Le ragazze di Rubʻ Al-Khālī. Un anno in una remota città saudita

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1 Il pirata della strada

Eravamo nella nostra stanza, in albergo, quando squillò il telefono. John sollevò il ricevitore e ascoltò aggrottando la fronte. “Che c’è? È successo qualcosa?” domandai quando ebbe riappeso. “Non lo so. Mhambi ha chiesto se possiamo vederci nel caffè qui sotto. Aveva una voce strana. Potrebbe trattarsi di una cosa grave.” “Grave?” “Magari ci vogliono licenziare.” “Ma se non abbiamo neppure cominciato!” “Oppure potrebbe esserci un problema con i nostri visti.” “Andiamo a vedere,” dissi. “Credi che io possa scendere senza il velo?” “Mettiti solo la palandrana e il foulard in testa. Basteranno quelli.” Il caffè era un antro buio e fumoso. Alle pareti erano appesi grandi televisori al plasma. Uno di questi stava trasmettendo una partita di calcio, un altro una puntata di I monster truck più grandi del mondo. Ai tavoli erano seduti pochi sauditi, tutti uomini. Vestiti con camicioni lunghi e bianchi e con la testa coperta da fazzolettoni a quadri bianchi e rossi, fumavano e spippolavano i loro smartphone con dita dalle unghie curatissime. Non fu difficile individuare i nostri colleghi Mhambi e Fernando: il piccolo zulù e il massiccio peruvian-britannico formavano una strana coppia. Mhambi aveva lo sguardo fisso nel vuoto. Fernando aveva l’aria più tranquilla, ma era tetro, sembrava un


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medico in procinto di dare cattive notizie al paziente. Ci salutò con un cenno del capo. “Sedetevi, voialtri due.” “Che succede?” “Non ci girerò tanto attorno, John, perché non esiste un modo carino per dirlo. Philip è morto.” “Cosa? Ma se l’ho visto stamattina. Quando è successo?” “Circa un’ora fa.” “E com’è morto?” “Un pirata della strada. Un adolescente brufoloso che correva troppo e lo ha stirato. Mhambi ha assistito alla scena, dice che l’auto ha sterzato di proposito per tirarlo sotto. Il tipo non si è nemmeno fermato per ripulire il paraurti.” Mhambi scosse lentamente la testa. “Braccia e gambe erano tutte storte strane.” “Cristo! Ma adesso? E che ci faceva Philip lì?” “C’era qui un’ospite, una tizia che un tempo insegnava qui a Najran. Non voleva andare da sola al supermercato, quello dall’altra parte della strada. Così Philip si è offerto di andarle a prendere una confezione di succo di frutta. Tornando indietro è stato investito, proprio davanti alla tintoria qui accanto. Mhambi stava portando le sue camicie a lavare, perciò è stato il primo ad arrivare sulla scena.” “Era tutto accartocciato,” mormorò Mhambi. Fernando proseguì: “A quel punto è arrivata l’ambulanza, e poi Mhambi ha chiamato me e dopo voi”. “Tutto accartocciato…” Fernando mollò a Mhambi una pacca sulla spalla. “Ci vorrebbe una bella birretta, adesso. Ma la vedo dura. E allora accontentiamoci di questo buon tè alla menta e facciamo un brindisi al mio amico Philip. Riposi in pace.”


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Seduta in quel caffè mi immaginai il corpo inerte di Philip disteso in mezzo a una strada sulla quale corsie e limiti di velocità erano completamente ignorati, e mi chiesi se la decisione di venire in questo paese fosse stata del tutto assennata. I miei pensieri tornarono al momento in cui avevo fatto quella scelta, era l’agosto 2011 ed ero in una pizzeria di Vancouver. Io e la mia collega Emma ci stavamo commiserando dopo essere state licenziate. “Non so proprio cosa farò!” piagnucolai. “Questo era l’unico lavoro che ero riuscita a ottenere a Vancouver. Era letteralmente il duecentotrentunesimo per il quale avevo fatto domanda. Guarda! Me li sono scritti tutti qui, quei duecentotrenta, per tenermi su di morale nella ricerca…” Le sventolai davanti al naso il quaderno malridotto, mentre lei continuava a masticare la sua pizza al salame piccante. “E l’unico motivo per cui lo avevo ottenuto era che un altro insegnante era fuggito dall’aula dopo aver insultato gli studenti, quindi quel pomeriggio avevano bisogno di un sostituto. Adesso non riuscirò più neppure a pagare l’affitto.” Sbattei il quaderno sul tavolo. Emma trangugiò rumorosamente la birra e scrollò le spalle. “Stanno licenziando tutti, tranne gli insegnanti sindacalizzati. La settimana scorsa mi hanno ridotto le ore di lezione a una. Mi toccherà tornare a stare dai miei genitori. Loro sono evangelici e io sono lesbica. Lascia che te lo dica, questa è una situazione alquanto antipatica.” “Non che fosse un gran lavoro,” borbottai. “Sai che cosa han-


