Quando soffia il vento

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Quando soffiano i venti del cielo, gli uomini tendono a butta­ re indietro la testa come cavalli, e ad allungare con forza il passo nelle raffiche, pretendendo di essere molto più sani di quanto in realtà non siano; le donne invece cercano di avanzare lentamen­ te, rattrappite negli abiti e cercando mestamente di tenere fermi cappelli e chiome. A Louise Bickford, in quella giornata di tardo aprile, il vento che soffiava forte per le strade di Londra sembrava un nemico personale e astioso, che si girava per incontrarla qualunque fos­ se la direzione che prendeva, e che ne schiaffeggiava la piccola figura negli spazi più aperti, chiamando schiere di riserva per assalirla di nuovo a ogni angolo. Aveva avuto intenzione di andare al Parco e guardare i fiori primaverili, ma presto fu così stanca di combattere contro la dia­ bolica determinazione del vento di strapparle abiti e capelli, che preferì entrare in una sala da tè a ravvivarsi i capelli e a ripren­ dere fiato, finché non fosse arrivata l’ora di trovarsi con Miriam e i bambini a Marble Arch. Miriam era la figlia maggiore di Louise. Aveva dato alla luce tre femmine, con sua grande sorpresa, perché il marito ci tene­ va moltissimo ad avere un maschio, e Louise aveva l’abitudine di dargli sempre tutto ciò che chiedeva. Non essere riuscita a dargli un figlio dotato di un lungo naso sprezzante come il suo,


per guardare il mondo dall’alto in basso, non aveva certamente contribuito a migliorare il giudizio sull’utilità di sua moglie nei confronti della società. Miriam doveva comprare gli abiti da scuola per il trimestre estivo. Non lasciava che la madre andasse per negozi con lei, perché Louise chiacchierava troppo con le commesse e creava confusione con suggerimenti irrilevanti. Oggi si erano separate do­po aver pranzato al ristorante e Louise, che non poteva per­ mettersi di comprare vestiti per sé, aveva passeg­giato guardando le vetrine, finché la truculenza del vento instancabile non l’aveva cacciata nel porto uni­versale di Lyons. Era quell’ora di metà pomeriggio in cui quelli che devono fare un intervallo a metà mattina e poi prendere un tè anticipato si mescolano agli acquirenti stravolti dalle commissioni, per pro­ curarsi un boc­cone che li tenga in vita fino alle cinque e mezza. Quando ebbe fatto la fila e pagato il suo dolce e la sua tazza di tè, Louise non riuscì sulle prime a trovare un posto libero dove deporre il vassoio. Essendo londinese, non la spaventava dover rimanere in piedi con un vassoio in mano in mezzo a una folla di gente armata di vassoi simili al suo, cari­chi di cibi inconsueti per quell’ora, mentre le came­riere ammucchiavano i piatti sporchi e ripulivano i tavoli con stracci umidi. Camminò qua e là, decisa, girando all’infuori i piedi nelle scarpe strette e fuori moda, che comprava da trent’anni sempre nel medesimo negozio, finché non vide una sedia vuota vicino a un tavolo addossato alla parete, e la raggiunse con facilità supe­ rando un uomo in impermeabile un po’ oscillante. Due ragazze stavano discorrendo con aria seria al di sopra degli avanzi del loro tè, mentre di fronte a Louise un uomo grasso, di mezza età, dagli abiti lievemente consunti nei punti di frizione, mangiava biscotti e leggeva un giallo in edizione economica. Finito il dolce, Louise accese una sigaretta e la fumò a boccate rapide, ingenue. A Dudley non piaceva che lei fumasse e sebbene fosse vedova da più di un anno e si fosse messa a fumare appena tornata a casa dal funerale del ma­rito, era ancora inesperta. 2


Tese la mano per prendere il portacenere, perché voleva la­ sciare cadere a frequenti colpettini la cenere, come aveva visto fare alle persone nervose e affaccendate. Louise non era né ner­ vosa né affaccendata, ma quando si trovava a Londra, in mezzo a gente che sembrava fare qualcosa di importante in gran fretta, le piaceva comportarsi come loro. Forse l’uomo grasso e le ragazze che spettegolavano con tan­ ta serietà l’avrebbero presa per la direttrice di una sartoria o di un’agenzia di viaggi, o forse addi­rittura per l’autrice di importan­ ti memorandum nei palazzi di Whitehall. Louise si preoccupava sempre molto di cosa pensasse la gente di lei e di come la consi­ derasse, senza rendersi conto che di solito una signora piccola, di mezza età, dai tratti schiacciati e dai capelli non più castani e non ancora grigi, passa inosservata. Tese la mano verso il portacenere con gesto deciso, e rovesciò il fondo del suo tè sul libro dell’uomo grasso, che lo aveva appe­ na chiuso con un sospiro prolungato e soddisfatto. Una piccola pozzanghera si distese sulla copertina e sul seno grottescamente appuntito che teneva su il costume da bagno della ragazza assas­ sinata, e la carta lucida cominciò ad afflosciarsi e a raggrinzirsi. “Sono davvero desolata. Non so come mi sia capitata una cosa simile,” ansimò Louise, per quanto rovesciasse roba tutti i giorni, essendo per natura maldestra. “Non si preoccupi,” disse lo sconosciuto, con quella voce sor­ prendentemente morbida, inadatta alla loro mole, che hanno a volte le persone grasse, come un soffio che esca da un mantice rotto. “Non ha importanza.” “Oh, ma sì invece. Dobbiamo procurarci uno straccio…” Louise si guardò attorno cercando una delle cameriere addet­ te alla pulizia dei tavolini, ma l’uomo ripeté: “La prego, non si preoccupi. Non ne vale la pena”. Tuttavia tamponò il libro, me­ ticolosamente, con un fazzoletto di seta strappato, asciugando con cura quasi amorosa il sangue e il seno della ragazza sulla copertina fradicia di tè. Le due ragazze, che avevano alzato gli occhi quando Louise 3


