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serie B di Claudio Sottile

Manuel Iori… ai tempi del Coronavirus

“La Casa de Manuel”, the show must go on

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In cabina di commento Manuel Iori e Dopo due giorni di dirette, tramite ‘All Manuel Pascali. Stars for Good’, un’agenzia con la quaIl centrocampista del Cittadella e il le avevo già collaborato, abbiamo avuto difensore del Fanfulla (Serie D), granl’opportunità di abbinare a questo camdi amici anche fuori dal rettangolo di mino anche un fine benefico, che era gioco, sono stati i mattatori di una uno degli scopi che ci eravamo fissati striscia di live su Instagram, nati per inizialmente, mettendo a diposizione un cercare di portare un po’ di leggerezza po’ di nostre maglie. Abbiamo chiesto durante la quarantena e trasformatisi loro di dare tutto il ricavato ai due ospein un “bar sport” realizzato con intellidali che avevamo individuato, di Cittagenza e ironia. della e Cosenza. I ragazzi di ‘All Stars Dalle loro abitazioni di Cittadella e San for Good’ sono stati grandissimi, si Donato Milanese hanno dato vita a “La sono adoperati perché ciò avvenisse, e Casa de Manuel”: da una parte “Il Profesci hanno permesso di donare il 100% di sore” Iori, dall’altra “Edimburgo” Pascali. quanto raccolto, senza trattenere commissioni: oltre 2000 euro. Non volevamo Com’è nata l’idea di queste dirette impostare un meccanismo ad asta per social… prof. Manuel? non scatenare un gioco a rialzo, capi“Dalla voglia di trascorrere un po’ di vamo il momento e quindi le persone "Se in Italia il sistema è basato magari non potevano fare grossi sforzi, persulla modalità a cascata, se non tanto abbiamo lasciato abbastanza libera la beriparte la A sotto muoiono." neficienza. È stato grandioso, abbiamo intrattetempo in maniera diversa, raccontando nuto la gente e siamo riuscirti a fare del alla gente aneddoti, che magari in un bene. Ci ha fatto veramente piacere”. altro momento non avremmo tirato fuori. Non volevamo far passare il concetC’è una diretta che ti è piaciuta più di to stereotipato del calciatore sempre altre? uguale. E poi avevamo voglia di fare un “Non ne ho una preferita, tante mi qualcosa che potesse alleggerire un po’ hanno divertito, molte persone interla situazione che si era creata nei primi venute non le conoscevo direttamente. giorni di lockdown. Da lì l’idea di conLe storie di Simone Rota o di Moreno tattare Manu, che è un mio amico, una Beretta, ragazzi che hanno giocato persona cui voglio bene e che stimo. Gli con noi o contro di noi nei primi anni ho mandato un messaggio chiedendodi C2, le abbiamo raccontate perché gli se avesse voluto fare quattro chiacsono particolari. Mi ha fatto piacere chiere su Instagram, e ha subito acche tutti quelli contattati hanno dato consentito. La sua mente ha partorito disponibilità immediata. Penso ad il nome del programma, mi ha chiesto esempio ad Alino Diamanti dall’Auquali soprannomi avessi avuto in carstralia, o ad Alessandro Matri. Né io riera, gli ho detto ‘Manu’ e ‘Professore’. né Pascali abbiamo giocato con Ale, Da lì l’idea di intitolare quella striscia ma ci ha detto subito di sì. Ci portiaquotidiana ‘La Casa de Manuel’, visto mo dietro tante cose belle. Abbiamo che anche lui si chiama così, parafrainanellato più di 60 dirette con altretsando la famosissima serie Netflix, che tanti ospiti. Anche quando non c’era ha tra i protagonisti proprio un persoun ospite siamo ugualmente andati naggio soprannominato ‘Professore’. in onda. Li chiamiamo ospiti perché ormai siamo nel mood giornalistico, sono comunque ex compagni o gente che ha giocato con noi, ma è più facile chiamarli cosi (ride, ndr)”.

