Britannia Mews

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Alle dieci e mezzo di un mattino di maggio dell’anno 1875, Adelaide Culver, dieci anni e mezzo, uscì dalla porta di servizio del n. 8 di Albion Place, attraversò furtiva la Alley, ed entrò in Britannia Mews. Non aveva niente da fare lì. Le Mews erano un territorio assolutamente proibito a entrambi i bambini Culver, benché Treff, in quanto maschio, riuscisse sempre a cavarsela, farfugliando di aver soltanto voluto vedere i cavalli. Del resto ci andava di rado. Non era un ragazzo intraprendente. Anche adesso, ferma sotto l’arco, Adelaide poteva vederlo alla finestra posteriore della camera dei bambini (nell’attico), vestito e pronto per uscire. Adelaide gli lanciò uno sguardo di disprezzo. Di quattro anni minore di lei, Treff le sembrava piccolissimo, non meritevole di attenzione. “Come è caro il tuo fratellino!” le dicevano le signore ai tè di sua madre; e benché Adelaide avesse imparato presto la risposta giusta, la articolava in modo così brusco da sconcertare le sue interlocutrici. Anche Adelaide era pronta per andare ai Giardini di Kensington, con la giacchetta corta ben abbottonata e il manicotto di castoro che penzolava da un nastro attorno al collo; la stagione dei manicotti era passata da tempo, ma Adelaide ne era appassionata e possedeva una volontà più forte di quella della sua governante. La sottana arricciata sul dietro e il manicotto le conferivano un aspetto quasi matronale, smentito dall’esilità e dall’agilità delle sue gambe di bambina, fasciate in un paio di calze a righe. Portava sulla testa un cappello maschile, 1


in feltro rossiccio con una piuma, e intorno al collo un fazzoletto di pizzo: un abbigliamento destinato a durare per altre tre generazioni in vignette e biglietti natalizi. Si addiceva ad Adelaide più di un abito vezzoso, poiché era una bambina semplice, con i lineamenti già ben pronunciati: naso aquilino, sopracciglia nere, mento volitivo. Sua madre sperava che, crescendo, avrebbe preso un’aria più distinta; Adelaide, in cuor suo, si considerava interessante, ed era soddisfatta di sé. Superato l’arco, avanzò di qualche metro. A quell’ora del mattino Britannia Mews era un posto abbastanza tranquillo e placido sotto il sole primaverile; per un attimo la bimba lo vide con lo stesso sguardo compiaciuto di chi lo aveva costruito dieci anni prima: proporzionato, accogliente, esemplare. Nessuno rammentava più il nome del costruttore, ma doveva avere origini campagnole, perché in un angolo aveva rispettato un tiglio, costruendogli intorno un muretto di mattoni. Adelaide si voltò e si rese conto di trovarsi all’interno di Britannia Mews. Dall’altro lato della Alley si ergevano le alte case di Albion Place; sul retro non avevano giardini, soltanto cortiletti cintati da un muro con degli spuntoni in cima. Le dieci porte di servizio erano tutte verniciate di verde e spiccavano allegre contro il rosso dei mattoni; il caseggiato accanto a quello dei Culver era il solo ad avere i muri imbiancati, il che, insieme a un ciuffo di lillà, lo rendeva più attraente degli altri. L’abitazione dei Culver invece non aveva nulla di particolare; appariva semplicemente solida, piuttosto brutta, e inaccessibile ai ladri. Accorgendosi che Treff non era più alla finestra, Adelaide diede un ultimo sguardo a Britannia Mews; in quel momento la porticina laterale del Gallo si spalancò e ne uscì una bambina con una brocca in mano. Com’era diversa da lei! Nessun cappello a incoronare quel groviglio di capelli rossi, e non portava calze a righe sulle gambe sporche. I piedi affondavano in un paio di vecchi stivaloni troppo larghi per lei, e uno scialle lacero era annodato su un vestito scozzese altrettanto lacero, decisamente troppo corto. Scorgendo Adelaide si immobilizzò di colpo, come un animale selvatico, serrando la brocca al petto piatto. Adelaide si sentì leggermente insicura. Conosceva una sola maniera per accostarsi a un bambino cencioso (una categoria ben definita, come i cani da caccia): bisognava dargli un penny. Faceva sempre 2


