1 La traversata
Mi toccava tornare a casa per il matrimonio di mia sorella. Casa mia è il Warwickshire, e il posto da cui stavo tornando era Parigi. Adoravo Parigi, ma mi asterrò dal lanciarmi in descrizioni della Senna. Lo farei se potessi, ma non posso. Mi piace l’aspetto esteriore delle cose, ma quando servirebbe non me lo ricordo mai. E quindi lasciamo perdere Parigi. Stavo tornando a casa per fare la damigella d’onore al matrimonio di mia sorella Louise. E d’altra parte non mi dispiaceva partire: quella sensazione potente di essere straniera, che mi era parsa così incantevole quando ero arrivata lì in luglio, aveva cominciato a tirarmi pazza. Ogni volta che qualcuno mi pizzicava sul metrò mi veniva voglia di gridare, e quanto ad altre cose tipo la carta igienica e il prezzo del cioccolato e le ragazzette sveglie, eleganti e con le gonne corte cui impartivo lezioni di conversazione in inglese… insomma, mi pareva di averne avuto abbastanza. Ero a Parigi da appena due mesi, ma mi sembravano molti di più. E così, quando arrivò la lettera in cui Louise mi chiedeva di tornare e farle da damigella, io feci un sospiro di sollievo e mi comprai il biglietto. Oltretutto sentivo che era ora che io la smettessi di buttare 1
via il mio tempo. Non so perché io odii così tanto perdere tempo. A Parigi non stavo combinando nulla di concreto. Ci ero andata subito dopo essere uscita da Oxford con la mia nuova laurea bella, lucente e inutile, era stata una scelta borghese alla faute de mieux, per occupare il tempo. Per occupare il tempo in attesa di cosa? Già, di cosa? Dare lezioni a quelle ragazzine sveglie era piacevole, ma per me non era una faccenda abbastanza seria. Non mi avrebbe portata da nessuna parte. E così, quando Louise mi scrisse, l’immagine dell’Inghilterra si materializzò davanti ai miei occhi, tetra, fredda, ma sicuramente seria. E poiché io volevo essere seria, mi comprai il biglietto per tornare a casa, dissi addio alle ragazzine e alla mia padrona di casa, e rivolsi i miei pensieri all’Appointments Board e alla previdenza sociale, e ad altre questioni di analoga, assoluta serietà. Ci pensai per l’intera durata del viaggio fino a Calais, mentre attraversavo distese sabbiose masticando un panino al prosciutto strapieno di aglio. Pensai al lavoro, al concetto di serietà, e a quel che può fare di se stessa una ragazza troppo istruita e priva di alcuna vocazione. Louise naturalmente una risposta ce l’aveva. Stava per sposarsi. E per di più stava per sposare un uomo molto ricco e anche famoso, sia pure in maniera marginale. Sembrava l’unica via di fuga dall’umiliazione di quel gorgo “corso per segretarie-cameriere da bar” in cui era sprofondata subdolamente da quando anche lei, due anni prima, aveva lasciato il paradiso massonico ed esoterico di Oxford. D’altra parte io non avrei sposato Stephen Halifax neppure se lui fosse stato la mia ultima spiaggia. Non sapevo perché mi stesse così antipatico: non ero neppure sicura che quella che provavo fosse antipatia. Forse era in parte paura. 2
Mi sentivo intimidita e inibita perché Stephen era uno scrittore, con quattro romanzi pubblicati, e tutti avevano ricevuto recensioni piuttosto lusinghiere. Il successo incute sempre timore, specie nelle persone ambiziose. E poi io detestavo i suoi libri. Erano ripugnanti, ma tanto buoni quanto ripugnanti: uno che non avesse conosciuto Stephen si sarebbe figurato l’autore come inacidito, di mezza età e omosessuale, mentre Stephen è inacidito, trentenne e sposato con mia sorella, qualsiasi cosa questo fatto possa o non possa significare. Tutti e quattro i romanzi sono pieni di scherno sociale, e di osservazioni acute formulate in tono sostenuto. Non fa mai battute scherzose. Detesto i libri privi di battute scherzose. Perfino le battute vittoriane un po’ penose sono meglio di niente. Penso che Stephen non ami affatto le battute. Le recensioni lo definiscono come un “autore di satira sociale” e parlano della sua percezione delicata e del suo spirito tagliente, ma per me se li possono pure