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no combinato il mese scorso? Mi hanno detto di avere bisogno dell’aula per tenerci le riunioni del personale, e che dunque ogni venerdì avrei dovuto portare la classe a fare un’uscita di quattro ore. Quattro ore, e senza fondi a disposizione! Che potevo fare? Una settimana siamo stati in biblioteca, quella dopo abbiamo fatto un giro per la città. Ma la settimana scorsa pioveva. Li ho portati in un centro commerciale per fare esercizi di conversazione con giochi di ruolo, dovevano chiedere indicazioni stradali, e la guardia giurata ci ha sbattuti fuori!” Emma rise. “Allora li ho portati in un negozio di dischi, per fare una caccia ai titoli, e da lì ci ha buttati fuori il responsabile in persona. È stato davvero umiliante. Una povera signora giapponese ha chiesto quando saremmo arrivati al present perfect.” “È colpa della crisi economica. Gli studenti sono troppo pochi, gli insegnanti troppi. Questo, e poi c’è l’aggravante che il titolare della scuola è un tirchio incredibile. Dovresti vedere dove alloggiano gli studenti, le condizioni sono allucinanti: mobili arrugginiti, cimici. Però stammi a sentire, io me ne vado. Vado in Arabia Saudita.” “Accidenti! Ma non è… dura, da quelle parti? Per le donne?” “Mettiamola così… quanto guadagni qui in un mese?” “Duemila dollari, più o meno.” “E quanto paghi di affitto?” “Mille e duecento dollari.” “E tuo marito quanto guadagna?” “Allora, John ha un dottorato e nel suo campo è impossibile ottenere incarichi accademici, quindi non guadagna nulla.” “D’accordo. Bene, adesso fai un raffronto, pensando che voi due messi assieme guadagnereste seimila dollari al mese. Non paghi l’affitto, niente spese di trasporto, niente che ti costringa a spendere, perché il mangiare costa poco e niente. La società ti rimborsa perfino i voli da e per Riyad. Puoi praticamente mettere da parte tutto quello che guadagni.” “Mioddio! Potremmo appianare i debiti e risparmiare anche qualcosina!”


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“Proprio così. E, giacché si parla di cifre di questa entità, penso proprio di potere andare laggiù per qualche anno. È Riyad, in fondo, quindi le donne straniere non hanno l’obbligo di mettersi quel robo in testa. Te ne puoi andare in giro da sola senza problemi, in realtà a quelli interessa solo il comportamento delle saudite. Si abita e si lavora con altri insegnanti d’inglese. E se vuoi bere alcolici non hai che da andare nel quartiere dei diplomatici.” “Uhm… non sembra malaccio,” dissi. “Oh sì. Ecco… ti darò l’indirizzo di posta elettronica della mia agente. Penserà lei a tutto. L’unica cosa è che potrebbe volerci un po’ di tempo per ottenere un visto. La loro burocrazia non è il massimo dell’efficienza. E devi passare un controllo di polizia, e un controllo medico.” Quella sera riferii a John le notizie. “Non saprei… ne sei proprio sicura?” disse. “Sì, credo di sì. Vivendo qui in Canada non avremo alcuna possibilità di guadagnare e risparmiare così tanto.” “D’accordo, okay, però… insomma… e quella faccenda dei diritti femminili? È l’unico paese al mondo in cui le donne non possono neppure guidare.” “Allora, dato che la patente io non ce l’ho, il divieto non mi preoccupa. E la cosa fondamentale sono i soldi. Se rimaniamo qui, rischiamo di ritrovarci un’altra volta senza un tetto sulla testa. Non ho alcuna voglia di rivivere l’Era della Barca.” John rabbrividì. L’Era della Barca era stato un breve periodo di miseria in cui eravamo piombati poco dopo essere emigrati in Canada. Per evitare i prezzi astronomici delle case sull’isola di Vancouver, avevamo deciso di comprare una houseboat da un tossico, un certo Odin. Così ci eravamo accaparrati un posto barca a un miglio dalla costa, davanti a una minuscola cittadina a nord della città principale dell’isola, Victoria. Questa era stata una decisione forse ancora meno sensata di quella di andare a insegnare in Arabia Saudita. Essendo completamente digiuni di questioni finanziarie e


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di tutto ciò che atteneva alle barche, non solo non ci eravamo preoccupati di ottenere un certificato di proprietà della barca, ma non ci eravamo nemmeno resi conto che aveva bisogno di un motore nuovo, di una riverniciata, di un gabinetto biologico e di qualche altra cosetta. A peggiorare la situazione, John aveva perso un lavoro all’università e io ero riuscita a trovare solo lavoretti part-time e mal pagati. Per quanto fossi impegnata tutti i giorni, guadagnavo a malapena quel tanto che bastava per mangiare e per spostarci con la nostra utilitaria. In estate era una bella vita. Albe e tramonti meravigliosi. Ormeggiati nei pressi di un enorme parco, vedevamo aquile, falchi pescatori, aironi, strolaghe, smerghi e altri uccelli. Dormendo sottocoperta a volte sentivo vicini alla testa gli sbuffi delle foche maculate. Una volta era salita a bordo – impresa non facile, considerato che si trattava di un peschereccio – addirittura un’otaria, che aveva cominciato a pavoneggiarsi sul nostro ponte. Le cose avevano iniziato ad andare male in autunno, quando qualcuno aveva dato fuoco a quel macinino che era la nostra auto. Non c’era nulla di personale, in quel gesto. Un gruppo di vandali aveva deciso di concedersi una notte brava: avevano percorso la strada principale della cittadina sfondando parabrezza, graffiando carrozzerie, tagliando gomme, strappando tergicristalli. A quanto pareva la nostra auto era stata il gran finale di quello spettacolo di avant-garde. La Hyundai del 1984 era parcheggiata vicino al molo, e il finestrino davanti non si chiudeva bene (sarebbe stato troppo costoso importare i pezzi di ricambio). I guastatori della mezzanotte ne avevano preso nota e ci avevano gettato dentro un accelerante, dando vita a un falò che si era esteso a un albero lì vicino, trasformandolo in un faro visibile a miglia di distanza. Ricordo che dalla barca avevo visto l’incendio, le fiamme rosse si riflettevano sull’acqua ferma e scura della baia e avevo ammirato l’effetto apocalittico senza sapere che l’apocalisse era nostra. La compagnia assicurativa ci aveva informati che la polizza non copriva gli incendi dolosi. La poliziotta che era venuta a parlare con noi aveva iniziato a farci domande, ma non appena era


