Lorenzo Paciaroni
Verano Poste単o Nutrienti postumi per un torrido day after
Istant book
Derupe produzioni
Lorenzo Paciaroni
Verano Poste単o Nutrienti postumi per un torrido day after
Istant book
Derupe produzioni
Nella stessa collana: - Lorenzo Paciaroni, Sanseverino 2004: Appunti di stasi, Derupe produzioni, 2004 - Lorenzo Paciaroni, Frammenti di noi frammenti, Derupe produzioni, 2005 - Lorenzo Paciaroni, Orizzontamento Otto, Derupe produzioni, 2006
Contenuto letterario e fotografico rilasciato in Licenza Creative Commons (CC BY-NC-SA 3.0) Derupe produzioni – Sanzevereizproud 1ª edizione: agosto 2011
In copertina: Lorenzo Lotto, San Cristoforo, S. Rocco e S. Sebastiano, 1532/1535 (particolare) Loreto, Museo della Santa Casa.
che l’attesa ti sia lieve
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L
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o so che vi aspettavate un copiaincolla. Ma la rete, col suo sovraccarico di utenze e possibilità, perde ogni giorno più memoria. Tra database andati in rovina, errori 404, backup sommari, migrazioni di dominio, sovrapposizione di account, cancellazioni dal Registro, esistenze virtuali dimenticate e via via una serie infinita di operazioni nerd alle troppe identità che lo storaggio che corre in linea ti mette a disposizione, tra tutto questo il paradosso è perdersi. Perdere se stessi, dico. Ora, c’è chi non mi ha neanche mai trovato – a occhio e croce una percentuale superiore al 99,un quorum enorme di nove dell’utenza web – e chi ha gioito nel dimenticarmi, ma io, al crescere dell’implementazione contenutistica web ovvero al moltiplicarsi dei servizi 2.0 colonizzati nonché al progressivo ritirarmi dai medesimi verso altri e altri ancora, in quantità direttamente proporzionale non mi stavo più dietro. La carta soffrirà quanto volete, ma ti risponde 404 solo se strappi le pagine. Quindi una selezione dei post più significativi da troppi nodi della rete occupati, per surriscaldare un po’ le CPU dei vostri dispositivi arroventati dal sole sotto il 40° parallelo – se vostro malgrado e mia umana solidarietà siete in vacanza al di sopra di questa linea immaginaria lasciate perdere il download, che avrete già i vostri bei cazzi senza sottoporvi al fuoco dei miei – o imbruttire la vostra epidermide che rumorosamente si deteriora sotto il sole umido della Penisola. Nota metodologica: i post riportati sono stati lasciati illesi. Così com’erano, nella loro squallida pateticità, nel pieno effetto della loro inefficacia, nella disperazione urlata della loro illeggibilità. Giusto un intro per non piombare nel vuoto da troppo in alto. La selezione si stende sopra gli ultimi due anni, prima usavo ancora carta e penna – e non è solo una metafora – o popolavo progetti web giustamente defunti per i quali nessuno, nemmeno il sottoscritto, piange il passaggio a miglior database. Prima ancora, quotava chi meritava ben altro, ero uno di quei popoli felici che non hanno storia. I criteri selettivi sono ovviamente dettati dalla leggibilità, quindi immaginatevi quale Leviatano nutra lo scartato. L’ordine di comparizione è una rivincita sui troppi 7
CV che hanno intasato i miei server di posta in uscita. Siate forti e non scoraggiatevi al decennio scorso. Le vere secchiate di malessere devono ancora venire.
V
link in ingresso
erano perché è estate, dice il calendario, e dirlo con l’idioma caliente mi proietta già in pieno piano B, posteño perché oggi si posta, mica si scrive, ed effettivamente – detto da chi scrive davvero – scrivere è un’altra cosa quando non si avamposta per facilitare l’urbanizzazione con l’ennesima invasione della sfera pubblica attraverso un dozzinale nulla 2.0 di cui nessuno aveva bisogno, poi il porteño è l’abitante di Buenos Aires e Verano porteño chiedetelo a google cos’è, allontanando l’odore di piano C il risultato restituito farà naturalmente riferimento a Astor Piazzolla, nome al quale, aggiungendo un acca al posto giusto – un archaism coleridgiano in quei disperati anni a cavallo tra i millenni – si richiama per writing history e cronologia di costruzione identitaria quell’Asthor cui ho indissolubilmente legato la mia anagrafe prima street poi web poi, triste ma vero, scrivere su una superficie diversa dal monitor richiede impegno, sono d’accordo, anche leggere, e io che online scrivo come se stessi sopra un foglio e su superfici orizzontali vorrei leggere come se chi ha scritto l’avesse fatto in media=“screen”, ecco, al trasferire cotanti byte da un supporto all’altro sono il primo a cercare un’utilità che francamente non vedo, o anche solo una logica che vada aldilà di quanto detto sopra che mi rendo conto non sia un granché, ma sulle letture estive di solito c’è poco oltre il che, è la stessa estate un “lungo” postumo dell’anno chiuso anche se quando pensi postumo ti immagini gli zombie dal Verano, tra l’altro, e magari intendi postmortem, per quanto per noi poveri vivi il postumo è stato ormai innalzato a postvitam, a punizione per aver osato vivere, dopo decenni buttati al fuoco e decenni che lo stesso combustibile ridurrà in materia organica inutile, sangre y arena, due fuochi che non scaldano e il mercurio che s’è messo il meno davanti alla bocca già da un bel pezzo, nel muto rendering di un non luogo dichiaratamente ostile a ogni forma di vita che i sopravvissuti ancora 8
stoicamente chiamano città, evitare il tot sarebbe stato facile solamente non qui e non ora e non io, uno stallo durevolmente provvisorio dove non sei quello che fai – sarebbe già tanto – ma quello che sembra che qualcuno potrebbe pensare che saresti potenzialmente in grado di congetturare di poter fare, col 150% di possibilità che quel qualcosa sia un qualcosa di socialmente inaccettabile quindi da punire, preventivamente se la politica dei fottuti anni zero c’ha insegnato qualcosa. Siete ancora in tempo. Uccidete questo processo. Spegnete questo libro.
Q
d-struzioni per l’abuso
uesto è un prodotto di auto presa di coscienza che potete usare per curare disturbi lievi e transitori, facilmente riconoscibili e risolvibili senza ricorrere all’aiuto del medico; per entità maggiori del disturbo si consiglia di ricorrere ad altri trattamenti (poi, magari, farmeli conoscere). Può essere quindi acquistato senza ricetta, ma la posologia d’(ab)uso va rispettata e seguita correttamente per assicurarne l’efficacia e ridurne gli effetti indesiderati: pertanto se ne consiglia l’assunzione senza esagerate pretese o aspettative, nonché l’interiorizzazione mediata da filtri. Agire con precauzione senza superare le dosi indicate dal consiglio del medico. Non usare per trattamenti prolungati. Se il sintomo permane e non si rilevano risultati apprezzabili in breve periodo, consultare l’oste. Tenere fuori dalla portata dei bambini. Dopo l’uso non disperdere nell’ambiente. Attenzione: queste pagine contengono momenti ad alto impatto emotivo, che purtroppo rappresentano la realtà. Si è voluta evitare ogni forma di censura o alleggerimento della tensione come forma di denuncia e sensibilizzazione, nonché di speranza. Tali momenti sono quotidianamente vissuti da professionisti del settore. Non provate a imitarli.
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postumi
io non so Ho provato a fare il commentatore politico, da ragazzino. Chili di carta prodotta di cui l’inutile Ordine ha legittimamente fatto carta da macero m’hanno addestrato a querele, insulti, saluti negati, minacce e via via tutto il bestiario di galatei cui ci si sottopone quando si tratta la più ignobile esternazione del materiale umano. Smisi solo perché l’utenza e l’oggetto non meritavano quella che era diventata una penna troppo alta per loro. Quindi immaginate di quale entità di quanto al di sotto del livello accettabile parlo. Ma col genere ci sverginai – senza peraltro sapere cosa farmene, ancora, e non che lo sappia bene oggi altrimenti non avrei trasportato tutto questo qui – il mio primo sito personale.
