Agatha Raisin e l'amore infernale

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Sarebbe dovuta essere la conclusione di un sogno, il matrimonio perfetto. Eccola lì la nostra Agatha Raisin, sposata con l’uomo tanto agognato, tanto fantasticato. Il suo vicino, James Lacey. Eppure Agatha era molto infelice. I problemi erano cominciati con un incidente due settimane dopo il loro ritorno dalla luna di miele. Il viaggio a Vienna e poi a Praga era stato all’insegna delle visite turistiche e del sesso, quindi Agatha e James non avevano dovuto affrontare il tran-tran della vita quotidiana. Agatha aveva tenuto per sé il cottage accanto a quello di James nel villaggio di Carsely, nei Cotswolds. L’idea era quella che il matrimonio fosse assolutamente moderno, e che ognuno lasciasse spazio all’altro. Seduta nel suo cottage con una tazza di caffè nero stretta tra le mani, Agatha rievocò il giorno in cui tutto aveva cominciato ad andare storto. Smaniosa di essere la moglie perfetta, aveva raccolto un fagottone con tutta la biancheria e i vestiti sporchi, ignorando il fatto che James teneva la sua roba da lavare in un cesto separato e preferiva farsi il bucato da solo. Era una frizzante giornata di primavera con grandi nubi lanuginose che il vento a raffiche trascinava su e giù per il cielo, come tanti galeoni maestosi. Agatha aveva continuato a cantare mentre caricava tutti i pan1


ni sporchi nella sua capace lavatrice. Nella testa un campanellino d’allarme le stava dicendo che le vere casalinghe separavano il bucato bianco da quello colorato. Mise nella macchina il detersivo e l’ammorbidente, e poi andò a sedersi in giardino a guardare i due gatti che giocavano sul prato. Quando udì la lavatrice fermarsi dopo un ultimo ruggito, Agatha si alzò, aprì lo sportello della macchina e tirò fuori tutti i capi mettendoli in un grande cesto, in attesa di stenderli ad asciugare in giardino. Si ritrovò a fissare una cesta di panni rosa. Non rosa pallido, rosa shocking. Contrariata, frugò tra i capi, alla caccia del colpevole, e alla fine lo trovò, un maglione rosa comprato in un mercatino rionale a Praga. Tutto il bucato di James – le camicie, la biancheria – adesso era di un rosa brillante. Ma nell’aura rosata delle fresche nozze Agatha non si era forse aspettata il perdono? Non si era immaginata che James ne avrebbe riso con lei? James si era imbestialito. Aveva schiumato di rabbia. Come si era permessa Agatha di mettere le mani nel suo bucato? Donna stolta e incapace. L’Agatha prematrimoniale gli avrebbe detto esattamente dove sarebbe dovuto andare, ma la nuova demoralizzata Agatha aveva umilmente implorato il perdono. Lei perdonava lui perché sapeva che era stato scapolo a lungo e abituato a fare da sé. L’incidente successivo si era verificato dopo che Agatha aveva comprato da Marks & Spencer due piatti pronti da scaldare al microonde, due vassoietti di lasagne. James aveva punzecchiato con la forchetta quel che aveva nel piatto, commentando acidamente che, dato che lui era perfettamente in grado di cucinare delle lasagne come si deve, magari in futuro Agatha avrebbe fatto bene a lasciare a lui quell’incombenza. E poi c’era la questione dell’abbigliamento di Agatha. Lei si sentiva sciatta senza i tacchi alti. James aveva dichiarato che, giacché vivevano in campagna, Agatha avrebbe potuto 2


prendere in considerazione l’ipotesi di usare scarpe basse e di piantarla di andare in giro conciata come una zoccola. Le sue gonne erano troppo attillate, alcune delle sue scollature troppo profonde. E il trucco? Aveva proprio così tanto bisogno di impiastricciarsi la faccia? Sì, di notte facevano l’amore, ma solo di notte. Niente abbracci spontanei o baci improvvisi durante il giorno. Perplessa, Agatha cominciò a vagare avvolta in una nebbia di disapprovazione maschile. Tuttavia non confessò a nessuno quanto fosse infelice il suo matrimonio, neppure alla migliore amica, la signora Bloxby, la moglie del pastore. La signora Bloxby non l’aveva forse messa in guardia dallo sposare James? Agatha non tollerava di dover ammettere la sconfitta. Sospirò e guardò fuori dalla finestra della cucina. Eccola lì nel suo cottage, nascosta in casa sua come una criminale latitante. Il telefono squillò, facendola sussultare. Sollevò cautamente il ricevitore, magari era James, pronto a impartire un’altra predica. Invece era Roy Silver. Roy in passato aveva lavorato per Agatha, ai tempi in cui lei possedeva una società di pubbliche relazioni, e adesso lavorava per conto di una grossa società di pr della City. “Come sta la signora Lacey, sposa felice?” chiese Roy. “Continuo a chiamarmi Agatha Raisin,” lo rimbeccò Agatha. Usare il suo nome le era parso l’ultimo brandello d’indipendenza rimastole. Non si era ben resa conto che l’utilizzo del cognome del defunto marito, da lei cordialmente disprezzato, non era proprio un gesto libertario. “Oh, che scelta moderna,” sentenziò Roy. “Cosa c’è, cosa vuoi?” “Niente. È che dopo le nozze non ti ho più sentita. Com’era Vienna?” “Non mi è parsa un granché eccitante. Non c’era tutta 3