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diventato chiaro che non avevamo un recapito stanziale, né un numero di telefono fisso, aveva rimesso il cappuccio sulla penna ed era tornata a bere il suo caffè Tim Hortons. Niente macchina voleva dire niente mezzi di trasporto, e per me non era facile andare al lavoro. Arrivato l’inverno, avevamo finito i soldi, e non avevamo il propano per scaldare la barca. Nel corso di una tempesta furibonda, con l’acqua della baia che stava cominciando a ghiacciare, avevamo lasciato il nostro ormeggio a un miglio dalla costa ed eravamo andati a remi a cercare riparo. A quel punto la signora dell’Esercito della Salvezza (con in testa un cappello da Babbo Natale) aveva detto di non poterci aiutare. Quello che avremmo dovuto fare, ci aveva detto, era raggiungere a piedi un garage a cinque chilometri dalla città (nella tormenta) chiedere al garage una bottiglia di propano (in regalo), e tornare alla barca (nella tormenta). Eravamo andati via tremanti dalla sede dell’Esercito della Salvezza. Una donna era uscita sulla porta di un negozio per accendersi una sigaretta e guardare la neve. “Dovresti metterti un cappello,” aveva detto. “Non ne possiedo,” avevo risposto io. “C’è un Esercito della Salvezza, qui accanto,” aveva detto. “Sì, ma proprio non ho soldi,” avevo spiegato. La donna era sparita all’improvviso dentro il negozio, con aria atterrita. “Ma qual era il problema?” avevo chiesto a John, stupita. “Qui siamo in Nord America. Non si parla di soldi. È tabù.” “Prendiamo l’autobus fino a Victoria e proviamo con il bancomat,” avevo detto. “Magari mi hanno pagata.” Avevamo dunque investito per arrivare a Victoria la metà delle monetine che ci erano rimaste. Giunti allo sportello bancomat, avevo scoperto di non essere stata pagata. A quel punto avevamo tentato con tre diversi centri di accoglienza per senzatetto, e tutti e tre ci avevano rifiutati perché eravamo una coppia “mista” (nel senso di eterosessuale). I centri comunque puzzavano parecchio – una combinazione di vomito e calze bagnate – e la compagnia era rissosa e iraconda (non erano né docili né educati!), quindi


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avevamo deciso di investire i soldi rimasti nel biglietto di ritorno in autobus e di rientrare alla barca. Gli autobus erano in ritardo per via della neve e ci eravamo infradiciati e avevamo preso un mucchio di freddo. Quando eravamo saliti sull’autobus ormai in preda ai primi stadi dell’ipotermia, avevo visto che a bordo c’erano parecchi miei studenti d’inglese in gita di gruppo, stavano andando ad assistere a uno spettacolo di luci natalizie nei Butchart Gardens, un giardino di epoca vittoriana che ha un biglietto d’ingresso di ventisei dollari. Quella gioventù pulita e bella, vestita con capi alla moda, aveva lanciato un’occhiata al mio aspetto scarmigliato e da mezza pazza, e si era affrettata a distogliere lo sguardo. Mi ero vergognata appena un po’; quando muori di freddo, la vergogna diventa un problema secondario. Remando nel buio per tornare alla barca, John in certi punti era stato costretto a spezzare il ghiaccio con i remi. Lungo il tragitto eravamo stati incitati dal nostro collega di barca e di emarginazione sociale Johnny Law, ormeggiato con la sua barchetta a vela a pochi metri di distanza da noi. Johnny era un tipo allegro e folle, mezzo scozzese e mezzo nativo americano, che per sua stessa ammissione aveva da poco finito di scontare dieci anni in una prigione di massima sicurezza, per omicidio. Ci aveva sgridati perché avevamo tentato di farci accettare in un centro di accoglienza prima di esserci consultati con lui. “Voi due andate a cambiarvi. Io arrivo subito con una stufa.” Lui e Stevie, il suo giovane fidanzato biondo (che ci era stato presentato come “figlio”), si erano palesati dieci minuti dopo con un generatore di aria calda. Erano rimasti da noi per quella notte e Johnny ci aveva offerto del metadone e dei chicchi di caffè ricoperti di cioccolato che aveva rubato in un supermercato. Subito dopo questi avvenimenti, i nostri magici amici e parenti Billy, Kathy, Felipe, Eileen, Mark e Serge ci avevano aiutati a trovare un tetto sicuro a Vancouver. Io ero riuscita a procacciarmi un lavoro regolare, John aveva ottenuto un lavoro di scrittura e dalla miseria nera eravamo riusciti a passare a una normale povertà, e a diventare moderatamente rispettabili. Quando John era tornato alla barca per recuperare alcune delle nostre cose, si era accorto che Johnny


