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Fondazione Zeri, Bologna: pp. 27
from Custode dell'orto
by Masterart
Attribuito a G. Stanchi, Autunno, ubicazione ignota
vegetali della statua Orrigoni siano un’imitazione impoverita di quelli assai più sofisticati del Custode oppure come, nella prima, l’espressione del volto risulti confusa nell’affastellarsi dei troppi vegetali di cui è composto. Più che il tentativo di scolpire un pendant del Custode da parte di un artista meno dotato, sembrerebbe trattarsi di un episodio della sua fortuna nel Seicento avanzato, tanto che anche la posa con il braccio alzato che tiene il grappolo d’uva ricorda le raffigurazioni dell’Autunno dei citati dipinti arcimboldeschi di metà secolo oggi attribuiti a Giovanni Stanchi e ai suoi imitatori.
Note
1 Della Torre Piccinelli 1995. Per il testo dell’iscrizione che lo accompagna si rimanda al saggio in questo volume di Felice Milani. 2 Berra 1996a, pp.119-120, e p.147 nota 49, fig. 42. Al Custode dell’orto Berra aveva accennato negli stessi termini anche in Berra 1996b, p.61 nota 47. 3 Natale, Morandotti 1989, p.202, n.45. 4 A. Dalerba in Da Raffaello a Ceruti 2004, pp. 204-213, cat. 38-41. Compare qui l’intenibile annotazione (p.208), ripresa poi da Loda (vedi nota seguente), secondo la quale la presenza della pannocchia di granoturco nei dipinti bresciani sarebbe un dato “oggettivo” per la loro datazione post 1630, ma la pannocchia è presente anche nel Ritratto di Rodolfo II come Vertunno di Arcimboldi del 1590. 5 A. Loda in Il cibo 2015, p.96, cat. 24. Sui dipinti arcimboldeschi attribuiti a Giovanni Stanchi: Proni 2005. Come mi segnala Loda che qui ringrazio, sul Rasio è intervenuto recentemente anche Crispo 2020. 6 De Pascale in Il cibo 2015, pp. 104-106, cat. 27; idem in Face à Arcimboldo 2021, pp.28-29. 7 Campini [1773] 2011, pp. 279-280; Cara 2016. Questo il testo di Campini: “…vedesi nel giardino [del Gasletto] una prospettiva con simolacro di vivo sasso ideato sul gusto del secolo passato in figura umana elegantemente intagliata in tre distinti aspetti formanti volto e abbigliamenti con frutti, fiori e simboli, l’uno in ciascun aspetto, e rivolto a ciascun viale con la rispettiva epigrafe ridotta sul morale. L a bizzarria d i questo ingegnoso ritrovato m’indusse a visitarlo e ricopiar le Iscrizzioni [SIC] il dì 17 maggio dell’anno 1769”. Il testo delle iscrizioni poste sugli altri lati del piedestallo poi andate disperse (tradotte dallo stesso Campini) recitava, a occidente: NE DICAS ZOILE HANC MOLEM/ESSE CHIMAERAM MERAM/NAM CONGERIES FRUCTUUM/NON OMNINO INFORMEM/IMO/TERRAE FRUCTUS/IURE NON INIURIA/QUEM SUSTENTANT/OSTENDUNT ET NON OSTENTANT/VAE TIBI ET MIHI/CLAMAT OLITOR/SI FRUCTUS DEESSENT/ DEESEMUS AMBO/ ET OMNES (Non dire o Zoilo [o Vivente] che questo sasso/ è solo una Chimera/Invero è una congerie di frutti/non del tutto informe/Nel profondo/ della terra i frutti/meritevolmente/mostrano e non ostentano/colui che nutrono/Guai a voi e a me!/grida l’ortolano/ se mancassero i frutti/ mancheremmo entrambi e tutti). A oriente: NON IGNAVUS SCULPTOR/ FUIT OLITOR/ HAC STATUA CLARE STATUIT/HOMINEM ESSE TERRAE FRUCTUM/NATURA PRUTENTIOR/ QUIA MINUS FRAGILEM FECIT/MIRARIS/HOC LOCI CAULEM ET CUCURBITAM/EVADERE HOMINEM/O QUOT CUCUMERES IN URBE/VIVOS VIDERE VIDEMUS/LECTOR CREDE MIHI/NON RARO RURI/QUAE CENSENTUR INSPIDA/ PLUS SAPIUNT (Uno scultore non vile/ fu l’ortolano/ che stabilì chiaramente con questa statua/che l’uomo è un frutto della terra/La natura fu più saggia/ poiché fece (l’uomo) meno mutevole/Ammiri/ in questo luogo il cavolo e la zucca/diventare umani/O quanti cocomeri vediamo/ in città che sembrano vivi!