tenere. E lui si comporta in modo consono ai suoi libri: quando parlo con Stephen provo sempre la sensazione di essere malvestita e di avere l’accento sbagliato. Sono certa che questo sia esattamente quello che pensa, ma dato che lo pensa di tutti, l’opinione di Stephen non è molto obiettiva. Non si salva nessuno. Sono tutti o ridicolmente ricchi, o ridicolmente poveri, o ridicolmente mediocri, o ridicolmente di classe. Non lascia alcuna possibilità a nessuno di essere nel giusto, a meno che non intenda lasciare se stesso come misura del giusto, il che sarebbe logico perché Stephen è quasi del tutto privo di caratteristiche in positivo. Ha un’aria grigia. Immagino dipenda dalla pelle, perché i suoi capelli sono di un castano normale. Stephen è poco appariscente e distinto e grigio. Non riuscivo proprio a capire perché Louise avesse de3
ciso di sposarlo. Sapevo che si erano frequentati parecchio da quando lei aveva lasciato Oxford ed era andata a vivere in un appartamento nei pressi di Fulham Road, ma non avevo mai pensato che si sarebbe arrivati a quel punto. Capivo che era una persona con cui era piacevole cenare di tanto in tanto, perché una poteva scegliere tutti i piatti più costosi del menu, ma quanto a sposarlo… e che lo sposasse Louise… Mia sorella, devo dirlo, è bella da togliere il fiato. Lo è sul serio. La gente si zittisce quando lei entra in una stanza, la fissa sull’autobus, si gira a guardarla per strada. Non so da chi abbia preso. Mia madre è piuttosto graziosa, ma lo è in modo un po’ tremulo, debole, e io sono come lei, suppongo, mentre Louise ha una vera grandeur predatoria, da aristocratica. È quella che si definisce una grande dame mentre io sono una jeune fille, e lei conduce tutta la sua esistenza in modo tale da esserne all’altezza. Ha la carnagione molto chiara, e sopracciglia favolose e capelli neri, una figura alta, un po’ a stiletto, e via dicendo. Pensavo tra me e me, mentre il treno passava tra le facciate posteriori delle case che annunciano l’arrivo a Calais, che forse Stephen stava per sposare Louise perché lei non appariva mai ridicola. Alla peggio avrebbe potuto definirla “aquilina” e “intensa”, ma perfino questo suonerebbe come ragguardevole. Forse Stephen voleva una moglie che fosse una statuina, una polena sul cofano della sua auto trionfale, un ornamento della casa offerto alla pubblica ammirazione. Una hostess. Ma io non riuscivo a capire che cosa, in tutto ciò, potesse andare bene a Louise; mia sorella non era mai stata tagliata per fare il secondo violino. Anzi, era incline a perseguire i propri desideri in modo spietato. Era possibile, supponevo, che lei desiderasse Stephen. Mentre il treno rallentava mi venne in mente che forse lei amava Stephen, e un istante dopo mi 4
venne in mente che questa spiegazione era talmente ovvia che se fosse stata vera ci avrei certo pensato prima. E così scartai l’idea dell’amore. Perlomeno per quel che riguardava la vecchia Louise. Amore. Amore. Pensai oziosamente a Martin che alle sette e trenta di quella mattina mi aveva detto addio alla Gare du Nord. Era stato carino da parte sua alzarsi presto. Mi era dispiaciuto lasciarlo, ed eravamo rimasti abbracciati per un attimo, ma non in modo significativo. In realtà ero contenta che nella partenza ci fosse un elemento di strappo. Faceva apparire il mio andare via più come una decisione e meno come una deriva. Pensavo a quanto fosse meno improbabile che io sposassi Martin o quasi chiunque altro, rispetto al fatto che Louise sposasse Stephen Halifax. Che razza di nome. Stephen Halifax. Al matrimonio almeno avrei scoperto se si trattava o no di uno pseudonimo. Louise sosteneva che non lo fosse ma a me non suonava affatto un nome vero. Il treno si fermò.Tutto a un tratto provai una tristezza terribile per i treni francesi e per i cartelli che dicevano ne te penche pas au dehors (è così che dicono? te? E perché non vous?): e altrettanto immediatamente dimenticai la mia tristezza per la solita ondata di rabbia che mi travolge tra gli spintoni, i colpi, le code e le attese che accompagnano la discesa dal treno, il passaggio attraverso la dogana e l’imbarco. Non chiamo mai un facchino, principalmente perché detesto separarmi dal mio bagaglio, e quindi sopporto tutto il fastidio delle gambe contuse, delle braccia indolenzite e dei capelli negli occhi che senza una mano libera non riesco a scostare. Non so perché mi punisco così, però lo faccio sempre. In vacanza o in viaggio sono una calamità, non riesco a godermela se non faccio ogni cosa nel modo più scomodo possibile. Forse mi comporto così di 5
