Lorenzo Paciaroni
Orizzontamento Otto
Istant book
Derupe produzioni
Lorenzo Paciaroni
Orizzontamento Otto
Istant book
Derupe produzioni
Nella stessa collana: - Lorenzo Paciaroni, Sanseverino 2004: Appunti di stasi, 2004 - Lorenzo Paciaroni, Frammenti di noi frammenti, 2005
Proprietà letteraria e fotografica riservate © 2006 Lorenzo Paciaroni Derupe produzioni – Sanzevereizproud 1ª edizione: dicembre 2006
In copertina: Bernardino di Betto aka il Pinturicchio, Madonna della Pace, 1490 (particolare). Sanseverino Marche, Pinacoteca civica.
Orizzontamento Otto
a chi pensa sia solo un movimento e non sa di starci dentro
D
Il tempo è stato e sarà. Mai uguale, simile eppure mai uguale. Perché non troveremo mai equivalenza in cui finire. Si nasce e si muore una volta sola agli antipodi di una parvenza. Massimiliano Parente
ove comincia finisce. Ma è in movimento. Non è un cerchio, casomai due, perdipiù congiunti. Comunque, come il cerchio, gira. Ecco perché un punto singolo ne è l’inizio e la fine, relativi, perché la partenza presuppone l’arrivo e l’arrivo che non riparte lo esclude anche la scienza. Il flusso. Sta tutto lì, nel flusso. E’ un otto di traverso, una direzione che s’inverte ogni mezzo giro, strozzata al centro, nel segmento più difficile il momento fondante la sua ragion d’essere. Movimento che s’avvita su se stesso per uscirne opposto. Orizzontamento continuo. Quando pensi che finisce ricomincia. Anche perché poi tutto torna. Tutto ritorna. Basta saper aspettare. Questo sì, di problemi può crearne. Che per quanto aspetti, il momento che succede non è mai quando te l’aspetti. Ammesso che ci si possano costruire aspettative su di un ciclo il cui ritorno è
l’aspetto più aleatorio e allo stesso tempo più costante: sai che sarà ma non sai quando, non sai come, non sai dove. Ma sai perché. Perché deve farlo, semplice e impossibile spiegare oltre, almeno per la lingua. La pelle ci riuscirebbe meglio, però senza un’altra pelle a contatto resta per lei un segreto che mantiene forzatamente addosso. Poi, in ogni caso, sempre e comunque, quando il ritorno arriva ti sfonda. La dinamica è talmente elementare che proprio non te lo spieghi come mai, serialmente, succede lo stesso. Come mai, se è davvero tanto prevedibile come dici, ancora non hai predisposto nessun meccanismo di difesa. E’ che così funziona: ti muovi per periodi temporalmente incalcolabili alla conquista di una valida preparazione ad affrontarlo – vale a dire che sprechi tale tempo, non vivendolo in vista di tempi migliori da e per vivere – finché non ti rassegni al fatto che ritorno non ci sarà più. O magari c’è già stato e non te ne sei accorto. Menti e sai di mentire, in entrambi i casi. Cercando pure le parole più adatte a fartici credere, ma tant’è. Ce ne vuole di midollo per reggere a lungo certi livelli di tensione, molto più di quanto ne hai in schiena. E quando getti le armi è lì che arriva. Lo sapevi, sotto sotto, che t’avrebbe colto ancora impreparato. Lo sapevi e l’hai permesso. Ancora più sotto di quanto sapessi lo speravi pure. Poi, talmente sotto che praticamente era palese, lo volevi proprio. Eccolo.