C’
è chi dice di sapere. Le motivazioni, dice di sapere, «quelle vere e più profonde che hanno indotto il duo Martini-Taborro a presentare questa Mozione». Si tratta di una mozione a favore del corcifisso portata in conferenza dei capigruppo, che l’assise consiliare voterà probabilmente compatta. C’è chi lo sa. Ci mancherebbe altro. Ci credo pure che lo sappia, ma lo saprebbe anche un bambino delle elmentari che il consiglio voterebbe all’unanimità per lasciare le croci dove stanno. Perché tutto sommato non danno fastitdio – leggi anche: costa più fatica togliere che lasciare dov’è un qualsiasi oggetto, compresi quelli a forma di croce – e perché la corte europea si ascolta solo quando c’è vantaggio a farlo. La corte europea ha più di 4mila ricorsi contro l’Italia. Più della metà per la lentezza della giustizia. E il Governo guarda il dito, mica la luna. Non vedo perché in questo caso, quando la luna è un discorso di integrazione religiosa, di convivenza civile, di meltin pot culturale, di tolleranza e via dicendo le mille e mille pagine di blablabla 2.0 che google può restituirti cer13
cando semplicemente “crocifisso”, perché in questo caso non debba fissarsi sul dito. Siamo italiani, non siamo attrezzati per un occhio più performante. A qualsiasi livello di governo, sia chiaro, da Palazzo Chigi all’ultimo insignificante municipio. «Pensando di essere abili prestigiatori in cerca di facili consensi – dice anche chi sa, e sicuramente ne sa più di me, che tra i capigruppo non ci sono mai stato né dai capigruppo mi sono dimesso – vendono sensibilità religiosa e attaccamento alle radici Cristiane (Giudaiche no?), ma in realtà vanno solo in cerca di facile consenso, nella maniera più populista possibile. Usando di tutto e di più. Anche in questo caso, tutto è funzionale al mero consenso. Tutto può tornare utile, financo il crocefisso: il crocefisso usato come una moderna clava. Una clava per moderni squadristi». Addirittura. Tutto questo. Come se solo la destra cercasse consenso. Per quanto, poi, che questi capigruppo, di sinistra, abbiano poco, non serve un master alla LUISS per capirlo. Ma sinceramente, con quel poco di passione rimasta per alimentare ancora certi discorsi, oltre la tragedia di una misera ordinarietà di un’irrilevante ripetizione quotidiana quale può essere l’anemica amministrazione nella sterilità di un non luogo, non vedo altro. Magari sono io, che guardo il dito. O magari ‘sto dito è più grosso di quello di un’opera di culto soccorrista. O magari ancora, semplicemente, non so. Ma ogni giorno ho meno voglia di sapere. In fondo, anche il calcio può essere interessante. www.lorenzopaciaroni.it †1, novembre 2009
le scoprirai all’infinito, ma anche no Una cosa che i ricchi sanno e la maggior parte delle persone ignora è che i ponti non si tagliano. Sarebbe uno spreco. Piuttosto si vendono. Chuck Palahniuk C’ho sempre sperato, che le Marche non rappresentassero davvero l’Italia in una regione come le fiancate comprate a Trenitalia anni fa mi dicevano. è che speravo l’Italia fosse migliore delle Marche, di questa striscia di terra frantumata in mille vallate,
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Dominio defunto. Redirect su www.lorenzopaciaroni.com
dove ogni cinque chilometri cambia paesaggio e cambia lingua, di quest’accozzaglia disordinata di monti e colli e spiaggie – brutte, su una pozzanghera, l’Adriatico, ancora più brutta se possibile – senza una vera città con un’infinità di mura medievali arroccate in cima a strutture naturali irraggiungibili e vabbe’ che la difesa era un priorità allora, ma tutto è rimasto immutato, da quando si fuggiva in alto perché il male veniva dal basso a oggi che dall’alto puoi solo disgustarti della frammentazione delle zone industriali. Ciononostante, per promuovere questa sciagura come mandato elettorale e stipendio a troppi zeri imponevano, in vista della stagione turistica 2010 la Regione ha fatto confezionare ai soliti noti e girare per il mondo il celeberrimo spot “Le scoprirai all’infinito” che tutti hanno visto e di cui tutti hanno parlato. Bene o male. Ai tempi sopravvivevo nella pancia flaccida della trinariciuta istituzione col picchio verde e non sono riuscito a non dire la mia. Non mi sono mai piaciuti, i democristiani. E pensare che allora il compromesso storico del “modello Marche” poteva esistere solo in via ufficiosa. Oggi naturlamente la situazione è colata tanto a picco che nemmeno avrei più la bile per commentare i miasmi che escono da palazzo Raffaello.
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ello, è bello. Con quanto c’è costato, il video promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman protagonista, non poteva certo permettersi di non essere, almeno, bello. Esteticamente, intendo. Perché a livello comunicativo, promozionale, turistico, culturale, emotivo e pubblicitario, beh, ognuno dice la sua. Premesso che quello pubblicato è solo una bozza del clip che girerà da metà gennaio sui network televisivi, Gian Mario Spacca ha questo di buono: il blog, il canale youtube, le community, i social network… Non se ne sta a palazzo Raffaello aspettando che disperati quotidiani copincollino noiosissimi comunicati del suo ufficio stampa. Cioè, fa pure quello, ma almeno ci prova ad aprirsi anche al mondo. Magari è merito della campagna elettorale – è candidato a ripetere l’esperienza di presidente regionale delle Marche, alla tornata del 2010 – ma, anche fosse, ben venga un’esposizione al pubblico (ovvero al web) con conseguente dialogo col medesimo (ancora il web, ovvero la parte ancora viva). 15
Proprio Spacca ha caricato sul suo canale youtube il video in questione, di cui tanto s’è parlato, dandosi in pasto ai commenti. Tanto se n’è parlato perché, causa il superdivo di Hollywood, ci è costato quasi due milioni di euro. A qualcuno è sembrato un gran bel colpo, senonaltro a livello di marketing. A tanti altri una porcata. A giudicare dalla proporzione nei commenti, questi secondi sono la maggioranza, per motivi diversi, spesso difficilmente non condivisibili. Una sintesi di quanto si pensa – tra l’altro in maniera civile, il che stupisce, conoscendo l’utente medio di youtube – potrebbe essere questa: Gian Mario Spacca ha speso tantissimi soldi europei, che non considera collegati ai suoi concittadini (SIC!), vincolati ad attività promozionali, strapagando un attore che vampirizza la regione in uno spot realizzato dai soliti noti scelti da uno staff straniero che delle Marche mostra poco e lo fa ora banalmente ora superficialmente ora anonimamente. Con tutti quei soldi, sul territorio si sarebbero trovate infinite risorse migliori per realizzare un prodotto superiore a questo che, diciamocelo, escluso l’attore d’eccellenza è mediocre e non lascerà certo il segno a livello turistico – anche perché serve a poco Dustin Hoffman se poi ci si presenta con un sito dal peso sovietico e dall’efficacia afghana come quello del turismo regionale. Soggetti come ICE o Posto delle Fragole o, perché no, Palo Nero fanno volontariato di classe mentre degli spagnoli – anche se vincitori della gara, sconosciuti al territorio – riprendono angoli ignoti o scontati o parzialmente rappresentativi delle Marche (dov’è San Benedetto del Tronto? E Macerata? E Ancona, Pesaro, Jesi, Fermo… No, Fabriano dicono ci sia, of course). Senza contare che qualsiasi pischello di Scienze della Comunicazione avrebbe trovato un payoff più incisivo magari anche recitandolo con 16
un minimo di cuore in più e un massimo di burocrazia in meno. E un attore miliardario che prova a parlare italiano con miseri esiti si mangia milioni europei in due giorni di riprese quando migliaia di attori locali, anche sconosciuti ma sicuramente preparatissimi, avrebbero fatto risparmiare moltissimo. Regioni (leggi l’odiatissima Toscana) che da secoli ci danno due piste e per secoli ce le daranno, fanno campagne di comunicazione immense con clip che pisciano in testa ai nostri anche se magari un po’ fighetti ma realizzati “in casa” con meno di un terzo del patrimonio sputtanato dalle Marche. Che poi anche lì ci sia chi si lamenta che manchino Lucca, Viareggio, le bestemmie e il panino e il bottiglione di Chianti è fisiologico. Bello, è bello, insomma. Ma è una seconda operazione inno – di cui ha riso anche Repubblica – è uno spreco che speriamo Spacca non ripeta per la terza volta nella sua prossima legislatura e, magari, lasci stare i divi del cinema per lavorare meglio su quanto il territorio gli offre. Sia di materiale che di immateriale. Altrimenti i soldi europei vincolati alla promozione che la Regione si aggiudica, così gettati alle ortiche, non sono un bel colpo, se non inteso come un furto alle altre Regioni che avrebbero magari investito sul loro territorio. Cosa che noi, con mezza Fabriano in cassa integrazione e l’ascolano in ginocchio e la vallesina in rivolta e una guerra tra poveri prossima ventura, noi, non siamo riusciti a fare. Almeno non vantiamocene, ecco. www.lorenzopaciaroni.it †, dicembre 2009
lottizzazione pieve-colmartino Una marchetta ci sta sempre bene. Questa aveva i suoi bei motivi ad personam. Senonaltro è finita bene. Come se me ne fottesse poi qualcosa, ora. Della valutazione di una porzione di disagio fatto città che posso solo sperare i miei figli non si trovino mai a calpestare. La carenza infrastrutturale e il saldo naturale da guerra civile mi rendono ottimista, in questo.