così, quando era con sua madre o con Miss Bryant e il bambino cencioso (che per simmetria era accompagnato da un adulto cencioso) ringraziava con un borbottio riconoscente. Ma ora mancavano gli adulti: le due bambine dovevano risolvere il problema dell’incontro da sole. Naturalmente Adelaide avrebbe potuto proseguire semplicemente per la sua strada, ma non era nel suo carattere. Sapeva di avere cinque monete nel borsellino dentro il manicotto. Ne tirò fuori una e la tenne sollevata. “Piccola, lo vuoi un penny?” L’altra la fissò senza rispondere. “Qui c’è un penny per te,” insisté Adelaide. La bimba posò la brocca e si avvicinò con diffidenza. Poi fece gli ultimi passi di corsa, afferrò la moneta e tornò indietro con un balzo. Non aveva pronunciato una sillaba, non aveva neanche sorriso e Adelaide ne fu ovviamente seccata. “Potresti almeno dire grazie,” gridò con rabbia. Invece la bambina fece una cosa sorprendente e anche cattiva. Nel chinarsi per riprendere la brocca raccolse anche un piccolo ciottolo e lo lanciò con forza mirando alle gambe della sua benefattrice, che gridò di dolore. Subito la porta del n. 2 si aprì e Mrs Benson uscì. La bambina cenciosa sparì di colpo. “Miss Addie!” strillò Mrs Benson. “Che succede?” “Una bambina mi ha tirato addosso un sasso,” gemette Adelaide. “Una bambina con i capelli rossi!” Ma Mrs Benson non si mostrò per niente colpita: “E che cosa faceva, lei, qui in Britannia Mews? Perché giocava con una bambina di qui? Roba da matti!”. “Io non giocavo con lei!” protestò Adelaide. “Soltanto…” “È una bambina cattiva,” la interruppe Mrs Benson, “e lei non ci deve stare insieme. Ho una mezza intenzione di dire tutto alla sua mamma.” Adelaide non si curò della minaccia, sapendo per esperienza che i domestici non dicono mai nulla alle mamme, per timore che possa ritorcersi contro di loro. “Perché è cattiva?” domandò con curiosità. “È una ladra,” sentenziò Mrs Benson. 3


Istintivamente Adelaide si tenne stretto il manicotto. Istintivamente gettò un’occhiata sopra la spalla, verso il muro, piacevolmente irto di spuntoni. La parola “ladro” – una parola segreta, terribile come lo stridere di una lama – la faceva rabbrividire quanto la parola “zingaro” gelava il sangue alle bambine di campagna della sua età e della sua posizione. Adelaide sapeva che Londra era piena di ladri capaci di insinuarsi tra la folla per rubarti il borsellino, di entrare dalla finestra per portarsi via l’argenteria, di seguirti per rubarti il cane, esigendo talvolta un riscatto: in casi simili – orrore! – ti mandavano per posta la coda della bestia, fasciata nella carta da pacco. Era atroce pensare che una persona di questo stampo abitasse nelle immediate vicinanze di Albion Place. “E papà lo sa?” balbettò Adelaide. “Se non lo sa, non sta a lei raccontarglielo, Miss Addie,” ribatté senza alcuna logica Mrs Benson. “Vada subito a casa e non si faccia più vedere da queste parti.” Sforzandosi di dimostrare una qualche dignità, Adelaide le voltò le spalle e si allontanò. Non ebbe fortuna, però: aveva appena raggiunto la porta di servizio che Miss Bryant comparve sulla soglia con la faccia bianca di collera, tranne il naso, che era rimasto rosso. “Eccoti qui,” l’aggredì Miss Bryant. “Quante volte ti è stato ripetuto di non andare a Britannia Mews! Sei una bambina cattiva e disubbidiente.” Adelaide la ascoltò con calma; diversamente dalle altre bambine, non voleva né bene né male alla sua governante. La tollerava. Miss Bryant, pur non comprendendo chiaramente la situazione, avvertiva che i loro rapporti erano in qualche modo sbagliati e si esprimeva quindi con un’enfasi eccessiva. “E il povero Treff aspetta da un’ora!” aggiunse lamentosa. “Saremo in ritardo per la passeggiata, torneremo a casa in ritardo, e Treff deve pur fare il sonnellino, dal momento che oggi pomeriggio andrete a far visite con la mamma.” “Treff non viene a far visite,” ribatté Adelaide con sicurezza. “Ah, no?” si stupì Miss Bryant. “No,” confermò Adelaide.