C
Esistono percorsi che non devono essere battuti, armate che non devono essere colpite, fortezze che non devono essere attaccate, territori su cui non si deve combattere e ordini del principe che non si devono accettare. Sun Tzu
hiudi gli occhi quando il buio della notte inizia a permearsi di lontane esplosioni di rossorosablu per riaprirli quando gli stessi colori stanno finendo di assorbire il buio. Inghiottiti dall’assenza. Dalla parte opposta all’ultima che hai visto. Di momenti migliori un’infinità, ma pare che ci stai abbastanza dentro. Speri che duri, per quanto te l’aspetti da un momento all’altro il ritorno dell’onda, tanto veloce che non lo vedrai partire quando già ti si sarà infranto contro sfigurandoti con una forza centrifuga retroattiva che ti ancora il corpo al punto dove ti sorprende per avvitartici intorno il cranio in spire sempre più ampie. Fino a che non ti guardi da lontano e stenti a riconoscerti. Poi, in un paio di passaggi, tutto torna e rientra nei familiari canoni di quella tragica ordinarietà di sempre. Passaggi lunghi interminabili anni e percepiti come secoli biblicogeologici, ma in ultima analisi restano numericamente un contributo quantificabile in un paio di passaggi. Brutti, oltretutto. Il resto tempo sprecato. Come questo. Come ogni volta che ci si ritrova faccia a faccia con qualcosa che ritorna. Come ogni volta che ti accorgi di quanto avresti potuto uti-
lizzarlo meglio, il tempo. E mentre lo fai, ce l’hai nella retina come in prestampa che ne stai sputtanando altro nel farlo. L’unico tempo guadagnato è quello di cui non si ha memoria, ma se l’albero cade e nessuno lo vede non si può dire che sia caduto. Capita troppo spesso di trovarsi a liquidarla come un sogno, col fatto che attorno agli occhi c’hai sì il buio, ma attorno al corpo il letto e attorno al letto quattro mura che conosci non certo da mo’. Una risposta ambientale non dovuta a un quorum di questioni oniriche non richieste. Tempo qualche ora e il buio va a nascondersi nella concentrazione di se stesso che è l’ombra, per impaurirsi fino quasi a scomparire allo zenith e capire solo al nadir che pure stavolta ha vinto lui. Sì, ha vinto. Poche storie. Col sole si fa piccolo piccolo, ma mica scompare. E quando comanda il buio, la luce manca. Del tutto. Cioè, tra lei e te c’è di mezzo un pianeta intero, ma all’atto pratico non la vedi. Se l’occhio non vede la testa ci casca sempre, puoi giurarci. Arriva. E’ un attimo. Quell’attimo, magari l’unico più catartico che nevrotico, quello che ti strappa da terra e ti solleva per quel poco che basta a regalarti la prospettiva sospesa. La prospettiva giusta. Ti sfiora un’idea, tanto veloce che non ne vedi la traiettoria, per quanto sai di starci in collisione. Più che un’idea è una sensazione, mentre passa ti fa una pressione calda tra qualche
costola. Potresti addirittura quasi chiamarlo benessere, se avessi il tempo di afferrarlo, la predisposizione ad utilizzarlo, il fiuto per capitalizzarlo. La semplicità di volerlo. Una sagoma che taglia il cielo, le torri nere illuminate alle spalle da bagliori neutri. Sotto la solita città, le solite strade deserte come solo questa città riesce a fare. Quel deserto che bruci dalla voglia di lasciarti come ricordo e poi consegnare in busta chiusa all’oblio per mandarne in prescrizione anche la memoria e dimenticare per sempre. Fanno tutte la stessa fine le cose che si amano. Alla fine è solo una rotazione. Un giro. Un movimento tanto elementare quanto è bello. Un tot di cose girano. Gira la terra, gira il retrotreno, gira il toeloop, gira l’hollie flip, gira lo staff il poi il kiwido e il devilstick, gira la turbina, gira la testa, gira l’anello, gira la curva e il posteriore del coupé in drifting, gira la circonferenza, gira il 3d che si avvita, gira la lancetta delle ore e quella del contagiri, gira la filettatura, gira la sfera della Bic, gira l’halley up, gira la trivella del trapano e la mola della smerigliatrice, gira il girasole, gira l’albero motore e quello coi gomiti, gira la spirale, gira la catena sul pignone, gira il sangue e l’alcool nel sangue, gira lo zero e l’otto, gira il b-boy in headspin, gira il windmill, gira il vinile sul 1.200, gira il soffitto della stanza, gira il cuscinetto, gira il rotacismo, gira la pagina, gira lo sguardo, gira l’elettricità nel circuito, gira la lingua in bocca, gira l’onda a riva, gira il lampeggiante, gira la moneta in aria, gira l’idea. Gira l’infinito. Come l’orizzonte a ogni giro.