/ Lettore credimi/ non di rado in campagna/le cose che si ritengono insipide /hanno più sapore). 8 Cfr. Bober 2005. 9 Sul Carnet si veda almeno la scheda di G. Berra in Rabisch 1998, pp. 200-201, cat. 43 con bibliografia precedente. 10 La Flora, della quale si sono perse le tracce, era stata pubblicata da Federico Zeri nel 1987 (su “La Stampa” del 22 aprile, p.3) e poi in Zeri 1990, pp.71-76; per la datazione del dipinto e i versi di Comanini si veda Berra 2011, in particolare pp.295-301; al saggio di Berra si rimanda anche per il Ritratto dell’Imperatore Rodolfo II come Vertunno. L’identificazione della specie vegetale del manto del Custode con lo “spinacino” è di De Pascale in Il cibo 2015, p.104. 11 Questa lettura dell’Ortolano è in Tanzi 2016, p.42, nota 27. 12 L’Estate fa parte delle due incisioni con le Quattro stagioni conservate a Stoccolma, Nationalmuseum, inv. NMG 400-401 /1904, cfr. da ultimo Arcimboldo 2011, pp.228, 371, cat. 200-201. 13 De Pascale in Il cibo 2015, p.104. 14 Nel primo quarto del XVI secolo Ambrogio Porro aveva sposato Caterina Aliprandi. Si veda in proposito Rossetti 2013. Sulle opere d’arte contenute nella villa si veda inoltre G. Agosti in Bernardino Luini 2014, pp.208-209, cat.39 con bibliografia precedente. 15 Taegio 1559, pp.155-162: “[L’ortolano di casa Porro] … al fine della cena (quasi in atto di commedia) s’appresentò alla tavola…discinto e scalzo con una ghirlanda in capo di foglie di vite, onde tra i pampini e tralci pendevano i grappoli dell’uva matura con un bronco di pero in mano che poco dianzi haveva rotto l’empito del vento…”.
16 Bauer, Haupt 1976, p.108, n.2065. 17 Cit. in Lippmann 2006-2007, p. 165, nota 81. Su Arcimboldi e il Neugebäude si veda inoltre S. Ferino-Pagden in Arcimboldo 2011, pp. 198, 210. 18 Il testo di riferimento per Arcimboldi a Milano è Leydi 2007. 19 Per la sopravvivenza dei modi arcimboldeschi nella Milano di fine secolo si veda soprattutto il caso delle “sfrenate fantasie metamorfiche” dei costumi teatrali disegnati da Nunzio Galizia in Morandotti 2005, p.90, nota 348. 20 Su queste opere, da ultimo: G. Bora in Milano Duomo 2017, pp. 303-304, cat. 237. Un riassunto dell’attività di Gaspare in Casati 2020. 21 Sulla collezione Orrigoni si veda, in sintesi, Morandotti 2008, p. 42 nota 44 (che ringrazio per avermi fatto consultare le fotocopie degli inventari inediti). Al foglio 44 dell’Inventario dei beni di Giacinto Orrigoni (m. 1662) del 20 gennaio 1686 compare “Sisara che viene trafitto d’un chiodo da Dalida [SIC] del Vismara scultore che ha fatto i quadri esteriori d’intaglio sopra le porte del duomo”. Si tratta forse del bassorilievo con Giaele e Sisara, del quale un modello preparatorio in terracotta (Milano, Museo del duomo) e il marmo (in sito) sono in realtà opera di Giovan Pietro Lasagna (m.1658); questo degli Orrigoni era forse un secondo bozzetto del Vismara, autore della maggior parte dei rilievi della facciata e dei relativi modelli in terracotta, realizzati a partire da disegni di Cerano. Su questa impresa si veda G. Bora, in Milano Duomo 2017, pp. 297-304. 22 Effetto Arcimboldo 1987, fig. a p.369. 23 Donna Giuseppa Orrigoni aveva sposato il marchese Don Eugenio Litta Modignani nel 1764. La “grottesca statua formata in sasso, tutta di ortaggi” nel giardino di Biumo Inferiore è ricordata da Ghirlanda 1817, p.63. 24 Sulla villa Orrigoni di Biumo Inferiore e i suoi affreschi della seconda metà del Seicento si veda, per un riassunto degli studi, Cassinelli 2012, pp.75-78 con bibliografia. Mancano invece gli studi sugli Orrigoni nel XVI secolo per i quali molti documenti inediti sono conservati in Archivio di Stato di Milano, Fondo Litta Modignani, I acquisto, XXI (Orrigoni), c.1-3.