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Ogni mattina i bambini Culver si incontravano con i loro cugini, i bambini Hambro, nei Giardini di Kensington: quel giorno, per la disubbidienza di Adelaide, i piccoli Hambro arrivarono per primi all’appuntamento. Erano quattro, Alice e i gemelli e la piccola Milly, perciò avevano una bambinaia oltre a una governante. Quest’ultima si chiamava Miss Grigson. Alice aveva un anno più di Adelaide ed era molto più bellina, con guance rosa, una bocca a cuore, il labbro superiore leggermente rialzato sui denti candidi e una massa di capelli castano chiaro, naturalmente ondulati. Anche la frangetta le si arricciava graziosamente sulle sopracciglia dorate, e quando correva, la sua folta capigliatura la seguiva come una nuvoletta. Sognava solo il giorno in cui i suoi riccioli sarebbero stati abbastanza lunghi da sedercisi sopra e con questo obiettivo permetteva ai due gemelli, James e John, di tirarglieli quanto volevano. “Perché hai portato il manicotto?” domandò subito Alice. “Adoro i manicotti,” sentenziò Adelaide. “Ma nessuno porta il manicotto a maggio.” “Io sì.” Intanto Treff si era precipitato a raggiungere le Guardie Nere. Il famoso reggimento, composto da una dozzina di bambini, le cui governanti, se non addirittura le madri, erano tutte in rapporti amichevoli tra di loro, si radunava ogni mattina di fronte all’Albert Memorial. Ebbe appena il tempo di rispondere all’appello – “William Trefusis Culver”, “Presente” – per poi unirsi alla cerimonia di apertura, che consisteva nel proclamare: Le Guardie Nere marceranno notte e giorno. Le Guardie Nere combatteranno per terra e per mare. Le Guardie Nere giungeranno sempre in tempo. Le Guardie Nere non avranno mai bisogno di sprone. Sulle Guardie Nere si potrà sempre contare. Infine Sir Garnet Wolseley li passò in rivista. Adelaide e sua cugina osservarono la cerimonia con indulgenza (le bambine non erano ammesse nel reggimento e comunque nessuna avrebbe mai confessato di desiderarlo), poi si allontanarono 5


insieme, in direzione del Round Pond, perché nei giardini avevano il permesso di passeggiare, insieme, dove preferissero. Alice voleva molto bene ai fratelli e alla sorellina, ma a casa stava anche troppo in loro compagnia. “La mamma ha detto,” cominciò, “che se oggi tu e Treff venite da noi per il tè potremmo fare il caramello.” “Io non posso,” rispose prontamente Adelaide, “vado in visita con la mamma.” Alice la guardò con invidia. Andare in visita con sua madre era un piacere immenso per lei. “Una visita o tante visite?” “Una sola. Non credo che sia niente di speciale. Andiamo da una persona povera.” “Allora non è una vera visita,” sentenziò Alice. Adelaide esitò. Lei stessa aveva i suoi dubbi, perché intuiva, nel programma del pomeriggio, qualcosa che anni dopo avrebbe definito ambiguo. Da qualche frase dei genitori aveva capito vagamente che sua madre non desiderava fare quella visita: “Dopotutto,” aveva mormorato Mrs Culver, “credo che sia un dovere,” e qui entrambi avevano guardato Adelaide con imbarazzo. “Lo credo anch’io,” disse Mr Culver. “In fondo, a quella età,” riprese Mrs Culver, e poi, con fermezza: “Poveretta, si deve essere caritatevoli”. Adelaide aveva concluso che sarebbero andate a trovare qualche povero, e non un povero cattivo, come la bambina ladra, ma qualche povero meritevole, una categoria a sé, composta di ex cuoche, vecchie bambinaie, governanti cadute in miseria. Visite del genere erano davvero poco divertenti; in generale le merende erano troppo abbondanti e di cattiva qualità, e bisognava mangiare tutto, per paura di offendere. Tuttavia… “Credo si tratti di un dovere,” citò Adelaide. “Pensi che la zia ci permetta di venire da voi domani?” “Ma certo. E se avremo già fatto il caramello, giocheremo a provarci tutti i cappelli della mamma.” La libertà di rapporti tra i bambini e i genitori Hambro non finiva di stupire Adelaide. Sembrava che i figli non avessero alcun timore persino del padre e abbracciavano con impeto la madre, anche se era 6


pronta per andare a un ricevimento: non li invidiava, però, perché era consapevole di ricevere un’educazione migliore. Seguitarono a passeggiare. Treff, già annoiato dalla disciplina militare, le raggiunse, gridando che voleva giocare a Strega Comanda Colore. Alice, sempre accomodante, accettò, mentre Adelaide continuava a riflettere: la giornata sembrava eccezionale, con l’avventura del mattino nelle Mews e l’impegno del pomeriggio. Di tanto in tanto vedevano passare qualche conoscente, una signora di Bayswater o di Kensington che le salutava con un sorriso; le signore iniziavano ad arrivare ai giardini dopo il giro di commissioni. Alcune indossavano ancora il cappotto con la mantellina, altre eleganti giacchette, cortissime e attillate sul petto. Neppure un manicotto, e le manine di Adelaide, chiuse nella pelliccia, erano madide di sudore: ma non si sarebbe ancora arresa, non le avrebbe tirate fuori. “Guardate che buffo cane!” esclamò improvvisamente Treff. Alice e Adelaide guardarono e videro un grande Airedale che correva intorno a loro tracciando un ampio cerchio. Ogni pochi metri si fermava, alzava il muso e guaiva debolmente. C’era in lui qualcosa di irresistibilmente comico, e i bambini risero. “Gioca,” spiegò Alice, “gioca come un gattino e cerca di acchiapparsi la coda.” Treff inseguì la bestia, che esitò, sembrò studiarlo e riprese a correre. Le due bambine si unirono al gioco: “Facciamo una gara di corsa!” strillava Alice. “Vinceremo un premio!” Stavano divertendosi molto, quando accadde una cosa tremenda. Il cane si fermò di botto, fece un ultimo ululato, questa volta tristissimo, e cadde. Il corpo si torceva, la bocca schiumava, e i tre bambini si tirarono indietro atterriti. “Non stava giocando,” disse Alice. “Ha la rabbia…” Adelaide fece un passo incerto in direzione del cane, ma la cugina la trattenne. Treff scoppiò in lacrime. I tre si guardarono intorno disperati cercando l’aiuto dei grandi, ma Miss Bryant e Miss Grigson non erano in vista, e i giardini, fino a un istante prima affollati, apparivano improvvisamente deserti. “E se non fosse rabbioso, ma soltanto malato?” domandò Adelaide. “Non me ne importa. Se ci morde diventeremo rabbiose anche noi,” disse Alice. 7