questa vita. Praga mi è piaciuta. Sei sicuro che la tua sia solo una telefonata amichevole? Non hai un secondo fine?” “Secondo me c’è una cosa che potrebbe interessarti.” “Lo sospettavo. Di che si tratta?” “Aprono un nuovo calzaturificio a Mircester. Il cliente lo seguiamo noi. Non si tratta di un cliente grosso, ma vogliono un addetto alle pubbliche relazioni che lanci la nuova linea di scarpe che uscirà dalla loro nuova fabbrica. Si chiama Impronta Cotswold.” “E sarebbe a dire?” “Quegli scarponacci grossolani che piacciono ai giovani, per non parlare di quanto piacciono ai veri camminatori che imperversano nelle campagne. Sarebbe un contratto a breve scadenza, e il cliente è proprio dietro casa.” Agatha stava per rispondere che lei era una donna felicemente sposata e non aveva tempo per nient’altro. Non faceva che ripetere a tutti, nel villaggio, di essere felice, felicissima. Ma all’improvviso provò un disperato bisogno di identità. Sapeva convincere la gente, nelle pubbliche relazioni ci sapeva fare. Come casalinga poteva essere un fallimento, ma delle sue doti di donna d’affari era certissima. “Sembra interessante,” disse con cautela. “Come si chiama l’azienda?” “La Scarpetta.” “Oh, che nome, sembra che vendano sughi pronti o pane surgelato.” “Allora ti posso fissare un colloquio?” “Perché no? Prima si fa e meglio è.” “Di solito mi tocca insistere per secoli prima di convincerti a tornare al lavoro,” disse Roy. “Sei sicura che il tuo matrimonio vada bene?” “Ma certo. Però James durante il giorno scrive e non mi vuole tra i piedi.” 4


“Mhm. Ti ho cercata a casa sua e lui mi ha detto di provare al tuo vecchio numero.” “Mi sono tenuta il cottage. Queste casette possono essere claustrofobiche. In questo modo abbiamo tutto doppio. Due cucine, due bagni e così via.” “D’accordo. Fisserò un appuntamento e ti farò sapere.” Dopo aver riappeso, Agatha si accese una sigaretta, abitudine che James detestava, e rimase lì con lo sguardo perso nel vuoto. Come avrebbe reagito James nel sapere che stava tornando a far parte della forza-lavoro? Nonostante una certa apprensione, Agatha sentì rassodarsi i muscoli emotivi. Caro James, o mangi questa minestra o salti dalla finestra. Agatha Raisin torna in sella! Agatha in effetti non aveva pensato che James avrebbe trovato davvero da ridire. Nessun marito, neppure James, poteva essere così all’antica. Quando Roy comunicò di essere riuscito a fissarle un appuntamento per l’indomani pomeriggio alle tre, Agatha chiamò i gatti e, seguita da Hodge e Boswell, marciò sul cottage di James, che era di fianco al suo. Non sarà mai il nostro cottage, pensò tristemente mentre apriva la porta e spingeva dentro i gatti. James era seduto al computer e lo stava fissando accigliato. Era riuscito a farsi pubblicare un volume di storia militare e si era cullato nella certezza che l’opera successiva gli sarebbe riuscita facile, e invece passava le sue giornate a fissare corrucciato uno schermo su cui stava scritto solo capitolo uno, e nient’altro. Aveva la mano sulla fronte, come se avesse mal di testa. “Ho trovato lavoro,” disse Agatha. James le sorrise. Strizzò gli occhi azzurri sul viso abbronzato in quel modo che riusciva ancora a far fare le capriole al cuore di Agatha. “Di che si tratta?” chiese, spegnendo il 5


computer. “Ti preparo del caffè e mi racconti.” Si avviò verso la cucina. L’infelicità matrimoniale di Agatha svaporò del tutto. L’animo le si illuminò della vecchia speranza che loro due stessero semplicemente attraversando alcune difficoltà di adattamento. James tornò in sala con due tazze di caffè. “È decaffeinato,” disse. “Ne bevi troppo di quello vero e non fa bene alla salute. I tuoi vestiti puzzano di fumo. Credevo che avessi smesso.” “Oh, una sigarettina e basta, l’ho appena fumata,” disse Agatha sulla difensiva, sebbene ne avesse fumate cinque. Ma quando si sarebbe decisa la gente a cogliere la semplice verità che se volevi che un fumatore smettesse di fumare dovevi evitare di dargli il tormento e di farlo sentire in colpa? Al pubblico viene detto, quando si ha a che fare con gli alcolizzati, di non fare cenno al fatto che bevono e di non rovesciare le bottiglie nel lavandino, perché questo non farebbe che impedire al beone di riflettere sul suo problema. Però i fumatori venivano braccati e rimproverati, e questo provocava la tipica ribellione del drogato incallito. “A ogni modo,” disse James, passandole una tazza di caffè e sedendosi di fronte a lei, “che lavoro è? Per chi raccogli fondi, questa volta?” “Non è una cosa che riguarda il villaggio,” disse Agatha. “Sto per firmare un contratto per promuovere delle nuove scarpe, o sarebbe meglio chiamarli scarponi, per conto di un’azienda di Mircester.” “Un lavoro vero, intendi dire?” “Ma sì, certo, un lavoro vero. È ovvio.” “Non abbiamo bisogno di soldi,” disse James, piatto. “I soldi fanno sempre comodo,” disse allegramente Agatha. E poi il suo sorriso svanì perché vide l’espressione arrabbiata di James. “Oh, e adesso cosa c’è?” chiese stancamente. 6