Bibliografia citata
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F. Zeri, Orto aperto, Milano 1990.
Non sum Vertumnus nec Pomonam cupio sum in humanis et non homo simulacrum hominis simulatum horti custos horti fructus collegi in unum puta ut fragiles diu duraturos habeas imo ne habeas exposui oculo fictos ut a veris manum avertas sed mentiri nescio licet mentita figura sum sine sexu saxum non sine humanitate quia fructuosi hominis amica imago ego compendium horti horto praesideo hortum exibeo hostem prohibeo tu qui ades et legis urbana lege si quid apetis pete petitum habe et abi.
L’iscrizione del Custode dell’orto
Felice Milani
Non sono Vertumno e non bramo Pomona; sono in sembianze umane e non sono uomo, bensì statua finta di uomo; custode dell’orto, ho raccolto e unito insieme i frutti dell’orto, fa’ conto, affinché questi, che sono caduchi, tu li abbia duraturi a lungo; anzi, affinché tu non li abbia; ho infatti esposto all’occhio frutti finti, affinché tu distolga la mano da quelli veri; ma non so mentire, anche se sono una figura contraffatta; sono un sasso senza sesso, non senza umanità, perché sono l’immagine amica dell’uomo carico di frutti; io, compendio dell’orto, presiedo all’orto, metto in mostra l’orto, allontano il nemico; tu che sei presente e leggi, se desideri qualcosa, chiedi gentilmente, tieni quello che hai chiesto e vattene. (L’iscrizione presenta exibeo per exhibeo e apetis per appetis).
Il custode nega di essere Vertumno, eppure ha unito, per formare il suo corpo, i frutti dell’orto, come dichiara lui stesso traducendo in latino, si direbbe, i versi del poemetto Il Vertunno dell’Arcimboldo (1591), opera di Gregorio Comanini: «io, che de’ frutti, cui produce e porge l’anno […] le varie forme, in una strette, accolgo» (i poeti italiani usano scrivere Vertunno, assimilando in -nn- il nesso consonantico -mn-). Come è noto, con la descrizione di Vertumno, fatta dal Comanini, entrerà in gara Giovan Battista Marino nell’idillio Proserpina, compreso nella raccolta La Sampogna (1620). Nella poesia latina Vertumno, il dio che presiede ai cambiamenti delle stagioni, fa la sua comparsa in una elegia di Properzio (IV, 2), dove, parlando di se stesso in prima persona, si sofferma sull’origine del suo nome: mi chiamo così perché la mia natura è adatta a tutte le figure; tu convertimi in qualunque figura vuoi e sarò bello, ma la mia gloria più grande sono i doni degli orti: il cocomero, la zucca e le rape mi distinguono, e i fiori dei prati mi ornano la fronte.
