Lorenzo Paciaroni
Frammenti di noi frammenti
Istant book
Derupe produzioni
Lorenzo Paciaroni
Frammenti di noi frammenti
Istant book
Derupe produzioni
Nella stessa collana: - Lorenzo Paciaroni, Sanseverino 2004: Appunti di stasi (2004)
Proprietà letteraria e fotografica riservata © 2005 Lorenzo Paciaroni Derupe produzioni – Sanzevereizproud 1ª edizione: dicembre 2005
In copertina: Bernardino di Mariotto, Sant’Antonio Abate tra San Severino e San Cristoforo, 1513 (particolare). Sanseverino Marche, Chiesa di Santa Maria della Misericordia.
Frammenti di noi frammenti
a Irene che in un attimo m’ha fatto capire quanto per mesi non c’ho capito un cazzo
Stella perduta Nella luce dell’alba Cigolio della brezza Tepore, respiro – È finita la notte.
P
Sei la luce e il mattino. Cesare Pavese
erché certe cose – che poi sono la maggior parte delle cose – te ne accorgi solo a posteriori quanto sia stato più difficile aprirle che chiuderle. Unirle che separarle. Magari c’hai pensato anni, ma il gesto risolutivo, in sé e per sé, t’ha portato via pochi istanti. Paradossalmente manco c’hai fatto troppo caso. Perché al mondo – con buona pace delle scienze esatte e dei loro dati ad probationem – ne trovi proprio poche di presenze che non respirino, che non godano di vita propria. Pensi di gestirle ma è l’esatto contrario, loro si muovono su di e muovono te. D’altra parte, in quanto entrambi viventi, state sullo stesso piano. Quindi l’unica legge applicabile è quella della giungla. Che raramente favorisce chi ne prende atto. Succede. Tante volte te lo spieghi solo così, tante altre non puoi fare altrimenti. Succede. Punto. Un giorno ti svegli e niente è più uguale a prima, tutto ha preso voce e non t’è mai capitato di fronteggiare qualcosa di tanto insistente nell’urlarti in faccia le sue ragioni d’essere. Un’onda d’urto che ti spettina. Che se poi ci pensi – ovviamente a giochi fatti, ma ormai non ti sorprende più la presa di consapevolezza tardiva, data la pressoché volontaria accettazione d’ogni fenomeno a occhi chiusi e testa spenta che t’ha avvolto per anni – bastava una goccia a far traboccare il vaso. L’elemento più insignificante nel
momento meno pregnante. Appunto, la goccia. E in realtà il vaso, più che tracimare, è davvero esploso. Comprensibile, eccome, considerato da quanto il tanto stava lì, a portata di mano. Immobile come un ritratto che nello spazio d’un secondo s’è animato, ha acquistato profondità emergendo dalla prigione bidimensionale, ti si è tuffato addosso andando ad agire su tutti i ricettori nervosi in grado di darti una scossa. Con successo, peraltro, visto che il terremoto interiore ancora ti fa tremare. E da lì le gocce che fanno traboccare il vaso sono state una pioggia. Sono pensieri sconnessi, mille pezzi gettati al vento di un discorso passato al tritacarni in cui ognuno cerca il suo compagno, invano, per incontrare suoi simili e scoprire quanto sia bello l’altro da sé. Frantumi fissati sulla carta di getto bisognosi di amici stampati nero su bianco – ipso facto stabili, coerenti quando intorno da un secondo all’altro non c’è cellula che si riproduca uguale a se stessa –, impulsi tradotti in parole. Altri con una logica, ma chiara solo a loro. Altri ritrovati dopo anni, riemersi da tempi lontani, risposte a domande ancora da farti o domande dalla risposta persa negli anni. Altri ancora esprimibili solo per immagini, fotografie istantanee che immortalano un momento esprimibile solo con gli occhi, più ambiguo
d’un oracolo cinese. Quando interi dizionari sono già stati consumati per dire tutto e il contrario di tutto. Ebbastava lasciar parlare i fatti, dici tu. E i fatti ti chiedevano solo di parlare, dicono loro. Non che sia un granché carino usare il “noi” quando la situazione è perfettamente soggettiva con una finalità mai tanto autoreferenziale. Non si dovrebbe, per rispetto della sfera altrui perlomeno. Ma in certi casi il meccanismo dell’estensione si fa necessario, oltre che macroscopico nelle motivazioni. Due singolarità finiscono – e iniziano, inevitabile – per incontrarsi mosse dalla spinta incontrastabile di un intero cosmo. Magari è un discorso di predisposizione. Magari di intenzione. O magari al mondo esiste una combinazione di particolarità su milioni che, guarda caso, ha te come elemento della diade. E guarda ancora caso, l’altra metà è proprio quella che vorresti che lo fosse. Tanto opposta da attrarti e tanto simile da piacerti. Sempre a patto che tu riesca a piacerti, altrimenti l’uguaglianza – in quel senso – diventa un incubo duplice. Ma spesso è proprio quando ti si dimostra che a qualcuno piaci il momento in cui inizi a piacerti. E a sforzarti di piacere a quel qualcuno. E’ da lì che, semanticamente e probabilisticamente, parlare di “combinazione” non è più così corretto. L’aleatorietà tende a zero. Qui si tratta di unione, deliberata, sofferta quindi appagante, studiata quindi efficace, istintiva quindi coinvolgente. L’Io s’è fuso tra il soggetto grammaticale e quello psicologico. E le due singolarità che non si bastano più si integrano, si completano, si coinvolgono e camminano da loro, ma da mò come fossero un unicum. Sintesi e non somma di due frammenti. Vedi che il “noi” non era un lapsus.
E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo ma eternità. Sant’Agostino
C
Gli uomini ricordano soltanto quanto credono possa risuccedere. Massimiliano Parente
redi sempre di saperlo, come muoverti. Certo, lo pensi finché non capita a te, che ingenuamente avevi fatto un cieco affidamento sul fatto che tutto girava a meraviglia sotto la spinta di un entusiasmo nuovo. Dove “nuovo” non significa qui che prima non c’era. Solo che è stato riscoperto, e come ogni cosa da cui si toglie polvere, all’inizio brilla. E’ il primo sguardo, quello ammaliato. Il secondo è analitico, trova le scalfiture sulla superficie che c’ha lasciato il tempo, ne scopre i punti deboli. Ma tra questo e il rinforzarli c’è differenza. Grossomodo quanta ne passa nello spazio di uno sguardo, il terzo, che arriva sempre un secondo dopo il quarto, quello che si sposta altrove. L’ultimo, ovviamente. O il primo, da un altro punto di vista. Appunto, la luce regge fino a quando il meccanismo dissuasore di razionalità funziona. Il gioco dura da troppo per essere ancora considerato tale, soprattutto per poterlo ancora definire “bello” solo in quanto gioco. Che poi ci provavi a sabotarlo fin dall’inizio, senonaltro per dare alla questione una parvenza di base d’appoggio ragionata – convinto che fosse stata inevitabile per aggirare lo smarrimento successivo, per capirsi – comunque scardinata senza
sforzo dall’aggressività degli impulsi. E mò ne paghi le conseguenze, visto che ad aver fatto un po’ di preparazione preliminare il colpo – magari anche solo in parte, quella piccola parte che di solito si mette in conto tra l’errore sistematico e quello accidentale e non si sbaglia affatto a farlo – l’avresti assorbito meglio. Invece. Quello che sembrava l’outsider dei sentimenti, per quanto di razza, d’un tratto ha scavalcato gli altri per imporsi in prima linea. Come protagonista, anzi, di più, come vero e proprio leader. Ecco che a catena tutte le cose belle vengono a soffrirne, come opacizzate da un deficit di luce che le pone in ombra. L’ombra proiettata da un enorme masso interposto tra sole e oggetto, masso che tante belle sensazioni non ce la fanno proprio a spostare. Figuriamoci a ignorare. E’ che il discorso, alla fine e dopo tanto, si riduce tutto a quello. L’ignorare. E’ quello che ti salva. Ma non nel positivo del termine, nel negativo. Il non ignorare sa tirarti fuori dalla melma. Ogni rivelazione c’ha il suo impatto, raro che sia positivo, specie il primo. Magari poi pure quello s’affievolisce e lo reggi bene. Almeno meglio. Ma resta un dato di fatto che il conoscere stravolge una situazione esistente e per forza di cose la modifica. La migliora o peggiora a seconda dei casi. Oppure entrambi, solo temporalmente l’uno precedente all’altro che segue. Comunque, senza non vivresti. Senza non saresti. Senza sarebbe tabula rasa. Invece ogni scoperta ci traccia sopra un solco e ogni linea che si rispetti e abbia la dignità d’essere chiamata tale divide un’unione in due o più frammenti. Cioè crea una stupenda miscela di dettagli, una varietà
sensibile. Il bello di accorgersene è la possibilità di creare un’unità nella varietà. Solo che bisogna essere almeno in due a volerlo, per farlo. E non più di due. Fa paura? Ovvio. E’ il minimo. A pensarci spaventava ancor prima che scadesse nel tempo, quando si chiamava “presente”. Sarà che la prospettiva di fronte era l’avvenire, che almeno per non disperarsi si tende a vedere sempre più colorato di quello che è, ma non ci si pensava più di tanto che sarebbe pure stato in grado – domani, ne aveva tutte le potenzialità e pergiunta belle in mostra – di avvelenare per il suo semplice essere stato. Te lo aspettavi, in fondo, ma il momento dell’azione era sempre rimandato e le contromisure di volta in volta più deboli. Epperfortuna, dici adesso. Adesso che l’essertici trovato faccia a faccia e aver incassato per primo, combattuto contro la resa sfiorando il suolo, assaggiando la polvere e rialzandoti per uscirne vincitore sono momenti tradotti in ricordi. Adesso che t’è arrivato addosso come un uppercut che non hai visto partire, come i due fotogrammi adiacenti del film da campo lungo a piano americano. Adesso sai con chi hai a che fare. Non c’è sconfitta che non sia in parte voluta. Se non l’attraversi – lo riconosci – il passato non lo batti. E fidati, nove volte su dieci sei tu il più forte. Quell’una che rimane può metterti in difficoltà, ma da qui a sconfiggerti troppa deve ancora macinarne.