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essuno, in questi ultimi vent’anni, fatta eccezione per i proprietari delle terre in questione – in alcuni fortuiti casi anche amministratori locali – si è mai chiesto in cosa consistesse 17
la lottizzazione Pieve-Colmartino, a San Severino Marche. Sia perché quest’operazione urbanistica, datata 1990, ha subito un iter tanto lungo quanto confuso dalla pioggia di piani sovraordinati che imponevano a cadenza quasi biennale l’adeguamento del PRG settempedano (tra l’altro latitante da allora) a quelli di tutela regionali, sia perché non c’era grande interesse a pubblicizzare un’opera che oggi sappiamo essere discutibile in merito e metodo, soprattutto da parte dei proprietari che avrebbero venduto le terre, a vario titolo coinvolti in quello che oggi sarebbe un conflitto d’interessi da urlo. Ma allora il rappresentante per eccellenza di tale conflitto pensava a Milano 2 e ancora era da venire Tangentopoli e con la Balena Bianca al potere incontrastato da 20 anni ogni porcata sembrava solo un’operazione politica. Se non nella sostanza, almeno nella forma il cambio di millennio qualche passo avanti l’ha fatto. Tutto sommato, da bravi italiani ci bastano le apparenze. Poi, per fortuna e trasparenza dell’informazione, il sindaco Cesare Martini nel 2009 pensa bene di rilanciare la lottizzazione Pieve-Colmartino attraverso un’opera edilizia faraonica da project– blocks con 300 appartamenti per un migliaio di fantomatici abitanti che San Severino non ha e non avrà mai, a 4 km dal centro in una collina ai margini del parco archeologico di Septempeda, senza servizi né strade né alcuna vocazione residenziale. Non contento, Martini allestisce l’operazione come un grande evento, con tanto di conferenza stampa e battesimo della lottizzazione con l’imbarazzante nome “Le torri di Settempeda“, probabile riferimento all’altezza degli edifici che circonderanno il parco archeologico sovrastandolo. Il giustificato timore è che coprire 20mila metri quadri coltivati a olivi con cemento e asfalto deturperà irrimediabilmente la 18
vallata del Potenza, là dove i reperti emersi testimoniano la storia locale dall’antico municipio di Septempeda a istituzioni ospedaliere ed ecclesiastiche medievali. Questo tralasciando i problemi del mercato edilizio che verranno, gli agghiaccianti costi a carico del Comune (quindi dei cittadini) per realizzare le infrastrutture e gli allacci, il saldo naturale settempedano negativo da decenni che giustificherebbe la demolizione di abitazioni molto più della loro costruzione. Se per vent’anni il silenzio aveva coperto il piano, al di là degli interessi di Cicero pro domo sua, un motivo c’era. Motivo che evidentemente è sfuggito a questa Amministrazione, convinta che 300 appartamenti di edilizia convenzionata a trasformare uno dei più bei colli del territorio in un quartiere dormitorio fosse esattamente quello che la città desiderava. Infatti, un anno fa, in concomitanza con il disinvolto piano di marketing di quest’improbabile lottizzazione, è sorto un comitato (condotto dall’“eroe romantico” Luigi Zura-Puntaroni) per manifestare la contrarietà all’operazione. Diverse migliaia di settempedani hanno apposto la propria firma sulla petizione nella quale si chiedeva all’Amministrazione di rimettere in discussione il progetto. Tuttavia, ad oggi, nonostante la partecipazione civile, i diffusi timori che un’opera incompiuta deturpi per sempre un territorio di colline e reperti archeologici, nonché una serie di sospette vicende finanziarie legate alla società aggiudicataria dell’incarico – la TESAUT Spa, che si è vista fallire ben due compagnie assicurative che le prestavano garanzie fidejussorie, il che sostanzialmente equivale a dire che per ben due volte ha ingannato quest’Amministrazione tanto (democratico)cristiana da porgere all’infinito l’altra guancia –, le intenzioni dell’esecutivo settempedano non sembrano cambiate. Ora, interrogando Google, i risultati decenti restituiti – dove per decenti intendo comunicati stampa del Comune o sporadici interessamenti della stampa (online, of course, meno impegnata ad ingrassarsi di pubblicità e comunicazione istituzionale) al comitato – sono davvero ai minimi termini. Vuoi perché le associazioni di tutela hanno misteriosamente declinato l’invito ad esprimersi in materia, vuoi perché il comitato si muove più per vie materiali (denunce, indagini, visure…) che non di marketing, vuoi perché certe manifestazioni di resistenza civile e opposizione democratica appartengono a una cultura politica 19
che non sembra appartenga al DNA del comitato, insomma, a volere informazioni su questa lottizzazione si resta a bocca asciutta. Quindi, in considerazione di quanto potente sia il plugin di SEO appoggiato al mio wordpress, nell’auspicio di un rapido ed efficace posizionamento sui motori, assieme a questa sintesi della situazione allego le due pagine pubblicate sulla stampa locale2 (a pagamento, ovvio, per le priorità della stampa di cui sopra) per chi volesse approfondire, curate del comitato contro la lottizzazione (a firma di Luigi ZuraPuntaroni) a marzo e giugno 2009. Inoltre un modello di richiesta di intervento per le Soprintendenze delle Marche competenti in materia, Paesaggio e Archeologia (ctrlC+ctrlV), con gli indirizzi email, nel caso qualcuno prenda a cuore la vicenda e si chieda come poter essere utile alla causa. www.lorenzopaciaroni.it †, febbraio 2010
rientro in circolo Tu me diras “ça va, c’est pas trop” Mais pour du tcherno, un hamidou quand on a rien, c’est chaud Je sais de quoi je parle, moi, le bâtard J’ai dû fêter mes vingt ans avec trois bouteilles de Valstar. Akhenaton, IAM Escono mostri strani, dalla rete. Un filmato di un live degli IAM – Domain c’est loin, cercatelo su youtube live in Egitto – m’ha richiamato in memoria quella base e quel pezzo con non poca fatica rimossi come gli anni in cui erano sedimentati, quelle esperienze che da pischelli alle prime (e ultime) armi col rap parruccammo per quell’inno al disagio ch’era quel demo che scopro ora fin troppe orecchie hanno ascoltato. E grazie a Dio i social network ancora avevano da venire.
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reso atto dei brividi che la pelle m’ha notificato al cospetto di tanto spettacolo, un ricordo s’è affacciato dai file audio immagazzinati e ha portato in primo piano questa traccia. Un tributo, sostanzialmente, ai king di Marsiglia. Era il 2000, google aveva in home page la mappa del mondo a segnalare la possibilità di
I pdf sul post originale, ora su dominio dot com. Usate il campo di ricerca, già che in virtù di quanto spiegato nell’intro sarebbe inutile un url. 2
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accedere in ben dieci lingue ai suoi servizi e noi, ragazzini, pensavamo che a)Usando una base francese nessuno c’avrebbe mai sgamato e b) Visto quanto stavamo sotto col rap d’oltralpe e soprattutto quanto penavamo a trovarne in questa disperata coppia di vallate parallele d’un entroterra in caduta perpetua in un pozzo senza fondo di malessere, potesse essere un nostro contributo allo spingere qualcosa di buono. Le illusioni di gioventù si pagano tutte. Comunque, sulla base di Domain c’est loin, IAM, buttammo giù questa traccia concentrando il peggio dei vari abusi che quegli anni gravati dalla sindrome di fine millennio ci restituivano. Rientro in circolo, il titolo della track di chiusura di quel demo significativamente intitolato Viaggio interetilico, una sorta di concept album che segnò anche la fine del progetto Ultime Forze Rimaste, startup di hardcore rap settempedana–tolentinate che oltre a un paio di demo su cassetta e a tanti soldi nelle tasche dei baristi e della Distilleria Varnelli SpA non ha prodotto. Qui sotto il player per azionare questa caduta di stile che, un decennio dopo, suona quasi commovente. Col relativo cattivo gusto della pioggia di watermark sonori che il software di conversione rigorosamente freeware m’ha giustamente apposto. Per quanto ne so, RougeMC (ma che fine hai fatto, frate’?) non ha ancora smollato. O meglio, i demoni non l’hanno ancora liberato. Dj Triphaze ha lasciato i Technics e i MAC, in quest’ottica, ma di abbandonare la produzione in senso lato non è stato in grado. Chi ci teneva con molta pazienza e altrettanto stomaco, visto come stavamo messi, nel suo studio, invece, la sua strada l’ha percorsa e ci sta ancora dentro. Io ho fatto la fine che ho fatto. Ammesso che sia questa, la fine. sanzevereizproud.blogspot.com3, agosto 2010 3
Con tanto di player nel post originale. 21
una fine indegna Il database su cui girava questo sito ci ha lasciato. Con la freddezza di una notifica e la rassegnazione di un “ci spiace”. Nell’attesa di una decisione e di una volontà superiore a questa per dare uno nuovo, eventuale, start a questo stop, una prece. Requiescat in aeternam pacem. Non mancherà a nessuno. www.lorenzopaciaroni.it, agosto 2010 Hosting a basso costo comporta rischi che assumi da contratto ma incroci le dita. Lo sanno tutti. Un non precisato danno sulle macchine di chi mi hostava e persero l’intero database del mio sito, l’anno scorso. Non c’era più nulla, al mio indirizzo. Pagine irraggiungibili, post come mai esistiti. Ne sono uscito vivo, in un modo o nell’altro. E sono addirittura rimasto sui dischi di chi mi aveva cancellato, per un altro anno. Non è una bella esperienza, per chi sta lasciando che le identità digitali sostituiscano le reali, trovarsi radiato da un’anagrafe.
D’
accordo. Non mancava a nessuno. Ma mancava a me. Poche ore con questo splash screen caricato dopo la welcome page e il malessere per la perdita di un anno di me m’ha aperto una galleria dallo stomaco alla schiena. Un problema di storaggio sui server dei miei hosting provider ha sputtanato non so quante migliaia di database. Intorno ai 5mila, mi pare d’aver capito. “Tutto ciò che è stato possibile recuperare è stato recuperato, in qualche caso è stato recuperato il database senza qualche tabella, risultata corrotta. Alla fine delle operazioni sono rimasti fuori qualche centinaio di database per i quali, ci spiace, non c’è più nulla da fare.” Il mio era tra quelli. Per carità, i server sono macchine e le macchine si rompono. Se nemmeno degli uomini possiamo fidarci, figuriamoci di OS. E non voglio pensare quali due giorni d’inferno possano aver vissuto i tecnici
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dell’hosting con le mille e mille richieste in arrivo e le tabelle perse per strada di un numero di DB che faccio fatica a immaginare. Poi, benedetti siano gli anni da archiviatore all’Ufficio Catalogo della Regione – per quanto pagati da fame – e la fobia per la perdita dati che regna sovrana tra quei materiali là quindi la psicosi dei backup. Già, i backup. Creato un nuovo DB, phpmyadmin e l’ultimo backup del vecchio DB m’hanno rimesso al mondo. Al World Wide Web, per l’esattezza. Però lo prometto. Appena ho un paio di giorni rifaccio tutto nuovo, che l’occasione stavolta c’era tutta. Certo, fosse arrivata in maniera meno traumatica l’avrei colta al volo. Promesso. A promise is a promise. www.lorenzopaciaroni.it †, agosto 2010
a promise is a promise Y entonces.
L’
avevo promesso e mantengo. Dopo lo scampato pericolo della fine indegna – per quanto a tanti meno backup–addicted di me sia andata peggio – il restyling del sito. Lo so, avevo detto tutto nuovo, ma non ce l’ho fatta. Mica per mancanza di tempo o risorse, è che a questo tema ci sono affezionato (colgo qui l’occasione ipertestuale per tributare il giusto riconoscimento a Evan Eckard che l’ha scritto e a Smashing Magazine che lo distribuisce; anche perché, dopo un anno, visto che c’ho finalmente messo mano, ho tolto il loro creditz dal footer) e non ce l’ho fatta a sostituirlo. Ma qualcosa di nuovo c’è. O meglio, c’è molto di ottimizzato, che a contenuti stiamo sempre lì. Al di là di sciocchezze come la favicon o il social ribbon sulla destra ora fisso ora mobile che dà un po’ di colore – e l’imbarazzo della scelta a chi vuole seguirmi – alle pagine, ho ristrutturato l’home page con un numero inferiore di post per uno scroll meno esagerato di prima. Ora, con un monitor nemmeno tanto da iMac, un F11 e tutto lorenzopaciaroni.it ci sta dentro. Quindi la riduzione delle pagine all’osso, nel cestino tutte quelle informazioni 23
che i più temerari possono trovare nel Curriculum Vitae caricato nella sezione info e attenzione solo al mio core business, calligrafia e webDZN. Poi una simpatica ripetizione di tutti gli account nel web 2.0, come se non bastasse averli sempre a ore 13. Chiaramente anche i testi, in linea con la cura dimagrante di tutto il sito, hanno subito un refresh. Come il webfolio che ora mostra i prodotti senza più quell’infinita scrollata di banneroni anni Zero. Poi, magari per la seconda candelina, cambio pure il tema. www.lorenzopaciaroni.it †, agosto 2010
/maʁ.sɛj/ Reportage dalla città che ho sognato per almeno due lustri. A ragione, dico oggi. Non capita quasi mai di idealizzare un luogo e trovartelo dentro agli occhi esattamente come lo volevi. Una vacanza misera frutto dell’altrettanto misera estate di mutamento, ma l’oracolo – che da decenni mi spia – l’aveva predetto che sarebbe venuto di peggio. Ma l’ho affrontato col Vieux Port nelle narici.