aveva rovesciato il tè, si scambiarono uno sguardo con lievi sorrisi trattenuti e, inarcando le so­pracciglia, si sollevarono a un livello superiore, dove la gente non era così sciocca. L’incidente aveva interrotto la loro conversazione; quindi, dopo poco, si pulirono la bocca dandosi leggeri col­pettini con i tovaglioli di carta e la­ sciarono il tavolo. Louise ne vide una voltarsi, mentre si diri­geva verso la porta, e capì che stavano parlando di lei. “Non abbia un’aria così desolata,” mormorò il grassone, in modo così amichevole anziché da estraneo, che Louise, alla quale nemmeno il matrimonio con Dudley aveva insegnato a parlare con prudenza, si sentì incoraggiata a dire: “Se si sapesse ciò che pensa e dice la gente di noi, dietro le nostre spalle! La vita sareb­ be meno misteriosa e difficile”. “Perché dovrebbe importarle?” domandò l’uomo. “La gente dice ogni sorta di cose spiacevoli su di me là dove lavoro, e allora?” Louise si curvò in avanti. Com’era meraviglioso che, invece di ritrarsi come avrebbe fatto la maggior parte delle persone di fronte alla frase sfuggitale con troppa confidenza, l’uomo grasso le avesse risposto con tanta naturalezza, come non vi fosse nulla di strano nell’iniziare una conversazione da Lyons sugli aspetti misteriosi dell’esistenza. Gli rivolse uno di quei suoi sorrisi larghi e dolci che erano la cosa più graziosa che il suo volto potesse offrire. “Sono sicura che non lo fanno,” disse. “E io so che le dicono, perché c’è chi è così gentile, ogni tanto, da riferirmele. Ma non mi disturba. Suppongo dipenda dalla mia grassezza.” Era inutile protestare: “Oh, ma lei non lo è,” perché era così evidente che lui si sentiva grasso, dal modo come sedeva sulla sedia e sbuffava un poco par­lando, che Louise si limitò a dire: “A me disturba, invece, per quanto sia anch’io un po’ pienotta. Sempre”. “Sempre la disturba o sempre è stata pienotta, signora?” do­ mandò lui cortesemente, come un salumiere che domandasse: “Pancetta o ventresca?”. “Tutte e due le cose. Mio marito mi chia­mava Cicciotta.” Le 4


pareva ancora di udire Dudley mentre lo diceva, guardandola dall’alto della sua enorme statura, come se lei fosse un orsac­ chiotto di peluche. “Se questo era il nomignolo più carino che le dava,” disse l’uomo grasso talmente sottovoce che Louise afferrò le parole a malapena, “non era poi tanto fortunata.” Per quanto, a ripensarci ora, fosse probabilmente uno dei no­ mignoli più carini che Dudley avesse usato negli ultimi anni della loro vita in comune, Loui­se non si sentì offesa. Quella casuale conversazione nella sala da tè era iniziata in modo così stimolan­ te, ed era così diversa dai soliti discorsi brillanti e privi di senso che era abituata a sentire dalle persone che aveva conosciuto in casa di Miriam! Prese in simpatia l’uomo grasso con la sua pelle cascante e gli occhi miti, mezzo nascosti, e la sua voce lontana, mormorante, come di un prete nel con­fessionale. Sperava che non si alzasse per andarsene. Rimase, ripiegando il fazzoletto per strofinare la copertina del libro scadente come si trat­tasse di un’edizione rara. Louise domandò di nuovo scusa. “Temo di averlo rovinato. È uno dei suoi preferiti? Anche a me piacciono i gialli. Miriam, mia figlia, sta tentando di rifarmi il gusto. I libri come questo devo tenerli in un cassetto, perché, se li lascio vicino al letto, me li toglie e li sostituisce con una biografia che secondo lei dovrei leggere, oppure con uno di quei romanzi che scrivono oggi su gente inquieta che pensa cose per pagine e pagine.” “Le piacciono questi?” L’uomo si appoggiò allo schienale e spinse il libriccino verso di lei, ricopren­dolo interamente con la mano gonfia. “Questo lo ha letto?” “Non mi pare. La ragazza dal bikini insanguinato. Il titolo sembra affascinante. È bello?” “Non deve domandarlo a me.” Abbassò gli occhi dalle grandi borse. “L’ho scritto io.” “Lei!” Louise lo guardò con occhi sgranati, stu­pefatta. Le labbra molli di lui tremavano lievemente, men­tre tendeva imbarazzato la mano per ripren­dersi il libro. 5


“Sono desolata,” fece Louise. “Non intendevo mostrar­mi vil­ lana. Era solo che… Beh, lei non ha l’aspetto di uno che scriva libri come questo.” “Che aspetto hanno le persone che scrivono libri come questo?” “Non ci ho mai pensato.” “Nemmeno io, finché un giorno mi è passato per la mente. Ero in vacanza, solo, e non avevo nulla da fare; così presi a nolo una sdraio e seduto in riva al mare lessi uno di questi libri al giorno, per due settimane. Chi li scrive? cominciai a domandarmi. Non si trat­ ta forse semplicemente di gente qualunque, che si può incontrare ogni giorno per strada? E poi pensai: ‘Perché non io?’” “Che pensiero intraprendente!” Louise era since­ramente am­ mirata. “Non avrei mai pensato…” Tutta la vita aveva creduto che certe persone potessero fare delle cose e certe no; e che fosse inutile tentare di fare le cose che altri erano nati per fare, come giocare a tennis o suonare il piano o anche scrivere un libro, se è per questo. Rimase talmente incantata dalla rivelazione del grassone, che non si rese quasi conto dell’uomo enorme e della ragazza anemica, che si erano seduti intanto al tavolo, e stavano ascoltando interessati la loro conversazione. “Così, quando rincasai,” proseguì l’uomo, “chiusi a chiave la porta per tenere fuori la padrona di casa, alla quale piace chiac­ chierare, e scrissi un giallo, mettendoci dentro tutte le cose più scioccanti, mi scusi, che mi vennero in mente. Anche così non era però tanto scioccante come certi che avevo letto, ma l’editore lo accettò e me ne domandò ancora.” “Che cosa meravigliosa,” disse Louise; e l’uomo e la ragazza si scambiarono con il capo cenni di ammira­zione; poi, vedendosi scoperti da Louise, si volsero in fretta al loro tè, fingendo di non essere stati in ascolto. Louise guardò di nuovo il libro, sforzandosi di con­ciliare la co­ pertina volgare con la docile massa umana che le stava di fronte. “Lester Drage,” lesse. “È veramente lei?” “Press’a poco. Sono io e parecchia altra gente. L’editore ha sei o sette nomi di autori, e parecchi scribacchini anonimi come 6