proposito, perché la sensazione di sollievo e di abbondanza di spazio, che nel momento in cui si sale sulla barca subentra alla spossatezza sudata, è meravigliosa e può essere assaporata dopo aver sopportato la piena iniziazione dello sforzo. Nulla mi affascina quanto la traversata della Manica. Spero che non ci faranno mai un tunnel. Ormai l’ho attraversata dieci volte, e ogni volta sono rimasta incantata e assorbita da ogni cosa, il porto, la gente, gli annunci inudibili degli altoparlanti, l’odore, i gabinetti delle donne, i bar con le loro sigarette a buon mercato che mi rammarico di non desiderare, e cioccolato delizioso. Io compro cioccolato francese quando parto dall’Inghilterra, e cioccolato inglese al ritorno. C’è qualcosa di così solido e familiare nel cioccolato al latte di Cadbury in quadrotti da sei pence, e sei pence sembrano un prezzo straordinariamente esiguo per una tavoletta di cioccolato. Ne comprai due e con quelle andai a sedermi sul ponte; era una giornata meravigliosa, soleggiata e ventilata con un sacco di nubi bianche che correvano sfilacciandosi nel cielo. La gente continuava a stare male, cosa che mi rallegrava perché io non soffro mai il mal di mare e mi piace sentirmi più tosta degli altri. Ero lì seduta, con il vento che mi scompigliava i capelli e mi tornò in mente l’ultima traversata che era seguita a un soggiorno di un mese in Italia e un indicibile viaggio notturno su un treno di studenti partito da Milano: a parte che non ero riuscita a dormire e neppure ad assopirmi brevemente, mi ero anche congelata a morte, e non avevo con me neppure uno straccio di cappotto, solo una maglia abbondante e jeans leggeri, che si erano rivelati inadeguati a livello allarmante mentre il treno correva attraverso le Alpi gelide e le altrettanto gelide Strasburgo et cetera. Alla fine avevo abbandonato il mio posto ed ero anda6
ta a sedermi in corridoio, dove alla luce fioca delle stazioni di passaggio e delle fabbriche con i turni di notte avevo letto la Repubblica di Platone sulla quale la settimana successiva avrei dovuto scrivere un saggio. Una volta sul traghetto, Simon, che è un po’ un bon viveur alla sua maniera giovanile, aveva insistito affinché lui e Kay e io ci concedessimo un pasto come si deve al ristorante, e avevamo finito il chianti comprato appena prima di partire da Milano, e dopo ci eravamo seduti sotto il ponte, al calduccio e assonnati, in mezzo a un gruppo di immigrati cinesi provenienti da Diosa-dove. Era stato delizioso, ma era delizioso anche stare lì da sola nel vento a mangiare cioccolato e a fare gli occhi dolci agli uomini che passavano. Folkestone apparve al nostro arrivo così deliziosamente brutta, con tutti gli alberghi e le case a schiera dalle facciate monotone. Oh, ero molto allegra, fino al momento in cui salii sul treno. Odio i treni. Dormii senza interruzione fino a Londra, e mi svegliai con il mal di testa e un risentimento nei confronti del viaggio in generale. Ma insomma, mi dissi mentre trascinavo la valigia attraverso Charing Cross Station e la caricavo sull’autobus per Paddington, ma insomma, Louise è stata davvero egoista a costringermi a fare tutto questo viaggio per tornare a casa, in questo paese orrendo dove la gente non ti sorride mai e non ti pizzica il sedere quando passi, dove piove tutto l’anno e gli edifici sono i più repellenti del mondo. Quando arrivai a Paddington ero di umore nero, anche perché scoprii di avere appena perso il treno, quindi telefonai a casa senza eccessivo entusiasmo per informarli del mio ritorno. Quando finalmente qualcuno tirò su il ricevitore io dissi: “Pronto, sono Sarah, con chi parlo?” e una voce rilassata disse: “Louise”. “Santo cielo,” dissi. “Come stai?” 7