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ille chilometri a Nord per trovare un altro Sud, Notre Dame de la Garde da ogni dove, traffico e clacson fisso, monnezza e ratti cacciatori di gatti, senzacasa sotto i cartoni negli spartitraffico, scroccapaje di ogni nazionalità, marocchini del fermano e tunisini che parlano siciliano, Ancona città inaspettatamente nota, il Vieux Port sempre al sole, acqua più cara del vino senza fontane in giro e fortuna gli africani che te la mettono meno di quello che chiamano caffè, saliscendi continui, il logo OM aderente a un busto su tre, la 1664, il couscous e la folla del ramadan al tramonto, mosche e api e piccioni al mercato africano, colori e confusione, la erre moscia che non si sente, uno smartphone per palmo che trasmette quattroquarti, cinque metri
di rap francese al Virgin megastore, i magazzini LaFayette, le belle maghrebine, il mare grosso, un forte per bastione, il tunnel sotto al porto, patisserie brasserie boucherie e kebabbari a profusione, pizze da un chilo con taaanto formaggio, rastoni tre dreadlock in testa, il pastis, rocce scogli falesie, le centrali elettriche e le raffinerie, l’aeroporto sul lago, McDonald’s a macchia d’olio, il sapone di Marsiglia, due rovine romane in croce osannate manco fossero chissaché, i blockprojects urbanisticamente quasi gradevoli, Les Calanques, il TGV che va piano ma costa come nella tratta ad alta velocità, baguette special, Allons enfants de la Patrie le jour de gloire est arrivé, Bouygtel France, menu scritti a mano in bella grafia, le previsioni meteo che mentivano (e io che le ho ignorate), le moto quante, densità di fari, pescatori, surfisti, burqa come se piovesse, smalto verde, più pezzi sui tetti che ad altezza d’uomo, mooolta meno polizia in strada che non dico Roma che so’ boni tutti ma manco Ancona che siamo noi italiani a esserci messi addosso una paura fottuta ingiustificata, serrande sollevate 10–19, gabbiani, l’Occitane en Provence, bboy in crew di venti più ghettoblaster, gli opinel, il caos de La Canebiére, la spiaggia, le gambe infinite delle indocinesi, auto non più solo francesi, lo shopping in Rue Saint Ferréol, Basic evolution e Gauloises, technomani del nord, jugglers a l’Esplanade de Gare Saint Charles, una città sul mare e non di 25
mare, addette alla ricezione turistica con terminali iMac, l’OM store, un bianco ogni tre maghrebini e due africani – escludendo tutto l’Oriente –, Taxi Marseille, francesine che sbavano davanti scarpe italiane dai prezzi proibitivi, très bien ce n’est pas un problème, skaters a frantumarsi caviglie sulle panchine, tabaccai con le MS, clima invidiabile per chi vive sul medio Adriatico, algerini che indicano la sortie quando ti perdi tra i cantieri di una baraccopoli socialmente ai margini dove non avresti voluto infilarti, zanzare specie ignota, ragazzette con borsa D&G stretta stretta addosso, il logo PACA ovunque che mica è brutto come il picchio verde, fanze di solo writing nelle edicole, il tricolore (col blu) sulle aste sempre lucente e integro, stereo a tutta dalle Peugeot con gli spoiler ad alta deportanza, la mancanza di tratti somatici dei Balcani, odori e suoni e colori che ti rapiscono i sensi. Una metropoli con cui instauri un rapporto di coppia. www.lorenzopaciaroni.it †, settembre 2010
FFWD FFWD sta per “fast forward”, significa “avanzamento veloce”, è quel tasto con i due triangolini rivolti a destra che trovi nei lettori multimediali per scorrere il contenuto in avanti velocemente, appunto. E’ la sigla che indica il progetto di produzione, lanciato in fase di prova (versione zero.1) a settembre a Sanseverino e da allora, visto che ha funzionato, intenzionato a stabilizzarsi. Contiamo sia di ripetere annualmente l’iniziativa, sia di costruire qualcosa durante l’anno, magari un po’ più in piccolo, sia ancora di farci punto di riferimento per tutto l’universo di creatività e espressione giovanile locale. Frase, questa, che fa tanto comunicato stampa, ma tant’è4.
L
’abbiamo fatta grossa. Grossa perché abbiamo pensato in grande, forse troppo in grande per la realtà in cui ci muoviamo, ma se non pensi un metro oltre il limite del pensiero non vai da nessuna parte. Grossa perché un evento del genere a Sanseverino – che non è Roma, ma neanche Civitanova o Jesi o Macerata, senza scomodare le metropoli, che happening del genere era rimasta la vallata del Potenza a non conoscerne – non s’è mai visto. Grossa perché siamo partiti da una passione e ci abbiamo costruito sopra una manifestazione senza avere un soldo e
Dalla dichiarazione conclusiva dell’evento. Qui sopra l’editoriale. Tutto quello che è successo in quel settembre e dopo online sul sito www.ffwdprod.com.
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con un sostegno, morale ed economico, figlio della depressione su cui abbiamo investito. Ecco, abbiamo investito. C’abbiamo creduto e siamo riusciti ad aggregare la voglia di fare di tanti ragazzi, settempedani e non, che al lamentarsi del deserto sociale che li circonda hanno preferito dare e darsi una scossa. E con un entusiasmo che è stato la migliore risposta al ritornello “qua non si fa mai nulla”. Certo, non sarà FFWD a cambiare quel nulla che se tanto si ripete un motivo c’è, ma siamo la dimostrazione che con pochi mezzi e tanta passione anche a Sanseverino può esserci uno spazio di libera espressione e manifestazione per fotografi, illustratori, writer, artisti e artigiani di strada, designer, dj e musicisti. Tirando su un’organizzazione che ha messo a confronto settempedani dai 20 ai 40 anni – e già questo è un successo relazionale che le istituzioni si sognano –, che a sua volta ha precettato il meglio della produzione artistica locale con esiti centopercento positivi (a corrispettivo economico nullo, sottolineamolo ancora, perché non tutti e tutto il cash rules), FFWD è nato essenzialmente come progetto per sviluppare arte e musica in un contesto che spesso tende a reprimerle. Quindi si parla di musica elettronica – downbeat, lounge, minimal, techno e via via tutte le contaminazioni che offre – e di writing, inteso come forma d’arte che si allontana dal suo lato illegale per mostrarsi nella sua veste creativa e carica di potenza espressiva. A tanto abbiamo aggiunto esposizioni di qualsiasi tipo (fotografia, illustrazione, pittura), installazioni, video art, artigianato artistico e autoproduzioni. E questa è stata solo l’edizione zero punto uno. Tutto in una giornata, 27
da presto a tardi, per una full immersion nella Sanseverino sotterranea che ha tanto da mostrare – e da insegnare, umanamente parlando – a chi alla luce del sole ha sempre avuto occhi solo per se stesso. Questa è stata l’occasione per allargare un po’ lo sguardo. Poi, per capirci: writing è quello che è successo al muro di cinta del Palazzetto. Un muro che sul suo grigiore inziale ha visto addensarsi, in vent’anni, disegni, scritte, svastiche, insulti, messaggi, iconografie consegnate alla storia non da oggi e una pioggia sconfinata di cacografie e orrori per tutti i disgusti. Writing è il lavoro che abbiamo realizzato sulla parete di cui sopra, che solo un occhio corrotto o percettivamente disturbato potrebbe definire vandalismo, che solo una marcata disonestà intellettuale giudicherebbe un danno alla situazione esistente. Writing è la possibilità che la Pubblica Amministrazione ci ha concesso – su questa e su altre pareti della città già compromesse – di esprimere con caratteri, immagini, testi, colori e impressioni visive la nostra personalità, le nostre sensazioni, i nostri messaggi, le nostre esperienze, la nostra creatività, la nostra energia. Writing, nell’ambito di FFWD, è rendere la città più bella e la periferia meno avvilente, all’interno dei confini della legalità e senza approfittare di strutture pubbliche per fini privati. Un disciplinare – di emanazione comunale – norma i comportamenti per chiunque voglia usufruire degli spazi concessi dall’Amministrazione. Writing è inquadrare una situazione esistente in un’ottica di promozione sociale e crescita stilistica della creatività, senza necessariamente approvare in via esplicita o tacitamente le derive del fenomeno – che non fanno altro che danneggiarlo -, né tantomeno incoraggiare atteggiamenti e comportamenti illegali o disdicevoli. Quindi, per riassumere, FFWD supporta il writing e tutte le forme artistiche ad esso connesse, ma non approva il vandalismo né le attività illegali che provocano danno a proprietà private, commerciali o pubbliche. Passate davanti a questo muro domani, ricordate com’era ieri e fate due conti. www.ffwdprod.com, settembre 2010
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una dichiarazione di resa Di fronte al mare la felicità è un’idea semplice. Jean Cloude Izzo Quindi eccolo, il peggio. La migrazione dal mare ai monti. Primo trauma. La retrocessione al confine, passo nel vuoto di un anno nelle lande di Odino tra orizzonti bassi e imbiancati dalla neve, cassintegrati e nuvole a altezza d’uomo. L’immediata domanda è stata su quanto mi mancasse quanto avevo lasciato. L’immediata risposta ha lasciato spazio alla lagittima disperazione.