me forniscono il materiale che loro dovrebbero scrivere. Non ci si guadagna né fama né ricchezze, e la maggior parte delle persone che sanno quello che faccio mi considerano un po’ sciocco, ma io mi ci diverto.” “Ma certo.” Louise aggrottò le sopracciglia disu­guali, perché stava per dire qualcosa d’intelligente. “È un lavoro creativo. Cia­ scuno deve creare qualcosa per giustificare la propria esistenza.” Aveva sentito da qual­cuno questa frase, e le sembrava giusta. Per parte sua non ricordava di aver mai creato nulla, tranne un tap­ peto all’uncinetto, un inverno che era malata, e le sue tre figlie: il che sperava potesse bastare come giustificazione. “Grazie,” disse lo pseudo Lester Drage, con un sorriso che gli increspava la parte più bassa del viso in pieghe semicircolari. “Lei è davvero incoraggiante. Chis­sà,” si schiarì la gola smuoven­ do un po’ di catarro che gli rese rauca la voce, “chissà se potrei do­mandarle di leggere questo mio piccolo sforzo? È il sesto. Il migliore, credo. Mi importa la sua opinione.” “Ne sono lusingata,” disse Louise, la cui opinione veniva ri­ chiesta assai di rado. “Mi piacerebbe tanto leggerlo.” Prese il li­ bro tenendolo capovolto in modo da non far sembrare che stesse guardando troppo la copertina vol­gare, sessuale. “Che peccato che non mi entri nella borsetta. Miriam non sarà molto contenta di veder­melo tra le mani. Crederà che mi sia attardata ancora una volta intorno alle bancarelle. Mi aveva detto di andare a vedere un’esposizione di ritratti, e invece non ci sono andata. Oh Dio, temo di dover andare, se voglio essere a Marble Arch all’ora fissata.” “Anch’io,” disse l’uomo, “altrimenti il signor…,” e nominò un grande emporio, “crederà che finalmente sia morto. Sto nei letti, laggiù, sa.” “A letto?” Louise aggrottò le sopracciglia. “Vendo letti. Per dormirci dentro.” “Ah sì, capisco. Com’è interessante,” fece Louise con vivacità; incerta se dovesse mostrarsi contenta o impietosita per lui a tale notizia. “Non avevo mai incontrato una persona che vende letti. 7


Cioè, mai fuori del negozio. Naturalmente ho comprato anch’io qualche letto, ma…” Cominciava a suonare sciocca alle proprie orecchie, quindi s’interruppe e gli sorrise in modo così carino, che lui si chinò in avanti con un grugnito, dicendo: “Leggerà davvero La ragazza dal bikini insanguinato?”. Pronunciò quel titolo senza difficoltà. “Non deve, sa, e se…” “Ma lo desidero!” Louise adesso era ansiosa di leg­gerlo, per scoprire cosa poteva sapere di delitti, di sesso e di violenza un uomo che vendeva letti per cinquanta settimane all’anno. “Deve darmi il suo indirizzo, così glielo restituirò. Le darò anche il mio, se vuole. Sto da mia figlia.” Trovò uno dei suoi vecchi biglietti da visita nella borsetta e cambiò l’in­dirizzo, mettendoci quello lieve­ mente imbarazzante di Miriam: Pleasantways, Monk’s Ditchling, Bucks. Il grassone strappò una pagina da un’agenda tasca­bile e vi scribacchiò su: Gordon Disher, e un indirizzo di West Kensing­ ton. Il nostro Mr Disher: a Louise sembrava di sentirli nel reparto letti. “Il nostro Mr Disher si occuperà di lei,” e il grassone veniva avanti rullando, con la sua espe­rienza trentennale, sapendo tutto di molle e rivestimenti. “Il mio biglietto da visita,” disse lui, consegnandole il foglietto di carta, e lei si domandò se la stesse pren­dendo in giro perché lei ne aveva uno stampato. Lo sa il cielo quanto di rado se ne servisse. Aveva ancora qualcuno dei biglietti che Dudley le aveva fatto ordinare quando si erano sposati. Louise e Mr Disher si alzarono per uscire in­sieme. L’uomo e la ragazza seduti al tavolo avevano terminato il loro tè e non si lasciavano sfuggire nulla. Che cosa pensano? si domandò Louise. Che l’ho adescato? È vero, in fondo. Oppure lui ha adescato me. Questa sarà una cosa da raccontare a Miriam. Una vera avven­ tura. Di solito è così noioso quel che mi tocca raccontare quando mi domandano che cosa ho fatto. Fuori della porta, costantemente in moto adesso che l’ora del tè era al suo culmine, il vento temporaneamente dimenticato, assalì Louise come fosse rimasto proprio lì ad aspettarla. 8


“Oh, questo vento!” si lamentò. “Non lo odia?” “È sano, dicono,” osservò distrattamente Mr Disher. Si era intanto messo in testa un cappello grigio un po’ piccolo, dalla falda morbida e piatta che dava l’impressione di aver preso la pioggia. I suoi capelli erano troppo lunghi sulla nuca e pende­ vano in una frangia serica sotto il cappello. Per quanto Louise supponesse che dovesse avere all’incirca la sua stessa età, aveva ancora un sacco di capelli sottili, morbidi, del colore dell’argento opaco. Gordon Disher si tolse il cappello sollevandolo piuttosto in alto. “Per favore, mi scriva,” disse, così piano che Louise si do­ mandò se avesse sentito davvero quelle parole, prima che il vento le portasse via e con esse Mr Disher, il quale affrontava le raffiche con la giacca aperta come una nave dalle vele quadre. Miriam Chadwick aveva parcheggiato la macchina con den­ tro i bambini, che litigavano stanchi dopo tante commissioni, accanto a una cabina telefonica nei pressi di Marble Arch. In quel momento stava telefonando a sua sorella Eva. “Senti un po’, Eva,” disse Miriam, “vorrei che tu non fossi così vaga.” “Hai bisogno della stanza degli ospiti per qualcun altro?” “Beh, no, non esattamente, ma vorrei soltanto che tu mi fis­ sassi una data.” “È così difficile. Davvero, Miriam, non voglio essere meschi­ na, ma sto leggendo una commedia, ed è così emozionante. Po­ trebbe significare davvero qualcosa di grosso per me. E la bbc sta iniziando una nuova serie, e tutto l’ambiente è piuttosto in agita­ zione. E poi ci sono… altre cose, anche, in questo momento.” C’era David. Seduta sul pavimento, Eva rabbrividì a un tratto, per quanto indossasse un ma­glione a collo alto e calzoni neri aderenti. Che cosa sarebbe successo con David? Non lo sapeva nem­meno lei. “Sai come stanno le cose, Miriam. La mamma… Dio la be­ nedica, le voglio tanto bene, ma…” 9