L’amore non è mai amore per l’altro, ma è amore per l’altro solo per quel tanto che l’altro porta con sé pezzi di noi. Umberto Galimberti
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L’odio, a differenza dell’amore, circoscrive la propria identità. Dimmi chi odi e ti dirò chi sei; dimmi chi ami e ne saprò quanto prima. Aldo Busi
on è. Semplicemente perché non esiste. Non è tangibile, non te ne fai nulla all’atto pratico d’interpretazioni psicologiche, chiavi di lettura filosofiche o pulsioni fisiologiche non codificate. Quindi nemmeno decodificate, ovvero fini a se stesse, ovvero ancora inutili. Puoi intenderlo come «fenomeno sociale di stretta interazione», o capro espiatorio più poetico che reale per dar nome e sfogo a un’irrazionalità ingestibile. Come se bastasse battezzarlo, qualcosa, per inquadrarlo se non si allinea o costruirgli un involucro se è pura forma. Fraintenderesti una bella risposta esplicativa sintetica – un eufemismo, chiaro – con istinti primordiali. Irrazionalità che cerchi di giustificare con la logica, quando manco il continuum domanda-risposta aiuta. Te lo strilla addosso con la voce e la faccia di Ignazio La Russa tutto il tracciato restante del cerchio che non si chiude. Non esiste, e non lo deduci ex adverso. L’odio non ne è l’opposto – l’hanno capito in tanti da tanto – se no l’indifferenza che ci starebbe a fare. Di certo non solo la terza fase. In ogni passione c’è ambivalenza, le contraddizioni convivono, ci si scopre vittime e carnefici in sincronia d’una scissione di estremi che coincidono, si sovrappongono nello spingere in versi contrastanti. Non vanno perciò da nessuna parte. E il più delle volte è sufficiente star di qua o di là per stare bene, ignorando cosa ci sia dentro. Evenienza di
cui non è questo il caso. Non esiste, e se non esiste non può essere né inutile né necessario. E’ un quid eretto a difesa dagli impulsivi come scusa, dagli autocelebranti come virtù, dagli autolesionisti come piacere masochista, dai disinteressati come l’ennesima alternativa da boicottare, dai massimalisti come meta suprema nella sua poesia, dai minimalisti come base infima nella sua retorica, da chi soccombe come ciò che attacca. Un concetto sottoposto da secoli a stiramento. Non esiste, e a conti fatti non se ne sente il bisogno. E non è quello che si cerca. Si vuole l’eterno, rendere immortale più che una sensazione uno stato mentale momentaneo nella posizione e nell’entità. Questo sì. Può celebrarne le qualità per sempre. Si vuole l’incentivo, un appiglio solido e sicuro perché diffuso, condiviso, approvato. Incoraggiato. O solo un espediente da una vita senza i requisiti emozionali minimi per considerarla tale. Si vuole il mezzo, col quale un’attesa sublima in realizzazione nel raggiungere il fine – cheppoi è quasi sempre la fine – e non aver più nulla da desiderare. La soddisfazione tira giù la maschera mostrandosi per quella paradossale sconfitta volontaria che altro non è. Si vuole l’annullamento, cadere a peso morto nell’altro per sfaccettarsi una personalità nata liscia. Puro e semplice desiderio di perdersi per rimettere responsabilità e coscienza nelle mani del rapporto. Ovvero un raddoppiamento dei canoni di cui sopra a carico dell’altro. Che si fa surrogato del primo. Si vuole l’ascesi, la tensione a migliorarsi, a
ottenere il massimo. L’egoismo ne fa di scherzi strani. Non esiste. Ma stavolta non è un bluff, non si tira la corda in un gioco da puttanella per vedere quanto regge prima di spezzarsi. E dirlo senza dimostrarlo implica che non si voglia né si possa più farlo. Sic et simpliciter. Lo standard può sollevarsi dal concreto, il sentimento rivolgersi a un’entità eterea, diventare una di quelle cose che ti legano testa e cuore, ma gambe e braccia se ne fottono di ciò che non toccano in una disarticolazione corporea tanto difficile da spiegare quanto imbarazzante da vivere. Qualcosa più vicino a una religione che al soggetto o all’oggetto di una relazione a due. E quello che sembra stamparle addosso la parola «fine» altro non fa che decretarne l’avvio di procedimento. Il buco della mancanza a volte lo colmi meglio con un vuoto pesante che non con un pieno che lascia filtrare aria da troppe crivellature subite, e si può correttamente e perfettamente amare – continuare ad amare – l’idealizzazione di una persona, la sua immagine riflessa nella memoria, la parte di lei in cui ti sei ritrovato e in cui sei cresciuto, quella parte che di rimando è entrata in te e in te resta. Non la cancella il tempo. Mese dopo mese scompare il volto, l’atteggiamento, la voce, le tracce, gli eventi, i momenti così com’erano per la sostituzione d’ufficio
dei brutti con i meno brutti e dei belli con i meno belli, nel tragico e ordinariamente quotidiano appiattirsi a un livello medio – mediocre a volerla dire tutta – della dispersione del grafico. Ma ancora stai lì che aspetti, tutto come prima. Non esiste. Perché prendi tutto in blocco e lo fai significare come simbolo del desiderio, anzi, del bisogno. Cambia. Che se dal primo – come ogni stimolo della società – riesci a liberartene standotene fuori seppur con la prospettiva del disadattamento o posizionamento outsider o personalità border line o chiamala come vuoi quella cosa lì che quando stai solo tu e lei metti molto in basso nella gerarchia dei tuoi interessi il darle un nome, dal secondo – in quanto fisiologico – non te ne esci disinvolto. Dovresti snaturarti, e sono in pochi a farcela. Capiamoci, in pochi senza anticipare i tempi. Gli altri stanno sotto terra sotto i crisantemi sotto i cipressi. Quando basterebbe rassegnarsi con una buona dose di pazienza zen al fatto – fatto, non ipotesi – che non c’è nulla che due persone possano condividere del tutto. Nulla. Pensa quello che non esiste. Non esiste. D’accordo. Soprattutto quando sai che non puoi averlo. O non vuoi. Ecco perché poi s’è materializzato, e te l’ha fatto proprio dentro al petto. Ecco perché c’ha goduto il doppio a vedere quanto t’ha ribaltato.