L
imitando il campo alla sineddoche più bella, mi chiedevo come potesse essere la vita senza il mare. La vita senza il mare m’ha risposto che, semplicemente, non è vita. E’, meno semplicemente, un’esistenza dove il verdemarronegrigionero sostituisce quel respiro blu che precede e sopravvive, perenne e dinamico, saturo e immenso, né in cielo né in terra su tre lati della superficie sferica. Una stasi senza la rotazione schiumosa ondulata informe dai contorni così serenamente prevedibili, l’orizzonte che sfuma e impregna e imprime nei polmoni ricordi offuscati da un momento che s’espande fuori dal tempo. Un’assenza consapevole che solo finché non ci stai dentro, al mare, non sai cosa significhi fondersi, affondare, infondersi e fondare e quant’altro derivi o componga o etimologicamente sia figlio di quel fondo che in quel blu puoi solo immaginare, prima, sognare, poi. Un rimpianto dallo sguardo fisso dove il blu non bacia il blu ma scompare dietro troppi ingombri che lo soffocano, troppe altezze a renderti 29
insignificante laggiù ai margini, tu che stringi nel cuore quel poco che i sensi ti concedono di richiamare in memoria, quel poco che era il tuo tanto, quel tanto che fosse dipeso da te sarebbe stato il tuo tutto e invece, nel troppo da cui sei sovrastato, scopri ch’era tanto solo per te. Un azzeramento della bussola sotto un cielo che cade, la cupola che mi s’infrange addosso a ogni sguardo verso Est, a ogni 360° grado sull’asse, a ogni abbraccio tra giorno e notte, a ogni immagine a occhi chiusi di qualcosa che va aldilà di questi cazzo di mille metri verticali e corre via finché la foschia non ne sfuma i confini inghiottendone i punti di fuga. Una sospensione temporale durevolmente e dolorosamente provvisoria nella quale risvegliarsi desaturati, gli emisferi che s’allontanano tra loro, la realtà in perenne delay sui sensi, il grigio permeato di bianco da giorni e una pressione insostenibile sui tetti di–nuovo–e–ancora– e–quanto–ne–avrei–fatto–a–meno così bassi. La vita che prova a riprodurre se stessa pure mò che il contesto offre ben altri scenari. L’asfalto bagnato sotto lo stesso cielo, chilometri a Occidente. Il muto rendering di un nonluogo dichiaratamente ostile a ogni sforzo di sopravvivenza. Non durerà poco e non sarà piacevole. Ne prendo atto e mi dichiaro sconfitto. sanzevereizproud.blogspot.com, novembre 2010
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Come il tempo così caro sprofondato nel sogno. Ion Barbu
Appunto. Tab aperta. Ancora. Ancora bianca.
è
passato un millennio e vuoi farmi credere sia stato solo un anno. Una pausa sconfinata trasportata in un movimento che d’un tratto – e in un attimo, paradossalmente – m’ha messo di fronte a un’altra vita, costata un’infinità di secondi interminabili tanti troppi quanti ce ne stanno nel millennio che s’è travestito da moto di rivoluzione 30
terrestre per notificarmi che la precedente non produceva più effetti. Quindi c’erano tutte le buone ragioni di questo mondo per dimenticarla. Consegnare il tutto in busta chiusa all’oblio e mandare la memoria in prescrizione. Perché la fine non è importante in tutte le cose, solo in quelle che una fine la prevedono. Per tutte le altre, comprese le storie umane, l’importo è quasi sempre solo una perdita. Trecentosessantacinque volte ventiquattro giri sul quadrante e per tre quarti di queste una sola coppia di occhi che le conta. E prega ogni frazione di quei sessanta di lasciare succedere in fretta la successiva e giura al cospetto della bellezza infranta che se mai l’automatismo degli ingranaggi entrerà a regime questa coppia di occhi saprà guardare dove i due blu si baciano e non si volterà più indietro. Ma qualche legame reciso, qualche cicatrice, qualche anello al dito, qualche contenitore pieno di te e qualche promessa – già, la mia promessa l’ho mantenuta – abitano ancora qualche vuoto che troppa materia perlopiù liquida e densa e graduata c’ho tuffato dentro per riempirlo ma sembra senza fondo. Il tempo non cambia le cose. E io non dimentico. E non potertelo dire. E la tristezza di consegnarlo a un server di Mountain View. E quel qualcosa che ora so per certo non si chiuderà più mentre volto le spalle alla linea frastagliata e di nuovo tragicamente alta dell’orizzonte. sanzevereizproud.blogspot.com, novembre 2010
venga giano
Anche le ultime sono solo parole. Cormac Mc Carthy
Un altro anno da dimenticare e un passaggio tragicomico quasi grottesco, non avessi deliberatamente dimenticato il quanto prima di essermelo ricordato.
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D
a 2010 a 2011 cambia un numero. Nella logica binaria, 0 ha segno positivo e 1 negativo. Stando alla logica, questo era un anno positivo e tra poche ore entreremo in quello negativo. Assumendo che il sistema Booleano non abbia voglia di scherzare, se questo strazio che sta finendo lo ricorderò come migliore di quello che sta per assalirci, ho seriamente paura. Mithra non è stato magnanimo come mi auguravo. Almeno Giano ci assista, oltre a scorrerci sotto i piedi dal monte Maggio. sanzevereizproud.blogspot.com, dicembre 2010
miss u so fuckin’ much La differenza la senti forte quando paragoni gli estremi. E la velocità la senti in curva. Un ritorno, sciolta la neve, nel mare che m’ha circondato per anni e, dopo mesi, le lacrime sono state la più dignitosa tra le reazioni collezionate.
G
ià fuori dalla Gola della Rossa il mattino è diventato un altro. L’orizzonte s’è allargato, il cielo addensato. Quindi la città. La città. Quella ch’era la mia città. Ed esattamente tanto futtutamente come nel titolo mi manca. Mi manca il sound così callifonico del faro antinebbia a scandire le sirene dei mezzi di soccorso sullo sfondo dello scampanare della città vecchia, la faccia ruvida di greci e turchi che bivaccano tra i trucks a decine, la nebbia sul Guasco e il sole basso tra Conero e Montedago, il traffico del sabato mattino nel colesterolico centro da dribblare in citycar, il picchio che sventola dal pennone di Palazzo Raffaello, il porto – e 32
non c’aggiungo altro, il porto – le coppiette in macchina al largo Casanova, il Cardeto cazzo il Cardeto, i turisti al Duomo e le pischelle ‘ntel Corso, perdermi nel labirinto del monte tra i due mari felice che i tre anni con la mappa in tasca siano stati inutili. Mi mancano quelle sciocchezze così microscopiche che in una città nessuno nota e tanto macroscopiche che senza ti senti a metà, che sai di esserne parte e te ne accorgi solo quando il cielo ti si copre di roccia e vegetazione per mille metri sulla testa. Mi mancava vedermi che rido da solo per un nulla che in realtà è tanto e l’attimo dopo scoppio a piangere – proprio a goccioloni come in un anime – per quelle onde scure là sotto lontane lontane mò proprio a portata di mano ma per così poco. Tempo di una nuova promessa, stavolta a me. www.lorenzopaciaroni.it †, gennaio 2011
quanto non mi sei mancata Scoprire la libertà liberandosi da quella spacciata come tale, muovendosi senza mezzi, calpestando il mondo con le proprie gambe. Anche quando è la sorte avversa a costringerti a farlo. Anche quando per anni sopporterai sulle spalle il peso dei debiti e la tua città è popolata da lupi, cinghiali e falchi.
Q
uando m’hai lasciato a piedi nei meno dodici di Asgard io non pensavo a te, quando hai preferito abbracciare un autocarro piuttosto che farti abbracciare da me io ho rinnovato la promessa di odiarti, quando ho avuto sotto al culo spazzatura giapponese e perfino giocattoli per bambini d’italica fattura mi sono trovato più a mio agio che non sopra la tua obesa scocca che se i tuoi produttori costruivano carri armati nel tuo deprecabile DNA ne porti ancora le tracce, quando ubriaco e solo e al freddo e al buio e su strade sconosciute di un luogo ostile tra vegetazione da tundra e lupi e fottutissimi cinghiali e il sole a picco solo su emisferi e meridiani opposti ai 33
miei ho calcolato tra il passo appena mosso e il letto più chilometri di quanti ne contavo vedendo ottuplice su una mano ho preferito l’orrore al riaverti ai miei piedi. E ora che c’hanno mio e nostro malgrado condannato a proseguire assieme questa disperazione finché frontale non ci separi, ti garantisco che riderò come non ho mai riso quando una pressa farà di te un cubo di un metro, quando la miseria del tuo inutile chilometraggio non sarà che un alone sul reverbero di un’eco di un evenescente e pallido flashback di un ingnorabile non ricordo da chiunque dimenticato. Là, dove sarai inghiottita dall’oblio, dove non sarai mai esistita, dove tamquam non fuisset, dove io e te saremo e saremmo stati ai poli opposti di pianeti opposti in galassie opposte senza possibilità scientifica di entrare mai e poi mai in collisione, dove ignorarti sarà un sentimento troppo intenso e uno sforzo che nessuno sosterrà là ci sarò io. Volevo solo un mezzo, m’hai portato la rovina. Quanto ti odio. sanzevereizproud.blogspot.com, gennaio 2011
25 apreele, Bruno Sono passati tanti anni da quando in una bandiera ci credevo. Quella bandiera che i fottuti anni zero hanno smembrato in tanti piccoli brandelli che per forza di divide et impera, oggi, non rappresentano e non sono rappresentati. A prescindere dall’ammissione amara che quella bandiera ha perso. Non era il tricolore e, per me, non lo sarà mai, quella bandiera. Ma se ancora, di rado, riesco a sentirmi attratto da un’idea, è solo merito di chi in quel tricolore c’ha creduto, decenni fa, quando obiettivamente c’era ben poco da sperare. E ci lamentiamo oggi. Purtroppo non siamo riusciti a conservare i loro sforzi. Onore ai partigiani e tante scuse dalla mia generazione che ha assistito, impotente, alla caduta nel baratro del loro sacrificio.