“Bene. E tu?” “Anch’io bene.” “Dove sei?” “A Paddington. Arrivo a New Street alle otto e cinque.” “D’accordo. Vuoi che venga a prenderti?” Questo mi scosse davvero. “Oh, non ce n’è alcun bisogno,” dissi. “Sono certa che lo farà papà, se glielo chiedi.” “No, no, ci penso io. Non mi dispiace uscire per un’oretta.” In quell’ultima frase mi parve di cogliere quasi un bagliore espressivo, quindi azzardai una domanda. “Come vanno le cose, lì a casa?” Louise emise un sospirone che fece vibrare la cornetta. “Oh, uno schifo,” disse. “Te lo puoi immaginare, gente tra i piedi, regali, l’albergo che vuol sapere il numero degli ospiti, lettere da scrivere, e la vecchia Daphne che fa la ficcanaso. Entra perfino in camera mia,” disse Louise, con toni di tale disprezzo che sembrava stesse parlando di un insetto molesto, non di una prima cugina. “Non ci fare caso,” dissi. “Tra ben poco sarai fuori da tutto ciò.” “È quello che mi dico.” “Il mio vestito è lì?” “Oh, sì.” “Spero mi vada bene.” “Se non ti va bene non è colpa mia. Ti avevo detto di tornare a casa prima per fartelo sistemare. E quando le hai mandato le tue misure in centimetri la signorina McCabe è andata in confusione.” “A Parigi non ci sono pollici.” “Oh insomma, non fa nulla, in ogni caso non potrai avere un aspetto peggiore di quello di Daphne, no?” 8
“Oh, Louise.” “Senti, è la verità.” “Dove sono tutti quanti, adesso?” “Stanno prendendo il tè.” “Capisco. Bene, allora è meglio se torni da loro.” “A presto,” disse Louise, riattaccando. Non era da lei un diminuendo di “Bene, è stato bello sentirti, e anche tu, grazie della telefonata, arrivederci, arrivederci, arrivederci, ’rivederci allora, ci vediamo, ciao ciao,” e fine. Andai a comprarmi l’“Evening Standard” e salii sul treno, dove lessi quello e Tenera è la notte (B meno) e guardai la campagna monotona, ravvivata solo, di tanto in tanto, dalla guglia di qualche chiesa antica. Cominciai a sentirmi sporca e appiccicaticcia e mentalmente confusa, e a fare pensieri meschini e superficiali sugli abiti da damigella d’onore e sulla nostra spaventosa cugina Daphne e sul perché diamine Louise avesse deciso di sposarsi a casa anziché a Londra. Insomma, a che serviva avere centinaia di ospiti e veli bianchi e champagne nel Warwickshire? Doveva entrarci qualche elemento di galateo, troppo raffinato perché io potessi comprenderlo: Louise era una grande, in fatto di galateo. E dunque, con la mente così sgradevolmente occupata, arrivai a New Street, e stoicamente, con animo irritato, tirai giù le valigie dalla reticella e le trascinai lungo il binario. Stavo per pensare “Naturalmente lei non è puntuale” quando avvistai Louise, che aveva la schiena rivolta al treno e al binario, e stava giocando con una di quelle macchine per stampare targhette. Sembrava mezza addormentata e distratta. Fui travolta dalla solita invidia nel prendere nota dei suoi capelli magnificamente raccolti in una crocchia, del color beige chiaro e della impeccabilità della sua maglia, dei suoi pantaloni di lino dall’aria ben stirata. Anch’io 9
avevo addosso dei calzoni di lino, ma i miei erano del tipo sformato sul ginocchio, e all’improvviso mi sentii sciatta e sporca dal viaggio, ridotta come una scolaretta con la cintura mal messa, l’impermeabile che penzola sulle caviglie e una treccia sfatta. Louise mi fa sempre questo effetto. Sempre. Misi giù la valigia, mi scostai i capelli dagli occhi e dissi: “Ciao, Loulou”. Lei si girò e disse: “Oh, eccoti qui”. Poi si girò di nuovo verso la macchina e schiacciò il pulsante. Ne uscì una targhetta metallica. Louise la guardò e poi la buttò per terra. Le diedi un’occhiatina. Diceva louise bennett xxxxxxxx. “Mi chiedevo se avessi azzeccato il treno,” disse. “Certo che lo hai azzeccato,” dissi. “Era un treno orribile. Grazie al cielo è finita, non ne