INTERSTIZIO ——c’è inizio, il passo nell’abisso, ritorno brutale alla realtà esterna che cozza a tutta velocità con la sterilità di qualche dettaglio in cerca di vita, cui non serve alcuna preparazione
per difendersi, soccombe sistematicamente, ogni giorno stessa scena, tensione logorante sopra pressione ansiogena tesa a neutralizzare anche un minimo quell’attimo in cui i due mondi mentalmente collidono fondendosi, riproducono senza controllo ma con vigore quasi eccessivo modelli su una matrice esterna a ogni fattore, ma terribilmente familiare, tensione altissima e non c’è trasformatore che possa abbassarne il voltaggio—— c’è faccia a faccia, programmato, rituale, quotidiano, sempre unilateralmente paralizzante, ogni volta ricalco della precedente e modello per la successiva e nessuna esclusa uguale alla prima perché il tempo non scalfisce manco in superficie l’emozione, sconosciuta l’assuefazione, strani sguardi le fondamenta, assenti ma opprimenti, presenti ma inafferrabilmente evanescenti, pensieri ectoplasmatici, nati già in agonia, sfiniti, stremati, si trascinano a mezz’aria sospesi nel freddo a infrangere con un colpo di reni lo stordimento che pregna un pomeriggio bianco di una stagione qualsiasi, luce diffusa e debole, tanto ovattata quanto surreale, annebbiata dall’opacità, contrastata dalla cromaticità dell’ansia, attesa di un feedback che non arriva, che ancora non senti, che il manico stavolta non ce l’abbiamo in mano nessuno dei due, ma entrambi stiamo con la lama alla gola, condizione sufficiente e Dio non voglia necessaria per fermarsi in tempo—— c’è movimento, passi lenti e simmetrici, in parallelo, misurati, mai troppi e mai pochi, il suolo scorre sotto agli occhi fiduciosi che basti qualche passo per arrivare in qualche posto, muto e mutuo dialogo tra ventre e terra, attrazione a intervalli regolari, continuità spaziotemporale, entità numeriche incastrate tra x e y che
rivendicano se stesse accogliendo nel percorso ogni soluzione, lontano dagli estremi che da sempre le catturano perché affamate di ritorsione verso intervalli vuoti da riempire di loro, che vorresti scavalcare senza colmare proprio per mantenere aperto quel legame, luoghi inutilizzati, ripudiati, allontanati, dove le menti si guardano un attimo alle spalle per poi proiettarsi verso non si sa dove, ma di certo verso qualcosa di migliore verso cui correre a perdifiato——
Parole: ne hanno bisogno le persone povere, gli ubriachi e gli innamorati. Giorgio Saviane
P
Perché è così che ti frega la vita. Ti piglia quando hai ancora l’anima addormentata e ti semina dentro un’immagine, o un odore, o un suono che poi non te lo togli più. E quella lì era la felicità. Lo scopri dopo, quando è troppo tardi. Alessandro Baricco
arlano la tua lingua, ti raggiungono senza filtri interposti. Lo sai, e ci provi pure gusto. Ecco perché ti ci esponi tanto. Sono dettagli, niente di più se ci pensi, particolari senza importanza se isolati dal contesto, ma senza i quali il contesto stesso sarebbe una scatola vuota. Il flusso da loro a te è diretto. Li vedi e già li hai interiorizzati. Li hai fatti tuoi. Loro s’appropriano di te. La “gioia delle piccole cose” altro non è che la libertà d’azione che queste si conquistano dentro di te. Nel momento in cui apri gli occhi su di loro l’alfiere sta già issando bandiera. Il buon comandante vince senza dover combattere. Quasi non ci riesci a ammetterlo – a saperlo prima non c’avresti proprio creduto – ma d’un tratto ti si è come aperto l’altro occhio, come sbloccato qualche meccanismo interno che permette l’ingresso e
l’espansione di un’energia per forza di cose esogena. Quell’esteriorità che ti permea e va a coprire il vuoto di un’interiorità sfibrata e incapace a lungo andare – e da com’era ridotta era andata davvero troppo a lungo – di apportare una copertura dignitosa. Sempre ammesso che una toppa possa aver dignità, quando il più delle volte il buco sarebbe più adeguato alla situazione. E’ un profumo pesante, sospeso, denso, masticabile, formoso. Le rondini lo attraversano basse, nere linee sul cielo trasparente. Un tramonto che è l’orizzonte ch’esplode, il cielo che ti crolla addosso infrangendosi in mille frammenti. L’ansia non è altro che pressione. Interna. Una meccanica che s’è incantata di fronte a una minaccia tanto irreale quanto non imminente. Non riconoscibile. Qualcosa richiama qualcos’altro che c’è stato senza che nessuno se ne sia accorto. Te compreso. Sei stato. C’eri una volta. Il bianco s’espande e bagna ogni oggetto che la vista abbraccia. Il lampeggiare monotono di quattro frecce. Il silenzio riproduce se stesso. Sempre uguale ma sempre nuovo. Un confronto senza l’altro né te, a termini di paragone assenti. Pensieri come vento, li senti e non li tocchi, t’attraversano e non li fermi. Non puoi afferrarli. Loro non te lo permettono, la loro libertà in te limitata si fa illimitata potestà d’imperio sulla tua situazione soggettiva. Che poi sono sempre loro a determinare, al netto di chiunque si metta in mezzo. Una folata di
scirocco bollente t’accarezza. Un battito di ciglia muove gli occhi neri. La punta delle dita sposta i capelli scuri dal volto. Colori che si combinano e si miscelano e si scontrano e si cercano e si completano e si oppongono e si abbracciano e si alternano. E ti chiamano. Per viverti accanto senza incontrarti. Un legame che non si compone e non si scioglie. Un rametto si spezza sotto i piedi con un «crack» secco, circolare. Il tappeto umido continuo delle cicale. Il sibilo d’un pipistrello che ha smarrito la luce. Luna in crescita. La leggerezza dell’aria che scivola sulla pelle calda. Un respiro forte, ritmico. Lento. Monotono. Si ascolta e si vede, puoi toccarlo, solleva il petto e lo riabbassa. La strada corre di lato, qualche albero triste le fa ombra. Le nuvole si distendono frammentandosi, convesse. Il sole alto nel cielo, lo stesso cielo che ci unisce, dove s’incontrano i pensieri. Dal suolo alle stelle, noi tra cielo e terra. Cielo. Più bello del cielo solo il cielo nei tuoi occhi. Non più un suono. Non più un movimento. Tagliente la sensazione che si sta perdendo qualcosa che non s’è mai incontrato ma di cui si sente già la mancanza. A priori. Preventivamente. Terra sotto i piedi. E quella non la toglie nessuno. Poi la luce sfuma i contorni. O forse è la nebbia. O forse le lacrime. Un raggio di sole che passa dalla fronte alla nuca nel freddo di febbraio.
Non può esserci perdono senza memoria del torto. Il perdono è proprio la memoria assolta. Giuseppe Romano Per colpire infallibilmente, attacca dove non c’è difesa. Per difenderti infallibilmente, difenditi dove non c’è attacco.