“Non hai bisogno di lavorare. Dovresti lasciare il lavoro a chi ne ha bisogno.” “Senti, io ne ho bisogno. C’ho bisogno di un’identità.” “Risparmiami le psicochiacchiere. Esprimiti in inglese corretto, grazie.” Agatha esplose. “In inglese corretto,” ululò, “io ho bisogno di qualcosa che sostenga il mio ego, che tu hai fatto del tuo meglio per distruggere. Non fai che pignoleggiare tutto il santo giorno. E bla, e bla, e bla. ‘Non fare questo e non fare quello.’ Bene, sai che c’è? Vai a farti friggere, amico. Io torno a lavorare.” James si alzò di scatto e si diresse alla porta. “Dove stai andando?” chiese Agatha. Ma l’unica risposta fu una porta sbattuta. L’indomani Agatha optò per un tailleur pantalone grigio antracite, compiaciuta nel constatare che le stava largo in vita. L’infelicità coniugale qualche beneficio lo portava. James era stato fuori casa tutto il giorno ed era rientrato solo quando Agatha era ormai scivolata in un sonno inquieto. La colazione era stata un momento sciagurato e silenzioso. Agatha sentì venire meno le forze. Aveva preparato da mangiare ma era andato tutto storto. Il pane tostato si era carbonizzato e le uova strapazzate erano gommose e piene di grumi. E lei sentiva che quell’atmosfera la stava fiaccando. Avrebbe tanto voluto dire: “Lascia perdere. Hai ragione. Non accetterò l’incarico”. Ma recuperò da qualche parte un briciolo di coraggio che l’aiutò a ignorare il muso di James. Salì in macchina e si avviò lungo la Fosse in direzione di Mircester, in quella che era un’altra bella giornata di fine primavera. Seguendo le indicazioni di Roy, prima di entrare in città deviò verso un complesso industriale dei sobborghi. Si trattava di un nucleo nuovo, il terreno davanti alle fabbriche era nudo, spoglio. 7


Ad Agatha parve un buon segno che non l’avessero fatta aspettare. L’esperienza le diceva che solo gli sfigati in affari avevano bisogno di massaggiarsi l’ego tenendo la gente ad aspettare. A farla accomodare in una saletta riunioni fu un’efficiente segretaria di mezza età: un altro buon segno, agli occhi di Agatha. Le presentarono l’amministratore delegato, il responsabile della pubblicità, il direttore vendite e vari altri dirigenti. In mezzo al tavolo della sala riunioni troneggiava uno scarpone in cuoio. L’amministratore delegato, il signor Piercy, andò dritto al punto. “Allora, signora Raisin, quello scarpone sul tavolo è il nostro modello Impronta Cotswold. Desideriamo promuoverlo. Il signor Hardy, responsabile della pubblicità, ci suggerisce di scegliere una delle associazioni di camminatori e di equipaggiarla con le nostre scarpe.” “Non funzionerà,” disse subito Agatha. “Da queste parti i camminatori sono visti come militanti rozzi e irsuti. Quanto costa un paio di scarpe?” “Novantanove sterline e novantanove.” “Un po’ caruccio per il mercato giovanile e sono i giovani che vanno a comprarsi scarpe del genere.” “Abbiamo calcolato i costi di produzione e non possiamo scendere con il prezzo.” “Che ne dite della pubblicità televisiva?” “Siamo una piccola azienda,” disse il signor Piercy. “Vogliamo puntare su un lancio semplice e poi la scarpa venderà per i suoi pregi intrinseci.” “In altre parole,” disse brutalmente Agatha, “non vi potete permettere un gran battage pubblicitario.” “Possiamo permetterci di investire una certa cifra ma non una copertura a livello nazionale.” Agatha si spremette le meningi. E poi disse: “A Gloucester c’è un nuova band che si chiama Fuori Strada. Ne avete sentito parlare?”. 8