Molto particolari le due storie che hai citato. “Simone Rota è un ragazzo adottato, che ha esordito tra i professionisti nella Pro Sesto. Ha smesso di giocare, è ritornato nelle Filippine dove lui è nato, e adesso vive nel Convento dal quale era stato adottato. Dà una mano alle suore che lo hanno cresciuto e intanto gioca nella principale serie del suo Paese. Moreno Beretta, invece, ha deciso di dire basta col calcio e adesso gira il mondo da surfista”.

Stai valutando una carriera da commentatore televisivo? “Onestamente non c’ho mai neanche

pensato, mi piacerebbe fare l’allenatore, ma prendo questa domanda e ci ragiono... Nella vita mai dire mai, pensi di essere bravo in una cosa, e invece lo sei in un’altra. Se mi volessero in cabina di commento però devono prenderci in coppia, ormai siamo un duo (ride, ndr)”.

Le vostre chiacchierate sono molto spontanee. “Quando giochi con un compagno non conosci alla perfezione tutta la sua carriera, l’unica preparazione che facevamo era magari andarci a rivedere il curriculum. È sempre stata improvvisazione, non abbiamo mai creato un copione o robe del genere. Tutto molto naturale, e credo che sia emerso. C’era empatia, abbiamo avuto un seguito inaspettato. Non siamo Bobo Vieri o Nicola Ventola, siamo due ragazzi che hanno fatto una buona carriera, ma non eccellente, non ci aspettavamo un feedback così. Le persone ci scrivevano che attendevano l’appuntamento fisso, ci chiedevano di non smettere e così siamo stati invogliati a continuare. È nata per noi, per occupare la mente e non diventare matti ed è diventata per tutti. Abbiamo iniziato il 12 marzo. Se non avessimo avuto seguito non saremmo stati ancora qui dopo oltre due mesi. Non abbiamo ancora interrotto, il sabato e domenica di solito non la facciamo. Ci siamo ripromessi di andare avanti fin quando non ripartiremo con la vita normale”.

Com’è andata l’emergenza dalle vostre parti? “Siamo geograficamente vicini a Vò Euganeo, uno dei focolai, comunque complessivamente in Veneto non abbiamo situazioni simili a quelle della Lombardia”.

Non sei nuovo a iniziative benefiche. “Con Alberto Paleari, il nostro portiere del Cittadella, nel dicembre scorso abbiamo venduto panettoni per Giò, raccogliendo oltre ventimila euro e riuscendo a far fare tutte le terapie al bambino, nato con l’emimelia tibiale, dopo l’intervento che aveva subito. Ci siamo messi in prima persona a fare le consegne, veicolando tutto tramite i nostri canali social, per essere sicuri che l’iniziativa fosse gestita correttamente. Sono contento, l’annata è andata bene dal punto di vista solidale. Abbiamo spedito oltre duemila panettoni in tutta Italia, pensavamo di venderli solo a Cittadella, ma abbiamo avuto ordini davvero da tutte le parti. Il bambino ha finito il periodo di riabilitazione, ha subito un altro piccolo intervento nel frattempo, ma si sta avviando a un percorso di normalizzazione”.

Provando a parlare di calcio: ritorno in campo, sì o no? “Bisogna valutare due questioni. Sarebbe giusto riprendere per il calciatore? Non lo so, perché dietro ci sono tanti aspetti a livello di salute. Sarebbe giusto riprendere per il sistema? Se il nostro mondo si regge su questo e non possiamo più stare fermi perché siamo la terza azienda in Italia, in qualche modo qualcuno deve pur riprendere. Se in Italia il sistema è basato sulla modalità a cascata, se non riparte la A sotto muoiono. Sarebbe bello provare a cambiare le cose proprio in questo momento. È il momento di mettere ancora più regole, non di toglierle. Se una società magari adesso chiederà di non presentare la fideiussione, come funzionerà l’ingranaggio tra qualche mese? Bisogna stare attenti a ciò che accadrà dopo, non togliere paletti, bensì metterli. C’è chi è in grandissima difficoltà, tuttavia ci sarà anche chi cavalcherà l’onda, e il pericolo è che ci rimetteranno quelli che vanno in campo”.