A
Gli opposti non si coniugano perché, oltre ad essere opposti, appartengono a due mondi diversi che riconoscono un opposto semmai non fuori di sé, ma dentro. Aldo Busi
rriva sempre il momento in cui qualcosa è perfetto. Come arriva sempre il momento in cui te ne rendi conto. Due momenti che per il loro stesso esistere e per qualche ignota legge cronometrica non coincideranno mai, non possono coincidere senza convertirsi in altro da quello che sono. C’è un punto in cui qualsiasi, ulteriore, patetico contributo apportato all’oggetto riesce solo a peggiorarlo, è il punto immediatamente successivo a quello dell’ultimo tocco umano impressogli. Ma finché si tende a vedere, sempre e comunque, l’incompiutezza in tutto quello prodotto dalle proprie mani, il punto – i punti, entrambi, per logica di continuità – verranno sfondati. E’ la natura umana, poco da fare. Non ci fosse errore non ci sarebbe apertura. Per un punto passano infinite rette, ma solo una ne attraversa due: non è difficile trovarla, difficile è trovare il secondo punto. E mo’ leggici pure quello che vuoi. Il buio che si fa se medesimo sempre più presto e sempre più intenso e sempre più resistente ad abbandonarti spinge a sperare che non manchi molto al solstizio. Senonaltro perché quanto oggi continua a calare deve per forza di cose, poi, iniziare a crescere. Escluso
l’uomo, ovvio. Bello avere una prospettiva, dici tu. Bello che tu ci creda, dice lei. Lei che sa che non ce l’hanno tutti la forza di sperare al bello quando il brutto intorno c’ha il colore di un monocromo al tratto con trecento punti percentuali di saturazione e un’avvolgenza ad angolo giro. In ogni caso, che le parti debbano invertirsi – prima o poi – lo sai bene. Tecnicamente parlando, per casi del genere disponi addirittura di un preciso dato spaziotemporale, un giorno e un’ora e un luogo. Epperò va anche detto che il “prima o poi” – sempre più poi che prima, non ci si illude ormai su certi dettagli – indica quanto è relativo il tempo. E da queste parti, con la notte infinita e i luoghi d’aggregazione utilizzati con la loro finalità solo da piccioni e cani e le strade che sembrano viali interni di cantieri e le luci accese non si capisce per chi passi così lento. Cioè, non passi tout court. Mica tanto questione di pazienza, a ’sti termini è questione di vera e propria fede. E’ quello che ti salva. Perché poi il giorno dopo arriva sempre. Sempre. Si sa, ma lì per lì – nel logorante inossidabile impercettibile day by day (wow) – non ci fai tanto caso a come l’uno s’aggreghi al successivo – che non è mai due – senza abbandonare del tutto il precedente – che non è mai zero –. E guarda che dove stai ora è tutto tranne che tre. Anzi, passi sempre più spesso un numero di scansioni temporali costantemente crescente del medesimo a pregare il trio che diventi in breve, magari in automatico, assembramento di tre elementi da
limitarsi a subire. Invece che a supplicare. Ci mette tanto, di norma, ma poi ci riesce. E adesso fa un po’ brutto guardare alle spalle quante volte l’ha fatto. Tante. Tante tante. Troppe no, ma tante davvero. Comincia ad assumere un aspetto controfunzionale a quello che si voleva. A farti sentire tutta la propulsione che si lascia alle spalle in un botto un sacco di stronzate. Siamo alle solite, al desiderio che si ritorce sul desiderante, all’onda lunga del feedback che ingoia la fonte, al riverbero che soffoca il suono. Poco da fare. Non la recidi una catena col cutter. Ci vuole forza, da non lasciarsi dietro nulla, da gettare sale sulle rovine, da avere solo negli occhi la luce e alle spalle l’uscita. Perché le cose lasciate a metà – “cose” per semplicità, che il termine esatto il dizionario te lo sciorina in pagine e pagine di trallallero trallallà – a metà restano in eterno, pure se provi a chiuderle e tanto non ce la fai finché la metà che manca loro ad essere un intero ancora sta a chiedersi che cosa ci faccia in una confusione di nonostante e con-i-se-e-con-i-ma talmente diacronica che se esistesse una dimensione parallela questa le sarebbe perpendicolare. Lì bisognerebbe tornare e mettere mano all’hardware e compromettere in via definitiva il collegamento, per riprendere tamquam non fuisset, come se questa cosa non avesse un vissuto, che peccatopoi sia il tuo, di vissuto. E non si può. Vaglielo a spiegare che l’unica patologia del dialogo è l’interruzione. Perché anche questa cosa lo sa che lo sai che non s’è mai visto un passato che rinasce se la volontà di recuperarlo sta da una parte sola. Eppoi, senza prendersi tanto per il culo, non sta nemmeno in una parte.
I
Nella nostra vita conosciamo gioia, collera, dolore e altre cento emozioni, ma questi sentimenti occupano tutti insieme una parte risibile del nostro tempo. Il 99% consiste solo nel vivere in attesa. Osamu Dazai
l tuono della zolla che rifiuta l’attrito della vicina segue l’onda del sottosuolo e morde l’aria con le fauci dilatate e mica è un caso che poi parlino di magnitudo. La faccia una volta sorridente sul volantino ridotta, sotto le gocce della pioggia, a una macchia confusa che sembra un pantone a forma ellittica visto da occhi miopi. Il sacchetto vuoto che combatte col vento, che attraversa longitudinalmente la città da est a ovest a quaranta metri dal suolo, poi muore su un albero, testimonianza che tra natura e cultura – per quanto sappia farti credere un sacco bene il contrario – vince sempre la prima. La luce arancione del lampione esalta il flusso in discesa e sembra a te di salire verso il nero alle spalle della luce, quando è la pioggia che ti cade addosso. Il profilo azzurro delle montagne col sole che ci s’infrange sotto che sembrerebbe il mare, fosse un po’ più piatto. Il timbro dallo spessore troppo ampio per la mano insicura di chi l’ha impresso che ne ha deviato la regolarità, in un’impressione di tensione a divincolarsi dal foglio sfumata in un anemico debole tentativo di fuga. Il bianco dei denti che spunta timido ma evidente dall’accenno di sorriso che illumina chi ha davanti. Il vaffanculo che non esce dalla bocca sotto formula di suono ma arriva al destinatario passando per gli occhi, esplicito a modo suo, con la possibilità di fraintenderlo talmente remota che per farlo bisogna davvero inventarsi le migliori acrobazie semantiche.