Tutto attorno ci fu uno scuotere di teste. “Su ‘Midlands Today’ ho visto un documentario su di loro,” disse Agatha. “Sono un gruppo pop emergente – tre ragazzi, tre ragazze – tutti pulitini, una bella immagine. Di recente hanno pubblicato un disco che è arrivato alla posizione numero 62 in classifica, ma gira voce che diventeranno vere star, in futuro. Se potessimo contattarli alla svelta, fornirli di scarpe, e convincerli a scrivere una canzone sulle passeggiate in campagna – sono cantautori, loro – e a organizzare un concerto, riuscireste ad accaparrarveli proprio alle soglie della fama. E a quel punto le vostre scarpe verrebbero associate a un’idea di successo.” Prese la parola il responsabile della pubblicità. “E lei, signora Raisin, come fa a sapere di questo gruppo?” “È un mio passatempo,” disse Agatha. “Mi viene istintivo andare a scovare chi diventerà famoso. Ci azzecco sempre.” Discussero a fondo dell’idea di Agatha, che li incalzava come un bulldozer quando quelli sembravano inclini a tirarsi indietro. Nel profondo del cuore rimpiangeva di non essere stata assunta da una grossa azienda, invece che da quei calzatori di contadinotti, come lei li aveva etichettati in segreto. Rimpiangeva di non avere qualcosa in grado di fare colpo su James. Ma nulla di quello che faccio io potrebbe mai far colpo su James, pensò mestamente Agatha. Alla fine decisero di accettare la sua proposta. “Una sola cosa ancora, signora Raisin,” disse il signor Piercy. “Ci avevano parlato di lei come della signora Lacey.” “Sono io.” “Non usa questo cognome?” “No, ho usato il cognome Raisin per anni, sul lavoro. È più semplice continuare a farlo.” “Benone, signora Raisin. Desidera avere un suo ufficio qui?” 9


“No, lavorerò da casa. Cercherò di combinare qualcosa con il gruppo pop e di fissare un incontro con voi per domani.” Agatha tornò a Carsely sentendosi al settimo cielo. Ma non appena l’auto cominciò a scendere la strada a tornanti che portava al villaggio passando sotto una volta di alberi, il suo umore cominciò a incupirsi. Entrò nel suo cottage dove continuava a tenere i documenti di lavoro e il computer. Aveva memorizzato su quel computer il nome del gruppo pop e quello del loro manager, una sorta di riflesso condizionato da esperta di pubbliche relazioni. Poi andò a una pila di elenchi telefonici. Scelse quello di Gloucester e cominciò a cercare il nome del manager, Harry Best. Gli H. Best erano parecchi. Era pronta a chiamarli tutti. Uno degli H. Best in elenco si rivelò essere il padre dell’uomo che stava cercando. Questi le diede il numero di Harry Best e Agatha lo chiamò. Gli espose concisamente il piano per fare pubblicità allo scarpone Impronta Cotswold. “Nonzò,” disse Harry Best, con quell’accento dell’Estuario che Agatha trovava così deprimente. “Siamo tanta roba. Vi costerà un bel po’.” Agatha fece un respiro profondo. “Ne dobbiamo discutere di persona,” disse con fermezza. “Verrò a Gloucester. Mi dia il suo indirizzo.” Best le dettò un indirizzo di Churchdown, che in realtà è fuori Gloucester. Nel ripartire, passando di nuovo davanti al cottage di James, davanti alla macchia pallida e sfuocata che era il viso di lui dietro la finestra, Agatha rifletté che non sarebbe rientrata in tempo per cena. Una brava moglie avrebbe telefonato per avvertire del ritardo. “Però io non sono più una brava moglie,” disse Agatha ad alta voce, stringendo forte il volante.

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Il traffico era intenso e dovette lottare non solo contro i lavori in corso sulla A40, ma anche con parecchi conducenti che in stato di letargia guidavano trattori a dieci miglia all’ora. Quando finalmente trovò l’indirizzo di Harry, Agatha si sentiva ormai fiacca e abbacchiata. Avrebbe voluto mandare a quel paese tutto quanto e tornare da James, cercare di rabbonirlo, cercare di far funzionare in qualche modo quel matrimonio d’inferno. Ma ad attenderla davanti a un villino scalcinato c’era un tizio esile e quasi calvo, con i pochi capelli superstiti raccolti in una coda di cavallo. Agatha lo studiò, nell’andargli incontro. Aveva occhialetti a mezzaluna appollaiati su un naso a becco la cui curva puntava su una boccuccia increspata. Agatha lo giudicò sulla quarantina, per quanto Harry esibisse il tipico completo da eterno giovanotto, con stivali da cowboy, jeans e giubbotto in pelle nera. Se Harry Best fece ben poco colpo su Agatha, Agatha ne fece ben poco su di lui. Best vide una donna tarchiata con i capelli castani lucidi raccolti in uno chignon. La faccia tonda di Agatha esibiva una bella bocca e un naso regolare, ma gli occhi erano guardinghi, castani e simili a quelli di un orsetto. “Sono Agatha Raisin.” Agatha scosse con vigore una delle mani molli e sudaticce dell’uomo. “Possiamo entrare a parlare di affari?” “Ma certo. Mi segua.” La stanza in cui lui la condusse mostrava segni di pulizie domestiche affrettate e lacunose. Un cestino della carta straccia rigurgitava lattine di Coca-Cola vuote. Sotto il cuscino di una poltrona Agatha adocchiò una pila di giornali e riviste che qualcuno aveva ficcato lì perché non si vedessero. Agatha andò al sodo. Spiegò l’idea della promozione, parlò della canzone che si sarebbe dovuta scrivere per accompagnare i nuovi scarponi, e poi i due mercanteggiarono sul prezzo. Best cercò di tirare al rialzo dicendo che, se il gruppo avesse 11