potevo più di viaggiare.” “Bene, allora andiamo,” disse. “Cerchiamo un facchino.” Glielo lasciai cercare senza protestare, e lei ci riuscì senza difficoltà, dato che tutti i facchini liberi la stavano comunque fissando a bocca aperta. E lei si incamminò con passo tranquillo da ereditiera, e io la seguii strascicando i piedi come Cenerentola o meglio come le sue sorelle brutte dopo l’episodio della zucca. Louise non disse nulla finché non arrivammo alla macchina (mi toccò dare la mancia al facchino con uno dei miei ultimi scellini); lì lei accese il motore, si guardò nello specchietto retrovisore con quella sua tipica, trattenuta nonchalance narcisistica, sistemò lo specchietto e disse: “Allora, com’era Parigi?”. Avrei voluto che riuscisse a parere un po’ più interessata. “Non lo so,” dissi. “Piuttosto meravigliosa, suppongo.” Louise ingranò la marcia e andammo. Guida abbastanza bene, secondo me. “Immagino che tu abbia fatto comunella con tutti quei beatnik,” disse, dopo un’altra lunga pausa. 10
“I beatnik vengono dall’America,” dissi. “A Parigi ci sono gli esistenzialisti.” “Ancora?” “Perché no?” “Oh, non saprei.” “In ogni caso non ci ho fatto comunella. Ho passato la maggior parte del tempo in compagnia di alcune ragazzine brillanti e sciocche cui davo lezione, e con un tizio di nome Martin che lavorava in una libreria.” Ripensai a Martin e divenni espansiva: raccontai a Louise di come io e lui fossimo soliti fare colazione insieme al bar sotto la mia stanza in affitto, e di come Martin parlasse un francese così magnifico che tutti erano convinti che fosse francese, nonostante lo avesse imparato a scuola al pari di chiunque altro, e del giorno in cui eravamo andati a Versailles e il nostro treno era rimasto bloccato su un binario di servizio. Mi divertii nel rievocare l’episodio, anche se non divertii molto Louise. In cambio lei mi diede assai poco – alcune bizzarre affermazioni sui nostri cugini Daphne e Michael e su zia Betty, la triste sorella vedova di nostra madre, e sui regali di nozze. Su Stephen non una sola parola. Dopo un po’ scivolammo nel silenzio. Guardai fuori dal finestrino. Dall’auto la campagna appariva così diversa: appariva unica e bella, non piatta e funerea. Una volta attraversato il paesaggio industriale, che io giudico emozionante e solenne, la rusticità è incantevole. Il crepuscolo era imminente e i colori autunnali erano più profondi e carichi nella luce morente: i campi di grano erano marrone scuro e oro, punteggiati estaticamente di papaveri. Ero commossa da quel miscuglio di tonalità. Il cielo era purpureo, con sprazzi di luce che in qualche modo ci venivano più vicini davanti a un cupo, massiccio fondale 11
di nubi che parevano di pelouche. Oh, era bello, faceva molto Inghilterra ed era bello. Perché mai non ce ne sono abbastanza, perché mai non servono queste cose, come gli arcobaleni e i campi di grano. Mi godo sempre l’arrivo a casa per quanto possa poi odiarla, una volta che ci sono. La speranza sgorga sempiterna nel petto umano, questo è certo, e dopo ogni assenza penso che magari la mia famiglia sarà migliorata, anche se non migliora mai. Una vaga sensazione di calore e conforto mi prese mentre percorrevamo il vialetto e vidi mamma, che aveva sentito l’automobile, ritta sulla soglia. Era così estasiata nel vedermi, così commossa ed emozionata per il mio arrivo, che fui contagiata dal suo entusiasmo. Ero sempre stata la prediletta di mamma. A volte mi disprezzo per aver ceduto alla comodità dei pasti assicurati e dei letti rifatti, ma lei non ci vede proprio niente di male. Mia madre non giudica una debolezza il desiderio di essere accuditi, lo trova naturale, pensa che io sia pazza a preferire la sporcizia e la stanchezza e la solitudine che sono pronta ad affrontare pur di conquistare un senso di speranza. Tuttavia ho bisogno sempre di almeno un giorno, o anche due, per rendermi conto del perché in questa casa io non abbia alcuna possibilità, e così quella sera mi accomodai abbastanza confortevolmente tra le facce e i mobili del salotto per mangiare il mio pollo freddo, e pensai quanto fossero in realtà piacevoli e al di là di ogni critica la moquette e le tende con le mantovane e le luci a parete a candeliere e i campanelli che paiono campane. Convinsi mio padre ad aprire la bottiglia di liquore che gli avevo portato dalla Francia, e lo bevemmo con il caffè, e ci raccontammo aneddoti e ascoltammo i problemi del matrimonio e ammirammo i regali di nozze. Avevo portato qualcosa a ognuno: il Cointreau per 12