Come ti sei allenato durante la quarantena? “Con Alex Frustaci, un preparatore che

ci ha dato una grossa mano, eravamo un bel gruppo che lavorava assieme su ‘Zoom’ in una sorta di spogliatoio virtuale. È stato un qualcosa per lavorare e rimanere comunque in forma”.

Hai pensato a quando calpesterai di nuovo l’erba? “Sarò stranissimo, innanzitutto perché giocheremo a porte chiuse. Se riprenderemo, saremo rinchiusi per tot tempo in un albergo, giocare sarà bello perché torneremo a fare ciò che ci piace di più, ma mancherà qualcosa. Mi manca tantissimo il campo, ma a me manca tantissimo tutto il resto. Lo spogliatoio, il poter dare il cinque a un compagno, dire una cazzata, litigare con uno, gli scherzi, parlare prima e dopo con i custodi, stare con i fisioterapisti, arrivare al campo e bere il caffè con i magazzinieri, la mia doccia e il mio massaggio. Dietro alla nostra professione c’è tanto altro, è un mondo, non esiste solo il campo. L’altro giorno pensavo a quante ore ho passato al campo nella mia vita, credo che siano tremila, più di quelle trascorse con mia moglie”.

Volo di Colombi Simone Colombi in Sassuolo - Parma 0-1

Quella carezza della sera Ciro Immobile con Caicedo, Luis Alberto, Milinkovic-Savic e Marusic in Lazio - Inter 2-1

Deep Impact Sanabria, Pinamonti, Tomiyasue e Palacio in Bologna - Genoa 0-3

Tre foto tre storie

Gli stadi che ci aspettano, lo Zamora beffato e il romanzo sui virus di un medico-calciatore

Dallo straordinario archivio fotografico dell’Associazione Calciatori affiorano questa volta gli spalti vuoti per Coronavirus, l’autogol che alle Olimpiadi del 1924 fa vincere l’Italia contro la Spagna del “divino” portiere, e il ritratto di Renato Acanfora, prima centrocampista di Inter e Monza, e poi dottore e scrittore.

Parma-Spal, dove ci siamo lasciati (e dove ci ritroveremo) - Il cameraman e il tecnico impegnati nel riprendere le squadre a centrocampo risultano la presenza più importante, addirittura "profetica", di questa Parma-Spal, giocata l'8 marzo 2020, e vinta dagli estensi 1-0 grazie a un rigore trasformato da Andrea Petagna. Né sembra un caso che l'operatore e il suo assistente dotato di cavo siano le uniche due figure vive, in movimento, di fronte a squadre e terna arbitrale schierate prima del fischio d'inizio. Fra le poche altre figure presenti, tutte bloccate al proprio posto, spicca un secondo operatore, incaricato delle riprese da lontano. Quest'immagine ha acquistato sempre più "peso" con il passare del tempo, dato che si riferisce a una delle ultime partite della ventiseiesima giornata di Serie A, in particolare quelle disputate a porte chiuse prima dello stop a ogni attività sportiva, scattata il 10 marzo nell'ambito della quarantena provocata dalla pandemia di Coronavirus. Mentre il presente numero de “Il Calciatore” va in stampa sono trascorsi quasi tre mesi dal derby emiliano a cui fa riferimento la foto e una delle poche certezze in un quadro ancora molto caotico e denso di preoccupazioni riguarda la permanente attualità di quest’istantanea. Se la Serie A farà ritorno in campo nel breve termine, ma anche nel medio, e porte chiuse appaiono infatti l'unica via possibile per garantire il massimo di sicurezza possibile alle partite, il cui racconto raggiungerà milioni di tifosi e appassionati solo attraverso le dirette televisive. A proposito di ciò, anche in queste