Il senso che manchi qualcosa che ti morde lo stomaco, quando due si trasmettono il loro volersi bene, ma tu non sei nessuno dei due e tuttosommato non vorresti manco esserlo se non quando ti ritrovi spettatore di certe sequenze. Il muso del bmw così cattivo mentre ti punta che ti scansi d’istinto. La torre ogni giorno più inclinata che chiede solo di accasciarsi ma non ti ci abituieresti in un paio di giorni a uno skyline mutilato e a New York ne sanno qualcosa. L’angolo retto perfetto tra gli scalini di marmo. L’ombra lunga, poi corta, poi assente, poi corta, poi lunga dalla parte opposta. Il tunisino che parla arabo col marocchino che risponde in arabo ma in realtà si capiscono a cenni e sguardi pure loro. La donna dell’est che si dispera in lingua madre dentro la cornetta della cabina e tutte quelle consonanti aspre e vocali chiuse non rendono un granché giustizia all’espressione del viso. La palpitazione anomala del cuore e il brivido spinale a metà schiena e il fuoco negli occhi e lo sguardo fisso che ogni volta, a spostarlo, è una sbandata delle tempie in perenne ritardo nell’allinearsi. La paura per eventi che di pauroso non c’hanno proprio nulla, prima di superarli e capirlo. La voglia di startene solo, lontano, a dormire, che arriva presto domani e passa tutto, e anche se non passa è sempreeccomunque, ancoradinuovoun’altra volta, domani, un domani, per il domani c’è tempo. Il fondo scala a 320 km/h. La lacrima che s’aggrega al mascara e lo trascina con sé. L’abbraccio stretto stretto che ti scalda. Un ruggito meccanico ti scuote, con i vetri che ancora tremano. Squarcia il silenzio e gli fa eco l’ululato della sirena che chiama gli operai al lavoro. La gravità ti si stende sopra col suo insostenibile g in ogni centimetro di superficie corporea utile. Centottanta bpm di
pesantezza lungo tutto il diametro di distanza. Ancora sereno, il cielo. Ancora. La foschia a minuti abbraccerà i tetti asciutti a ricordarti che la cupola di vetro sulla città deve sciogliersi, che massimo un paio di rotazioni e torna la pioggia. Che non basteranno due giornate di sole puntualmente spacciate come estate ad asciugarti il freddo pregresso datato secolo scorso. Occhi chiusi. La velocità la senti in curva, sul rettifilo è solo aria che si sposta. Macchie bianche e gialle, puntini in rapida dissolvenza, geometrie concentriche che s’incontrano, si sovrappongono giocando e si lasciano mentre il sole si riflette sul soffitto di rimbalzo dalle carrozzerie grigie e nere e blu in movimento. Sole basso, instabile, tremolante, incazzato. Soprattutto incazzato, che se il clima ti trattasse come tratta a lui lo saresti anche tu. Prima d’imparare a correre impara a stare fermo. Poi a cadere. Ora puoi anche assaggiare il rapporto tra unità di misura di spazio e tempo. L’energia l’avrà pure creata, Dio, ma per utilizzarla c’è voluto l’uomo. E andrà anche «oltre quello che vediamo», ma il plurale è per me, per te e per tanti altri. Non per tutti, che chi sa vederci attraverso c’è. Ma il manuale d’uso e manutenzione non è fornito di serie. L’ignoranza di chi non conosce e parla, l’arroganza di chi conosce e parla, l’ipocrisia di chi conosce e mente, la sconfitta di chi conosce e tace. Noia è solo la convinzione che non valga la pena far nulla di diverso da quanto si sta già facendo. E quanto si sta già facendo è noia. Comunque s’annoiano tutti, credici. Tutti, chi più chi meno. Chi passa giornate alla finestra a fissare una macchia sull’asfalto. Chi a
perdere ore nel pensiero di muoversi piuttosto che sentirsi il muscolo cardiaco pulsare appena appena più veloce per il movimento. Chi qualsiasi azione preferisce compierla dopo e solo dopo il rifiuto di chiunque altro avesse potuto sostituirlo. Chi ogni singolo avvenimento extraordinario sa fissarselo nella corteccia per farlo vivere per mesi. Chi preferisce il Pampero nello stomaco all’idea nell’emisfero. Chi per quanto possa odiare la stasi sa pianificarsela per prevederne una stabilità, che non c’è niente di più pericoloso del forse per chi ha radici nell’immobilismo. Chi alla noia c’arriva per ripiego, che divertirsi non è meno noioso. Quando è il caso lo sa anche il caso, e non ci mette mai mano per caso.