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zitto zitto si era impossessato del peschereccio. E non solo: erano stranamente spariti quasi tutti i nostri beni vendibili sul mercato. Adesso che avevo perso il posto di lavoro, il ricordo dell’Era della Barca era sufficiente a far pendere di parecchio la bilancia della questione saudita. Saremmo andati a insegnare: al diavolo i diritti delle donne, la libertà religiosa e la democrazia. Sopportare un pizzico di differenze culturali sarebbe stato indubbiamente preferibile a un lento sprofondare nella povertà più atroce nel piacevole e ricco Nord America. “Allora, ti interessa sapere qualche fatterello divertente a proposito del viaggiare in Arabia Saudita?” “Divertente quanto?” dissi, insospettita. “Uhmm,” disse lui, “il regno arabo-saudita non concede visti turistici.” “Nessuno?” “E per di più le seguenti cose sono ritenute sgradite o esplicitamente vietate: praticare in pubblico qualunque religione eccetto quella musulmana, alcol, droghe, strumenti musicali, pornografia, ateismo… ai cittadini israeliani non è consentito l’ingresso, come non è consentito a chiunque abbia un timbro israeliano sul passaporto. A quanto pare, il governo fa stampare libri di testo in cui si rassicurano i ragazzi che verrà l’ora in cui i musulmani uccideranno tutti gli ebrei.” “Ma dai, mi stai prendendo in giro!” “E senti qui, fortunella, ci sono un po’ di cose che le donne non possono fare: guidare, lavorare, uscire non accompagnate da un parente maschio, nuotare, andare in bicicletta o leggere riviste di moda non preventivamente censurate…” “Okay, okay, messaggio ricevuto. Però Emma dice che queste regole non si applicano alle straniere. Praticamente vivremo all’interno di un quartiere residenziale chiuso di Riyad. Al massimo mi toccherà indossare quella palandrana nera.” “L’abaya.” “Sì, quella. E a proposito, me ne devo procurare una.”


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John cercò su Google vendita di abaya a vancouver e trovò un negozio a dieci minuti di autobus all’interno di una piccola area commerciale. La porta era aperta, ma dentro non c’era nessuno. Immaginando che il proprietario sarebbe tornato di lì a poco, cominciammo a curiosare. Era una minuscola ed elegante boutique decorata con motivi francesi ottocenteschi: righe rosa, torri Eiffel, cappelliere antiquate e scarpe graziose. Sciarpe colorate e gioielleria floreale erano in mostra nella parte anteriore del negozio. “Strano, sembra roba carina. Mi aspettavo qualcosa di ultrapuritano,” mormorai. Passammo in rassegna gli appendiabiti con le abaya. Erano fatte tutte di un tessuto molto leggero, ce n’erano di vari colori, anche se in prevalenza erano nere. Parecchie avevano decorazioni elaborate, con perline, strass o ricami. Con mia grande sorpresa alcune arrivavano a costare trecento dollari. “C’è qualcuno?” chiamò John. Non venne nessuno. Compose il numero del negozio sul cellulare e una voce femminile gli rispose che suo fratello era in arrivo. Circa cinque minuti dopo, un giovanotto annoiato scese lentamente una scala. “Salve,” dissi. “Siamo in partenza per l’Arabia Saudita e ho bisogno di un’abaya. Quale mi consiglia?” Lui scrollò le spalle. “Vanno bene tutte.” “Anche questa rosa acceso?” “Sì. Perché no?” “Insomma, ero convinta che in Arabia Saudita le donne dovessero vestirsi di nero.” “No, no,” si accigliò. “Questo succedeva in passato. Ora c’è molta modernità. Molti colori sono accettati.” “Ah. D’accordo.” Vidi un’abaya marrone che veniva via con dieci dollari. “Prendo quella,” dissi. “E il foulard marrone.” Il passo successivo fu la visita medica. Mi recai in un ambulatorio


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di Vancouver, di quelli senza prenotazione, e consegnai al dottore l’elenco delle richieste dell’immigrazione saudita. Il medico era un tipo burbero dal greve accento russo. “E perché ha intenzione di andare in quel paese idiota?” Tossicchiai: “Ehm, per i soldi”. “Lei crede che ne valga la pena?” “Insomma…” Risi nervosamente. Inforcò gli occhiali da lettura, studiò il documento e sospirò forte. “Soffre di un ritardo mentale?” “Prego?” “È questa la prima domanda. Come faccio ad accertarlo? Allora le chiedo: è ritardata? No. La domanda successiva è: è incinta?” “No.” “Ha la poliomielite o la difterite?” “No.” “È pazza? Benissimo…” Brandì la penna e spuntò rapidamente il resto delle caselline. “Sto completando questo formulario come lei mi chiede, perché è una barzelletta. Avrà bisogno di sottoporsi a un test delle feci e delle urine alla ricerca del vaiolo o della Morte Nera, o di chissà cosa. Per quel che mi riguarda, lei è pazza ad andare in un posto così. Ma la scelta è sua, quindi non c’è problema. Arrivederci.” Mi restituì il foglio. Una volta consegnate tutte le carte, dopo una lunga attesa che trascorremmo ospiti di parenti, l’agente che ci aveva assunti ci spedì dei visti validi solo per novanta giorni. Quando feci notare che quello che avevo letto a proposito dell’Arabia Saudita metteva in chiaro che potevi entrare e lavorare solo con un iqama (permesso di soggiorno), l’agente ribatté di non preoccuparsi: l’International English Teachers aveva un accordo speciale con il governo saudita. Avremmo ottenuto i nostri iqama una volta arrivati laggiù.