Adelaide rabbrividì. Cane rabbioso, cane rabbioso! Uno struggente senso di affetto le riempì il cuore, ma Alice non allentò la stretta. I gemiti della bestia erano strazianti e i bambini non riuscivano a muoversi, sentendo che, pur impotenti, non potevano abbandonarlo. Intorno a loro i giardini si estendevano nella luce del sole, colmi di quella particolare solitudine che si prova a Londra nei luoghi all’aperto. Treff ruppe il silenzio spasmodico con il suo famoso fischio della locomotiva. Aveva visto un giovanotto camminare in fretta lungo la Serpentine: il suono lacerante spinse lo sconosciuto ad allungare il passo e poi a correre. Non avevano mai visto un adulto correre così veloce; si precipitò verso il cane e, senza rallentare l’andatura, si sfilò la giacca. I bambini ne capirono subito la ragione: buttandosi a terra sulle ginocchia, il giovanotto fasciò con la giacca la testa dell’animale, poi iniziò a massaggiargli i fianchi tremanti, parlandogli con un tono di dolce ammonimento. L’Airedale si chiamava Bob; quasi subito smise di guaire e si calmò. “È morto?” sussurrò Alice. “No,” disse il giovanotto, voltandosi appena. “Ha avuto un attacco. Quando capisce che sta per venirgli un attacco, scappa.” “Se non avessi fischiato, lei non l’avrebbe trovato,” disse Treff dandosi importanza. Ma il padrone del cane non provava alcun interesse per loro e sentendosi di troppo (succede spesso in presenza di un malato), i tre bambini si allontanarono lentamente e in silenzio. Fu solo vedendo Miss Bryant che Alice riprese il discorso: “Sapeva che avrebbe avuto un attacco, e noi abbiamo riso di lui,” disse mortificata. “Avrà pensato che eravamo delle bestie…” Erano tutti a disagio. Di comune accordo, riconoscendo l’importanza dell’episodio e di quanto li avesse toccati, stabilirono di non parlarne con gli adulti. In carrozza, seduta vicina alla madre, Adelaide contemplava dall’alto i passanti in Bayswater Road. Stavano andando verso Mayfair, Adelaide nel suo cappotto buono, in velluto celeste, e Mrs Culver con una giacca di velluto indossata sopra un abito rosso, in tessuto marezzato. Benché avesse trentacinque anni, e fosse quindi 8


di mezza età, Mrs Culver era ancora una bella donna e Adelaide, in quel momento, la ammirava moltissimo. Tuttavia non riusciva a capire perché entrambe si fossero agghindate da visita di gran lusso, quando in realtà andavano a compiere una missione di carità. “Non portiamo un cestino?” aveva domandato Adelaide salendo in vettura; ma sua madre non aveva sentito o aveva finto di non sentire. I bambini erano abituati a simili sordità dei genitori e Adelaide comprese di aver commesso un errore. Comunque era delusa, le piaceva portare pacchetti di tè o barattoli di marmellata e deporli in tremule mani riconoscenti, ascoltando immancabilmente parole di gratitudine (o quasi immancabilmente: c’era stata un’ex domestica con un cognato socialista, il cui nome non poteva più essere pronunciato) provocate da quei doni immutabili. “Addie, sistemati meglio il cappello,” disse Mrs Culver. Adelaide si aggiustò il cappellino di velluto azzurro, ornato da una testa di ermellino, finché l’orlo le schiacciò le sopracciglia. Mrs Culver approvò distrattamente. Adelaide non si aspettava mai grande attenzione da parte della madre, ed era curioso, considerando che Mrs Culver era convinta di dedicare la vita ai suoi figli. Effettivamente si adoperava nel difficile compito di far sì che novecento sterline all’anno non solo bastassero ma dessero anche l’impressione di essere dodicimila; dunque, da un certo punto di vista, la sua convinzione era più che giusta. La carrozza svoltò in Park Lane. La tensione, non si poteva definirla altrimenti, aumentò. Poco dopo percorsero Curzon Street, girarono in una traversa più piccola, ma sempre elegantissima, dove le case avevano piccoli balconi al primo piano (come in Britannia Mews). La carrozza si fermò. “Tra mezz’ora, Benson,” ordinò Mrs Culver. Suonò il campanello e la porta venne aperta dal domestico più elegante che Adelaide avesse mai visto. Mrs Burnett era in casa. Il primo pensiero di Adelaide, entrando nel salotto di Mrs Burnett, fu che avrebbe voluto restare lì a lungo e da sola per poter osservare ogni cosa con calma. Era una stanza meravigliosa. Le pa9