pubblicizzato qualcosa, la gente ne avrebbe dedotto che di successo dovesse averne poco. Agatha gli fece notare che molte pop star di successo erano comparse in campagne pubblicitarie. “Che mi dice di Michael Jackson?” chiese in tono acido. Harry Best cominciò a vacillare palesemente sotto gli assalti furiosi di Agatha. Lei gli ricordava sua nonna, una donna energica, il terrore della prima infanzia di Best. Alla fine l’accordo fu siglato. L’unica cosa buona che il manager sentì di aver cavato da Agatha era che lei aveva acconsentito ad affittare una sala prove, il che veniva giusto a puntino visto che di lì a poco sarebbero stati sfrattati dal garage che un amico della band aveva loro concesso fino a quel momento. Quando Agatha finalmente se ne andò, si era fatto buio, era tardi e lei era affamata. Si fermò in un pub lungo la strada per una cena frugale e un bicchier d’acqua. E adesso bisognava affrontare James. Gli abitanti di Carsely, che stavano portando a passeggio i cani lungo Lilac Lane, dove Agatha e James avevano i rispettivi cottage, in seguito avrebbero riferito di aver sentito le urla di Agatha, e poi un rumore di piatti fracassati. James aveva deciso di farsi valere. Aveva detto ad Agatha fuori dai denti che lei avrebbe dovuto mollare il suo stupido lavoro e cercare invece di comportarsi come una donna maritata. Se James a quel punto fosse stato in preda alla rabbia, Agatha forse, e ribadiamo forse, avrebbe potuto cedere. Ma a farle saltare i nervi fu il calmo disprezzo nella voce di suo marito. James pareva infastidito, come se lei gli stesse provocando un altro mal di testa. In precedenza non si era mai immaginata come una donna capace di fracassare piatti, ma la lite ebbe luogo in cucina e così Agatha con una manata abbatté un intero scaffale di piatti e poi danzò con rabbia sui frammenti. “Mi disgusti,” disse freddamente James. E dopo un attimo 12


se n’era andato, lasciando Agatha rossa in faccia, ansimante, e del tutto demoralizzata. Raccolse stancamente ciò che le apparteneva in quella casa e lo riportò nel suo cottage. Tornò da James e ripulì il caos di porcellane in frantumi, lo mise in uno scatolone e lo depositò fuori per la raccolta dell’immondizia. Dal servizio che aveva in casa prelevò un numero di piatti pari a quello che aveva fatto fuori, e li mise sullo scaffale della cucina di James. Poi chiamò i gatti e quelli la seguirono, con il pelo irto che stava appena cominciando a riassestarsi dopo lo spavento provocato dalla scenata chiassosa della padrona. Una volta tornata a casa, Agatha si sforzò di recuperare la calma. Avrebbe chiesto scusa a James per il massacro di stoviglie. L’indomani Agatha ebbe parecchio da fare: riferire i risultati all’azienda produttrice di scarpe, prenotare una sala prove e incontrare la band. Agatha si era occupata in passato di gruppi pop e i Fuori Strada le parvero piacevoli e rinfrancanti. La band era composta da tre giovanotti e tre ragazze. Erano tutti sotto i vent’anni. Avevano un’aria pulita e felice. Agatha sentì di averla azzeccata. Si tuffò nel lavoro, ma in fondo al cuore continuava ad avere una nube nera d’infelicità. Se solo avesse potuto confidarsi con qualcuno… ma nessuno, nessuno, doveva sapere che il matrimonio di Agatha era un fallimento. Ebbe più volte la tentazione di telefonare a James, di dissipare le nubi, di chiedere scusa. Ma ogni volta si trattenne. Come diavolo poteva essere così retrogrado? Epperò, epperò, pensò stancamente Agatha, io ho fatto una scenataccia, gli ho fracassato un servizio di porcellana, mi sono comportata come una pescivendola. Perché la gente continuava a tacciare le pescivendole di violenze e turpiloquio? si chiese. E quali pescivendole, poi? Probabilmente era un retaggio dei vecchi tempi del mercato del pesce di Billingsgate. 13