B
runo ne ha viste tante. Quegli occhi da diciottenne, nel 1944, avrebbero decisamente preferito vedere altro, ma la storia e la geopolitica gli hanno dato questo. Se poi penso a quel poco che s’è trascinato stanco e inutile di fronte ai miei, di occhi diciottenni, lustri temporali e secoli psicologici fa, e lo confronto con le scene che racconta Bruno, capisco che non raccogliere le sue parole e diffonderle è regalare decenni dei miei diciott’anni a chi verrà poi. Bruno, con le lacrime agli occhi e il fazzoletto al collo, da sessant’anni 34
racconta l’attacco al monte Argentaro e il sacrificio di Salvatore Valerio, la neve e i muli per raccogliere il lancio di armi degli alleati, le notti tra i prati di Gagliole e Roti, l’eccidio di Chigiano e quello di Valdiola, il Battaglione Mario, i compagni caduti. Erano i suoi diciott’anni. E non lo sapeva che il suo nascondersi nella macchia a mille metri, in quella gola dove nasce il Musone, male armato e peggio addestrato, coinvolto in una guerriglia che gli stava rubando la giovinezza e gli avrebbe impresso nella retina immagini indelebili più di un branding avrebbe permesso a me, quasi settant’anni dopo, di essere libero di scegliere di applaudire le sue parole. Non lo sapeva ma l’ha fatto. Bruno Taborro è il Presidente ANPI sezione settempedana, l’ultimo partigiano del Battaglione Mario ancora in vita. Ha combattuto per la libertà, che detta così sembra un payoff di una di quelle campagne di quando militare a sinistra poteva avere ancora un senso, ma in effetti, da diciottenne, nel 1944, era quello che pensava di fare. E già questo potrebbe bastare a guadagnarsi il rispetto di tre generazioni a seguire. Bruno c’ha dedicato i suoi diciott’anni. Se esiste una società civile, questo non deve dimenticarselo. Anche perché, pur da diciottenne, Bruno ci sperava che un’idea potesse vivere nel futuro. Noi che oggi eravamo lì ad applaudirlo glielo abbiamo confermato. Ma per domani non garantisco. La situazione s’è un po’ deteriorata, Bruno. www.lorenzopaciaroni.it †, aprile 2011
osservazione superficiale inutile Odio il tempo che è passato su di voi. Ogni minuto di quel tempo è stata una bestemmia. Alessandro Baricco 35
Non c’è niente di più ripugnante della democrazia. Una tornata elettorale è solo una conferma tra le tante di come la logica del menopeggio serva solo a distrarre, e pure per poco, da una guerra tra poveri quei quattro ingenui ancora convinti che qui, dove tutto è sempre stato così, potrebbe cambiare qualcosa. Io vi odio tutti.
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opo il quanto, è il caso di ricordare il dove, perché l’after day non sia il day after e i piedi restino saldamente piantati nella melma di ieri e domani. Quindi, non per desaturarvi quel comprensibile patetico sorriso giacché non c’è un cazzo da ridere e mica da ora, ma quel dove è dove su dieci autoctoni potenziali otto sognano e/o progettano e/o sono in procinto di e/o non aspettano altro e/o rimpiangono una fuga sia alla terza che alla quindicesima tazza, e forse sono i più fortunati; uno ha il documento di viaggio in tasca e uno non gestisce più le connessioni logiche minime per colleg are orrore e nuova vita come causa e soluzione del suo non riuscire nemmeno più a imprecare una delle tante vane divinità che disperate etnie hanno sovrapposto alla più squallida di substrato per non farlo schiodare dai 236mslm. Quel dove dove, comunque fosse andata, sarebbe stato un insuccesso, oggi che l’essere moderato è diventato un valore, che sarebbe curioso brevettarne una definizione tanto per farci ridere anche nonciclopedia, come se in questo mezzadrile stato pontificio decentrato nessuno si fosse accorto degli ultimi 150 anni che oltre a non farci ammainare quelle vergogne tricolori mai come negli ultimi ha sfigurato tanto volto e cuore di città e cittadini come in tempo di pace non si vedeva dal tardo medioevo. 36
Quel dove dove non si fa distinzione tra le sponde scudocrociate alle ali del maledetto busto d’Eustachio, dove magari non è nemmeno colpa vostra – non vi sopravvaluto così tanto – ma l’unica unità e l’unico vivere di tantitroppisenontutti sono l’estenuante massacrante avvilente attesa della stanca rotazione nella speranza che sotto l’egida del meno peggio la rivoluzione terrestre si porti via in maniera rapida e indolore una dopo l’altra le sue sorelle, per trovarsi dopo sessantacinque lune invecchiati di sessantacinquemila e quasi non crederci che ieri erano solo ventiquattro ore fa. Un lustro fa. Un’era geologica fa. E siamo ancora solo all’età della pietra. sanzevereizproud.blogspot.com, maggio 2011
vota e fai votare FFWD Per non schiodarsi dalla campagna elettorale, dato che capita solo ogni lustro e quando arriva pare che Sanseverino sia quasi una città dove c’è vita, il progetto FFWD è stato coinvolto – ancorché con fare balordo – nella fucking campagna.
U
na campagna elettorale al mese, ci vorrebbe. A una settimana dal voto per le amministrative settempedane, il PD ha ben pensato di organizzare una merenda ai giardini pubblici di Sanseverino sia per sottolineare le affinità di questi con uno slum, sia per fare giustamente campagna elettorale già che tra sette giorni si rinnova l’amministrazione, sia per dimostrare che una manciata di “giovani” – quelli che hanno tirato su tavoli e musica e folla – che riesce ad aggregare tanta gente a buon ragione può considerarsi attendibile nel momento in cui mette la faccia su quel manifesto affisso alle porte dei seggi. 37
Noi, chiamati per dare colore alla serranda del bar ancora chiuso – e dal futuro incerto – dei giardini, sinceramente ci siamo sentiti un po’ fuori luogo così abituati come siamo ai sottopassaggi e alla dubstep, ma alla fine ai più non siamo sembrati così extraterrestri. Il Sindaco uscente Cesare Martini non s’è dimenticato di ringraziarci per il lavoro che stiamo facendo in città. E ora che ti rimetti in gioco, Cesare, te lo dico così, includendo anche Giampiero Pelagalli e tutti quelli della tua Giunta che ci hanno dato una mano, vada come vada, certo, soldi dal Comune per noi non se ne sono visti – né ne abbiamo pretesi, d’altra parte – ma mesi fa, quasi rassegnati, t’abbiamo chiesto un muro. Il palazzetto. C’hai consegnato ogni parete grigia della città. Ci hai detto Divertitevi e fate un bel lavoro – quale modo migliore per responsabilizzarci? – e da settembre ad oggi abbiamo dato il meglio, noi, e ripulito parecchio lerciume verticale, in paese. Un precedente che potrebbe fare scuola, che quando l’ho raccontato a paesi limitrofi mi hanno invidiato. Cosa rara. E adesso non so come andremo a finire tra otto giorni, ma quei muri, Cesare, oggi parlano anche grazie a te. Siamo “apolitici” per regolamento, l’abbiamo scritto assieme, quindi niente VOTA PER, però un grazie te lo meriti. Con noi sei stato onesto, ci hai garantito un dialogo – che dovrebbe essere il minimo, ma, credici, è molto più di quanto immagini – e abbiamo lavorato bene, assieme. Poi, tra una settimana, vota e fai votare FFWD. www.ffwdprod.com, maggio 2010
né solidarietà né rivolta E ogni giorno mando giù un po’ di veleno, ogni giorno io che amo l’armonia e vado un po’ a giocare con la mia follia non mi pare il caso di passare la vita assetati sotto il potere dei falliti ohooohh c’è guerriglia in cima a via Rousseau e arrivano da tutta Roma arriva anche il questore in persona ora, ora che ci hai tolto la parola prima di partire così ci copriamo il volto per farci vedere devo sentirmi di morire a volte per rinascere più forte tra le tue rovine 38
Anche se.
e mando giù veleno ogni giorno devo avere una casa per andare in giro per il mondo Questa, questa è la mia casa e ce ne andiamo in giro camminando al centro della strada questa è la mia casa il cuore scoppia do calci alla porta non c’è solidarietà senza rivolta. Assalti Frontali
V
ista l’occasione, visto il periodo, visto il contesto, visto il conflitto, visti i substrati della verticalità in questione e viste altre mille cazzate m’ero fatto un discorso addirittura politico a supporto della serranda che il PD settempedano in campagna elettorale c’ha fatto rivitalizzare al loro party pre e pro voto. Poi, in uno di quei momenti che durano ore, in cui la consapevolezza ti dice Ok, ne ho abbastanza, e ti fa vedere le cose come stanno nella loro terribile realtà, con tutto l’hardcore del caso, con scale di grigi così brutte che pensi sia un errore del fottuto monitor, con quel distacco che l’avessi avuto prima l’avresti investita in un videopoker quell’ora persa a costruirti scuse, con tali secchiate di rassegnazione che manco Johnny Rotten, ecco, in quel momento mi sono sentito tanto stupido. E il senso di quelle cinque parole m’è sembrato così anacronistico, noi due a dare le spalle all’orrore – bombardati da quegli anni Ottanta che sputavano le casse e trafitti da troppi sguardi avversi – così fuori tempo e luogo, l’età media troppo alta o troppo bassa degli astanti a ricordarmi con la delicatezza di un maglio quanto la mia presenza a queste altitudini sia l’ennesima ammissione di una sconfitta che condivido ormai solo con poche decine di disperati autoctoni. Sconfitta che a pensarci bene la pateticità della pennellessa Tintoretto sulla serranda non ha fatto altro che confermare. Quindi, senza approfondire l’autodistruzione a 360 considerato anche il fatto che non mi legge nessuno se non maledetti sovietici – dicono analytics e lo spam in cirillico che se ne fotte allegramente di qualsivoglia askimet – né la corda che mi si è spezzata irreversibilmente nel cranio, né quel manuale di lingua riesumato in vista di una fuga – perché ormai di quello si tratta –, né le infinite e insostenibili situazioni bukowskiane che mi assediano né la distribuzione quotidiana di distillato di odio che 39
ha sostituito i CV, né la solidarietà né la rivolta, qui sotto il vestitino nuovo del bar dei giardini di Sanzevere. E in apertura l’origine. Ne quoto parte per giusto tributo e perché, in fondo, una sua coerenza col discorso ce l’aveva. Oggi come nel millennio scorso. Anche se è andata come è andata. www.lorenzopaciaroni.it †, maggio 2011
u gallu granne La 390a luna, quella che chiude il terzo decennio e fa cifra tonda, l’ho vista specchiarsi sopra l’Atlantico. Un volo solitario al confine a ipnotizzarmi ore di fronte a onde enormi su spiagge sconfinate e selvagge a dimenticare l’italica miseria col muscolo cardiaco sincronizzato sul respiro di una striscia di roccia oltre la quale, se ci pensi, non è da così tante generazioni che sappiamo esserci il nuovo mondo. Con un calcolo costibenefici tutto da valutare.