3 Il segno della croce

Appena saliti sull’aereo diretto in Arabia Saudita, subito notai che a bordo regnava un umore tetro. Gli altri passeggeri erano quasi tutti asiatici, e avevano l’aria d’essere poveri in canna. Le facce esprimevano rassegnazione, fastidio, depressione, incertezza. Appena prima del decollo, il tizio seduto vicino a noi si fece il segno della croce. Un’assistente di volo cinese ci consegnò la carta d’immigrazione. Non aveva quel tipico sorriso radioso da hostess. Era un gesto inquieto di compassione e timore, il sorriso affettato e fiacco dell’infermiera in un reparto di malati di cancro. Lessi il documento e vidi che perfino per essere una cosa burocratica non aveva un tono tanto amichevole: regno dell’arabia saudita ministero dell’interno agenzia passaporti avviso pena di morte per i trafficanti di droga

Mi agitai, tentai senza successo di guardare qualche film, tirai fuori la rivista della compagnia aerea e la rimisi immediatamente nella sua tasca, con cura. Davanti ai bagni si era formata una fila di asiatiche, in attesa di levarsi i sari per indossare le abaya e gli hijab. Una delle più giovani scoppiò in singhiozzi. Doveva avere poco più di vent’anni, una cascata di capelli neri e morbidi le scendeva lungo la schie-


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na. Un’altra donna più anziana e dall’aria disincantata le stava accarezzando meccanicamente una spalla. Fu la reazione della più anziana a spaventarmi. Aveva l’aria tetra e spazientita di una veterana indurita da molte battaglie. Appena prima di partire dal Canada, facendo ricerche giornalistiche sull’Arabia Saudita, mi ero imbattuta in due storie così raccapriccianti da risultare quasi incredibili. L.T. Ariyawathi, una donna di quarantanove anni dello Sri Lanka, aveva lavorato per cinque mesi in Arabia Saudita prima di ritornare inaspettatamente a casa. Non aveva voluto spiegare i motivi di quel ritorno, ma la famiglia l’aveva portata in ospedale quando era diventato chiaro che la donna stava soffrendo atrocemente. Una radiografia eseguita in ospedale aveva mostrato che aveva in corpo ventiquattro tra chiodi e aghi. Uno glielo avevano conficcato tra gli occhi. E a quel punto aveva spiegato che il suo datore di lavoro saudita l’aveva martirizzata con i chiodi per punizione; non le permettevano mai di riposare e quando era troppo sfinita e non riusciva a soddisfare le loro richieste, la torturavano. In un altro caso un’indonesiana di venticinque anni, Nour Miyati, aveva lavorato come cameriera a Riyad, finché la coppia che l’aveva assunta non l’aveva legata mani e piedi lasciandola per un mese sul pavimento del bagno, senza cibo. L’avevano ricoverata in ospedale con gangrena, malnutrizione e altre ferite; aveva avuto bisogno di parecchi interventi chirurgici, tra cui l’amputazione delle dita dei piedi e delle mani. Aveva raccontato che la moglie del datore di lavoro l’accusava di vestire in modo immodesto quando era in casa e che l’aveva picchiata con una scarpa, facendole saltare parecchi denti. E a parte questo la facevano lavorare per ore e ore senza riposi e senza stipendio e la coppia le aveva sequestrato il passaporto. Quando sui giornali sauditi si era parlato delle lesioni di Nour, un’indagine della polizia aveva concluso che la gangrena era stata causata da una malattia preesistente ma non specificata, che le altre lesioni erano state provocate dai prodotti chimici che la ragazza usava per le pulizie e che i lividi se l’era fatti da sola o erano stati causati dalla caduta di un armadio. Come molti collaboratori domestici che denunciano padroni violenti, Nour era stata a sua