pagine ci siamo lasciati "una vita fa", considerando che l'ultima immagine appositamente tratta dall'archivio dell'Associazione Calciatori riguardava l'esultanza di Joaquin "Tucu" Correa, l'attaccante argentino della Lazio, fotografato dopo il suo gol siglato nella partita vinta 2-0 contro il Bologna, dentro uno stadio Olimpico ribollente di tifo biancoceleste. Una scelta dovuta alla netta sensazione di fermare nel tempo qualcosa destinato ad eclissarsi a lungo: i boati, i fischi, gli applausi e i cori di una passione a cui risulta così difficile rinunciare. Quel match fra Lazio e Bologna si giocava il 29 febbraio 2020 in un'Italia che, nonostante l'epidemia stesse avanzando in modo inesorabile, ancora si rifiutava di credere alla sola eventualità di campionati bloccati a tempo indeterminato con la possibilità, apparsa all'orizzonte, di uno scudetto addirittura non assegnato, come accaduto unicamente durante le due guerre mondiali del '900.

Gli stadi che ci aspettano, lo Zamora beffato e il romanzo sui virus di un medico-calciatore

Era bello, era facile andare allo stadio. Giocatori e tifosi se ne ricorderanno a lungo, di fronte ai tanti spalti vuoti che ci attendono, come questi di Parma-Spal. Spetta solo alla professionalità degli atleti "riempirli" comunque, e per chissà quante dirette televisive a porte chiuse, con i numeri della propria bravura e i sacrifici della loro dedizione alla maglia che indossano.

Quell'autogol che beffa il "Divino" Zamora - Non è la scena di una comica finale, anche se ne ha tutta l'aria con quel difensore "incappucciato" che insacca il pallone nella propria porta, osservato come fosse un alieno dall'elegante portiere con berretto da ammiraglio. Forse il giocatore ha proprio nascosto la faccia dentro la maglia a causa della vergogna di avere battuto un compagno di squadra abituato a parare semplicemente "tutto" quanto può provenire da parte avversaria, beffato nell'occasione dalla dabbenaggine di uno che, in teoria, dovrebbe essere del suo stesso schieramento. Invece la frittata è proprio fatta nel modo più irreparabile, mancando sei minuti alla fine di una partita fino a quel momento bloccata sullo 0-0. Il 25 maggio 1924, allo stadio di Colombes, nei dintorni di Parigi, è proprio questa consapevolezza ad affliggere in modo quasi straziante lo spagnolo Pedro Saturnino Vallana, 26 anni, un istante dopo avere realizzato l'autogol che deciderà puntualmente l'incontro fra la sua nazionale e l'Italia. Le aggravanti sono perlomeno tre. La partita è valida come primo turno di qualificazione delle settime Olimpiadi moderne, organizzate nella capitale francese, per cui la sconfitta costa l'eliminazione alla Spagna; Vallana (scomparso nel 1980, a 82 anni di età), giocatore-bandiera della squadra basca dell'Arenas Gexto, è il capitano di quella nazionale iberica; come se non bastasse, il portiere messo alla berlina da un così sgraziato harakiri, si chiama

Ricardo Zamora, nato a Barcellona il 21 gennaio 1901, passato alla storia del calcio come "Il Divino". Lucido, acrobatico, all'occorrenza spericolato, Zamora, morto nella sua Barcellona l'8 settembre 1978, compone con il russo Lev Jascin (1922 – 1990) e l'inglese Gordon Banks (1937 – 2019) il trittico dei portieri più ammirati nella storia del calcio. A quelle Olimpiadi francesi la fama di Zamora è già tale che quanti accorrono allo stadio sognano di vedere a quale confronto daranno vita Il Divino da una parte, e l'attaccante italiano Virgilio Felice Levratto dall'altra. Ligure di Carcano, dove è nato il 26 ottobre 1904, il diciannovenne Levratto, schierato sull’ala contro la Spagna dal commissario tecnico Vittorio Pozzo, gode già di una considerevole notorietà, dovuta a un sinistro così potente da fargli meritare il nome di battaglia di "Sfondareti". Che non è affatto campato per aria, visto come le sue botte mancine ne abbiano bucate più di una, anche in occasione della prima finale di Coppa