“Le voglio bene anch’io”, disse Miriam seccamente. “E l’ho avuta in casa per due interi mesi. Quando può venire da te?” “Perché non sei mai nel posto dove ci siamo messe d’accordo d’incontrarci?” domandò Miriam con la sua voce limpida, uni­ forme, mentre si allontanavano da Marble Arch, intorno al quale aveva dovuto girare due o tre volte prima di trovare la madre, che l’aspet­tava in un punto sbagliato. “Me ne dimentico, cara,” disse Louise placida­mente, cercan­ do d’interrompere la futile discussione su Dov’eri? e Lo sai che si era detto… alla quale si sarebbero uniti anche i bambini, e che ormai era completamente inutile, visto che ora erano felicemente tutti insieme. “Oh, non-na!” I due figli più piccoli di Miriam, Simon e Judy, erano sul sedile posteriore, seccati di non essere davanti, dove stavano di solito quando non c’era la nonna. La sorella maggio­ re, Ellen, undicenne, era rimasta a casa con la donna a mezzo servizio. Frequentava una scuola pubblica, e quindi non aveva bisogno degli abiti costosi senza i quali la vita, nel collegio di Simon, era tradizionalmente insopportabile. Anche la piccola Judy frequentava una scuola pubblica, ma la facevano partecipa­ re a queste spedizioni nei negozi, mentre Ellen di solito rimaneva a casa. “Com’è andata?” domandò Louise, voltandosi per dare ai bambini le tavolette di cioccolata che aveva comprato per loro, e che furono esaminate con occhio critico prima di essere scartate. “Oh, come al solito,” disse Miriam. “Mancava quasi tutta la roba della misura di Simon, si sa; ma hanno promesso di man­ darmela a casa.” “Non è da impazzire?” Louise entrò con gioia nella discus­ sione sulle compere, che aveva scoperto essere un argomento su cui una madre poteva discutere senza problemi con una qualun­ que delle proprie figlie, senza venire interrotta bruscamente per aver detto qualcosa di sbagliato o d’irritante. Le madri andavano bene per i discorsi sui vestiti e i negozi, che avrebbero annoiato 10


il marito o un’amica intelligente. Questa era una delle cose a cui servono le madri. Miriam chiacchierò piacevolmente mentre guidava nel traffi­ co del tardo pomeriggio, uscendo da Londra per dirigersi verso il paese dove lei e il marito avvocato avevano messo su casa. Non era più un paese, ormai, ma i londinesi che andavano avanti e indietro tra casa e ufficio, lo chiamavano ancora così e credevano di abitare proprio in campagna. Louise, che aveva trascorso l’infanzia in una fattoria dello Shropshire, sapeva che non lo era, e non le piaceva il continuo uso affettato di travi e di tetti di paglia nelle case che ospitavano negozi di lusso e circoli raffinati e uomini d’affari irrigiditi negli abiti di tweed. Tuttavia, quando una volta l’aveva definito un sobborgo pomposo, Miriam e Arthur le erano saltati alla gola con tanto orrore come se li avesse accusati di abitare in un quar­ tiere miserabile. Qualche volta Louise guardava la figlia maggiore e faceva un po’ fatica a credere che quella donna alta e tanto padrona di sé fosse stata, una volta, acciambellata dentro di lei, disar­ mata ed inerme. Non sembrava possibile. La ragazza, come la chiamava ancora Louise (chiamava tutte le sue figlie “ragazze” e probabilmente avrebbe continuato così anche quando avessero superato abbondantemente i quarant’anni), la ragazza era così indipendente, un’entità talmente separata, che si muoveva nella vita tenendosi dritta, senza bisogno di sostegni o di spinte. Miriam aveva i capelli rossi: era sottile, elegante e di tratti piuttosto inespressivi. Tutto in lei – le mani, i piedi, il naso, il collo – era lungo, slanciato e raffinato. Aveva un’aria fresca anche quando cucinava un pasto per sei, e il cassetto della sua bianche­ ria era una gioia a vedersi. Il tratto migliore di Miriam erano quei suoi occhi seri, verdi, che da qualche anno teneva nascosti dietro occhiali dall’orlo co­ lor pastello. Louise si era rattri­stata per lei quando l’aveva vista la prima volta con gli occhiali, ma poi ci aveva fatto l’abitudine e si era accorta che in realtà essi donavano al suo viso poco emotivo, 11