Harry Best la osservò attentamente. Che donna, pensò. Guarda come si è data da fare e come ha aiutato a trasportare l’attrezzatura nella sala prove. Guarda come ha stabilito un rapporto con i ragazzi. E non era una dura come gli era parsa all’inizio. In effetti, pensò, a volte sembra quasi sull’orlo delle lacrime. Buffa creatura. Quando la lunga giornata finì, Agatha ne fu dispiaciuta. Due dei giovanotti erano già al lavoro su una specie di canzone pop sul trekking. “Non abbiate paura di sembrare all’antica,” li aveva pungolati Agatha. “Sforzatevi di tirare fuori qualcosa di allegro, qualcosa che la gente avrà voglia di fischiettare mentre passeggia lungo una strada di campagna.” Durante il viaggio di ritorno a Carsely si preparò ad affrontare lo scontro con James. Ma quando entrò nel cottage – quella casa lei non l’aveva mai sentita come loro, in fondo apparteneva solo a James – lo trovò buio e silenzioso. Con il cuore in tumulto corse in camera da letto e guardò nell’armadio. I vestiti di James erano ancora tutti lì. Si sedette sul letto, interrogandosi sul da farsi. Dove poteva essere andato James? Al pub, probabilmente. Forse raggiungerlo lì poteva essere una buona idea. Non potrà farmi una scenataccia di fronte ai compaesani, pensò Agatha, dimenticandosi che quella che faceva le scenate di solito era lei. Passò dal suo cottage a cambiarsi, scelse un completo pantalone chiaro in seta e si drappeggiò sulle spalle una stola in lana d’agnello color bronzo carico, poi s’incamminò lentamente verso il pub. Si sarebbe comportata con leggerezza, con allegria, come se non fosse successo nulla. Il fatto di prendere in qualche modo l’iniziativa la rasserenò immensamente mentre percorreva il vicolo sotto la ricca fioritura di lillà che gli dava il nome. Il vero punto debole di 14


Agatha era che nemmeno per un istante avrebbe ammesso di aver paura di James. Avrebbe magari ammesso di avere paura di perderlo, ma dopo essersi corazzata l’animo nel corso degli anni con strati e strati di durezza, non poteva neppure prendere in considerazione l’ipotesi che lui l’intimorisse davvero. E non era neppure in grado di rendersi conto che l’amore l’aveva spinta quasi ad accettare l’inaccettabile: le umiliazioni, il disprezzo, i silenzi, la mancanza di affetto e di intimità amichevole. Agatha fece il suo ingresso nel Leone Rosso con un sorriso stampato in faccia. Il sorriso svanì. James era seduto a un tavolo d’angolo, accanto al caminetto e rideva e sorrideva a una donna bionda e snella che Agatha riconobbe come Melissa Sheppard. E mentre Agatha era lì a guardare, Melissa si sporse in avanti e diede una strizzatina alla mano di James. Come avrebbe riferito in seguito la signorina Simms, segretaria della Società delle Dame di Carsely, Agatha Raisin “si incazzò come una biscia”. L’acido della gelosia le salì alla gola come bile. Nel giro di pochi secondi l’infelicità che era stata costretta a sopportare le balenò rapida in mente. Attraversò il pub con passo marziale e affrontò la stupefatta Melissa. “Giù le mani da mio marito, puttanaccia!” Melissa si alzò, arraffò la borsetta e sgusciò via passando davanti ad Agatha e si diresse alla porta. Agatha si sporse sul tavolo. “Bastarda che non sei altro,” urlò. “Ucciderò te e quel donnaiolo schifoso!” James si alzò, la faccia incupita dall’ira. Afferrò Agatha per i polsi. “Piantala qui con queste scene,” sibilò. Agatha si liberò dalla stretta, prese il boccale di birra mezzo vuoto di James, glielo rovesciò sulla testa e poi si voltò e fuggì. Corse per tutta la strada fino al cottage, inciampando 15


sull’acciottolato. Una volta in salvo dentro casa, si sedette in cucina e pianse e pianse. Poi salì al piano di sopra e si lavò con cura la faccia con acqua fredda, e si rifece il trucco. James sarebbe passato per continuare la rissa e lei voleva farsi trovare corazzata contro di lui. Si sentì lo squillo del campanello. Agatha si diede un colpetto all’acconciatura, raddrizzò le spalle e scese le scale con passo marziale. “Eccoti qui, dunque…” esordì mentre apriva la porta. Ma l’uomo che si trovò di fronte non era James, bensì il vecchio amico sir Charles Fraith. “Ero passato qui di fianco ma James mi ha detto che ti avrei trovata a casa tua,” disse Charles. “Posso entrare?” “Perché no?” disse Agatha, senza entusiasmo, e rientrò nel cottage, lasciando che lui la seguisse. “Che succede?” volle sapere Charles, entrando con lei in cucina. “Non mi dire che il matrimonio è già andato a catafascio.” “Non essere sciocco,” disse Agatha. “Siamo felici come due pasque. Ti va di bere qualcosa?” “Whisky, se ne hai.” Agatha era lacerata, da una parte avrebbe voluto dirgli di andarsene perché magari sarebbe arrivato James, dall’altra le faceva piacere che Charles stesse lì perché magari James non sarebbe arrivato. Gli fece strada in salotto, accese il caminetto che aveva già preparato, e versò per entrambi una dose generosa di whisky al malto. Charles si sedette sul divano e scrutò Agatha, che si era accasciata su una poltrona di fronte a lui. “Hai pianto?” “No. Cioè sì, volevo dire. Mi sono tagliata.” “Dove?” 16