Italia della storia, il 16 luglio 1922. Se infatti l'albo d'oro della manifestazione riporta per primo il nome del Vado, squadra ligure di terza divisione, il merito è soprattutto del giovanissimo "Levre" (altro suo soprannome), il cui gol decisivo, marcato durante un tempo supplementare giocato "a oltranza", sfonda regolarmente la porta della malcapitata Udinese. Viste le credenziali dei due campioni, è ovvio che i palati fini del football affollino le tribune di Colombes chiedendosi chi mai la spunterà fra il portiere catalano e l'attaccante italiano, destinato a un grande futuro con la maglia del Genoa. Ma, come spesso accade nella vita, in cui il calcio si rispecchia, a decidere la sfida è il più classico degli imprevisti, di scarsa utilità anche per l'Italia, che sarà eliminata ai quarti dalla Svizzera, poi battuta in finale dai formidabili campioni della prima "potenza calcistica" della storia, l'Uruguay.

Renato Acanfora: calciatore, medico e scrittore – Se qualcuno cerca libri profetici del mondo sconvolto dalla pandemia di Covid-19, c’è anche “Il virus nascosto nel ghiaccio”, romanzo pubblicato da Kairòs nel 2011, e dato alle stampe da un medico, Renato Acanfora, 62 anni, salernitano di Scafati, noto anche per essere stato giocatore di Inter e Monza. Non occorre dunque essere nati nel Rinascimento per assimilare tante professioni in una vita sola, come "Leonardo da Vinci, ingegnere, pittore e profumiere" (sì, era una superstar anche nella cosmesi), o "Pico della Mirandola, matematico e teologo". Già nel XX secolo giocare così bene a pallone da farlo di professione ha consentito a Sergio Campana, centravanti del Lanerossi Vicenza negli anni '50 e '60, nonché fondatore dell'Associazione Calciatori, di potersi qualificare come "calciatore e avvocato", vista la bravura dimostrata nel superare gli esami universitari di legge. Prima di lui stessa sorte era toccata ad Annibale Frossi (1911 – 1999), laureatosi in giurisprudenza dopo essere stato attaccante dell'Inter campione d'Italia e capocannoniere della Nazionale che nel 1936 vince le Olimpiadi di Berlino. Dopo Campana è invece Lamberto Boranga, portiere del Cesena negli anni'70, a qualificarsi come biologo e medico, tracciando una strada poi seguita da sempre più professionisti del pallone. In questo secolo è diventato usuale imbattersi in calciatori-dottori come Giorgio Chiellini, Massimo Oddo o Guglielmo Stendardo, ma fino alla fine del '900 la coesistenza fra laurea e scarpette chiodate era decisamente più rara. Fra i primi a infrangere il tabù è giusto ricordare anche Renato Acanfora, centrocampista di talento, debuttante in Serie A a 18 anni con la maglia dell'Inter.

Alla fugace esperienza in nerazzurro seguono una dozzina di onorevoli campionati divisi fra B e C, con menzione speciale per le quattro stagioni trascorse fra i cadetti a Monza, dove arriva a sfiorare la Serie A nel 1979, quando la squadra brianzola perde a Bologna lo spareggio-promozione contro il Pescara. Proprio mentre gioca nel Monza, il centrocampista salernitano, assiduo frequentatore della biblioteca comunale, prosegue gli studi di medicina che lo porteranno fino alla laurea. Attualmente il dottor Acanfora è il medico sociale dello Scafati Basket, che milita in Serie A2, ma trova il tempo anche per una ragguardevole attività di scrittore, come testimoniato dai romanzi "L'uomo senza chiave" (IS.E. DI.C.A., 2017) e, per l'appunto, "Il virus nascosto nel ghiaccio".