N
Sun Tzu
on lo sposti l’indelebile. Poggia sul cemento, insensibile al vento. La morte non è indelebile, c’è solo quella, non un’altra a farle seguito. Arriva ma non resta, si dimentica se non sta lì per te. Altrimenti, della memoria te ne fai comunque poco. E si muore una volta sola, mica per sempre. Indelebile non è manco la vita, non lo trovi un punto da fermare e riproiettare in loop sempre uguale. Si vive ogni giorno, ogni volta che puoi, ogni volta che vuoi, ogni volta diversa. Puoi se vuoi. Il passato non lo cancelli solo a certe condizioni, che non sei mai tu a dettare. Eccomunque la De Lorean lasciala a Marty McFly. Il futuro lo annienti con un gesto, altrimenti lo sopporti vitanaturaldurante; se scegli la prima elimini l’avverbio alla seconda. A te l’onore e l’onere di provarlo sulla pelle. Il presente, per la sua stessa natura, è quanto di più lontano dal per sempre. Tutt’alpiù è per adesso. Che l’attimo dopo diventa poco fa, e via dicendo. Non vive che un momento, il momento che hai vissuto che non tornerà più a battere così com’è stato. La vita non è che un momento. Il ricordo non ha abbastanza forza per costruire un avvenire e se ci prova gli esce un ibrido talmente
estremo che farebbe impallidire un militante d’un braccio armato anarcoinsurrezionalista. Il bene e il male, presi nel complesso e in parallelo, ci stanno sempre. Peccato che uno, ogni tanto, lascia il posto all’altro. E viceversa. Indelebili ma incostanti, si danno il cambio in turnazioni selvagge degne della più anarchica deregulation. Se qualcosa dura per sempre deve anche essere per sempre, inteso almeno come presenza. O assenza, fa lo stesso. Puoi crederci o no. Può essere bello parlare a chi non conosce la tua lingua, uomo o animale o vegetale esso sia; come l’inverso. A ben vedere certe esperienze possono togliere senza dar nulla. La semplificazione estrema può coincidere col miglior modo per capirsi; a patto che sia davvero estrema, non molto distante dal silenzio. Due teste possono valere più di una. Il futuro può far paura giusto perché non sai mai come viene; tolto questo, per nessun altro motivo; tanto, poi, non viene mai come vuoi. Può darti molti meno problemi accettare certe beffarde leggi della vita senza starci troppo a combattere per cambiarle. Mentendo a se stessi si possono anche controllare gli esiti della menzogna, ma Te stesso lo capisce sempre e ti frega comunque. Puoi far numeri con mezza Moretti o guidare correttamente un’automobile per chilometri e chilometri con
8,5% di alcool nel sangue; eppuoi esserti bevuto pure un silos di Negroni e portarla più grossa del primo maggio pure se è il ventisei febbraio, ma quello che non vuoi fare, se davvero non vuoi, non lo fai, credici. Può non bastare non avercela sotto agli occhi, una cosa, per non pensarci; sempre se non si abbia qualcosa di meglio per sostituirla, ma a te non capita mai. Può non bastare intraprendere per riuscire; serve cuore in tutto, anzitutto. E può non essere un granché costruttivo, a livello personale, passare una vita a darsi da fare per occupare il tempo senza farsi mai sfiorare dall’idea che concentrarsi sul poter star bene – magari pure annoiandosi ma non è più il caso di sottolinearlo quanto sia meno avvilente annoiarsi che divertirsi – rende tanto di più; in termini di soddisfazione, ma a credere questo ci si arriva sempre tardi; alla faccia dei preventivi che t’eri approvato senza riserve sui tempi contingentati. Qualcosa potrebbe non andare – in te o negli altri è ancora da appurare – se su cinque persone incontrate non meno di quattro, al separartene, t’hanno lasciato addosso un senso di incompiutezza come una casa senza tetto; e la quinta hai pure dimenticato chi fosse. Possono aiutarti le conseguenze di un’azione a quantificarne la moralità, ma sono le intenzioni che contano. Puoi precorrere quanto vuoi quello che vuoi, ma finché non ti legittima quello che segue non sei nessuno. Si può amare una persona – e è di più e diverso del volerle bene – pure se non è l’altra parte della tua mela, anche perché una completezza raggiunta invecchia subito. Certi pensieri possono essere come lucertole al sole, immobili in attesa di non si sa cosa quando nessuno le minaccia; ma come provi ad afferrarli – pensieri come lucertole – spariscono con la stessa
velocità. Eppurtroppo, almeno per i pensieri, ti resta in testa solo la piùccheffondata impressione che fossero stati indispensabili. Tutto cambia, tanto per aggiungere luoghi comuni a luoghi comuni. Ignora la causa – o dalla per scontata – e mancherà l’effetto. Ma quando tutto quello che “sapevi” ha trovato conferma t’ha confermato quanto in realtà non sapevi un bel cazzo di niente. Peggio, il ripetertelo per mesi non ha smosso un passo né verso il prevenirlo né verso il prefigurarsi una strategia che avesse potuto non dico evitarlo ma almeno curarlo. Fingevi di lavorarci su mentre ti cullavi tra le braccia dell’ennesimo time out in proroga a tempo indeterminato fiducioso che una situazione senza capacità di trazione si spostasse da sola verso una soluzione. Che il provvisorio – cioè quanto di più definitivo – si stabilizzasse per osmosi o per vasi comunicanti o per la naturale rotazione terrestre sul suo asse. Lei che ti chiede «che succede?» – e non succede nulla – ma lo fa con una voce, con un’espressione, con degli occhi, con una passione in quelle due parole che rispondere «nulla» è quanto di più difficile le connessioni cerebrali da quelle due parole messe fuori uso riescano ad articolare. Nulla di nuovo, nulla di cui stupirsi. Tanto, ormai. Cortellata più cortellata meno. La pelle dopo un po’ si fa corazza. Sbagli ce ne sono stati da entrambe le parti, ma hai sempre visto e dato peso solo ai tuoi. Tanto che mò perfino il poliziotto emozionale ti consegna esausto al giudice interiore, che si dichiara incompatibile e investe della questione la corte suprema in cui gira e rigira sei rimasto solo tu, tanto che stringendoti la mano nel dichiararti maggioranza assoluta, relativa e qualificata emetti la sentenza di colpevolezza che
passa in giudicato e condanna in eterno te medesimo e il giudizio è tolto. E vadano in culo pure gli sbagli.
INTERSTIZIO —— c’è stasi, dovuta, stanchezza o paura di continuare, terrore nell’oltre, volontà intensa di fissare un fotogramma per incantarcisi su come ipnotizzati e non immaginarsi il seguito, non averne più bisogno, proiezione di pensieri verso uno dei possibili domani brutalmente interrotta dal corpo che chiude la porta rapito nell’inquadratura della scena che richiama a sé tutte le ottiche in fuga di intellettualissime stronzate, chiede aiuto per uscire da una situazione di quelle brutte dove non sa d’essere entrato ma che lo circonda avviluppandolo in spire concentriche via via più strette e trasmette perfino all’immagine fisica cumulativamente paura e incertezza e insicurezza e—— c’è parola, o almeno qualcosa che le assomiglia, forme neonate tanto semplici quanto estreme o tentativi stoici a tratti commoventi di una verbalità necessaria, e inutile al contempo, senza speranza e senza futuro, emissioni pure e dure e spasmodiche di vibrazioni sonore prese per mano dal vuoto e in esso da esso accompagnate, destinate al supplizio che sta lì e aspetta che lì arrivino, o meglio tornino, che altro non ha fatto in tutto questo tempo se non aspettare e ogni comune mortale con un po’ d’amor proprio avrebbe già desistito da un pezzo, ma quante se ne dicono per ammortizzare una caduta—— c’è preghiera, parola indignitosamente piegata e spinta all’esasperazione e al contrario e al contraddittorio e alla critica di se medesima e al
dissenso sempre con l’espressione sul volto di chi mentre parla proprio non ci crede a quello che dice, la caduta dell’ultima cinta muraria sotto assedio, peraltro superfluo perché da espugnare non c’è rimasto nulla, mezzi destinati ad estinguersi nell’assorbimento dei fini, tesi alla pietà se coscienti e alla violenza se inconsapevoli, pressioni che per quanto ormai infondate sono né più né meno che il tentativo estremo, l’asso nella manica, la più illegittima delle speranze e la più fraudolenta delle mosse che in quanto tale ottiene il più misero fallimento che se c’è una giustizia, divina o umana, si merita in pieno, lasciandoti addosso il vuoto di una rivoluzione finita com’era iniziata, male e all’improvviso, e pergiunta svoltasi altrove——
Dietro ciò che è incomprensibile non c’è nulla da scoprire. Francesco Alberoni
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Proprio perché durevole, il ricordo supera gioie e dolori legati a un istante. Giacomo Devoto