“Cosa vorresti dire, con ‘dove’?” “Aggie, senti, piantala di raccontare scempiaggini. Questa tua interpretazione del ruolo di sposa felice ti sta uccidendo, mi pare.” Lei lo guardò in silenzio. Era seduto nel salotto di Agatha come era accaduto tanto spesso in passato, pulitino, impeccabile, ben vestito e compassato come un gatto. Agatha scrollò stancamente le spalle. “Okay, tanto vale che tu lo sappia. Il matrimonio va che è un disastro.” “Eviterò di dire che te l’avevo detto.” “Non ci provare neanche.” “Immagino che il problema sia che James è il solito scapolone, e che desidera mantenere il suo solito stile di vita e tu gli sei d’impiccio con la tua pessima cucina e le tue schifose sigarette. Ha già criticato il tuo abbigliamento?” “Non smette mai. Come fai a saperlo?” “È ben noto che gli uomini banali e noiosi, una volta che hanno sposato l’oggetto del desiderio, cominciano a criticare proprio quello stile di abbigliamento che li aveva attratti inizialmente. Scommetto che ti ha ordinato di non indossare i tacchi alti, e che ha detto che ti trucchi in modo troppo pesante.” “Ma che razza di stupida sono? Avrei dovuto saperlo. Ma mi pareva che avessimo molte cose in comune.” Charles bevve un sorso di whisky e la guardò con comprensione. “La gente non si rende mai conto che l’amore è proprio cieco. L’amato appare come un’anima gemella. Quell’orribile solitudine spirituale è sparita. Adesso sono in due contro il resto del mondo. Così si sposano, e che accade? Dopo un po’ di tempo, seduti uno di fronte all’altro al tavolo della colazione, entrambi scoprono di avere davanti agli occhi un estraneo.” 17


“Però esistono matrimoni felici. Lo sai anche tu che esistono.” “Alcuni sono fortunati; la maggior parte si adatta a un compromesso.” “Insomma, mi stai dicendo che dovrei vestirmi come piace a James e vivere la mia vita secondo i desideri di James?” “Se vuoi continuare a essere una donna sposata. Oppure rivolgiti a uno di quei terapeuti di coppia.” “Non capisco come uno scapolo come te possa sapere qualcosa dei matrimoni.” “Osservazione intelligente.” Agatha si afferrò una ciocca di capelli. “Non so che fare. Ho fatto una scenataccia dentro il pub. James stava facendo il galletto con una certa Melissa e si dà il caso che io sappia che quei due hanno avuto una storia.” “James non è cattivo, sai. Probabilmente lo prendi contropelo. Sei un po’ prepotente.” “Non hai ancora sentito tutta la storia. Non vuole che io lavori!” “E tu lo stai facendo? Lavori?” “Ho un contratto a breve scadenza con un calzaturificio di Mircester. James si è imbestialito. Ha detto che dovrei lasciare il lavoro a chi ne ha bisogno.” “Forse voi due dovreste tornare a vivere ognuno per conto proprio e vedervi di tanto in tanto.” “Lo farò funzionare,” esclamò improvvisamente Agatha. “Io amo James. Bisogna costringerlo a ragionare.” “Lui si confida con qualcuno, parla dei suoi problemi?” Agatha rise. “James! Manco per idea.” James in quel momento era nel salotto della canonica, seduto di fronte alla moglie del pastore, la signora Bloxby. “Non è tardi per una visita?” stava chiedendo James. 18


“No, affatto,” disse la signora Bloxby, divertita dal fatto che James non sembrava essersi reso conto di avere davanti una donna in camicia da notte e vestaglia. “Non so proprio cosa fare con Agatha,” disse James. “Sono un uomo in gravi ambasce.” “Che succede? Le andrebbe una tazza di tè o qualcosa di più forte?” “No, sento che se non parlo con qualcuno finirò per esplodere. Lei è amica di Agatha.” “E spero di essere un’ottima amica.” “Le ha detto qualcosa riguardo al nostro matrimonio?” “Se fosse venuta a lamentarsi con me, non lo spiffererei a lei, James. Ma in realtà non lo ha fatto. Qual è stato il motivo di quella scenata al pub? Ne parla tutto il villaggio.” “Sono andato al pub e Melissa era lì, e così ci siamo bevuti una cosa insieme. Agatha è entrata e ha fatto una piazzata di gelosia.” “Mi pare comprensibile. Nel villaggio è risaputo che lei ha avuto un… ehm… trascorso con Melissa, prima di sposare Agatha.” “Insomma, poi c’è tutto il resto. Come casalinga è un disastro.” “Agatha fa venire Doris Simpson a fare le pulizie nel suo cottage, insomma il suo personale. Perché non lasciare che sia Doris a tenere in ordine il vostro?” “Ma dovrebbe provvedere Agatha.” “Lei è molto all’antica, James. Non può pretendere che una donna che ha avuto successo sul lavoro e che ha sempre pagato qualcuno perché le facesse le pulizie adesso venga a pulire casa sua.” James proseguì imperterrito, come se la signora Bloxby non avesse parlato. “E poi Agatha lo sa che io detesto il fumo di sigaretta. Puzza di sigarette.” 19


