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I compagni della scuola pubblica di Brooklyn non sapevano cosa volesse dire quella “T”. Lui non lo diceva mai a nessuno. Quando glielo chiedevano si limitava a rispondere: “Non vuol dire proprio un bel niente. Tutti devono pur averci un’iniziale, no?”. In realtà si trattava dell’inevitabile trasformazione da scolaro di un nome che lui trovava assurdo e pretenzioso. Il nome di battesimo era Temple, abbreviato in “Temp”. Il cognome era Barholm, il che portava a “Temp Barom”. La naturale tendenza a evitare sprechi di tempo induceva a pronunciarlo come parola unica, ed essendo la lettera “p” superflua e ingombrante, il nome finì per diventare “Tembarom”, e tale rimase. È per ragioni anche molto meno inevitabili che i cognomi si sono evoluti col passare dei secoli. A lui Tembarom piaceva, e presto dimenticò di essersi mai chiamato in altro modo. La sua istruzione era cominciata a dieci anni. A quel tempo la madre morì di polmonite, contratta per essere andata a cucire per settantacinque centesimi al giorno indossando scarpe quasi completamente prive di suole mentre i residui di una bufera di neve si scioglievano per le strade. Poiché dopo il funerale erano rimasti solo venticinque centesimi nel malridotto scrittoio, uno dei pochi mobili che arredavano la stanza del caseggiato in cui vivevano e dove Tembarom dormiva su una brandina, il mondo gli si presentò come un luogo da esplorare in cerca almeno di un pasto al giorno. Non poté far altro che esplorarlo al meglio delle sue capacità di decenne. Il padre era morto due anni prima della madre, e Tembarom 1