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volta accusata di calunnia; nel 2005 un tribunale di Riyad l’aveva giudicata colpevole di aver testimoniato il falso, condannandola a settantanove frustate. Nel 2006 il verdetto era stato ribaltato ribaltato e la giovane aveva ricevuto un indennizzo di appena 2500 riyal (670 dollari statunitensi). Tutte le accuse contro il padrone di casa erano state lasciate cadere, la padrona invece aveva confessato le violenze ed era stata condannata a trentacinque frustate. Questi casi erano particolarmente orribili, ma non si trattava di fatti isolati. La schiavitù in Arabia Saudita è stata abolita ufficialmente solo nel 1962, ma in pratica sopravvive ancora oggi sotto forma di lavoro forzato, perché gli immigrati sono sottoposti a un sistema di sponsorizzazione, il cosiddetto kafala, il che significa che hanno bisogno del permesso dei datori di lavoro per entrare nel paese, lasciarlo o cambiare lavoro. Le donne in fila per cambiarsi nei bagni dell’aereo stavano andando a raggiungere il mezzo milione di cameriere che lavorano in Arabia Saudita, con orari che arrivano alle quattordici-sedici ore al giorno per sei o sette giorni a settimana, e stipendi che possono andare dai 150 ai 300 dollari al mese. E anche ammettendo che abbiano accettato queste condizioni, stanno comunque correndo un grosso rischio. I lavoratori domestici non sono protetti dalla legislazione saudita e i termini dell’impiego di una cameriera sono incostanti quanto i datori di lavoro. Se il padrone non paga la cameriera o non le fornisce una sistemazione decente o la costringe a lavorare sedici ore al giorno, o le sequestra il passaporto o la chiude in casa o abusa di lei, la cameriera può scegliere tra due opzioni: sopportare o fuggire. Secondo la Confederazione Internazionale dei Sindacati, nella regione del Golfo vivono 2,4 milioni di collaboratori domestici in condizioni simili alla schiavitù. I giornali arabi pubblicano regolarmente storie di donne che si lanciano dai balconi o dalle finestre per sfuggire alla prigionia e ad abusi diventati intollerabili. Avevo i pugni serrati, ma mi dissi: calmati. Le notizie tendono al sensazionalismo, ai casi estremi. Alcune cameriere probabilmente erano serene e felici e certamente guadagnavano di più di quello che avrebbero potuto prendere nelle Filippine o in Indonesia. Queste donne in particolare dovevano solo avere nostalgia di casa, è


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normale, pensai. Ancora una volta tirai fuori la rivista dalla reticella dello schienale davanti a me e la sfogliai guardando le pubblicità di orologi d’oro e le foto di giovanissime modelle con gli zigomi alti e i brillantini sulla faccia. Mi riusciva difficile concentrarmi, però. Il mio sguardo continuava a tornare sulla fila di donne tristi e gentili. Mezz’ora prima dell’atterraggio la coda davanti ai bagni si era finalmente dissolta. Con mani fastidiosamente tremanti presi la mia borsa e andai a cambiarmi, indossando la mia tenuta da Arabia Saudita. Nella toilette dell’aereo mi contorsi per infilarmi nel costume marrone e cercai di avvolgermi il foulard attorno alla testa in modo che i capelli non spuntassero. Il foulard era troppo setoso e inconsistente per restare al suo posto. Per fortuna mi ero portata dietro qualche spilla da balia, con le quali fissai il foulard in modo che non scivolasse via. Con la veste e il copricapo marroni riemersi dal bagno sentendomi attrezzata per la battaglia. Quando l’aereo atterrò, l’uomo al mio fianco si fece di nuovo il segno della croce ed esalò una preghiera di grande ringraziamento. I passeggeri si alzarono tutti come un sol uomo. Nessuno parlava, nessuno rideva. Regnava un silenzio pensieroso. La prima cosa che vedemmo, dopo essere emersi da quella tana di conigli caotica e tetra che è l’aeroporto Re Khalid, fu una fontana. Rimanemmo lì davanti per un paio di minuti, colti alla sprovvista dalla sua grazia. Niente a che vedere con le colonne dorate di Dubai o le piastrelle lucide e i vetri colorati di altri aeroporti. La colonna d’acqua era limpida e brillante, e la sua visione rinfrescava e rincuorava. Avevo letto che gli eroi beduini negli antichi poemi arabi spesso chiamavano i propri cavalli con nomi come Torrente, Diluvio, Pioggia o Fiume; la fontana in qualche modo mi ricordava che eravamo in un paese desertico, dove l’ambiente era sempre stato aspro, e costringeva la gente a riconoscere il valore e la bellezza dell’acqua. Proseguendo verso il controllo passaporti, ci unimmo a una delle venti lunghe file. Era un buon punto d’osservazione per studiare le persone. C’erano maschi sauditi vestiti con i thob, camicioni lunghi e bianchi, molti dei quali avevano l’aggiunta sartoriale di


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taschini speciali per i telefoni cellulari. Portavano copricapi di stoffa a quadri bianchi e rossi, tenuti fermi da cerchi di cordino nero, e i piedi erano calzati con i sandali. I maschi dell’Asia meridionale portavano il salwar kameez: camicioni di lino lunghi e larghi sopra ampi calzoni dello stesso materiale. Altri portavano il camicione sopra i jeans; altri ancora una specie di gonna a portafoglio dai colori vivaci. Vicino alla testa di una delle file c’era un tizio altissimo con una t-shirt nera e una vistosa cresta multicolore alla mohicana. Le donne erano vestite con le abaya, i burqa, i sari, e ce n’erano addirittura alcune ancora a capo scoperto e con i jeans. Alcune erano assai anziane e portavano sulla schiena grossi fardelli, che parevano essere diventati parte integrante dei loro corpi. Chissà quante di queste persone erano dirette alla Mecca, e quanti anni avevano impiegato per mettere da parte i soldi necessari per quel santo pellegrinaggio. Dopo un’ora di coda, arrivammo ai cancelli della sicurezza e posammo le nostre valigie sul nastro trasportatore. Mentre il nostro bagaglio avanzava lentamente, notai che lo schermo monitorato dai funzionari della dogana era vuoto; la macchina a raggi x era spenta. Nessuno perquisì le nostre cose e il funzionario con un cenno della mano ci fece cenno di passare pure, mentre chiacchierava con un collega. Quando uscimmo dall’aeroporto la prima cosa che ci colpì fu la calura, che ci piombò addosso come una coperta pesante. Solo una volta arrivati fuori ci rendemmo conto che dentro c’era l’aria condizionata. Per tutto il tempo dell’attesa in coda mi ero angustiata all’idea che magari non sarebbe venuto a prenderci nessuno. Non avevamo un telefono e non sapevamo come contattare il datore di lavoro. Quindi fui molto sollevata nel vedere due giovanotti con un cartello che diceva jonh e kateirn. Ridacchiando e scherzando in arabo ci scortarono fino a un’auto e noi salimmo a bordo con la meravigliosa consapevolezza che di lì a breve avremmo dormito in un vero letto. La mezz’ora successiva è un ricordo indistinto di luci e sfinimento in lizza con il terrore. I giovanotti erano molto ansiosi di