quasi completandolo. Quanto a Miriam, non le dispiacevano. Erano un altro pezzo di armatura dietro il quale poteva nascon­ dere qualsiasi cosa vi fosse in lei di tenero e vulnerabile. “Che cosa hai fatto, mamma?” domandò, quando ebbero esaurito l’argomento dei prezzi iniqui e dei commessi frettolosi e sgarbati. Le figlie la chiamavano tutte mamma. Non la chia­ mavano mammina fin da quando Miriam, a otto anni, chissà perché, aveva co­minciato a chiamarla mamma: e le altre due l’avevano imitata. “Hai visto la mostra?” domandò Miriam, con le mani inguan­ tate leggere e abili sul volante nella posizione delle “due meno dieci,” consigliata dal codice della strada. “Beh, no, cara. Non ne ho avuto il tempo. Il pome­riggio è volato. E poi c’era tanto vento. Non potevo più rimanere per strada, e così sono entrata da Lyons.” “Oh, nonna.” Simon si appoggiò allo schienale del sedile an­ teriore. “Vai sempre da Lyons, tu. Papà dice che è la tua casa spirituale. Hai mangiato fa­gioli stufati?” “No, perché avevamo appena pranzato, capi­sci.” Louise ri­ spondeva con serietà anche alle più sciocche domande dei bam­ bini. Trovava che Miriam e Arthur li zittissero troppo spesso, o che se ne sbarazzassero con una risposta distratta. “Ho preso una tazza di tè e una di quelle torte che sono più belle a vedersi che buone a mangiarsi. E ho conosciuto un uomo davvero simpatico,” disse a Miriam. “Era seduto al mio tavolo, e abbiamo chiacchierato insieme. Era grasso e gentile, e aveva un’aria piuttosto trascurata. Vende letti. Mi è parso delizioso.” “Questa poi, mamma.” Louise sapeva che Miriam avrebbe detto così, come se avesse visto le parole scritte sul parabrezza, pronte affinché Miriam le co­gliesse e se ne servisse. “Qualcuno deve pur vendere letti, immagino. Ma fa anche qualcos’altro. Scrive libri.” Miriam sollevò le sopracciglia. “Non di quelli che tu chiameresti libri, lo so, ma del tipo che piace a me. Questo tipo di libri scioccanti.” Mostrò a Miriam 12


La ragazza dal bikini insanguinato e poi voltò il libro sulle ginocchia perché i bam­bini non ne vedessero la copertina. “Me l’ha prestato. Voleva conoscere il mio giudizio. Ora non dire ‘Questa poi, mamma’, perché era simpatico e davvero cor­ diale. Era un po’ grossolano, forse, ma mi piaceva.” Louise as­ sunse il tono di leg­gera sfida che ogni tanto tentava di adottare per ricordare a Miriam chi era la madre e chi la figlia. “Ecco la mamma che fa di nuovo la democratica,” disse Mi­ riam, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Louise aveva voglia di parlare di Gordon Disher e di tentare di descrivere la strana e rassicurante emozione che aveva provato nel trovarsi improvvisamente capace d’iniziare una conversazio­ ne intima con uno sconosciuto; ma Miriam non mostrava inte­ resse e si mise a parlare con i bambini. Louise tacque e cominciò a leggere il libro, dove già nella prima pagina echeggiavano urla e un colpo di pistola. Avrebbe parlato a Ellen di Mr Disher, appena arrivata a casa. Ellen avreb­ be ascol­tato. Ellen desiderava condividere tutto ciò che acca­deva alla nonna. La ragazzina ossuta e la donna di mezza età erano tranquille alleate in una casa dove nessuna delle due si trovava a proprio agio. La casa di Miriam si trovava alla periferia del villaggio di Monk’s Ditchling, al termine della strada che passava vicino al prato ordinato e alle rimesse, ai negozi d’antichità, al bar, che tutti chiamavano ancora pub, e al droghiere che vendeva foie gras e pesche al brandy. Non era la casa più bella, perché intorno ce n’erano parecchie molto costose e magnificamente tenute; ma era abbastanza piacevole, ben decorata e di buon gusto. Era una casa vecchia, così ben restaurata che non si capiva quali fossero le travi originali e quali le nuove, e nemmeno in che punto le tegole d’ardesia dell’epoca vittoriana fossero state tolte dal tetto della cucina per esser rimpiazzate con tegole levigate acquistate senza badare a spese quando Arthur aveva vinto la sua prima grossa causa penale. 13


Il giardino era in ordine, con le giunchiglie tutte in fila nel­ le aiuole invece di essere sparpagliate nel­l’erba e sotto le siepi. C’era un cancello d’accesso al viale con un piccolo tetto di pa­ glia. Questo particolare era un errore, dal momento che la casa, l’autorimessa e i depositi erano coperti di tegole; ma nel vicinato erano così tanti i pesanti tetti di paglia che coprivano le case e le dépendances, che non si aveva la sensazione di appartenere davvero all’ambiente se non si faceva lavorare il vecchio con la bombetta verde – “Assolutamente l’ultimo impagliatore di tetti che sia rimasto nel paese. Siamo fortunati ad averlo” – con la sua paglia svolazzante, le sue cesoie e le sue dispotiche richieste di birra. Un vero tipo. Sarebbe rimasto sorpreso di sapere d’essere un così animato argomento di conversazione durante le cene lo­ cali, per le quali, finita la guerra, gli ospiti avevano ricominciato a mettersi lo smoking e gli abiti lunghi. Quando passarono sotto quell’inutile paglia, videro Ellen che aspettava sull’orlo del prato. Aveva l’aria infreddolita. “Dov’è il tuo cappotto?” domando Miriam scen­dendo dalla macchina. “Oh, mah! Non l’ho messo per tutto il giorno. C’era un sole magnifico.” “Il vento era freddo, però,” disse Louise. Ma, per quanto sof­ fiasse anche lì, il vento non era freddo e violento come a Londra. Era domato e ingabbiato e con gli artigli tagliati, come il resto della natura in quella parte di campagna troppo elaborata. Miriam stava facendo raccogliere i pacchi nella macchina da­ gli altri bam­bini, ma Ellen si avviò saltellando verso casa con la nonna, e i suoi capelli dritti danzavano per aria formando quasi degli angoli. “Ti sei divertita, nonna? Sei andata al cinema? Mrs Match e io ci siamo divertite un mondo, per quanto non si sia trovato granché da mangiare per colazione. Mentre pulivamo l’argen­ teria mi ha raccon­tato di quando è andata all’ospedale. ‘Meglio levarlo che lasciarlo, Mrs Match’, le dissero. Che cosa hai fatto?” “Niente di che. Ma mi è capitata una vera avven­tura. Ho 14