uttaci sopra tutta l’acqua che vuoi, tanto l’olio non lo misceli. Quello che porti sulle spalle resta, per quanta pioggia ci cada sopra non si lava via. Ci sono contesti che – per salvaguardia personale o collettiva – non dovrebbero maieppoimai entrare in collisione, vista l’antiteticità che li contrappone. Già che a ritrovarsi a rigirarsi in mano, in un parcheggio nebbioso con tanti punti di domanda sulla testa e di sutura sulla faccia, un referto medico da vietcong basta poco. Tanto vale abbandonarsi all’accanimento terapeutico artigianale autoimposto che allo stato attuale sembra la più semplice e immediata sostituzione a quello “star bene” che suona
ormai come un ricordo d’infanzia addormentato in qualche vaporosa acconciatura anni Ottanta. Bloccare i pensieri buoni in entrata per nutrirsi di spam mentale. Il sapore di sconfitta ti riempie la bocca, hai distrutto tutto, intorno, non resti che tu da annientare un po’ alla Terminator; s’è capito, visto che ci stanno sterminando, ci stiamo sterminando, che la luce dicono sia in fondo al tunnel ma tralasciano di avvisarti che sotto al medesimo scorre una Salerno-Reggio Calabria con traffico e temperature da ferragosto bagnata da un alcolismo friulano sbarrata da una coltre di nebbia padano-veneta. Chi l’ha detto, poi, che la luce sia tutto ’sto che. Non certo chi te lo testimonia, che nel tunnel, davvero, non c’è mai stato né passato. Se no non stava a dirtelo. Nulla resta com’era, nemmeno il packaging delle ms nonostante quel «Sono sempre io», l’f24 può spararti un recupero d’iva pure a dieci zeri ma, appunto, è tutto contesto senza testo, sfondo senza il primo piano. Te lo dice il dito enorme puntato addosso come nel culto soccorrista, l’arsenale pronto all’assedio, la gabbia che ti si stringe intorno a prova di bomba manco la Golf dello Shahid, il muscolo cardiaco che ti spinge sangue in circolo a 8 e 19 kbps tipo adsl afferrandoti la voce a due mani e torcendotela a mò di onda sonora un multieffetto, il recupero in comunità o casa famiglia o centro diurno o casa protetta ormai a un passo quando le locuzioni convenzionali che sostituiscono il linguaggio ti chiudono in un limbo comunicativo da zona rossa tanto blindata che non la violerebbe un noglobal. Nulla eccetto la politica: chi ti presenta “grandi riforme” in consuntivo altro non ha fatto che cambiar titoli alle norme delle leggi precedenti e chi queste aveva firmato altro non fa che lamentare la “demolizione” dell’ordinamento e promettere che quando
ritoccherà a lui abrogherà ogni cosa per restituire lo statu quo ante e tanto per buttare un po’ d’anni di governo nel cesso; ovvero uno non fa e se ne vanta, l’altro ha fatto male e mò è legittimato a criticarlo perché chi stava di là della trincea l’ha fatto proprio; ovvero sono anni che ci prendono per il culo. Come se non fossi abbastanza bravo a farlo tu da solo. Se è uno scherzo è infinito come fosse di J. O. Incandenza, come la misurazione di variabili cardinali, ma nel dubbio preferisci concentrarti sulla traiettoria della spugna lanciata dal coach che già vola a mezz’aria verso il tappeto del ring, ché senza una contrattazione efficace col dolore non puoi ottenere più del knock out di rinuncia, specie mò che piovono pietre manco fosse l’intifada. E fanno male davvero, ergo non è uno scherzo. Quel poco che stringevi in mano t’è sfuggito dal controllo come il Golem del rabbino, il futuro è più a rischio delle acciaierie di Terni, nel domani non si spera più quando il farlo te lo mostra più vicino al «domani domani» di Mad Max che non al «domani è un altro giorno» di Via col vento. Magari lo pensavano pure i partigiani al ponte di Chigiano o i newyorkesi della torre al guardare negli occhi Mohammed Hatta o gli internati nei GuLag o i bambini a Beslan o i turisti a Sharm El Sheik o i residenti a Secondigliano o i Carabinieri a Nassiriya o i sovietici senza Dio alle porte di una Kabul difesa dai mujahideen di mezzo Maghreb o Terri Schiavo staccata dalla macchina o Carlo Giuliani dietro al Defender o i clandestini in acque internazionali al largo di Lampedusa o il fratello di Erika a Novi Ligure o i tre pischelli sulla variante a centocinquanta all’ora in curva quando si sono accorti di percorrere la corsia sbagliata, ma alla fine qualcuno cui imputare la colpa di più concreto di una Grande Babilonia col suo
mostro a sette teste e dieci corna potevano pure individuarlo. Non che migliorasse di tanto la situazione, ma in certi casi si sa quanto aiuta. Epperò l’assetto marziale odierno grava in tempo e luogo di “pace”, cioè il conflitto è tutto tuo. Tutto dentro. E per buona parte pure tutto voluto. La peggiore profezia che si autoadempie. Un third impact, ci fossero Gainax, un’Eva e Adam. Un Abu Ghrayb tra le costole. Già che ci sei firma pure il verbale. Tra il colpo di fulmine e il colpo di sfortuna corre la distanza di un complemento di specificazione. Tra Giuda e Pietro quella di una corda e un pentimento, mica esegesi, mica Ravasi dalle colonne di «Avvenire», è purissima statistica inferenziale quella che dimostra con tanto di cvd in calce come non serva limitarsi a chiamare, ma sia necessario andare a cercare. Bisogna urlare più di un sound system da un muro di casse per farsi sentire da gente che compone quindici sms al minuto ma faccia a faccia si fa afasica, e non cambia tanto con chi ritiene che la collegialità di certe istituzioni comunitarie rappresenti un deficit democratico vista la mancanza di collegamento diretto tra rappresentante e rappresentato ma gli avevi solo chiesto come stava. Se dopo tutto quello che t’ha tirato addosso sei ancora garantista, e nel dubbio vorresti ogni imputato libero, la vita non t’ha ancora messo seduto. Accettando certi compromessi scopri che puoi pure riuscire a sopravvivere, e a farlo bene. Basterebbe accontentarsi di quello che si ha, ma prima c’è da accorgersene. E ricordatelo tu, che il caso non c’ha memoria: se in cento lanci esce testa, la probabilità che al centunesimo esca croce è la stessa identica a quella dei primi cento.
Ritrovi tutto come lo lasci. Qualche buca nell’asfalto e il buio che cala sempre più presto. Il tg alla solita ora, la programmazione scandisce i ritmi. Il fuoco eternamente acceso, l’aria densa impregnata di odori di casa. Dalla parete gli occhi di Jimi Hendrix che ti guardano e quelli del Laocoonte che senza urlare proiettano dolore al cielo. Il dorso sottile di «Dubliners» e quello sconfinato di «Infinite jest». Qualche ricordo che vorrei non avere in memoria. Nel parcheggio il freno a mano sollevato intriso di adrenalina mentre l’auto s’inclina in testacoda. Un sorriso e un abbraccio nella carta lucida. Un «click» sull’interruttore accende la luce e quante volte c’hai pensato che dietro quel «click» c’è un secolo e mezzo di storia. Grossa parte dei cantieri chiusi, là fuori; la terra non ha più tremato ma qualche gru ancora spunta dai tetti. I quattro quarti grassi impastati dal synth si diffondono dallo stereo. Panni buttati senza cura sulla sedia danno la migliore metafora di come ci si lascia andare quando non devi piacere a nessuno né t’importa di farlo. La bilancia – con la sua ambiziosa lancetta, che punta in alto e ultimamente ottiene un buon successo – conferma. La passione che ieri infiammava i transistors oggi spegnerebbe la fiamma del Yad Vashem. Clima interno da motel Agip, esterno da boschi di Twin Peaks. «Avreste mai immaginato di scrivere con una bottiglia?» chiede la penna realizzata con plastica riciclata proveniente da raccolta differenziata. La risposta è sì. Magari non è quello che intende la penna, che pensa a un farlo tramite, ma mentre scrivo a tutti gli effetti la bottiglia c’è. Tecnicamente lo faccio con. La ridondanza della lingua. Stanchezza. Respiro rarefatto da domenica pomeriggio. Eddomani è ancora di nuovo lunedì. Il telefono che non squilla e all’altro capo il farlo non
passa proprio per la testa. L’ultima volta che m’hai visto sorridevi, sempre più bella. Il cuore ti sveglia per quanto pulsa forte, aritmico, sincopato jazz, aggressivo manco un v8, e pare stia lì per lì per esplodere o arrestarsi. Speri nessuna delle due e di solito è così che va. Se no, non c’è più un granché da preoccuparsi. Non c’è più niente, tout court, ché non ci stai più tu. Non si scappa, non se ne esce; dal momento che lo sai è solo questione di tempo. Ogni cosa a suo tempo. E il tempo per ogni cosa sia domani, un domani qualsiasi. La valPotenza si sdraia sinuosa come un tango, ci balli in coppia quando la strada è tua e ti senti onnipotente e sai che in quel momento non ti ferma nulla e nessuno. E te la regni. Libertà è anche questo; nel lato meno giuridico del termine, s’intende. Le solite facce ai soliti tavolini al solito bar dicono le solite cose. La noia di aspettare, l’inutilità di non aver nessuno da aspettare. Una scritta sulla parete che tieni perché è un bel ricordo. E vorresti cancellare perché è un bel ricordo. E ti piace perché è un bel ricordo. E ti fa male perché è un bel ricordo. Vi volevate bene. Eccolo l’«eterno». E sia. Allora è così che finisce.
