razionale”, un terzo “piano”, il quale, che si chiami dianoia, Geist, śūnyatā o amor Dei, manifesta il comune tratto di sussumere e “sublare” i due livelli precedenti. Ora, con la sua micidiale “astuzia”, il virus dimostra sfrontatamente di non lasciarsi “battere” non solo da una semplice “intelligenza” (tantomeno artificiale), ma neppure da nessun provvedimento che sia solo semplicemente “ragionevole” – anzi, evidenzia la patetica inadeguatezza di questo tipo di “ragione”. Per questo, proprio lui ci pone un interrogativo fatale, cioè se non sia il caso di rivalutare quel “terzo livello” mentale, finora oggettivamente trascurato. E l’arte, in tutto questo? Sarebbe forse lei la portatrice di questo sapere ultra-razionale? La domanda non è oziosa, se si pensa all’enorme potenziale concettuale dell’arte contemporanea – ma un virus come questo, capace di spostare fiere internazionali, cancellare kermesse ultrachic, chiudere musei e gallerie, la mette di fronte a un bivio. O si rivelerà capace di pensare davvero scenari inediti di espressione “spirituale”, oppure, come sembra stia perlopiù facendo, può legarsi al vetusto universo dell’imprenditoria novecentesca e alle sue superfetazioni segniche (moda, capitalismo culturale ecc.) – e poi, stringendosi bene il cappio al collo, scegliere di tuffarsi nel punto più profondo del fiume degli eventi che verranno.

L

L'ASTUZIA DELLA (S)RAGIONE testo e foto di

MARCO SENALDI [ filosofo ] L


I WILL ALWAYS BE A PAINTER – OF SORTS

MUSEO fino al NOVECENTO 04.06.2020 Piazza Santa Maria Novella 10, FIRENZE

In collaborazione con

Hauser & Wirth

museonovecento.it

Allan Kaprow | Photographer unknown Courtesy Allan Kaprow Estate and Hauser & Wirth

Drawings, Paintings, Happenings, Environments


Monet Cézanne Van Gogh... Capolavori della Collezione Emil Bührle

10.05 – 30.08

Partner principale

Con il sostegno di

Partner scientifico

Sponsor della mostra

Si ringraziano

Partner istituzionale

Claude Monet, Champ de coquelicots près de Vétheuil, Vétheui l, 1879 ca., Dettaglio, Foto Schälchli/Schmidt, Zürich

www.masilugano.ch


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