conosciuto un uomo, da Lyons, davvero sim­patico. Mi sembrava di conoscerlo da tanto tempo, come è successo a te con quel cane che ti seguì per cinque chilometri, quella volta che andavi in bici­ cletta. Abbiamo chiacchierato, e mi ha detto…” Prima che Louise potesse iniziare per bene il suo racconto, Miriam chiamò dalla macchina: “Vieni ad aiutarci a portare i pacchi, pigrona! Perché devono sempre fare tutto gli altri?”. “Sono i loro vestiti,” protestò Ellen, ma tornò indietro pian piano, colpendo la ghiaia del viale. Le fu affidato il pacco più grande. Mentre la famiglia entrava in casa, Louise, togliendo­ si il cap­potto nell’atrio, udì Ellen dire: “Ti devo parlare di Mrs Match, mammina. Della sua operazione. ‘Meglio levarlo che la­ sciarlo, Mrs Match,’ le…” “Non m’interessa la storia chirurgica di Mrs Match,” disse Miriam. “E non dovrebbe interessare neanche a te. Adesso porta questo pacco di sopra e lavati viso e mani. È ora di prendere il tè.” Alle sette, con Judy che si preparava ad andare a letto, e Si­ mon curvo sui pezzi divelti di un modellino d’aeroplano, Miriam provò un po’ di rimorso verso Ellen, che sembrava non aver mai nulla di particolare da fare. La bambina non aveva nessun hob­ by. Avrebbe dovuto averne, invece. Tutti i bambini che Miriam conosceva ne avevano. Per Ellen invece divertirsi significava cion­ dolare e chiacchierare con chiunque fosse pronto a conversare con lei: Mrs Match, il giardiniere, la nonna, l’uomo che veniva a spargere il pane avvele­nato per i topi e, ogni tanto, sua madre, se riusciva a cogliere Miriam di sorpresa e d’umore un po’ indifeso. “Vado a prendere papà. Vuoi venire?” doman­dò Miriam, tro­ vando Ellen seduta in modo irritante sul gradino più basso della scala. Senza fare niente. Seduta, e basta. Senza leggere, senza giocare con un pezzo di spago, senza aspettare un pasto. Seduta pazientemente, ecco tutto, come un artista da mar­ciapiede che aspetta che il mondo venga a lui. Ellen si alzò con indifferenza. Non era ben sicura d’aver vo­ glia di andare alla stazione incontro a suo padre. Non sapeva mai se dovesse baciarlo o meno. Qualche volta sembrava che lui se 15


l’aspettasse. Qualche volta invece l’abbraccio offerto non contava per lui più di una ragnatela su una siepe che ci si spazza di dosso distrattamente. Tuttavia la bambina apprezzò l’invito di Miriam, e non volle respingere quell’atto di gentilezza materna. Non aveva finito di chiederlo, che Miriam si pentì di averlo fat­ to. C’era il rischio di creare una atmosfera tesa per Arthur, il quale spesso era così stanco, scendendo dal treno, che bisognava trattar­ lo con delicatezza finché non aveva cenato. Rimasero lì, madre e figlia, ciascuna sforzandosi di decidere separatamente sul da farsi. Com’è magra, pensò Miriam. Forse diventerà slan­ciata come me, ma non credo d’aver mai avuto alla sua età spigoli simili. Spero proprio che non diventi una di quelle donne ossute che camminano a grandi falcate e che, non riuscendo mai ad acciuf­ fare un uomo, devono fingere di non tenerci. C’erano stati due uomini nella vita di Miriam. Arthur, bruno, dal viso serio, che conosceva fin dal­l’infanzia e che aveva sposato molto giovane, perché tutte le sue amiche lo facevano, e perché il matri­monio sembrava preferibile al restare in casa, con un padre pieno di sé e una madre arrendevole in modo nauseante. Poi Colin, l’amico scapestrato di Arthur, che aveva rianimato così splendidamente i tempi difficili, quando Arthur faticava e lottava per farsi strada, e verso il quale Arthur non si era più mostrato tanto cordiale da quando aveva successo. No, questo non era esatto. Non era perché aveva successo che Arthur non vedeva più Colin. “Vieni, dunque, se vuoi venire,” disse bruscamente Miriam; ed Ellen, alzatasi in piedi, andò a prendere il cappotto, perché pensava che a sua madre avrebbe fatto piacere e la seguì fino alla macchina. Colin però aveva accettato ogni cosa molto placida­mente, pensò Miriam mentre guidava la macchina verso la stazione, su­ perando le case che cominciavano a illuminarsi dietro le siepi di sempreverdi e di rododendri. Era questo che più l’aveva ferita. Sebbene Miriam non avrebbe mai lasciato Arthur anche se le fosse stato chiesto, di fatto non le era stato chiesto, e ciò a volte le faceva pensare che avrebbe lasciato Arthur per Colin. 16


Tutta la faccenda si era svolta in modo così signorile. Arthur aveva scoperto ogni cosa. Si era mostrato stancamente triste. Non aveva espresso alcun proposito bellicoso. Colin era svanito con molto tatto dalla scena, dopo un addio accorato e piuttosto tea­ trale con Miriam, dopo aver parlato eccessivamente di “fare la cosa giusta”. Tutto era stato sistemato così abilmente, che il matrimonio di Miriam e Arthur non sembrò subire alcun contraccolpo. I geni­ tori di lei non ne seppero mai nulla. Non lo seppe nessuno tranne Eva, che aveva indovinato e che in un’occasione aveva sfidato Miriam, ma era stata messa a tacere una volta per tutte. Era un’avventura terminata con eleganza. Nessuno aveva do­ mandato a Miriam che cosa desiderasse. Desi­derava stare con Arthur, ma allo stesso tempo non voleva che Colin fosse già così stanco di lei da apprezzare l’intervento di un marito. Quali erano adesso i sentimenti di Colin, quando ci ripensa­ va? Doveva combattere per soffocare certi ricordi folli? Miriam ormai non doveva più farlo. Con un marito di successo, una casa comoda, tre bambini e una vita sociale abbastanza animata, le rimaneva poco tempo per pensare alla giovane donna irrequie­ ta, avida, che usciva di soppiatto dalla casa dove il marito era immerso nelle sue pratiche polverose, per correre felice e timoro­ sa dall’amante privo di scrupoli, che l’aspettava all’angolo della piazza. Oppure Colin non pensava mai a lei? Come poteva non ricordare le loro nuotate insieme, e quella notte in cui avevano visto lo spettro? Ellen giocava con il finestrino della macchina, con quel suo modo così irritante di non lasciare mai gli oggetti come stavano: o su o giù, o aperti o chiusi. Doveva sempre armeggiare. Colin! esclamò Miriam tra sé, con l’intenzione ma­sochistica di risuscitare il desiderio. Ma questo era morto. Poteva solo im­ maginare ciò che aveva provato allora. Non riusciva a ricordare. Era stato tanto tempo fa. E poi era venuta la guerra; la guerra degli uomini, alla quale una donna incinta non poteva prender parte se non aspettando, giron­zolando e bevendo succo d’aran­ 17