reti, tappezzate di damasco giallo pallido, erano coperte di quadri e disegni: due vetrine e tre o quattro tavolini offrivano l’affascinante visione di una serie di soprammobili ricercati; nel vano della finestra, un treppiedi traboccava di fiori. L’ammirazione fu tale che Adelaide si perse i primi saluti fra le due signore; era ancora a bocca aperta quando la mano della madre si posò decisa sulla sua spalla. “E questa,” disse Mrs Culver, “è Adelaide.” Adelaide automaticamente porse la guancia per l’immancabile bacio, e sentì la mano di Mrs Culver irrigidirsi. Ma evidentemente Mrs Burnett non era una di quelle signore-che-baciano; si limitò a chinarsi graziosamente in avanti sprigionando un profumo delicato, dolcissimo. Adelaide contemplò un collo meravigliosamente bianco, su cui spiccava una croce di zaffiri, e un viso pallido e seducente sotto un enorme chignon di capelli biondo rame. “E questa è Adelaide,” ripeté Mrs Burnett. “Siediti, chérie, e togliti il cappello.” Adelaide si mise seduta, ma non si tolse il cappello. Il suo sangue Culver, socialmente sospettoso, non le consentiva un’intimità così immediata. Posò le mani in grembo e continuò a osservare. Mrs Burnett indossava un abito di seta verde acqua chiarissima ornato in vita da un enorme fiocco di velluto nero; portava pesanti braccialetti d’oro, anelli lucenti, orecchini meravigliosi, simili a grappoli d’uva. Non era affatto povera: appariva più ricca degli amici più ricchi di casa Culver. Adelaide spostò lo sguardo da Mrs Burnett sulla madre, seduta dirimpetto, e per la prima volta restò delusa dal suo aspetto. “Adelaide, guarda quelle belle casette,” disse piuttosto bruscamente Mrs Culver. Docile, Adelaide si girò verso il tavolino accanto a sé, interamente coperto di oggettini di legno: case, gondole, orsi, mulini a vento. Li trovò incantevoli, ma continuò a tenere le orecchie tese per ascoltare la conversazione intorno al caminetto; con suo estremo rammarico si svolgeva in francese, che Mrs Burnett parlava assai meglio di Mrs Culver: la sua voce dolce squillava fluida e leggera, senza esitazione, mentre quella di Mrs Culver suonava faticosa. Adelaide capiva pochissimo ma colse il fatto soprendente che le due signore si chiamavano per nome. Sentì benissimo Mrs Burnett chiamare Mrs Culver 10


Bertha, mentre il nome di Mrs Burnett era Isabel. Interessante, e allo stesso tempo bizzarro; Adelaide riprese a guardarsi intorno, esaminando i particolari del salone. Il caminetto di per sé era meraviglioso quanto un bazar; ai due lati dell’enorme specchiera c’erano vetrinette e mensoline, ognuna delle quali ospitava un piccolo oggetto: porcellane, avorio o vetro colorato. Sulla mensola di marmo erano esposti un orologio dorato, sormontato da una figura femminile, e due scimmie di porcellana coperte, anziché di falso pelo, di piccolissimi non-ti-scordar-di-me in porcellana. Adelaide immaginò che Mrs Burnett fosse particolarmente attratta dalle scimmie, perché una vetrina, posta tra il camino e la porta, ne conteneva un’orchestra intera, dove ogni scimmia suonava uno strumento diverso. Osservò ancora un quadro ricamato a piccolo punto, un trofeo di ventagli giapponesi, un’altra vetrina con una collezione di porcellane bianche e azzurre, una di conchiglie tropicali e così, dimenandosi sulla sedia, il suo sguardo fece il giro della stanza e, passando sopra i fiori del treppiedi, tornò a posarsi sul tavolino al suo fianco. Proprio lì, disposto su un ripiano più basso, scoprì qualcosa che le piacque più di tutto il resto, qualcosa che nessuno avrebbe immaginato di vedere, perlomeno nel salotto di una signora: era una scatola di sigari aperta, e all’interno del coperchio splendeva il più incantevole disegno che Adelaide avesse mai visto. Con sfumature ricche e brillanti, a sbalzo e dorate, raffigurava Romeo e Giulietta sul balcone, sullo sfondo di un cielo incredibilmente turchino. Il cameriere servì il tè. Anche il tè era favoloso, con tanti pasticcini francesi, e Adelaide desiderò di nuovo essere lasciata sola; ma molto, troppo presto, Mrs Culver posò la tazza e si alzò, facendo frusciare l’abito rosso e rassettandosi la giacchetta, con un’espressione molto simile al sollievo. Mrs Burnett non provò a insistere perché restasse, ma disse gentilmente: “Desidero che Adelaide abbia un piccolo regalo. Bimba, fai il giro della stanza e scegli quello che preferisci”. Con un gesto delicato delle piccole mani Mrs Burnett mise l’intero salotto a disposizione di Adelaide, che a sua volta lanciò una rapida occhiata alla madre per vedere se poteva accettare. Poteva: e 11