L
a defezione è stata improvvisa e all’ultimo, perciò mi sono trovato a partire disperatamente solo col sole basso basso sul Conero per andarmi a invecchiare lontano da tutto e tutti cifra tonda sull’Oceano. Ed essendo, appunto, solo con me in un paese la cui lingua ignoravo potesse essere così inattesa e con una lingua in bocca che ignoravo di gestire così male, oltre le mille foto a farmi compagnia tutte quelle cose – dettagli, alla fine, ma sono quelli che fanno un discorso quando li avvicini tutti – che uno avrebbe detto a un altro lì vicino non ho potuto dirle. Ma le ho pensate. Le ho sentite, mi hanno attraversato. E consegnandole a un anonimo server – assieme a una selezione di quella terra ai confini del vecchio continente – non riempiranno il vuoto che, alla lunga, in
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sette giorni da solo ho sentito tutto e più di quanto pensassi – lo capisci da qui quanto 390 lune dicano la loro – ma almeno l’effetto terapeutico catartico farà il resto del lavoro che affidando tanto al vento oceanico ho lasciato a metà. Così l’oblio, non godendo io di testimoni, non si risucchierà le sensazioni di quelle rocce tra Atlantico e Europa. Quindi il volo dalla penisola a Porto attraverso Alpi e Pirenei, le compaesane transappenniniche domicilate a Porto cui ancora sono grato per quelle dritte che sul web – e ho cercato tanto e bene – non trovi, i trentaeppassa gradi al sole e sentire fresco, i prezzi ridicoli di ogni cosa, l’italiano come ultima spiaggia con i verbi all’infinito – fallita ogni altra lingua, l’inglese per prima la spagnola per ultima – e il resto vedi che lo fanno per magia le radici comuni e percepisci il bello di essere latini in paesi latini, l’enorme volta dei sei ponti e le mie vertigini al solo passarci sotto e quegli adolescenti pazzi che si tuffano da lassù, i bambini nudi in bicicletta e sugli scalini del centro storico arrampicato sul suo abbandono, il delirio barocco degli interni, l’uomo col mantello Sandeman e Muorinho su pareti e ponteggi, i pixação che non mi aspettavo ma ci speravo, tanto troppo italiano nell’aria il che spiega la crisi meglio del Sole24Ore, WiFi Porto Digital dal segnale onnipresente e ovunque mai dalla potenza più intensa di “scarso”, tutto quell’azulejo da mettersi gli occhiali, zero ressa zero folla zero attese, l’esplosione della città per la squadra di casa campione nazionale e i peruviani in strada a vendere le vuvuzelas coi colori patri, i gabbiani – molesti a ogni altezza – veri padroni di Porto. Il caffè buono come il nostro – Segafredo Zanetti su un’insegna su due –, i treni che partono un minuto prima dell’orario, finalmente l’OCEANO e il suo respiro urlato assordante e la forza delle onde e l’imponenza dell’elemento acqua e quell’orizzonte laggiù lontanissimo 41
che ci pensi quanto per secoli l’hanno fissato convinti che non ci fosse nulla oltre quei due blu che si toccavano dove lo sguardo moriva, l’impatto psicologico di sapere che a qualche decina di miglia marine non c’è Zara, scoprire quanto mi piace dire “hasta luego”, le portoghesi che sarebbero anche belle non vestissero – inconsapevolmente, temo – così vintage, i frangiflutti di cui non conoscono l’esistenza – e manco di ombrelloni, chalet e via via tutta la flora rivierasca che deturpa l’Adriatico –, quei crossaint da paura detto da uno che non ingoia dolci di nessun ordine e grado, i pickup Ford gialli dei baywatch, culi che hanno colpito addirittura me detto en passant, throwup se possibile più brutti dei nostri, io che chiedo incredulo ogni volta tre voltre il prezzo di tutto. Il fuso orario che mi logga all’alba, il vecchietto della pensão col gestionale clienti a pizzini, scoprire che non mi piace il vinho Porto, i cannoni lungo la foce indice che i Pirati apprezzavano la zona, l’autobus che calpesta cordoli e marciapiedi come niente fosse, l’assenza di cosa c’ho messo tre giorni a capirlo: forze dell’ordine, non so nemmeno di che colore abbiano la divisa, ma effettivamente solo in Italia abbiamo tanta di quella paura da volerci vedere attorniati da tutori della tranquillità che siamo i primi ad auto negarci, blocchi FABRIANO nelle vetrine delle cartolerie e sotto braccio agli studenti e per un attimo mi sento quasi fiero della mia provenienza – poi passa subito, per fortuna –, l’assenza di scarpe coi tacchi – logica, con quelle salite e quei marciapiedi devastanti – che tanto fanno soffrire il mio feticismo, gli autoctoni in fila per farsi le foto davanti alla Ferrari del truzzo di turno in Ribeira. Targata RSM, oltretutto. Lisbona si diverte Coimbra canta Braga prega e Porto lavora, Josè che no le gusta el Brazil e gira la penisola iberica como camarero e penso sia 42
pazzo, il cervello che si scollega da tutto quello per cui gira a duemila km a oriente e con una semplicità che non l’avresti mai detto spegne quella partizione e anche volendo – con la giusta dose di masochismo per non alienarsi – accedervi sembra incontri solo oggetti sconosciuti, ritrovare una stazione Tiburtina in ogni capitale del mondo. Lisboa, homeless che dor mono in mezzo al traffico, l’intensità di mille cucine che ti stordisce, bambini indiani ciechi a chiedere l’elemosina come in Slumdog Millionaire, pusher a ogni lato e angolo e perfino dentro i ristoranti che alla fine nemmeno ci provano più a venderti gli occhiali, A paisagem não tem dono, io che corro a far da fotografo al gruppo di Tor de Schiavi irresistibilmente richiamato da quegli Aoh, eddajje che da troppo non sento, posteggiatori abusivi marocchini e tassisti su Mercedes anni Ottanta cogli spoiler, temperature che – a me! – fanno cercare l’ombra, il Rossio occupato dall’acampada come a Puerta del Sol e mi chiedo se e quando anche Piazza del Popolo – Roma, claro – avrà altrettanta voce, grappa portughesa un poco forte e io “soy italiano” ma tremo quando m’accorgo che la Nardini in confronto è Zymil. Contrariamente alle previsioni svegliarmi il trentesimo senza farmi viaggi tetri da paranoide monomaniaco, il numero di km a due cifre del ponte più lungo d’Europa – Vasco Da Gama – per il quale vomito solo a guardarlo da riva senza peraltro scorgere quella opposta, troppi odori che si combattono all’Alfama, il traffico impossibile del centro ma pochi clacson – nulla, rispetto a quelli di una città media italiana –, fingersi spagnoli per disperazione quando nei locali trovi italiani iPhone in mano a fotografare culi, brindare ai 30 con 330cl di Sagres, il senegalese Papi che fa il gommista agli Archi di Ancona e solo per questo se lo merita di venderti il braccialetto dall’altra parte del Continente. 43
Vertigini da dayafter nel cuarto effettivamente in discesa – la biglia me l’ha confermato –, il sole che si alza pallido e stanco dallo smisurato estuario a benedire la vuelta, la monosensorialità il limite di google earth quando fotografa i vecchi che giocano a carte sul molo, l’ansia del ritorno a ogni aereo che s’abbassa dietro Matosinhos e il pensiero di non lasciare quella terra che troppe volte ti sfiora. E seguirlo, quel pensiero, come quasi ogni pensiero, sarebbe stato bello. www.lorenzopaciaroni.com, giugno 2011
migrazione di qua E noi che la felicità la pensiamo in ascesa sentiremmo la commozione, che quasi ci atterra sgomenti, per una cosa felice che cade. Rainer Maria Rilke Dopo tutto il caos della perdita dati di cui sopra, finalmente il passaggio, volente e dolente, di hosting e dominio. Un altro cerchio che quando sta per chiudersi si inverte.