La prosa della nostra iscrizione è attentamente elaborata dal punto di vista retorico, con allitterazioni, riprese, accostamenti e giochi di parole. Chiunque scrivesse in latino possedeva una formazione scolastica, basata sulla conoscenza dei poeti antichi; non a caso alla dichiarazione di non essere Vertumno segue quella di non bramare Pomona, ovvia allusione alle Metamorfosi di Ovidio (XIV, 623-771): la ninfa Pomona era dedita alla coltivazione degli orti, ma non aveva desiderio d’amore. Recinge dunque i frutteti, proibendo l’accesso agli uomini («accessus prohibet […] viriles»; il verbo ricorre nell’iscrizione: «hostem prohibeo»). Vertumno la ama e per cercare di vederla si trasforma in vari modi, anche in un mietitore («verique fuit messoris imago!», nell’iscrizione c’è un costrutto analogo: «fructuosi hominis amica imago»). Un giorno si camuffa da vecchia e racconta a Pomona la storia di Ifi, che si impiccò perché respinto dalla crudele Anassàrete; questa fu trasformata in una statua di sasso (e si può pensare che alla disumanità della ragazza il nostro custode voglia contrapporre la propria umanità, «non sine humanitate»).
Nell’antichità il dio custode degli orti era Priapo, rappresentato con una falce e un grande fallo. La sua protezione contro i ladri e gli uccelli è invocata da Tibullo in un’elegia (I, 1) e da Virgilio nelle Georgiche (IV, 110-11; ma si veda anche la settima egloga, vv. 33-36). In una satira di Orazio (I, 8) un Priapo posto sull’Esquilino, dove un tempo venivano gettati i cadaveri degli schiavi e ora ci sono gli orti, parla in prima persona: lamenta che lo preoccupano le fattucchiere, che nelle notti di luna raccolgono ossa ed erbe velenose, e lui non riesce a impedirlo («has nullo perdere possum / nec prohibere modo», ulteriore riferimento per «hostem prohibeo» dell’iscrizione). Al Priapo itifallico sembra alludere, per contrasto, il nostro custode con le parole «sine sexu»: dopo aver negato di essere Vertumno, negherebbe anche implicitamente di essere Priapo.
Priapo è largamente presente nella poesia rinascimentale in italiano e in latino: basti accennare al capitolo In lode di Priapo di Giovanni Mauro e al Priapus di Pietro Bembo; nel De Priapo di Battista Mantovano c’è una trama narrativa: il poeta, passeggiando con un amico negli orti suburbani, è mi-
nacciato da Priapo e si giustifica dicendo che sono venuti solo per vedere; il dio li perdona e vuole fare loro dei doni, invitandoli a prendere noci e uva, e raccoglie poi con la falce due poponi. Si noti che anche il custode dell’iscrizione invita il passante a non rubare ma a chiedere. Più rada è nel medesimo ambito cronologico la presenza di Vertumno; possiamo citare l’egloga Acon di Giovanni Pontano: Nape viene fatta morire dalle ninfe Naiadi, dopo che il suo innamorato aveva detto che era più bella di loro; Vertumno la trasforma in un navone, che è una specie di rapa.
Nel Seicento ha grande fortuna europea il poema latino Hortorum libri IV del gesuita francese René Rapin, uscito a Parigi nel 1665. Nel libro primo, dedicato ai fiori, si legge che il tulipano era una ninfa della Dalmazia, a cui piaceva la varietà dei colori; Vertumno cercò di farle violenza, ma si ritrovò tra le braccia un fiore, il cui calice può assumere tutti i colori a seconda del terreno. Cento anni più tardi, Vertumno riceverà ancora l’omaggio di Giuseppe Parini, che nel poemetto Il Mezzogiorno (1765) ai commensali seduti a mensa col giovin signore, e intenti a esaltare fanaticamente il commercio, contrappone i prodotti dell’agricoltura lombarda ricorrendo alla mitologia: «Bacco, e Vertunno i lieti poggi intorno / ne coronan di poma». Poi in epoca romantica anche a Vertumno, come a tutti gli dei antichi, toccherà invece di subire lo sberleffo di Carlo Porta anticlassicista nel lunghissimo Sonettin col covon, del 1817.