che cosa avrebbe scelto? Le sarebbero molto piaciute le scimmiette con i non-ti-scordar-di-me, ma la sua consapevolezza mondana, appena agli inizi, l’avvertiva che il loro valore le rendeva inaccessibili. Mentre girava per la stanza, sotto lo sguardo delle due signore, le pareva di giocare a “fuoco, fuochino”, a seconda che si avvicinasse alle porcellane azzurre (“freddo”), o ai fiori sul treppiedi (“caldo”). Il tavolo con le casette di legno era “brucia, brucia”, e ne fu contenta. Non desiderava né casette né gondole, bensì la scatola dei sigari; già tendeva la mano per prenderla, quando (“freddo, freddissimo, gelato”) qualcosa la mise in guardia. Mrs Culver avanzò verso di lei, Mrs Burnett, con un rapido fruscio di sete, scivolò verso una vetrina e prese una conchiglia tropicale. “Ecco, non è bella?” esclamò. “Viene addirittura dall’Oceano Indiano.” “Adelaide ne studierà tutto il percorso sull’atlante,” intervenne Mrs Culver. “Non è bellissima, Adelaide? Ringrazia, tesoro.” “Grazie mille,” disse Adelaide. Il rientro in carrozza fu silenzioso. Adelaide sedeva con la conchiglia fra le mani. Era più singolare che bella: rosa e serica all’interno, e ruvida all’esterno, con dei solchi bianchi, bucherellata. Era circa delle dimensioni di una teiera con quattro aculei smussati. “Che cosa posso farne, mamma?” “Puoi metterla sopra il caminetto della vostra camera,” le disse soprappensiero Mrs Culver, senza neanche guardarla. “È tutta mia o anche di Treff ?” “Non credo che a Treff possa interessare,” sentenziò Mrs Culver. Ma Adelaide era certa del contrario, perché Treff desiderava sempre gli oggetti che appartenevano a lei. Comunque lasciò cadere il discorso e non fece altre domande, ma quando arrivarono a casa, mentre Benson già guidava la carrozza verso Britannia Mews, disse improvvisamente: “Mamma, ho dimenticato il fazzoletto in vettura”. “Corri a prenderlo!” le disse Mrs Culver spazientita. “Che sbadata!” Adelaide uscì di corsa dalla porta di servizio e trovò Benson in12


tento a sistemare la vettura in rimessa; c’era anche la moglie, il che era seccante perché sembrava ancora in collera con Adelaide dopo l’incontro del mattino. (In certe famiglie, come per esempio in quella degli Hambro, domestici e bambini erano alleati; dai Culver invece erano nemici.) Adelaide si arrampicò nella carrozza e finse di cercare sotto i cuscini. Benson le ordinò bruscamente di scendere. “Avevo perso il fazzoletto,” spiegò Adelaide. “Oh, eccolo qui! Benson, chi è Mrs Burnett?” “Cosa vuole che ne sappia?” grugnì il cocchiere. “E adesso se ne vada.” “Beh, pensavo che lei potesse saperlo,” proseguì Adelaide. L’esperienza le insegnava che i domestici sanno sempre tutto: “Mi è piaciuta molto”. “Ah, sì?” sogghignò Benson ironicamente. “Sì, moltissimo. Non è una signora di quelle che baciano.” Il cocchiere e sua moglie si scambiarono un’occhiata curiosa e Adelaide ne concluse trionfante che qualcosa dovevano sapere. Tuttavia non avevano alcuna intenzione di parlarne con lei; e ci vollero dieci anni prima che Adelaide scoprisse che Mrs Burnett, nata Culver, in realtà era sua zia. La lunga infanzia trascorse monotona. I Culver non ebbero altri figli e i piccoli Hambro restarono gli amici più stretti di Adelaide e di Treff. Non per affinità di carattere, ma soltanto per parentela; i loro genitori pensavano che dovessero andare d’accordo, e così andavano docilmente d’accordo. Veramente Alice, che aveva un senso della famiglia molto sviluppato, si sarebbe affezionata a qualsiasi cugina, e Adelaide, che aveva bisogno di essere amata, la ricambiava riconoscente; non avevano alcuna influenza l’una sull’altra, perché era l’educazione ricevuta a casa a formarne i caratteri. Non c’era dubbio: i bambini Culver venivano educati molto meglio. Mrs Culver aveva le sue teorie su come crescere i bambini e le vedeva confermate con successo. Non dimenticò mai, per esempio, (e neppure Adelaide) il sistema usato per curare sua figlia a sette anni dalla paura del buio. Da poco la bambina dormiva da sola; una notte ebbe un incubo, e per due volte si precipitò piangendo nella 13