N
on lo so cosa aspettavo. Migrare da un’estensione .it a una .com è, tecnicamente parlando, molto più semplice che non fare il contrario. Considerando poi che il passaggio fluiva da un hosting internet low cost notoriamente conosciuto non per le eccellenti prestazioni a un hosting provider pro con macchine dedicate e tutto quell’elenco di specifiche altisonanti che per mesi ho scritto nei preventivi – sì, l’hosting provider con cui collaboro, pensa te, c’ho messo due anni a decidermi, assurdo vero? – doveva essere una mossa da non fare nel senso che era qui che dovevo appoggiarmi fin dall’inizio. Ma così non è stato. E ora che ho fatto la migrazione me lo domando, perché c’ho messo tanto. Direi che aspettavo la scadenza naturale del dominio, di là, ma non è vero. Anzitutto perché altrimenti non l’avrei rinnovato, al primo turno. Poi, visto quanto in due anni ho sopportato – dai tempi di reazione biblici, alla perdita del database, all’assistenza effimera, ai disagi 44
che m’hanno tolto tanto quanto solo i backup m’hanno restituito, allo spazio su disco esaurito prima che potessi riempire una schermata di oggetti – a partire praticamente fin dai primi giorni, lo escludo. Direi che aspettavo di avere contenuti degni di essere lanciati in una nuova veste, ma analizzando il traffico utenti minimale e il feedback fidelizzato dal 2009 ad oggi, beh, dubito ne sarebbe valsa la pena. E anche in merito alla bontà dei medesimi contenuti, c’ho poco da dire a mia discolpa. Direi una svolta commerciale o comunque lavorativa, o anche solo una deitalianizzazione – che poi, sotto sotto, parlando anche in termini spaziali, almeno la doppia lingua l’ho predisposta, chiaramente lo spagnolo (e abbiate pazienza…), che graficamente con tutte quelle lettere accentate manda a casa l’inglese in due righe – ma se era quello, che aspettavo, stavo ancora là. Non lo so cosa aspettavo, ma quel .it aveva una storia. Una storia che ora riparte da qua. Quella, voi, consideratela finita. Io continuo a pensarla diversamente, tipo che la partenza presuppone l’arrivo e l’arrivo che non riparte lo esclude anche la scienza. Penso che sta girando, e a ogni giro chiuso riparte. Quella sensazione, l’attrito che si perde, qualcosa che si chiude anche in te. Dentro. Che fino ad allora non eri mai riuscito a congiungerne gli estremi. In un attimo fa un’ennesima cifra di giri, tanti che pensi Mi resterà nulla una volta passato?, ma alla fine è più semplice pensarla come consiglio di fare a voi. Come una cosa felice che cade. Da ora, da qua, una nuova discesa. www.lorenzopaciaroni.com, giugno 2011
fiona, una storia di abbandono Ogni giorno mi rallegro di soffrire sempre meno di non essere niente agli occhi degli uomini. Emile Michel Cioran Una storia di mare, di commerci, di tragedia, di migrazioni, di uomini, di destini, di chiusure. Una storia di abbandoni. Io e FIona faccia a faccia e una tempesta di metafore a parlare per noi. 45
F
iona batte bandiera maltese quando, con le ultime gocce di gasolio, l’armatore estone ordina agli undici dell’equipaggio il rifornimento al porto di Ancona. Salpati da Ravenna, restano a secco prima del gomito dorico. Rimorchiata e condotta al molo nord, Fiona non trova né carburante ad attenderla né denaro per tornare a casa. E’ il 2009, l’armatore di Tallin scompare e i 72 metri da carico con i suoi russi e ucraini e estoni a bordo sono abbandonati all’ombra dell’arco di Traiano. C’hanno messo due mesi a rimpatriare, i marittimi. Ma Fiona è ancora lì, arrugginita in un infinito fin di vita al molo nord. Ci passavo ore a fissarla dal Guasco, in quelle ore inutili stordito dall’angolo giro di blu. Quel relitto senza più bandiera né vita abbandonato dall’armatore, dall’equipaggio, dai terrestri. Abbandonato al mare e ai gabbiani in attesa di affondare. E non l’ho mai saputa tradur re in pensiero quella sensazione che arrancava tra una costola e l’altra quando io e Fiona ci fissavamo, ma ritrovarla nelle stesse acque, oggi, sola con le sue lamiere, in quel porto dove ho lasciato ore del mio sgardo e centimetri cubici di apparato circolatorio, mi ha trafitto come anni fa. Per quell’abbandono. Per quella dignità con cui aspetta una morte che dubito mano umana le consegnerà. Per quel mare che le sta allungando le dita addosso. Per la controfunzionalità di un pezzo di metallo modellato non per galleggiare ma per tagliare le acque. Perché dai confini occidentali della regione, dove le nuvole sono tanto basse e veloci, dove l’orizzonte frastagliato scuro attacca il suolo al cielo e ti chiude in una sfera senza tempo, dove arrivano su strada ferrata i 46
container che Fiona trasportava, da qua penso ancora a quei 72 metri da carico sulle sponde dell’Adriatico. Così, magari quell’abbandono, a Fiona, l’ho infranto. Ma non posso chiederle altrettanto. sanzevereizproud.blogspot.com, luglio 2011
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shotz Si no quieres no tienes. fb, luglio 2011
“L’uomo superiore sta da solo e non ha paura. Egli si ritira dal mondo senza rimpianto”. fb, giugno 2011
“Solo il 7 percento dell’informazione passa attraverso le parole”. fb, aprile 2011
L’avrò anche ritrattato, ritirato, contrattato, contratto, declassato e negato, ma nemmeno stavolta sono io quello inadempiente. E nemmeno stavolta è una grande soddisfazione. fb, marzo 2011
“Niente di eccezionale se non strappare le radici e tagliare i ponti”. fb, febbraio 2011
“Guardate intorno, guarda che montagne, guarda che orrore”. Agghiacciante Sol invictus. fb, dicembre 2010
“Tu m’hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare; la corrente mi ha circondato e tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi son passati sopra”. thumblr, dicembre 2010
Senza la quale, qualsiasi cosa sarebbe solo una cosa qualsiasi. fb, ottobre 2010
Già che sto a fa’ la muffa per quant’umidità galleggia a un metro da terra tra il Monte Cucco, il Catria e il San Vicino, un po’ di sitar e tabla pe’ non pensacce che rimette il naso in quell’acqua sospesa a mezz’aria là fuori definire improponibile è una visione irreale per eccesso. thumblr, ottobre 2010
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“o mi sbronzo da far schifo o in Texas non ci sono vacche”. fb, agosto 2010
“C’è qualche stronzo che abbia la bontà di dirmi che cazzo ci faccio qui?” fb, agosto 2010
For no one - no one in this world can you trust. Not men, not women, not beasts. [Points to sword] This you can trust.
fb, agosto 2010
STRATOCUMULI, mica nuvolette. fb, maggio 2010
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fade out
ensi non ci sia nulla più bello del mare, poi ti accorgi che riflette il cielo e da lì in avanti inizia a farsi fisico il bisogno di dare spiegazioni a oggi non so proprio chi per, in realtà, non sono sicuro d’aver capito ancora cosa, ma la freccia conficcata tra stomaco e schiena parla chiaro, con la più esatta quasi statistica delle certezze, da anni notifica come il quanto sia stato nomitato atto dovuto, a priori e a prescindere, come gli anni passino solo sulla pelle e tu, segnato dal trascinarsi secolare dei secondi e spossato da quella rabbia che tanto ha lottato invano per emergere che ce l’avesse fatta sarebbe stato un genocidio, tu lì attonito a darti in pasto alla fame d’interpretazione come una testa di cazzo qualsiasi che sì, meritava di peggio, ma che tutto sommato ha saputo rendersi infelice pure col buono che aveva, tu lì misuri ogni giusta distanza per non farti ulteriore male dalla collocazione fisica e psicologica dei passi di quel percorso che non durerà poco e non sarà piacevole, l’essere umano è conservatore ma non lo sarà ancora per molto, conservatore, intendo, che il termine umano ormai è roba per libri di storia, se la storia la scrive chi vince, roba estinta, senza autorizzazione a tornare indietro e sarebbe da farlo di troppo e cambiare ancora di più ancorché non eviterebbe il totale andare in frantumi generale odierno, mai così tanto in progress e mai così tanto 52
endless quasi come il peggio, ogni eventuale proroga solo una fine in differita, ogni non so solo un no mascherato, l’elemento che da che il tuo mondo è mondo indica un punto cardinale adesso ne segna ben tre, la bussola si azzera, e sorridi stanco mezzo felice mezzo rassegnato perché l’hai capito solo adesso, adesso che orientarsi è una labirintite, adesso che la speranza che passi in fretta s’è fatta consapevolezza che non passerà più, adesso che il campo lunghissimo t’ha reso così insignificante che non ti resta altro che quel poco ch’è il tuo tanto, quel poco di vero per cui ancora vivi, da quando il giorno orribile t’ha tirato su un muro come a dirti che oltre c’era il non più e quell’imperfetto era già invecchiato in passato remoto, adesso che tutti quei mai più sono diventati per sempre nella loro agghiacciante atemporalità destinata a sopravviverti, adesso che quel vento caldo sulla pelle, nell’alba del giorno uno, con quella sensazione che sotto le dita il giro si stesse invertendo, sai che non lo scordi più, adesso che il cielo riflesso dal mare l’hai visto nei suoi occhi. sorgenti http://www.lorenzopaciaroni.com http://sanzevereizproud.blogspot.com http://www.ffwdprod.com http://facebook.com/lorenzo.asthorone.paciaroni http://asthorone.tumblr.com http://derupe.deviantart.com
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sitemap.xml engine start p. 5 <meta name=“description”> p. 7 link in ingresso p. 8 d-struzioni per l’abuso p. 9 postumi p. 11 io non so p. 13 le scoprirai all’infinito, ma anche no p. 14 lottizzazione pieve-colmartino p. 17 rientro in circolo p. 20 una fine indegna p. 22 a promise is a promise p. 23 /maʁ.sɛj/ p. 24 FFWD p. 26 una dichiarazione di resa p. 29 about:blank p. 30 venga giano p. 31 miss u so fuckin’ much p. 32 quanto non mi sei mancata p. 33 25 apreele, Bruno p. 34 osservazione superficiale inutile p. 35 vota e fai votare FFWD p. 37 né solidarietà né rivolta p. 38 u gallu granne p. 40 migrazione di qua p. 44 fiona, una storia di abbandono p. 45 footer p. 49 shotz p. 51 fade out p. 52 sorgenti p. 53
Finito di stampare, in proprio, nel mese di agosto 2011 per conto della Derupe produzioni â&#x20AC;&#x201C; Sanzevereizproud (Proud 2 prod) www.lorenzopaciaroni.com - info@lorenzopaciaroni.com Stampato su carta ecologica, 100% fibra riciclata
Verano PosteĂąo
Lorenzo Paciaroni
Comunicatore freelance, copywriter freestyle, webdesigner freeware, una carriera postlaurea oldschool di lavori diversamente dignitosi, oggi scrivo per vivere e vivo per quel poco di vero che câ&#x20AC;&#x2122;è rimasto.