Non è la taglia del cane nel combattimento, ma la taglia del combattente nel cane. scritta sul muro, Urbino
C
Le persone cambiano, partono, muoiono, si ammalano. Ti lasciano, mentono, si arrabbiano, si ammalano, ti tradiscono, muoiono. La tua nazione ti sopravvive. Una causa ti sopravvive. David Foster Wallace
om’è devi prenderlo. Poco da fare. Non puoi cambiarla solo tu una situazione infelice proprio come non vuoi quando te la rubano per collettivizzarla in via coatta dall’esterno perché era felice solo per te. E’ che quando t’abbassi il cappello sugli occhi, sollevi il cappuccio e agganci il moschettone a far pendant con la fucina che porti sul volto e il laboratorio farmaceutico che c’hai in circolo pronto a lasciarti trascinare dal technorave più essenziale trovi il dj devoto al chillout. E’ che ci sono giorni in cui tutto sembra debba andare a puttane e solo una dipendenza da una cosa qualsiasi – persone incluse – possa salvarti dal continuum spaziotemporale
finalizzato in tutto il suo essere a spingerti tanto sotto terra da farti sbucare all’emisfero opposto. Peraltro senza materassi sotto il culo quando caschi. E’ che se il vento soffia dalla Sventatora al Cannucciaro hai poco da spiegarti che sarà l’applicazione fisica dell’effetto di Venturi se in qualsiasi angolo ti poni in cerca di riparo stai sempre e comunque contro vento; anche quando gli vai sotto, si capisce; è nato qualche anno prima di te, don’t forget. E’ che per il body count non serve Hollywood, basta l’hard discount. E’ che il motopicco
che t’abbatte il cranio dall’interno se ne fotte delle aspirine che gl’hai lanciato contro. E’ che per un’iniqua logica doppiopesista è un «fatto gravissimo» e assolutamente «imperdonabile» solo quello che commetti tu; non tanto per il fatto, quanto per il tu, che se lo fanno gli altri o lo fanno ad altri o altri lo fanno a te diventa rispettivamente cazzi loro o qualcosa che non puoi capire o qualcosa che evidentemente ti meritavi. E’ che t’insegnano fin dal primo giorno di scuola – a voi «futura classe dirigente», e non sai se suona più come presa per il culo il «futura» o il «dirigente» – quanto il mondo del lavoro sia selettivo all’ingresso, ma tra corsi concorsi e ricorsi l’idraulico che cambia un tubo chiede quaranta euro l’ora e lavora con calma; e chi era entrato da inserviente nel pubblico impiego vent’anni fa oggi sta in pensione con l’ottavo livello da caposettore di quel ramo della Pubblica Amministrazione che all’Università studi mesi per fissrti in memoria gli estremi normativi delle norme vigenti che lo regolamentano e per aggrapparti a un diciotto che vuoi farla finita in fretta, e per accorgerti sul campo che i manuali dicono un cumulo di stronzate autoreferenziali che solo gli studenti conoscono e mai potranno applicare e che dal vivo riscontrarle è più fantascienza del pianeta Alderan che esplode; e che per fortuna te le dimentichi come niente, preso nel turbinio di contratti atipici con cui non arrivi non dico a fine mese, ma manco a domani se oggi è giorno d’accredito. E’ che su quella che era una punizione per aver colto il frutto proibito ci si è fondata una Repubblica. E’ che d’un tratto arriva il sette gennaio e in giro non c’è più nessuno, ma se sei arrivato vivo fin lì sa farti compagnia il Long Island e alla salute. E’ che devi bere. Punto. Il
perché lascialo stare, che se poi cominci diventano sempre meno – e inversamente proporzionali alla noncuranza con cui le affronti – le occasioni in cui te lo chiedi; e di solito non ce la fai a risponderti, non ci riesci, fisicamente parlando. E’ che a un tratto, poi, smetti; e capisci perché lo facevi. Allora ricominci. E’ che attività elementari come la parola possono assumere gradi di difficoltà impensabili per un essere umano che parla da una vita. E’ che nella migliore delle ipotesi puoi sperare che l’ennesima sigaretta non ti faccia svenire, ma da come le fitte t’attraversano trasversalmente il ventre manco il voto affermativo unanime dell’emiciclo in pieno clima bipartisan rispondono c’è poco da sperare; e poco da ridere, ma quello a priori. E’ che si possono pensare cose talmente brutte da non poterle dire a nessuno, e non è una risposta all’mmpi; oltretutto crescono, dentro, tanto che senti che se non le butti fuori finiranno per sostituirti. Ma c’è tempo, dici. E menti. E lo sai. E’ che se al quarto tentativo la chiave ancora s’ostina a schivare la serratura del cruscotto, buon senso consiglia di desistere; tanto, anche insistendo e magari riuscendo nell’intento, di strada ne fai poca pensando più a spingere in alto il tachimetro che a spingerti appresso all’asfalto. E’ che i segni premonitori ci sono tutti e l’ora incerta si fa più chiara, ma non serve un seminarista né un testimone di Colui che fa divenire per capire che manca poco; e di «estote parati» non ricordi più manco la pronuncia. E’ che puoi passare anni ad aspettare la risposta alla domanda «Che fa lo Stato per me?» se poi non fai nulla tu per lo Stato. E’ che non sempre ti svegli di colpo urlando tutto sudato. E’ che più nemici lasci sul campo
non cadaveri più questi verranno a cercarti quando dal campo sarai lontano già da un bel pezzo; e difficilmente lo faranno per ricordare i vecchi tempi. Mors tua vita mea, chiaro. Da sempre e per sempre. La vita – per quanti miliardi di dipendenti c’abbia – non licenzia mai senza giusta causa. E’ che faccio proprio schifo. Senonaltro in termini fisici, a un livello non proprio trascurabile che l’unico irripetibile passaggio odierno sopra lo specchio non ha avuto nessuna compassione nel trapassarmi fromsidetoside col massimo del trash di cui la rappresentazione del reale è capace. Puoi anche rispondergli «’fanculo» alla John Rambo, ma non apporta un micron di vantaggio al lato della cosa. Cheppoi il lato di cui sopra sei tu, e dire che è pessimo è sopravvalutarlo. E’ che da troppo sto indicibilmente sfasciato, comincio a pensare d’aver raggiunto sia il troppo che forse l’abbastanza. Abbastanza per addormentare le urla della mancanza, che quando si risvegliano poi un po’ è passata pure a loro l’incazzatura. Tanto i postumi te li trascini dietro per anni, si sa, non basta una gloriosa carriera da selfmutilator per ammorbidirli. Non fai pena manco a loro. Eccomunque faccio proprio schifo. Repetita iuvant. A scanso di equivoci. La pelle gialloverdognola di una faccia che continua a gonfiarsi sotto una capigliatura né lunga né corta né pettinata né amara, di sicuro sporca; il giallo degli occhi iniettato da un rosso opaco che oltre a non brillare assorbe la poca luminosità residua delle pupille, ormai di un colore scuro indefinibile e per fortuna non così visibile – «per fortuna» un cazzo, come se m’importasse degli occhi altrui quando a stento ce la faccio a vederli coi miei – dato il progressivo restringersi delle fessure che le danno luce; barba, ciglia, sopracciglia, tutto spento,