camera dei genitori, e due volte Mrs Culver cortese e implacabile la costrinse a tornare nel suo letto e a superare le sue paure affrontandole. Dopodiché Adelaide rimase al suo posto; l’indomani mattina era pallidissima e vomitò la prima colazione, ma non mostrò mai più il terrore del buio. Comprensibilmente Mrs Culver ne fu molto soddisfatta e pensò che Miss Bryant, che insisteva per un lumino da notte, fosse davvero sciocca. Evidentemente la governante non capiva niente di bambini, era soltanto abituata a starci insieme, e aveva notato l’improvvisa debolezza di stomaco di Addie. “E lei vuole curare il mal di stomaco con un lumino da notte?” chiedeva Mrs Culver, divertitissima. E Miss Bryant non seppe cosa rispondere. (Treff ebbe un lumino da notte fino a dieci anni, strillò tanto da ottenerlo.) Niente di simile in casa Hambro, perché Alice divideva la camera con una sorella, le altre due dormivano insieme e i gemelli, fin da un’età scandalosamente precoce, tenevano una scatoletta di fiammiferi sotto il cuscino; in ogni caso, avrebbero potuto avere tutti i lumi che desideravano. Oltre all’incontro quotidiano ai giardini, i bambini facevano merenda insieme almeno una volta alla settimana. In Albion Place giocavano con le decalcomanie; a Kensington, dove abitavano gli Hambro, si giocava a redan (Mr Hambro un giorno aveva visto all’asta uno di quei divani circolari con lo schienale altissimo, così frequenti allora negli alberghi. Questo era rivestito di cuoio rosso e Mr Hambro rivelò un certo intuito nell’acquistarlo per i suoi figli. Fu il regalo che gradirono di più). I Culver si divertivano moltissimo a Kensington, gli Hambro assai meno in Albion Place; e con il passare del tempo i gemelli evitarono di andarci troppo spesso. “Poverini, devono ripassare l’aritmetica,” diceva Alice per scusarli; finché un giorno Adelaide le fece notare che quando giocavano “a-calcola-in-fretta” (gioco astutamente proposto da Miss Grigson) i gemelli erano molto bravi. Non avevano bisogno di ripassare l’aritmetica, se in aritmetica erano già bravissimi. Alice arrossì. Sapeva benissimo che James e John non studiavano, ma redannavano. E anche Adelaide lo sapeva: “In questo momento,” diceva implacabile, “stanno facendo le montagne russe sul redan”. A lei piaceva moltissimo scivolare dall’alto del redan, e incitava 14


anche Treff alla scalata. Ma Treff era pauroso e bisognava prima spingerlo e dopo tirarlo, così preferiva giocare con Milly e poi con la bambina, Sybil, e poi con Milly e con Sybil e con la bambina nuova, Ellen. Permetteva ad Alice di abbracciarlo, cosa che i gemelli non avrebbero nemmeno contemplato e Adelaide nemmeno tentato. “Non riesco a capirvi!” esclamò un giorno Alice: “Siete solo in due e dovreste volervi bene!”. “Ma certo che ci vogliamo bene,” replicò Adelaide, stizzita. L’osservazione l’aveva profondamente offesa, perché le pareva scontato che fratelli e sorelle si amassero, esattamente come i figli dovevano amare i genitori e i genitori i figli: rapporti diversi le sembravano scandalosi. Avrebbe potuto replicare che gli Hambro peccavano di indulgenza reciproca; se avevano voglia di declamare i Canti di Roma Antica, i gemelli entravano in sala da pranzo anche se c’erano ospiti. Un primo risultato dell’educazione ricevuta da Adelaide era la sua genuina disapprovazione per il disordine che gaiamente regnava a casa dei cugini, e faceva eco alle critiche di sua madre, la quale deplorava che i bambini Hambro fossero sempre fra i piedi. “Tu non cerchi neppure di dominarli,” diceva Mrs Culver a Mrs Hambro. “Alice è ubbidiente per natura e quindi non dà alcun fastidio, ma i maschi sono completamente fuori controllo. Il padre dovrebbe frustarli.” “Noi non crediamo nell’efficacia della frusta,” obiettava Mrs Hambro. “Di’ piuttosto che non ti piace. A nessuno piace. Ma dove si andrebbe a finire, se nessuno di noi facesse il proprio dovere solo perché non se ne ha voglia? Ti faccio un esempio: Addie non voleva farsi bucare le orecchie e sarebbe stato assai più semplice per me accontentarla, eppure doveva essere fatto e fu fatto; e basta con le sciocchezze. Per quel che riguarda i gemelli…” “Non dirmi altro, cara, lo so,” la supplicava Mrs Hambro. “I gemelli sono una piaga, e i Porter non accetteranno mai più un nostro invito a cena. Ma se tu avessi sei bambini invece di due…” “Li farei rigare dritti tutti e sei,” disse Mrs Culver senza esitare. Le due sorelle avevano poco in comune, e i loro mariti niente del tutto. Mr Hambro commerciava in sete e sebbene questo significasse 15