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farci divertire, il che significava guidare a velocità folle e in modo spericolatissimo. L’intera città sembrava collaborare a questo piano studiato per intrattenerci e impressionarci con manifestazioni di squilibrio mentale al volante. Sul sedile posteriore non c’erano le cinture di sicurezza – erano state tagliate – quindi io e John ci limitammo a tenerci per mano, sperando in bene. “Vi piace guida saudita? Piace?” Ci sorrisero, mentre affrontavamo stridendo una curva a gomito. Annuii, sorridendo un po’ rigida. John si mostrò più coraggioso e disse: “Troppo veloce!”. L’autista ebbe un colpo di genio. “Tu,” si girò, sorridendo, e indicando me: “Vuole tu guidare?”. Non sapevo granché di arabo, ma sapevo che la voleva dire no. “La! La lala la la la!” protestai, sperando che si girasse subito, che guardasse la strada tutta curve e non ci facesse schiantare. L’altro tizio, quello al posto del passeggero, mi disse: “Tu guida bene?”. A-ha, una trappola! pensai. Ricordai di aver scherzato con John a proposito del divieto di guida imposto alle donne: dopo aver letto un articolo di giornale stavo facendo qualche ricerca su Internet. “Uff, meno male che non mi piace guidare,” avevo detto a John. “Lo sceicco Saleh al-Lohaidam mi ha aperto gli occhi sui danni a lungo termine che il guidare ha sulla salute.” “Ovvero?” “Sostiene che alcune ricerche mediche condotte da fisiologi hanno accertato che guidare spinge automaticamente in alto le ovaie.” John aveva sputato il caffè, incredulo. Ma si era ripreso alla svelta e aveva unito le mani in posa seria e professorale. “Oh sì, ho visto parecchi casi di ovaie innalzate. Una tragedia.” Continuai a leggere. Questa volta fu il mio turno di sputare il caffè. “Uaaah!” “Che c’è? Dillo, invece di farmi la doccia!” “I massimi accademici religiosi dell’Arabia Saudita hanno di-


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chiarato che un allentamento del divieto porterebbe inevitabilmente a una società priva di vergini ‘provocando un aumento della prostituzione, della pornografia, dell’omosessualità e dei divorzi’.” “Suona apocalittico.” “Salviamo le vergini a rischio estinzione! Ma davvero, che ha che non va, questa gente? Non è possibile che credano seriamente a queste cretinate.” John abbassò il giornale che stava leggendo e pensò e pensò e pensò. “Mah, chissà cosa credono. I wahhabiti sono convinti che la donna soffra di ‘mancanza di capacità’, e ciò comporta che gli uomini le debbano sorvegliare, controllandone i movimenti. Suppongo che sarebbe difficile farlo, se le donne saettassero in giro con le loro Ferrari rosa.” “E da quando c’è questo divieto ufficiale? Da quando Dio ha inventato l’Arabia Saudita?” “No! Solo dal 1990. A quanto pare durante la Guerra del Golfo le donne saudite videro le gi americane guidare e chiesero di fare lo stesso. A quel punto il gran muftì emise una fatwa contro le donne al volante, dicendo che avrebbero gettato la società nel caos. E da allora molte donne sono state arrestate perché beccate a guidare. Un paio di attiviste sono perfino state spedite davanti a un tribunale speciale antiterrorismo, per aver twittato selfie scattati al volante.” Adesso che in Arabia Saudita ci eravamo davvero e che questo giovane teppista mi chiedeva se volevo mettermi al volante, avevo già la risposta pronta. “La,” dissi, pensando che quella parolina mi stava tornando parecchio utile. I due risero, l’auto volò sopra un dosso rallentatore, e io strinsi forte la mano di John. All’improvviso il conducente sterzò uscendo completamente di strada, balzò sul marciapiede, e sembrò evidente che saremmo morti tutti. L’auto continuò a correre, piombando in un’area piena di persone (che scapparono a destra e a manca per non essere travolte), prima di fermarsi accanto a una pompa di benzina, sfioran-