incolto, sottotono, incurato. Il ventre sempre più sferico, le spalle sempre più arcuate, la schiena sempre più ingobbita, il collo sempre più sbieco, le cosce sempre più ampie, le ginocchia sempre più flaccide, le braccia sempre più goffe, le mani sempre più gonfie, le dita sempre più tremolanti e rosicchiate nel loro giallo mais striato di rosso, le unghie ormai ai minimi termini, la pelle sempre più smagliata, i polpastrelli sempre più unti. Come siamo ridotti. In frantumi, pronti per lo sfascio. T’invecchia più un fallimento che trenta compleanni. Eppoi il dolore. Sempre fisico, che conviene limitarsi a quello. Fitte continue, la testa che si apre in due, il ventre che si lamenta. Ogni canale bloccato da una serie indefinita e variabile da momento a momento di chiuse manco fosse un’opera idraulica per far fronte alle maree, il sangue che si sposta ora alla velocità della trasmissione in fibra ottica ora alla moviola di un fuorigioco su goal discusso. Il corpo come un flipper che muove palle chiodate invece di biglie d’acciaio. Ondate irregolari di malore, tremore, improvvisi sbalzi termici, sistema nervoso e muscolare coalizzati contro di me – aoh, lo state a fa’ al corpo che vi ospita, ingrati – in un diabolico e autolesionista piano destabilizzante. Poi voglio vedere come se la caveranno quando lascerò loro il comando. La presenza per anni data per scontata che da un giorno all’altro viene a mancare, l’orologio rotto del sistema. Pioggia sul bagnato. Una carneficina. La più inutile delle domande è sempre la più ricorrente. Tanto inutile quanto la resistenza a una dittatura democraticamente eletta; che per giunta rispetta e applica il programma elettorale. Quanto la sigaretta di consolazione che brucia in gola nel celebrare degnamente il nulla, così, tanto per velocizzare
l’immobilismo illudendosi che qualcosa di consumabile tra le dita possa aiutare. Si smette e si promette ogni domenica. E se quando scavi fai leva col manico sulla gamba la pala peserà meno. Bene tenerlo presente, non si sa mai. Porta. Tanto porta tanto e San Giusto porta giusto. Il vento dai Balcani porta neve e lo specchio infranto porta sette anni di disgrazia. Porta pazienza. Porta gli amici se da solo non basti. Porta quanto porta se a x sottrai y quando y è uguale a x. Portami via, portami via con te. Te che m’hai portato fin qui per qui lasciarmi quando hai visto che qualcosa non portava. La prova del nove t’ha riportato sui tuoi passi, t’ha riportato coi piedi per terra. Porta rispetto. Porta una boccata d’ossigeno, non si respira più qua. Porta un mv2 cinetico che spinge fortissimo l’energia del cambiamento proprio lungo il vettore che non vorresti. Quindi portati in salvo, che l’impatto sarà un frontale tra Scania e Iveco, tra le Ali della fenice e la Dimensione oscura. Porta le armi. Porta il raccolto se hai seminato, porta i semi se vuoi raccogliere. Porta rancore se non sai perdonare. Porta le mie scuse e il mio «grazie», e grossaparte di entrambi tienila per te. Una rondine porta primavera. Fosse dipeso solo da me, la storia c’avrebbe portato oltre. Portami nel cuore. Porta un bel ricordo, e se proprio non ce la fai basta quello che porto io. Per tutti e due. Due. Uno più uno. Porta paro. Due meno uno no. Inadimplenti non est adimplendum. art. 1460 cod. civ.
d
Non esiste separazione definitiva finché c’è il ricordo. Marguerite Jourcenar
opotutto era solo una parola, ma non dirmelo più, ti prego, o almeno fallo – comportati di conseguenza – senza rendermelo noto, che dedurlo dallo stato delle cose fa meno male e magari l’impatto diluito nel tempo devasta non come un sisma ma come la goccia sulla pietra, e non che l’entità sia minore ma almeno nel daybyday non ci fai tanto caso, per una questione strettamente percettiva, perché al prossimo «addio» espresso – e a ’sto punto sarebbe il terzo, in perfetta contraddizione tanto col significato che col senso di sé
medesimo, che se uno si può accettare al secondo scatta l’ipotesi di recidiva al terzo s’abbassa la testa e basta, se l’orecchio lo sente la testa lo crede, poche alternative quando ci si fida – il cuore non me la regge né me la pompa in circolo come stavolta e la precedente – conferma che al peggio non c’è limite – un’altra iniezione d’alcool in dosi che piegherebbero una distilleria, che mò che sembra ce ne siamo scampati ancora, o almeno così fa comodo credere, col buio intorno e i riflessi dei fari sul vetro e i ruggiti delle marmitte che trapassano le serrande e lo stridere dei pneumatici di un sabato sera a metà tra Mosca e Daytona e il ticchettio implacabile della lancetta e il telefono sotto perenne vedetta e gli occhi spalancati sul soffitto ora nero ora giallo ora azzurro ma sempre un soffitto resta e in quanto tale da dirmi c’ha davvero poco che se ce l’aveva, quando non girava in senso antiorario respirandomi addosso, in tutti questi anni me l’aveva già detto, mò pare che futuro proprio non ce ne sia nella più schietta linea nichilista dal momento che manco ce se spera più, venga come venga, se del caso si traduca in una sana dipendenza, ma saranno solo secondiminutioregiornimesianni che si succedono, mica il futuro quello che speri e t’immagini e ti crei lavorando per e su di esso prima con slancio senza sentimento poi con sentimento senza slancio ovvero con un passo avanti due indietro e uno avanti e così per un numero illimitato di passi che faresti chilometri se invece di ballarci, con la vita, ti ci spostassi, perché vuoi o non vuoi me l’hai detto – e l’avrai pure ritrattato,
ritirato, contrattato, contratto, declassato e negato – e già il fatto di poterlo anche solo immaginare tira fuori in te un’intenzionalità nei nostri confronti infinitamente maggiore di qualsiasi sentimento, e all’improvviso ho capito un sacco di cose sui mesi passati, lo sanno anche i bambini che e quanto conta di più una singola azione forzata in un momento di coraggio che mille mezze mosse indecise in periodi confusi dal loro patetico negare le evidenze per sotterrare uno “sbaglio” di cui pentirsi preso atto anche a posteriori del quanto poco si era felici nell’istante in cui lo si commetteva se qualche frasetta da diario di terza media attribuita al Jim Morrison di turno ti s’è aggrappata a qualche parte del cervello e nei momenti più inutili inizia a girarti in maniera pneumatica tipo turbina, poi cresci e t’accorgi – capito adesso cos’è quel fuoco che t’attraversa gli organi interni come una freccia – che le scelte più giuste sono quelle che ti consentono di tornare sui tuoi passi – «la coerenza lasciala ai politici», tanto non ce l’hanno nemmeno loro, al massimo è carattere dei poveri cristi a cui sta’ssicura non servirà mai a un cazzo – e che le scelte più consapevoli sono quelle dettate da una libertà responsabile tesa a limitare i danni o perlomeno a far di tutto per assorbirteli quasi per intero in prima persona – e mica per altruismo, casomai per pentimento – ma al momento della sovrapposizione di ipotesi, speranzosa che da tale intersezione ne esca pulita come un quattroassi al videopoker che fa tintinnare spiccioli la soluzione, ti si schianta in faccia l’evidenza che le due scelte non c’hanno manco
mezzo punto in comune, le alternative due e solo due, tertium non datur, e da due che erano si elevano al quadrato, e ancora, e ancora ancora in un disegno a cascata che riempirebbe di diagrammi un a1, tanto da perderti nei ragionamenti e malgrado il popodiché di roba pesante come piombo che ti grava in testa manco Timothy Mc Veigh e ti schiaccia a terra come un maglio e ti fa strisciare sul muso come gli orsi al Polo dici «addio» come in un film del cazzo un po’ per tagliar la testa a una mandria di tori un po’ sperando che arrivi quella scossa da sospensioni di un low rider chicano che sappia darti animo per portare fino in fondo le conseguenze, ma puntuali i sentimenti stanno lì al varco ad aspettarti per cortocicuitarti ogni segmento del sistema in dueedduequattro pure a distanza e resti ferma così come era ovvio, riprendendoti in mano la granata buttata là chepperò è già scoppiata spazzando via in un attimo e in un bagliore buio il fatto che eri stata la cosa più bella mai capitatami e tanto m’avevi fatto felice quanto mai lo fossi stato prima e che probabilmente tanto non lo sarò mai più, ma questo è quanto, il tanto che tanto cercavi altrove a me sembra non vuoi proprio darmelo – perché bisogna essere in due anche lì, sì – e allora tanto valeva dirmelo che era una questione di tempo, che i suoi quattro anni eppassa valevano in proporzione su sistema numerico metrico decimale esattamente quello che valgono in confronto ai miei pochi mesi, e se la matematica non è un’opinione ciò comporta il non essermi sufficiente l’anzianità di coppia maturata a rivendicare il diritto di restarti quello che volevi essere con altri, ma tanto l’ultima parola