essere nel commercio, non tentava di nasconderlo: portava spesso a casa i colleghi, e se trovava le amiche di sua moglie, le ragguagliava liberamente, anche se senza fronzoli, sulle rispettive qualità dei tessuti marezzati e del sura. Dal canto suo, Mr Culver sosteneva di proseguire l’attività nella casa editrice Culver, Blore & Masterman unicamente per mantenere la tradizione di famiglia. Il vecchio Culver l’aveva fondata, e gli era andata bene con i pamphlet evangelici; Masterman, associandosi, aveva contribuito con i testi scolastici, e il terzo socio, Blore, con una serie di “Vite Esemplari”. Se per caso un autore inesperto mandava un romanzo in casa editrice, glielo restituivano senza leggerlo: Culver, Blore & Masterman non provava alcun interesse per la narrativa. Poche imprese commerciali offrivano così scarsi rischi con rendite tanto costanti; ma William Culver giudicava necessario rafforzare uno spirito naturalmente cauto coltivando il distacco. Rifiutava qualsiasi contatto con i tipografi (categoria, lo sanno tutti, turbolenta) e rarissimamente riceveva uno scrittorucolo; tuttavia era bravissimo nel curare le edizioni di classici latini e si diceva che fosse eccellente nel risolvere qualsiasi problema inerente la ristampa dell’Algebra per le prime classi. Lasciava la gestione della casa interamente a sua moglie, e quando i bambini ebbero il morbillo si trasferì al circolo. L’attività sociale di Mrs Culver, più che altro, lo infastidiva; ma la signora aveva così insistito sulla necessità di salvare le apparenze, che era arrivato a crederle. Adelaide e Treff vedevano raramente il padre, e la mamma figurava nella loro esistenza con minor assiduità di Miss Bryant o dei cugini. Tutti sapevano che Treff era il prediletto di Mrs Culver, e Adelaide lo accettò come un dato di fatto. Naturalmente, crescendo restò più spesso in compagnia di sua madre; bisogna però riconoscere che il rapporto non fece progressi. L’avvenimento principale di questo periodo è del 1880: i Culver si trasferirono da Albion Place a Kensington. Albion Place stava decadendo. La prossimità di Britannia Mews e forse anche di Edgware Road ne alteravano la distinzione: il piccolo commercio, nella persona di un vinaio, si installò al n. 5; e per tutte queste ragioni o forse senza ragione affatto, il mutevole brillare della moda si spense. 16


La casa di Kensington, vicina a quella degli Hambro, era più elegante, sebbene più piccola; mancavano le scuderie e così Mrs Culver dovette rinunciare alla vettura e noleggiare un brum. Un legame con Albion Place comunque rimase, o meglio, fu forgiato: quando Adelaide compì ventun anni, suo padre le regalò una serie di lezioni che le sarebbero state impartite da un professore di disegno, tale Mr Lambert, insegnante in una scuola femminile delle vicinanze. Stava cercando un alloggio – un alloggio modesto, ammise tranquillamente Mr Lambert, due stanzette in uno quartiere povero ma centrale – e chiese consiglio a Mrs Culver. Con una certa ironia, la signora gli consigliò Britannia Mews, facendogli però notare di non avere alcuna esperienza di quartieri bassi. Il giovanotto si diresse subito verso Britannia Mews, trovando esattamente quel che desiderava. Il n. 2, occupato un tempo dai Benson, era vuoto e Lambert vi si installò il primo ottobre 1885.

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Estratto da Margery Sharp, Britannia Mews Titolo dell’opera originale Britannia Mews Traduzione dall’inglese di Bettina Cristiani © The Estate of Margery Sharp 1946 © 2012 astoria srl via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano Prima edizione: gennaio 2012 ISBN 978-88-96919-26-2 Progetto grafico: zevilhéritier

www.astoriaedizioni.it


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