M
Si può imparare qualcosa da un temporale. Quando un acquazzone ci sorprende, cerchiamo di non bagnarci, affrettando il passo, ma anche tentando di ripararci sotto i cornicioni ci inzuppiamo ugualmente. Se invece, sin dal principio, accettiamo di bagnarci eviteremo ogni incertezza e non per questo ci bagneremo di più. Yamamoto Tsunetomo
ica sempre finisce come comincia. Quasi sempre finisce però con quello che comincia. Certe storie partono con l’entusiasmo e finiscono quando questo s’estingue, senza che la direzione cambi, perché a guardar bene non finisce l’entusiasmo, finisce la storia quando l’entusiasmo cambia strada. La vita è un susseguirsi di stop and go, anche e soprattutto nel momento in cui l’arresto sembra definitivo e intorno nulla è disposto a confutarti l’apparenza. La poesia direbbe che l’uomo è «foglia al vento». La realtà se ne sta zitta e delega in via permanente la facoltà di parola alla crudezza dei fatti, che la poesia serve solo a chi può permettersi d’ignorare la realtà.
Certe altre storie prendono il via solo perché c’è la paura. Paura di affrontare l’ignoto, di mettersi in discussione, di aprire una porta che dallo spiraglio fa filtrare una luce più bianca di un a4 davanti a un neon. Paura che chiuderla senza lasciarsela alle spalle precluda un futuro migliore del presente. Paura di avere paura. E per la medesima paura, quando con tanto coraggio s’è attraversato il varco con gli occhi chiusi e la speranza che Dio c’aiuti, la storia finisce. Paura stavolta – intravista l’uscita secondaria a metà del corridoio che conduce alla principale – che vie di fuga da quel qualcosa che sta diventando più grande di te non se ne ripresentino. Tanto poi, per pentirsi, tempo ce ne sarà sempre. Chi ha presente quanto dura un secondo – davvero, non scientificamente – e riesce approssimativamente a calcolare quanti secondi compongono una vita media sa di che si sta parlando. Certe altre storie ancora, quindi, senza una delusione come background non esisterebbero. Solo che al primo passo la delusione si dimostra già più veloce di chi la trasporta con sé, e dallo sfondo s’infila tra fegato e stomaco per impadronirsi dell’avamposto in primo piano. Al contatto permanente con le varie interfacce dell’io reale, ideale e riflesso non bastano svariati lustri da quaranta ore a settimana in interazione stretta con macchinari d’industria pesante in catena di montaggio fordista per
non farci caso. Col gap tra situazione attuale – certo migliore della passata – e ipotetica – certo peggiore dell’attesa – che si fa oceanico. La delusione ne esce ancora col titolo iridato. La delusione indica chiaramente il mandare tutto a puttane come il migliore dei mondi possibili. Poi certe storie nascono col coraggio. Sai che andrai incontro solo a disastri pure senza il responso dell’oracolo, ma dove esiste volontà umana esiste una strada da percorrere. Claro. L’inferno potrebbe essere il quadrante di riferimento delle coordinate. Perché non c’è coraggio che cambi il mondo, non c’è coraggio che cambi le cose, non c’è coraggio che cambi le persone – che cambiano da sole, per quanto mai quando lo vorresti tu, anzi, perlopiù non cambiano, cambi tu, al massimo, e trasferisci altrove un processo interno che t’ha lasciato tanto insoddisfatto da non crederci che sia tutta roba tua, ergo imputando le conseguenze fuori da te rendi l’altro da te colpevole di cause che su di te stanno attaccate manco una seconda pelle. Un trick che risulta valido finché funziona. E da quanto s’è rotto –, non c’è coraggio che cambi un destino. Nemmeno quando su quella svolta da dare alla sorte c’avevi investito un rapporto. Ecco perché ci vuole tanto coraggio ad ammettere la sconfitta. Dopodiché, posata stoica l’ultima parola, quel coraggio – quei coraggi, sono drammaticamente diversi – non torna più. Ora, se a quel con quello dell’inizio sostituisci con chi, e vedi che il senso del discorso rimane intatto, il cerchio s’è chiuso. Seppoi la domanda è così chiara nel chiederti se sia proprio questo quello che volevi, verrebbe voglia di rispondere che non c’è possibilità d’influenza su certe cose, non te ne accorgi nemmeno, che con certi avvenimenti non puoi sedertici fianco a fianco per firmare il contratto all’ultima pagina, che questi fanno partire d’autorità un
giro irreversibile in cui ti rendi conto d’essere parte integrante solo a percorso finito, di prendere coscienza del momento di prima solo nel consequenziale, quando più di tre momenti non sono concessi, quando il quarto è quello per ripartire ma ancora da zero. Anzi, da meno tre. Questo verrebbe voglia di rispondere. Ma una diplomatica affermazione non si nega a nessuno. Sì, quindi. Basta e avanza.