sta al tempo, lo sai pure tu per quanto con tendenza superomista – eppoi ero io – vorresti chiudere la porta in anticipo con la tua sola mano sulla maniglia mentre io afferro lo stipite con una forza che non mi chiedere da dove venga per impedirtelo, mica per sadismo,
è che se le cose non le lasci evaporarti addosso prima o poi tornano e allora sì che piangi perché loro possono, ma tu no tornare indietro e il tempo se vuoi lo fermi ma chi ci vive dentro ormai sta avanti e non lo raggiungi se non correndo il doppio per arrivargli a paro senza più un filo di fiato nemmeno per chiedergli dove sta andando che già il tempo riparte e l’hai perso di nuovo, che non s’impone nulla per decreto e se è destino che le cose non vadano non vanno, e mò c’abbiamo entrambi un sacco di motivi per disprezzarci a vicenda, senza nascondersi dietro un dito perché anche facendoti prestare le mani degli altri vedi che non ce n’è uno, di dito, che regga al vento della verità che ti soffia addosso quando ti senti come a guardar fuori da una finestra che c’ha un muro di fronte, quando la terza volta m’hai dato retta e l’hai fatto senza dirmelo, quando capisci quanto poteva starci dietro quello che dopotutto era solo una parola
INTERSTIZIO ——c’è disperazione, rovinose frasi confuse e convulse e disarticolate nel genuflettersi sotto il peso delle responsabilità non assunte non assolte non coperte e non capite al momento giusto, sprecate tutte le seconde possibilità concesse, il futuro come un buco causa il domani come nulla di più di una ripetizione automatica dell’oggi – e che schifo di oggi – mille assenze ormai irrecuperabili sulle quali marciano le ombre stanche di chi firmava al posto tuo, rimpianti e rimorsi in gara tra loro a chi più a lungo saprà starti vicino, verità sussurrate a far da prova contraria alle menzogne che tanto urlavano per difendersi—— c’è compassione, pietà, un muro contro muro che non poteva reggere e in effetti non ha retto, umiliazione batte risoluzione, alla provocazione non c’è risposta, la posta in gioco era alta e il bluff s’è scoperto, il castello è crollato, le ipotesi più nere s’avverano nella discontinuità di un discorso basato sulla cenere sprofondato nel nonsenso, una sconfitta nel lato più onesto del termine, ti scivola giù lungo la spina dorsale fino a piegarti le ginocchia, e non ti basta pensare che te la sei voluta e cercata e l’hai fatto deliberatamente e quasi scientificamente per pensare che tutto sommato stai perdendo, sì, ma perdendo di meno di come avresti potuto perdere se se se se—— c’è rottura, non trasformazione ma vero e proprio processo irreversibile di auto e etero annientamento, sfinita rinuncia a ogni tentativo ulteriormente ridicolo di migliorare l’esistente, o almeno non contribuire a peggiorarlo, vista l’anemia nel salvare l’introvabile salvabile, che è il momento di restituire al destino quello sopra a cui c’era scritto inde-
lebile il suo nome, di riconsegnare a un passato che lo rivendica un presente che non l’ha mai dimenticato, ovvio che non poteva starci un futuro, frattura insaldabile da cui inizia il viaggio di non ritorno, non ritorno, non ritorno—— c’è addio, mica ciao o arrivederci o alla prossima o ci sentiamo, ma proprio addio e per niente implicito, tutto già detto fatto e deciso, il coraggio preso a due mani per porre fine all’agonia, magari non si voleva ma non poteva andare diversamente, finisce peggio quando inizia male, senza premeditazione senza unilateralità senza condivisione, e se sembra così semplice è perché magari è così semplice, basta così, punto senza a capo, senza insistere nel farsi male, senza dimenticare come da promessa ma senza intento di far rivivere il quanto, sperando che la durata e l’intensità del dolore siano accettabili, di solito passa, di solito, eppensare che non ci sarebbe mancato poi tanto per star bene. Ma tant’è.
S
Si può imparare qualcosa da un temporale. Quando un acquazzone ci sorprende, cerchiamo di non bagnarci affrettando il passo, ma anche tentando di ripararci sotto i cornicioni ci inzuppiamo ugualmente. Se invece, sin dal principio, accettiamo di bagnarci eviteremo ogni incertezza e non per questo ci bagneremo di più. Yamamoto Tsunetomo
arà il sole. Sarà la luce, il colore, il monocromatico grigio ch’è andato in frantumi sotto i colpi del biancoverdearancionerossogialloazzurroblu. Sarà il caldo, il respiro, la vita, il risveglio. Sarà il cambiamento, la lacerazione, la frattura, la frammentazione, la perdita presupposto del ritrovarsi. Sarà il movimento, la circolazione, l’iniziativa, la voglia questa sconosciuta. Sarà la ten-
sione, l’ansia, la paura, il nervoso, l’agitazione. Sarà lo scioglimento, l’apertura, l’esplosione. Sarà il ritorno, il mai definitivo abbandono, il pensiero costante, il chiodo fisso che non lo scaccia manco una ferramenta intera. Sarà il tremore, l’aspettativa, la soddisfazione, il desiderio e il godimento, la mancanza e il lato della cosa. Sarà il nascosto, l’inconscio, la pulsione, la non consapevolezza di bambini, il mettersi a nudo senza altri fini. Sarà l’espressione triste, piangente, indifferente, apatica, allegra, speranzosa, immobile, inespressiva. Sarà la scoperta, la novità, il contatto, le nuove esperienze, la sensazione. Sarà il non conoscere, il volere, il potere, il dovere, il permettere, il concedere. Sarà il donare, il prendere, il tenere, il regalare. Sarà il cerchio che si chiude, la spirale, l’infinito, il lato del poligono, la faccia del solido, la sezione del cerchio. Sarà la pioggia, il maestrale, la neve, la bora. Sarà il Vermouth, il Bitter, il Gin, la Soda. Sarà il volto, l’occhio, la mano, il corpo, la distanza. Sarà il momento, l’esperienza, il vissuto, la condivisione. Sarà il c’eri, il c’eri stata, il ci sarai, il non ci sei. Sarà la parola, l’azione, l’intenzione, il movimento. Sarà l’alba, il tramonto, il crepuscolo, lo zenith, il nadir. Sarà il respiro, il
battito cardiaco, il vuoto, il pieno. Sarà la torre, la piazza, la chiesa, il palazzo. Sarà l’idea, la volontà, l’aspettativa. Sarà l’attesa, la calma, la stasi, la pausa, l’intermezzo, la sospensione, il congelamento, l’intervallo. Sarà il percorso, l’iter, la distanza tra due punti, la retta che li lega. Sarà la fine, l’inizio, il rettifilo, la variante del circuito. Sarà il bello, il brutto, il bene, il male, la virtù. Sarà la vita, se la vita vorrà. Sarà il passato, il presente, il futuro. Sarà. E’. E’ stato. Frammenti. Intorno a noi e di noi frammenti.
Finito di stampare, in proprio, nel mese di dicembre 2005 per conto della Derupe produzioni – Sanzevereizproud (Proud 2 prod)
Stampato su carta ecologica, 100% fibra riciclata
Frammenti di noi frammenti Lorenzo Paciaroni
con un passo avanti due indietro e uno avanti e cosĂŹ per un numero illimitato di passi che faresti chilometri se invece di ballarci, con la vita, ti ci spostassi