papà, profumo per mamma e zia Betty e Daphne, cinque libri in vecchie edizioni popolari per Louise e una cravatta per Michael, non scelta da me. A quanto pareva era di suo gradimento: era l’unico dono sul quale avessi avuto dei dubbi. Alcuni dei regali di nozze di Louise erano stupendi, deliziosi oggetti in cristallo e scaldavivande e argenteria. Ma Louise non pareva particolarmente interessata. Sembrava che la cosa non la riguardasse. A me piace il cugino Michael. Abbiamo esattamente la stessa età, siamo nati a due settimane di distanza, e da bambini andavamo molto d’accordo. Daphne ha tre anni di più, ha l’età di Louise, una ragazza semplice e occhialuta, adesso fa la maestra, ed è una di quelle, immagino, che portano la disperazione nei cuori delle giovani alunne quando queste vedono i sottili grigi orizzonti della maturità attraverso simili lenti. Era stato l’unico vantaggio di cui avevo goduto su Louise nella nostra prima infanzia, che Michael fosse amico mio, non suo: quando andavamo a stare da mia zia in occasione delle vacanze troppo frequenti, che i miei genitori facevano senza di noi, in me cresceva il senso di autostima e di arricchimento, mentre Louise si rifugiava irritata in un libro e si rifiutava categoricamente di giocare con Daphne. Allora non mi rendevo conto, anche se adesso sì, che Louise doveva essere stata molto gelosa di me e Michael; di solito a casa nostra non facevo che darle il tormento, volevo che Louise mi parlasse o mi portasse con sé nelle sue spedizioni, ma a casa della zia B. non avevo alcun bisogno di affliggerla. E in effetti parte del piacere di giocare con Michael era dato dal sollievo di non essere costretta a disturbare Louise, che immancabilmente reagiva rispondendomi male o facendo la prepotente o ignorandomi: ma in realtà penso che sentisse la mancanza 13
delle mie attenzioni timide e ossequiose. In ogni caso un po’ del vecchio legame tra me e Michael era rimasto: lui era un ragazzone da rugby, ma del tipo proprio piacevole, e chiacchierammo un bel po’ di Parigi e lui mi raccontò della sua nuova ragazza. Disse che a sua volta sarebbe partito per la Francia il mese successivo e io pensai di dargli l’indirizzo di Martin. E mentre tutti noi parlavamo e bevevamo il nostro Cointreau e gongolavamo compiaciuti, Louise sedeva alla scrivania di mia madre, sulla sedia con la fodera di tappezzeria a rose, e scriveva lettere di ringraziamento con la sua grafia gigantesca e disordinata. La massima attrazione per il comfort la provai nell’andare a letto. C’è qualcosa di così attraente nella mia stanza da risultare – dopo i letti francesi, i mozziconi sparsi ovunque e il vino sul copriletto – totalmente demoralizzante. Dopo essermi svestita davanti a un caminetto a gas acceso senza motivo, gironzolai per la camera aprendo cassetti e guardando vecchi indumenti di cui avevo dimenticato l’esistenza e vecchie lettere, e me stessa nei grandi specchi di servizio. Poi mi infilai nel letto e mentre ero lì che leggevo tra le lenzuola pulite e ben rimboccate, immersa in un piacere zitellesco, mi chiedevo perché diamine detestassi così tanto lo stare a casa mia.
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Estratto da Margaret Drabble, Voliera estiva Titolo originale dell’opera A Summer Bird-Cage Traduzione dall’inglese di Marina Morpurgo © Margaret Swift 1963 © 2013 astoria srl via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano Prima edizione: agosto 2013 ISBN 978-88-96919-66-8 Progetto grafico: zevilhéritier
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