“La signora Raisin fumava quando vi siete conosciuti, e anche quando vi siete sposati.” “Ma mi aveva promesso che avrebbe rinunciato al vizio. Lo aveva detto. E aveva detto che non avrebbe mai fumato dentro il mio cottage. E invece vedo che soffia quando pensa che io non stia guardando.” “Lei ha detto ‘il mio cottage’. È un matrimonio ben strano, il vostro. Perché ha incoraggiato la signora Raisin a tenersi una casa propria?” “Perché la mia è troppo piccola.” “Tra tutti e due certamente disponete di denaro a sufficienza per vendere le due case e traslocare in una più grande.” “Forse. Adesso ha accettato un lavoro. Un lavoro di pubbliche relazioni per una qualche azienda produttrice di scarpe di Mircester.” “E cosa c’è che non va?” “Agatha non ha bisogno di lavorare.” “Io penso che la signora Raisin ogni tanto abbia bisogno di lavorare. Forse questo matrimonio la fa sentire una moglie fallita. James, si lamenta molto, lei?” “Solo quando fa qualcosa che non va, e dopo Agatha mi guarda sempre storto e mi dice qualche villania.” “E capita spesso che faccia qualcosa che non va?” “In continuazione… cucina male, non tiene la casa, si veste come una meretrice…” La signora Bloxby alzò una mano. “Aspetti un minuto. La signora Raisin si veste come una meretrice? Davvero non posso permettere che si dica una cosa del genere. È sempre vestita con eleganza. E mi pare che lei, James, si lagni molto e non sia disposto a fare compromessi su nulla. So che lei è stato uno scapolo incallito, ma adesso si è sposato, e qualche concessione deve farla. Perché è così arrabbiato e reattivo?” Ci fu un lungo silenzio e poi James fece un sospiro. “C’è 20


dell’altro. Da un po’ soffrivo di emicranie ricorrenti, così sono andato a fare una tac. È venuto fuori che ho un tumore al cervello. Tra poco dovrò sottopormi alle terapie.” “Oh, poveretto. È operabile?” “Prima proveranno con la chemioterapia.” “La signora Raisin sarà molto turbata.” “Non lo sa, e lei non glielo andrà a dire, mi raccomando.” “Ma glielo deve dire, James. L’essenza del matrimonio è proprio questa: condividere i momenti difficili come quelli buoni.” “Sento che, dicendoglielo, in qualche modo non avrei più speranze. Renderebbe reale, molto reale, il tumore al cervello. Devo farcela da solo.” “Però vedo che tutta questa storia la sta stressando parecchio, James. In effetti, non dicendo nulla alla signora Raisin lei sta rovinando il vostro matrimonio.” “Non glielo deve dire! Mi prometta che non le dirà nulla!” “D’accordo. Ma la prego di rifletterci su ancora. La signora Raisin non merita il trattamento che lei le sta infliggendo. Glielo dica, James.” Lui scosse la testa. “È la mia croce e la devo portare da solo. Agatha è molto indipendente. Insomma, continua a usare il suo vecchio cognome anche da sposata, come se il mio non fosse all’altezza. Persino lei, signora Bloxby, la chiama tuttora signora Raisin.” “Perché me lo ha chiesto Agatha. Vede, magari sua moglie le avrebbe dato retta se lei si fosse lamentato solo per questa cosa, ma a quanto pare l’ha ricoperta di critiche.” “È colpa di Agatha,” ripeté ostinatamente James. “Ora è meglio se vado.” “La prego, resti qui ancora un po’. Immagino che sia terribilmente spaventato e preoccupato.” James, che era già quasi in piedi, si lasciò ricadere sulla poltrona prendendosi la testa tra le mani. 21


“La signora Raisin potrebbe esserle di grande aiuto,” disse gentilmente la signora Bloxby. “Non avrei mai dovuto sposarla,” borbottò James. “Suppongo che lei si fosse innamorato, James.” “Oh, sì, ma è una pasticciona ed è così irritante.” “Io credo che a renderla così duro nei confronti di Agatha siano solo la paura e la malattia.” James si alzò. “Ci rifletterò su.” Mentre camminava verso casa, James pensò, sentendosi in colpa, di aver esagerato continuando a parlare dei difetti di Agatha. Adesso c’era una sola cosa da fare: spiegarle cosa gli stava succedendo. Ma quando svoltò in Lilac Lane, riconobbe l’auto parcheggiata davanti al cottage di sua moglie. Sir Charles Fraith. Sempre tra i piedi! Agatha era tornata ai suoi vecchi vizi. Le si poteva ben rendere pan per focaccia!

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Estratto da Agatha Raisin e l’amore infernale Titolo originale dell’opera Agatha Raisin and the Love from Hell Traduzione dall’inglese di Marina Morpurgo © 2001 by M.C. Beaton © 2015 astoria srl corso C. Colombo 11 – 20144 Milano Prima edizione: febbraio 2015 ISBN 978-88-98713-02-8 In copertina: illustrazione di Alice Tait Progetto grafico: zevilhéritier

www.astoriaedizioni.it


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