M
A volte le parole che sembrano esprimere in realtà invocano. David Foster Wallace
etti che sia tanto inutile starci a corrodere il pensiero sopra quanto scaricare un’ak sulla croce rossa che trasporta un corpo già salma, ma non riesca a togliertelo dalla calotta cranica che c’è un qualcosa mossosi ormai da tempo in un verso del tutto diametralmente opposto ai suoi colleghi, per quanto quel qualcosa dovresti tornare a ieri sera fisicamente e a qualche lustro fa mentalmente per sapere cosa sia. Metti che per ogni cavallo di felicità superiore allo zero debba pagarci il superbollo e a quel punto non saliresti sul mezzo nemmeno con quaranta gradi in circolo, rinunceresti pure a spostarti che la felicità sa lei quando trovarti, senza cercarla, e quel quando spesso è in viaggio per Nassiriya e ha deciso che per te sarà se stesso solo al ritorno. Metti che il sorriso su quel volto sia meno raggiante di quello di John J. Rambo reduce fresco da Saigon ma riesca comunque a intingerti di calore umano manco un Brugal nel the bollente, che se si mette male c’è il peggio a scaldarsi a bor-
do campo, non basta ad alleggerirti dal peso crescente sulle spalle manco san Cristoforo, col risultato che si possa pure star tre metri sopra il cielo ma si vada a scriverlo in una fogna, che i suoni emessi dalla voce in risposta sarebbero più armonici se al posto del diaframma tenessi una mola abrasiva Yamato. Metti che il futuro sia più a rischio del distretto calzaturiero da quando la Cina non s’è adeguata al 1.936,27 delle parti nostre che a ’sto punto ti ride in faccia anche il convertitore elettronico al solo sentirlo dire, resistere come il toro Murciélago conviene come cercare l’uscita da un alone di invano che è tutto intorno a te come la Vodafone, mille occhi addosso più che a Chiara da Perugia in shared files. E più dici che non importa più dici la madre di tutte le cazzate. Metti che l’orizzonte tra i due blu si faccia compatto, che cominci a piovere e lo aspettavate da tanto tu e gli Yokohama, che l’addome sia preparato al d-day e la logica da ultima sponda che muove i tuoi passi più sottile della speranza ma più lobbista di Confindustria, la pesantezza stazionata a freno a mano e quattro frecce al centro esatto della carreggiata cranica, non serve che ti mostrino le foto al tramonto, tanto se hai combattuto una vita non ti ci rassegni al commissariamento ad acta permanente dello scontro, sei piuttosto pronto a sottoporre all’Arpa l’impatto pure se il nemico adesso veste Fred Perry dietro le razze in pelle del volante con la stella a tre punte. Metti che scomparire alla Kaiser Sose sia un’idea che ti gira in testa manco un albero a cammes, disgustato dai sorrisi 6x3 sui camion vela, nell’attesa che cresca la proporzione che non da mò è 7:2 tipo la © sul trade mark eckō resti immobile come i fratelli Cairoli al Pincio, con la stessa espressione
e le stesse lacrime, perché se piangersi addosso non serve chissà che non possa servire piangere a qualcuno, magari in tempi di guerra c’è chi mosso a pietà e per coincidenza bisognoso di dar voce alla Beretta si trova. Metti che invece di star qui a leggere con l’espressione più gravata da punti interrogativi di un anime staresti più allegro a terra e obliquo, non saresti né il primo né l’ultimo né l’unico, e lo scrivente valuta molto positivamente l’alternativa. Metti che dove si vince si vince di poco e dove si perde è di parecchio, ma se si perde in realtà si è tenuto e se non si è tenuto si è comunque perso meno di altri, che la desolazione sia superiore a quella di entrare in un centro commerciale con nove centesimi in due, il livello di sconcerto superiore alle periodiche unanimità dell’emiciclo sull’aumento delle indennità di missione, l’entusiasmo più debole di quello che traspare dall’espressione facciale del dipendente delle Poste, allora la realtà che ti circonda lo capisce e ne approfitta per aprirti la coscienza in due come un’Hattori Hanzo e mandarti in giro scisso. Metti che poteva andarti peggio, chessò, potevi chiamarti Piergiorgio Welby, o Samuele Lorenzi, o Carlo Giuliani, o potevi essere un passeggero del 737 più famoso del mondo, o ammirare il cielo stellato di cluster bomb di Baghdad, o dover attraversare dal Bronx a Coney Island con la tregua tra gang infranta, o sedere nella rx7 alla sinistra di Han all’ultimo drift, o adottare il metodo risolutivo di Gianluca Pessotto,
