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LA FRANCIA E LE CITTË RIBELLI
from Artribune #72
by Artribune
Ribellarsi è giusto”, è la risposta che Jean-Paul Sartre diede a Pierre Victor e Philippe Gavi in una lunga conversazione risalente al 1974. Dopo quasi mezzo secolo queste parole, oggi dissonanti, tornano di grande attualità. Le proteste in Francia contro la riforma delle pensioni aprono una breccia sul rapporto storicamente conflittuale tra città e rivolte urbane. Tutta la modernità (fino ad oggi) è stata segnata da conflitti dove il dogma dell’adattamento alle condizioni di sfruttamento è visto come un essere supremo. In questo scenario, la città appare come un capitale simbolico collettivo di fronte al quale il capitale, immateriale o reale che sia, mostra la sua onnivora volontà di predazione di ciò che è comune. La posizione di Macron in merito è chiara: obbedienza all’autorità del capitalismo dei disastri. Cioè, obbedienza alla “shock economy” (Naomi Klein) con le vesti della parola magica “riforma”. Chi parla in gergo, cioè chi parla usando cliché come “riforma”, “crescita”, “sviluppo”, “città sostenibile” “resilienza”, eccetera, non ha tro. Si tratta di chiedersi: a chi appartiene la città? Per chi è pensata? bisogno di giustificare ciò che pensa, gli è sufficiente delegare l’uso di questo gergo a “tecnici competenti”. Per Serge Latouche, la lotta contro questo sistema implica anche una decolonizzazione di tale gergo, rovesciandone le prospettive dal basso. La trascendenza di questi cliché rispetto al dato reale –nuove schiavitù, massiccia privatizzazione dello spazio pubblico, depressione collettiva di fronte ad un capitalismo diventato sempre più “aggressivo e distruttivo” (Franco Berardi), praticamente un capitalismo votato all’entropia, o “autofago”, secondo l’espressione di Anselm Jappe – è data come un fatto inevitabile. D’altra parte, nel corso dei secoli, l’urbanizzazione è stata sinonimo di esclusione, che ha trasformato gli emarginati in potenziali ribelli.
È sufficiente guardare le metamorfosi urbane di metropoli come Barcellona, Milano, Istanbul, Parigi, Londra, Rio de Janeiro (e molte altre) per comprendere i processi di espropriazione dello spazio pubblico in funzione dell’industria del turismo, per limitarci solo a questo esempio. In queste metamorfosi delle città si è trattato di incrementare il quoziente di capitale simbolico (il marchio esclusivo di una città), vale a dire incrementare la rendita di monopolio, che vede la disponibilità di grossi istituti finanziari internazionali.
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Città e rivolta sono un binomio storico-dialettico: non c’è l’uno senza l’al-
La rivolta dei francesi si staglia in uno scenario storico di progressiva espropriazione del diritto ad una vita dignitosa nell’ambito di uno spazio sociale condiviso e non imposto, dove tra l’ingiustizia e il disordine è preferibile il disordine. La riforma delle pensioni è stata la goccia che ha fatto esplodere le proteste. Le città francesi, da settimane, si sono trasformate in “città ribelli” secondo l’efficace espressione di David Harvey, risvegliando forme di lotta e di solidarietà collettive represse. La posta in gioco in queste rivolte – oltre alla controriforma delle pensioni – è lo scenario urbano sempre più isotopo: tutto è ottimizzato e deve funzionare a misura dello spazio politico istituzionale e degli obiettivi commerciali. È la città che trasmette ordini, prescrive spazi in funzione del consumo, dà direttive di mobilità, a cui segue, secondo Bauman, “un’architettura della paura e dell’intimidazione” con aree strettamente sorvegliate che si trasformano in un muro di fronte ai conflitti che covano in essa. Queste rivolte aprono una breccia nelle isotopie urbane. Sono rivolte che rilanciano le città come “eterotopia” (nell’accezione di Henri Lefebvre), ovvero aprono spazi che sfuggono al controllo e all’uniformazione. Le città francesi sono oggi città-Riot, punteggiate da insurrezioni che sciamano al di là dell’organizzazione controllata dello sciopero. E, come le opere di Warhol, sono repliche di rivolta liberate da un originale assente: il partito, il sindacato, eccetera. D’altra parte, la museificazione delle città in funzione del loro sfruttamento commerciale – città feticcio –prescrive una memoria ripulita di ogni emergenza spontanea. Che tipo di memoria collettiva si pratica nella gentrificazione che sta segnando le metropoli del pianeta? Quale estetica è calata dall’alto? La lotta, in questi casi, è contro l’accumulazione dei segni (anche estetici) del capitale simbolico collettivo posto sotto assedio, in un mondo dove la competizione e la mercificazione dell’età pensionabile sono gli unici obiettivi delle politiche classiste di austerità. Questo modello di città, per chi lo vive e lo subisce, esiste dall’esterno e diventa una potenza a sé stante: un luogo nel quale si nasce, si vive e si consuma. Certo, la lotta è dura, e come osservò realisticamente Marx: “tra uguali diritti a decidere è la forza”. Le rivolte in Francia sono l’ennesimo tentativo del capitalismo dei disastri di trasformare la politica in atto di forza, a cui risponde la forza delle proteste di chi sta subendo la paranoica propensione al profitto ad ogni costo, che si scontra con il bulldozer dell’innalzamento dell’età della pensione. Siamo nella “psico-sfera” di cui parla Bifo, che, come un film di fantascienza, ci avverte dell’imminente passaggio dall’immaginario al reale. Ribellarsi, allora, non è solo “giusto” come diceva Sartre. È anche un dovere.