cia, mentre marito e amante s’imbarcavano, fuori della sua por­ tata, amman­tati nella nobiltà purificatrice della divisa del re. Arthur scese dal treno nella stazioncina cigolante e rimase un momento in piedi a guardarsi intorno, sgranchendosi le gambe e tirando rigida­mente il collo, secondo l’abitudine degli uomini che sono lievemente più bassi di statura della loro moglie. Miriam toccò il clacson, e lui scese i gradini, sembrando esattamente ciò che era: un giovane avvocato che stava facendo carriera, e che non aveva ben digerito la colazione. I calzoni a righe, il cappello nero, l’ombrello e la cartella non appari­vano fuori posto nella stazioncina di campagna, dove parecchi altri uomini erano scesi dal treno vestiti allo stesso modo. Arthur ne salutò alcuni con un cenno del capo, e agitò il gior­ nale della sera in direzione di Alice Cobb, che aspet­tava Sidney in una Jaguar grigia. Sidney era andato a parlare con Miriam. I Cobb e i Chadwick erano amici, e questo significava che si scam­ biavano spesso delle visite, combinavano di andare insieme alle feste del circolo, e conoscevano poche cose fondamentali gli uni degli altri. Se una delle due coppie fosse morta o partita, l’altra non ne avrebbe quasi sentito la mancanza. Ellen si arrampicò sul sedile posteriore della macchina, men­ tre Arthur sedeva davanti. Miriam lo baciò e sentì la barba che già gli irruvidiva la pelle. Spesso Arthur doveva radersi due volte al giorno. A metà pomeriggio cominciava a diventare bluastro attorno al mento. Quando era stato in tribunale tutto il giorno, ed era stanco, con gli occhi arrossati e cerchiati, sembrava una scimmia affaticata ed estremamente intelligente. Era molto scuro, con sopracciglia folte e peli neri sul dorso delle mani. Aveva quarant’anni. “Uno dei giovanotti più intelli­ genti del tribunale,” dicevano i più anziani di quella professione, che annovera così tanti vecchietti rimbambiti da fare considerare giovane chiunque non cominci a perdere i denti e a provare qual­ che difficoltà a districarsi dalla toga. Arthur si era fatto un nome e aveva procurato una posizione 18


agiata alla moglie e ai figli grazie alla sua ostinata capacità di lavoro e al suo attivissimo cervello. Il suo ragazzo frequentava la stessa scuola preparatoria che aveva frequentato lui, e poi sareb­ be andato in una scuola privata e più tardi a Oxford. Sua moglie vestiva bene, andava a Londra per farsi sistemare i capelli e ave­ va una persona di servizio la quale, benché non si trattasse che di Mrs Match dalle interiora svuotate, corrispondeva tuttavia, secondo i criteri post-bellici, a una cameriera. La figlia minore era carina e vivace, con capelli color del nasturzio e maniere graziose. La figlia maggiore era ossuta e scialba per il momen­ to, con una bocca che costava moltissimo in conti del dentista, ma se non altro non destava preoccupazioni e a quanto pareva andava bene a scuola. Arthur era contento di pagare i conti del dentista e di lasciarle trascorrere la sua vita goffa e senza scopo in giro per casa sua, purché non lo seccasse. Ma quando i bam­ bini davano noia tutti assieme, di solito veniva scelta Ellen come capro espiatorio. Arthur sospirando sbadigliò e disse d’aver bisogno di bere qualcosa, poi brontolò un poco perché Miriam aveva lasciato che il serbatoio della benzina si vuotasse quasi del tutto. Si trat­ tava evidentemente di una di quelle serate in cui non si aspettava d’esser baciato, e così Ellen sedette in fondo alla macchina a os­ servare la lotta per la supremazia tra i fari e il crepuscolo. “Com’era Londra?” domandò Arthur. “Dovresti saperlo,” rispose Miriam. “C’eri anche tu.” “In tribunale! È come stare in una cella imbottita. Il vecchio Fowler tremolava e biascicava facendo i suoi scherzi senili. Non avrebbero mai dovuto eleg­gerlo giudice: nemmeno quand’era padrone di tutte le sue facoltà.” Miriam gli raccontò qualcosa della sua giornata. “Ho portato la mamma con me,” disse. “Le fa bene andare un po’ in giro, qualche volta. Ma sembra un coniglio. L’unica cosa che ha fatto, appena ho voltato le spalle, è stata tuffarsi da Lyons a prendere il tè con un venditore di automobili, o qualcosa di simile.” “Vende letti,” disse dolcemente Ellen; ma non la udirono. 19