Studio condotto dall’Istituto Mario Negri

Calcio e SLA: la ricerca continua

I calciatori si ammalano prima e di più di SLA, ma non vi è associazione con le squadre in cui hanno militato. L’aggiornamento al 2019 dello studio, condotto in collaborazione con l’AIC, ha individuato 34 casi di SLA. I più colpiti risultano essere i centrocampisti: 15; più del doppio degli attaccanti: 7; mentre i difensori sono 9 e i portieri 3.

Lo studio condotto da Elisabetta Pupillo e da Ettore Beghi dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, in collaborazione con Nicola Vanacore dell'Istituto Superiore di Sanità e con l’Associazione Italiana Calciatori (AIC), pubblicato sulla rivista scientifica Amyotrophic Lateral Sclerosis & Fronto Temporal Disease, ha escluso qualsiasi associazione tra le squadre in cui i calciatori avevano militato e l’insorgenza della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), pur confermando la correlazione tra il gioco del calcio e l’insorgenza della degenerazione neuronale. Come già precedentemente comunicato, lo studio, infatti, ha confermato una diffusa convinzione: i calciatori si ammalano di SLA in misura maggiore rispetto alla popolazione generale. La ricerca era partita dall’esame di 23.586 calciatori, individuati tramite gli Almanacchi Panini, che hanno giocato in Serie A, B, C dalla stagione 1959-'60 fino a quella del 1999-2000. L’aggiornamento dello studio al 2019 ha individuato 34 casi di SLA. I più colpiti risultano essere i centrocampisti: 15; più del doppio degli attaccanti: 7; mentre i difensori sono 9 e i portieri 3. Il rischio di SLA tra gli ex-calciatori risulta essere circa 2 volte superiore a quello della popolazione generale, e il rischio sale addirittura di 6 volte analizzando la sola Serie A. Inoltre i calciatori si ammalano di SLA in età più giovane (45 anni) rispetto a chi non ha praticato il calcio (media europea: 65.2 anni). “I dati definitivi” – ha commentato Ettore Beghi del Dipartimento Neuroscienze dell’Istituto Mario Negri - “ci dicono che le differenze sull’età d’esordio si confermano importanti. I calciatori si ammalano in media a 45 anni, cioè con 20 anni in anticipo rispetto al resto della popolazione. La motivazione purtroppo non è ancora chiara. Oggi disponiamo di dati definitivi di uno studio da noi iniziato nel 2013 che confermano l’anticipazione dell’età di esordio della SLA nei calciatori e che un numero elevato di calciatori si ammala di SLA, ma non

Adriano Lombardi, Gianluca Signorini, Stefano Borgonovo e Pietro Anastasi: quattro campioni vittime della SLA.

sappiamo ancora il perché”. “I nostri dati confermano invece che non vi è alcuna associazione tra le squadre in cui i calciatori hanno militato e l’insorgenza della malattia” – ha aggiunto Elisabetta Pupillo, Capo Unità di Epidemiologia delle Malattie Neurodegenerative dell’Istituto Mario Negri. “Altri studi condotti insieme a colleghi europei e americani però ci inducono a pensare che la causa non sia il gioco del calcio in sé, ma una serie di concause, ancora da definire nei dettagli. Tra queste ricordiamo il ruolo dei traumi, l’attività fisica intensiva, una predisposizione genetica e altro ancora. Ogni fattore potrebbe avere un ruolo ad oggi ancora non chiaro”. “Questo studio” – ha concluso Elisabetta Pupillo –“ha posto le basi per ulteriori indagini con collaborazioni internazionali, volte ad approfondire le nostre osservazioni attuali. Abbiamo una grossa responsabilità e vogliamo andare fino in fondo. Ringrazio il Presidente Tommasi per la sensibilità e la straordinaria collaborazione mostrata da parte di tutta l’AIC. L'AIC è stata parte attiva di questo studio, collaborando a stretto contatto con i ricercatori nel raccogliere le informazioni necessarie".

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