o nascere tra il ventesimo parallelo e il decimo meridiano, o pagare una tassa pure sul pensiero, o calcolare un mv2 che arriva con in logo un’aquila incoronata, o contare quanto manca alle 6 pm ai piedi di un altoforno, o stendere conglomerati bituminosi in autostrada d’agosto, o aspettare la domenica per comprarti il quotidiano rosa e infilarti nella station wagon con moglie e prole e radio accesa a fini turistici, o scoprire che la migliore curva di traverso mai affrontata si chiama tecnicamente acquaplaning, o capire già al 49° piano che mentre cadi non va tutto bene, o considerare questo il peggio perché nessuno t’ha mai puntualizzato che c’è di peggio. Metti che. Metti che sia rimasto poco da metterci ancora. Conservare una moneta quando ne hai spese mille c’ha la stessa utilità di dire che se l’avessi saputo prima non l’avresti fatto. Metti pure che ’sta stronzata l’hai ripetuta tante volte. Bene. Puoi sputtanarti l’ultima moneta. Ora. Ecco. Andata. Rilascia l’addome. Ma il prossimo colpo ha il cane già armato.
d
Il più bel giorno dell’Italia sarà quello in cui liberi in casa nostra accoglieremo fratelli i popoli della terra e narreremo loro la fuga dei nostri tiranni. Giuseppe Garibaldi
evi prendertela di santa ragione quando non rimane che prendersela di santa ragione, quando non c’hai più niente da perderci e di svilupparci utili su – ammesso che sia possibile mentre lo sai bene che lo è quanto una circonferenza a tre lati – non può fottertene più un cazzo di meno che s’è visto quanto lo hai gestito il guadagno fin’ora, quando non conta l’immagine rasoterra di te che proietti perché tanto, in ogni caso, botta o stasi, anfetamina o camomilla, il risultato prodotto è talmente permeato da un clima da autodemolizione per i tuoi occhi e figurati per la pupilla altrui, che è purissima logica transitiva, quando tutte le possibilità ipotetiche
d’azione sono mosse dall’errore epperciò tantovale errare buttando la carta più alta – e lo sanno tutti che non è un bluff – ossia sbagliare in modo spettacolare e far tanto rumore, che perlomeno farlo con la deliberatezza del kamikaze e la consapevolezza del cecchino è anche un po’ un chiudere in bellezza, peccato solo non esistano le scale nominali in grado di sollevarti appena appena dal livello infimo della questione morale in cui affondi, quando sei scientificamente votato al fallimento con tanto di apparato bibliografico a supporto, e diventa paradosso oltremodo bandito dalla fenomenologia che se fallisci il fallimento conquisti un successo, quando l’interesse scarseggia – o meglio latita in tutti i sensi – verso qualsivoglia sistema rappresentativo democratico dal momento che solo l’ombra dell’aria a mezzogiorno nell’estate del sud saprebbe curare gli interessi di una situazione devota allo zero kelvin quale l’eco delle morenti silenziose urla di cui sopra – non essendo a certi livelli la rappresentanza fondata sul promuovere, sviluppare, garantire, tutelare o quello che vuoi di cui puoi riempirti la bocca così per darti un contegno di cui farebbe più dignitosamente le veci una Pall Mall azzurra – una tendenza a incrementare in negativo un risultato tendente alla perdita, e oltretutto non sei mica tu come credi – come credono, che oltre a un non credere non credo che credi più a un bel cazzo di niente – e considerato quanto nulla
possa cambiare per te al cambiare di chi ti sta tanto avanti che quasi ti doppia visto che ormai ti rincorre, tu che non chiedi altro se non una sana e dura e pura imposizione di principi che è il contesto a fare il testo e di una tristezza tanto permeante come quella che c’è in giro, tanto pregnante da risucchiare il contesto per farsi testo, difficile che nascano toni appena appena più accesi del grigio, quando il concetto di felicità ormai s’è semplicemente spento nelle teste formattandosi nel momento in cui non serviva più – nel caso di specie manco è servita l’imposizione, è bastato il ciclo vitale del prodotto umano bloccatosi in fase di declino per riprodursi ad libitum da e in quel punto – tutto s’è reso più semplice, quando t’hanno sorpassato e per farlo non hanno dovuto nemmeno correre, anzi, addirittura hanno rallentato e scordati che l’abbiano fatto per una cortesia o per una pietà tesa a limitare l’umiliazione, è che più di quello che ha nessuno può dare, è che a un certo punto ti sei fermato e hai visto indietro che la strada percorsa – utile, formativa, esperienza, bagaglio culturale, conoscenza, blablabla – faceva proprio schifo, e non che mò sia tutto ’sto spettacolo, anzi, ma vuoi mettere la soddisfazione insita che c’è nel distruggere, il gusto di danneggiare in via incontrovertibile quello che costruisci, il potersi permettere di pisciare sulle rovine che hai sudato non sai quanto per tirare su fino a un attimo prima che il