“Hai telefonato a Eva?” “Sì. È così dannatamente vaga.” “Ha fissato una data?” Parlavano cabalisticamente, ricordan­ dosi di Ellen. Anche quando erano soli, di rado parlavano aper­ tamente di Louise. Quando fu evidente che avrebbero dovuto ospitarla per qualche mese all’anno, avevano avuto una discus­ sione tormentata, con Arthur in pigiama di seta che camminava su e giù per la camera da letto, e Miriam, seduta alla toletta, che si passava e ripassava la crema sul viso. Dopo averci dormito sopra una notte, Arthur aveva comin­ ciato a rendersi conto della realtà, e aveva accettato la situazione limitandosi a qualche protesta di quando in quando. Non era che uno dei problemi con i quali dovevano convivere e a cui si riferivano sol­tanto in modo indiretto. Arthur era fiero del proprio altruismo, e Miriam aveva aggiunto ai propri doveri familiari quello di sforzarsi d’impedire a sua madre di disturbare più del necessario l’ordinata esistenza del marito. A Louise, Arthur piaceva. Non si sentiva interamente a suo agio con lui, ma lo ammirava perché era astuto e affidabile e intelligente fino in fondo, non soltanto in superficie; era tutto ciò che Dudley non era stato. “Una bella testa,” diceva a sua figlia. Miriam, che non aveva voglia di discutere di Arthur, come di nessuna delle cose che più le importavano nella vita, rispondeva: “Lo credo anch’io,” e cam­ biava argo­mento prima che Louise potesse proseguire dicendo: “Spero che tu apprezzi il buon marito che hai,” il che avrebbe potuto condurre a un discorso su suo padre. Si era parlato anche troppo di lui, quand’era morto, sebbene Louise si fosse sempre sforzata di mostrarsi leale. Miriam aveva voluto bene al padre in modo riservato, critico. Meno di tutti era rimasta impres­sionata dal caos che si era lasciato dietro morendo, perché ne aveva sempre sospettato la vera natura. Era stata la sua figlia prediletta, ammesso si potesse dire che Dudley aveva voluto tanto bene a una delle figlie da arrivare a prediligerla. Come tutti i prepotenti e gli sbruffoni, aveva disprezzato coloro 20


che credevano alle sue pose, e aveva favorito Miriam, perché gli leggeva nell’animo. Miriam si ricordava momenti dell’infanzia in cui aveva condi­ viso con il padre un segreto contro il resto della famiglia, e stram­ be occasioni in cui l’aveva condotta con sé in qualche impresa cui le altre non erano state invitate. Quando aveva sposato Arthur, suo padre le aveva fatto un regalo pazzesco che aveva messo sua madre in agitazione, in­ decisa se essere in ansia perché non potevano permetterselo o provare piacere perché Dudley si era mostrato improvvisa­mente così generoso. Miriam non sapeva che il conto del suo regalo di nozze era stata una delle cose lasciate in eredità da suo padre a Louise. Arthur cercava di comportarsi al meglio con la vedova di Du­ dley, ma non sempre riusciva a mostrarsi ben disposto verso di lei come desiderava. Come altri piccoli animali, Louise aveva il dono di finire sempre sotto i piedi, e di trovarsi là dove gli altri speravano che non si sarebbe trovata. Arthur era così stanco quella sera che avrebbe desi­derato star­ sene seduto in silenzio nel salotto con il suo bicchiere, mentre Miriam finiva di preparare la cena; ma Louise era lì con il suo cucito. Gli mostrò che stava sistemando gli abiti dei bambini, come per giustificare la propria presenza, e perfino lui si rese conto che quei suoi rammendi non valevano un granché. Era sorprendente che una donna capace e abile come Miriam potesse essere stata tirata su da Louise, cui difettavano pressoché tutte le qualità domestiche. Louise trovava difficile stare in una stanza con altre persone senza aprire bocca, specialmente con qualcuno come Arthur, con il quale non si trovava mai interamente a suo agio. Gli chiese del processo in corso, che riguardava un delitto poco importante ma piuttosto strano, di cui si occupavano i giornali. Sperava di udire l’opinione di Arthur, per poterne scri­vere alla sua amica Sybil a Ryde, sempre assetata d’informazioni su tutti gli argomenti, dalla famiglia reale agli assassini sessuali. 21


Arthur a casa non parlava mai dei suoi processi, finché non erano finiti e pagati da tempo; e anche allora soltanto se aveva bevuto vino e cognac a cena, e poteva contare su un pubblico. Louise non lo aveva ancora imparato. Continuò a borbottare do­ mande male accolte, attribuendo alla stanchezza la brevità delle risposte di Arthur. Louise desiderava che qualcuno entrasse nella stanza; ma Judy era a letto, e Simon ed Ellen stavano cenando in cucina, perché soltanto la domenica Arthur dava loro il permesso di ce­ nare con i grandi. Dopo un po’ sopraggiunse Miriam con un abito di seta verde e una collana di perle stretta intorno al collo di cigno, e annunciò che la cena era pronta, per quanto avesse l’aria di non aver cotto nulla di più complicato di un uovo sodo. Arthur, alzatosi in piedi, si avvicinò al bar per versarle da bere. “Per lei, Mamma?” domandò e Louise rispose: “Oh, non so se…”. Questo stesso dialogo, o uno molto simile, aveva luogo ogni sera, tranne quando c’era gente e Louise si vedeva mettere in mano automaticamente un bic­chiere come tutti. Arthur era di­ spostissimo a dare da bere alla suocera ogni sera. Il suo conto con il fornitore di liquori era così alto che un bicchiere in più non contava; ma Louise, pur amando molto un Mar­tini, forte e secco come lo preparava lui, provava qualche scrupolo ad accettarlo, dato che non poteva permettersi di portare in casa nemmeno una bot­tiglia di gin di quando in quando. Così tergiversava, ma Arthur le versò ugualmente da bere. “Uno di questi giorni,” mormorò quella sera a Miriam, non ap­ pena Louise li ebbe preceduti in sala da pranzo, “tua madre non riceverà il suo aperitivo, a meno che non impari a dire: ‘Mi pia­ cerebbe proprio. È esattamente quello che desidero’.” “Come può dirlo?” disse Miriam. “Sente di vivere qui con noi per carità.” “Un accidente!” ribatté Arthur. “La gente che non possiede niente non dev’essere così orgogliosa.” 22


Ellen aspettava nell’atrio per dare la buonanotte. Stette in ascolto per accertarsi se i genitori avrebbero detto altro; poi, mentre questi uscivano dal salotto, scivolò in sala da pranzo a dare un bacio alla nonna e interrogarle gli occhi per rendersi conto se aveva sentito anche lei.

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Estratto da Monica Dickens, Quando soffia il vento Titolo dell’opera originale The Winds of Heaven Traduzione dall’inglese di Bruna Mora Copyright © Monica Dickens 1955 © 2012 astoria srl via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano Prima edizione: marzo 2012 ISBN 978-88-96919-32-3 Progetto grafico: zevilhéritier

www.astoriaedizioni.it


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