frastuono le riducesse a cibo per vermi, quando la realtà che neppure ti piace – eccimancherebbealtro – si fa da parte con la sua divisa d’ordinanza perché è arrivato il momento di alterarsi, o meglio di dimostrarsi alterata, che lei è sempre la stessa ma è la percezione più viva di quella che ti prende e te la confisca, per restituirtela il giorno dopo sempre un po’ più incazzata di ieri, e passa oggi e passa domani prima o poi esplode e allora sì che sono cazzi, e allora sì che i fuochi se li ricorderanno per decenni, quando alla ricerca di un’identità ti lasci assorbire da quella che ti fornisce l’istat, e come per magia diventi “giovane”, quindi lascia ingrassare gli zeri e parlare i percento, ovvero allineati come più interessato all’enigmistica e all’astrologia che alla politica, e quanto si vede che il compito d’interrogarsi sui dati non spetta a chi quei dati li emette, che sennò ci sarebbe la risposta – anche scurrile – a tante domande, quando meno fai e più sai quanto meno farai, in un diabolico percorso teso ad annullare ogni probabilità di ripresa, visceralmente connesso all’aggressiva autodistruzione che in allegato reca la conseguenza – e sia assunto come dato con garanzia di conformità certificata l’intero pacchetto di numeri annessi, sempre rigorosamente rivolti alle persone sbagliate nel momento sbagliato tanto per dare petrolio alle fiamme, in un’addizione la cui somma è matematicamente doppia del quadrato degli addendi –, come risul-
tato ammiri la tormentosa e tormentata stasi sfigurata dai peggiori spasmi che incubi orribili e torbidi e torridi da corsia psichiatrica di un quarto mondo non conoscono quei postumi senza i quali, qui, ora, scriverei «che straccia de cojoni ’sto vento che ce spazza da du’ giorni» e non quanto di cui fin’ora, sorpassato ormai da troppo il concetto di libertà ridottosi drasticamente a una questione di mera aderenza o meno al culo di chi pro tempore può esercitare la nobile arte dell’arroganza, quando non basta la migliore volontà a ricondurre su una linea che abbia un minimo spessore logico un discorso su cui ci si potrebbe ragionare solo se il bitter respingesse il Bosford, se un alfabeto sapesse pensare, se si potesse leggere bianco su bianco, se a domanda seguisse risposta, se la ragione riuscisse ad afferrarti invece di lasciare che sia tu a prendertela. E già che ci sei, pure a santificarla.
Q
Sanno che il mondo è duro ma basta salire i piani, solo chi vive senza futuro lo fa domani. Jake la Furia, Club Dogo
uella sensazione. Quella sensazione che svanisca tutto attorno a te per lasciarvi soli, tu e la sensazione. Che i punti cardinali vadano alla deriva, che lo spaziotempo non sia più un riferimento. Quella sensazione che ti riempie. Una sensazione di bellezza, puoi toccarla tanto è densa. La senti che scivola dentro, ondeggia. Una scia di luce. Movimento fluido. Non esiste più nulla, né un prima né un dopo. Solo lei. E tu con lei. Poi il sorriso che ti cresce sulle labbra. Tanto sincero che non lo senti, tanto spontaneo
che non lo vorresti. Perché sta girando, e a ogni giro chiuso riparte. Quella sensazione. L’attrito che si perde e scivola via. Tu non la lasci, che ogni giro chiuso è un qualcosa che si chiude pure in te. Dentro. Che fino ad allora non eri mai riuscito a congiungerne gli estremi. In un attimo fa un’ennesima cifra di giri, tanti che pensi mi resterà nulla una volta passato? No. Nulla è passato. Nulla è una volta. Solo un orizzonte. E gira come un otto.
Finito di stampare, in proprio, nel mese di dicembre 2006 per conto della Derupe produzioni – Sanzevereizproud (Proud 2 prod)
Stampato su carta ecologica, 100% fibra riciclata
Orizzontamento Otto Lorenzo Paciaroni
non ci fai tanto caso a come l’uno s’aggreghi al successivo – che non è mai due – senza abbandonare del tutto il precedente – che non è mai zero –. E guarda che dove stai ora è tutto tranne che tre.