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do le gambe di un asiatico magro e scattante in tuta da lavoro. Ebbi l’illuminazione: questo era il modo in cui il nostro autista aveva deciso di entrare nella stazione di servizio. Il giovanotto urlò ordini all’addetto, che eseguì con calma, solo un accenno di disprezzo segnalato dalla piega del labbro. Ricordai alcuni ragazzi sauditi che erano stati miei alunni a Vancouver (la nostra scuola aveva un accordo con il governo saudita che pagava agli studenti il viaggio in Canada e tre mesi di scuola, a condizione che non saltassero neppure una lezione). Uno di questi ragazzi era depresso perché il suo adorato cugino era morto poco tempo prima in un incidente stradale. L’altro rideva raccontando di aver rubato la Ferrari del padre e di averla distrutta la stessa notte, essendo andato a schiantarsi contro un palo del telefono. Un terzo, arrivato a Vancouver da una sola settimana, diceva di aver già preso quattro multe. Durante l’intervallo questi studenti amavano mostrare alla classe su YouTube video di drifting, un’attività popolarissima nel Golfo, in cui le auto viaggiano velocissime sulle strade normali, esibendosi in acrobazie. Alcune procedono inclinate al punto che solo due ruote poggiano a terra. I passeggeri a volte si arrampicano fuori dall’abitacolo per fare giochetti pericolosi, per esempio svitano e poi rimettono a posto il coprimozzo, o fanno la verticale. I nostri due autisti del momento sembravano condividere la stessa passione per la guida pericolosa. Una volta fatta benzina, ci offrirono un giro del rione, ad alta velocità. Dopo un viaggio aereo di diciotto ore, l’esperienza ci sembrò un incubo spaventoso, illuminato al neon. In cima a una collina c’era un drive-in di Kentucky Fried Chicken, illuminato con la potenza simil-nucleare di cinque riflettori bianchi. “Vi piace Kentucky?” Da un edificio sbucò una folla di ragazzini adolescenti, tutti vestiti di bianco e magri come stecchi, felici ed eccitati. “Masjid. Moschea. Vi piace masjid ?” A media distanza, circondato da un terreno piatto e desolato, apparve un mostruoso edificio ottagonale, uno stadio.


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“Vi piace calcio?” Dopo un po’ smettemmo di rispondere e le nostre guide ci piantarono il muso. Rinunciarono alla scorribanda e ci portarono all’albergo più triste del mondo, un palazzo squallido di fronte a un cumulone di ghiaia oltre il quale si stendeva un ampio tratto di deserto. Scaricarono in fretta e furia le nostre valigie nell’atrio, e saettarono via, sollevando una nuvola grigia di polvere finissima. Indolenziti per la fatica e la tensione, salimmo i gradini e, varcata la porta d’ingresso, ci trovammo in un vestibolo buio. Il piccolo spazio davanti al bancone esibiva un’ottomana marrone e malconcia e un dipinto con gabbiani giganteschi e tremuli sospesi sopra un oceano grigio e colloso. Sul banco c’era un registro per gli ospiti aperto, ma non si vedeva nessun impiegato, quindi ci sedemmo sul divanetto duro e aspettammo. Sul banco roteava lento un ventilatore, facendo frusciare le pagine del registro. Dopo dieci minuti, l’impiegato si materializzò. Era un giovane asiatico con i guancioni da roditore e una smorfia annoiata. Era vestito con una camicia bordeaux, pantaloni scuri e sandali troppo grandi che sciabattavano rumorosi a ogni passo. Gli ultimi bottoni della camicia erano slacciati, lasciando spuntare la grossa pancia. “Sì?” Ci alzammo e John disse: “Siamo qui con International English Teachers. Ci serve una stanza per questa notte”. “Il nome, per favore.” “Dolan. John e Katherine.” Passò a fatica dietro il bancone e consultò il registro. “Non è qui.” Continuò a guardare la pagina e a muovere la bocca come se stesse succhiandosi i denti o masticando un boccone immaginario. Così esausti che a stento riuscivamo a reggerci in piedi, trattenemmo il fiato finché non ci girò la testa, sperando che non ci toccasse andare da qualche altra parte. Il giovanotto si grattò amorevolmente la pancia, rimuginando. Poi lanciò un’occhiata alle nostre valigie e scrollò le spalle. “D’accordo,” e si avviò strascicando i piedi lungo il corridoio buio, in direzione di un ascensore vetusto. Ci condusse al piano di sopra e percorse sciabattando un cor-


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ridoio silenzioso, fermandosi davanti a una porta che sembrava uguale a tutte le altre. L’aprì e ci fece entrare. Era un appartamento privo di finestre illuminato da una fioca lampada arancione, posta in un angolo. Lì dentro era tutto una sfumatura di marrone, i colori erano beige sporco, sabbia bagnata, argilla, rame brunito. Era spoglio e abbastanza in ordine, ma le pareti, i pavimenti e il mobilio barocco sembravano coperti da una patina di untume, fumo, odori di cucina e minuscole impronte delle zampe di generazioni di mosche. Una volta uscito l’impiegato, facemmo una rapida ispezione. In bagno, il gabinetto era un buco per terra, con ai lati due pedane di porcellana, rigate per non scivolare. Accanto al gabinetto un tubo con una pistola a spruzzo. È questo che dovremmo usare al posto della carta igienica? mi chiesi oziosamente. Ma come si faceva a non bagnarsi i vestiti, a non sporcarsi tutti? Era una questione di mira da perfezionare? E la carta igienica non c’era. Con cosa accidenti ti pulivi? Non esisteva un box doccia, solo una tenda ad anelli in un angolo del bagno. L’aria era così calda e asciutta che l’acqua sarebbe evaporata alla svelta. C’era anche un buco per lo scarico, al centro del pavimento, coperto da una grata di plastica, e da lì emanava un puzzo di fogna a malapena corretto dai fumi di qualche prodotto petrolchimico dall’odore intenso. La cucina era uno spazio piccolo e stretto che sembrava necessitare di grandi pulizie prima dell’uso. La camera da letto era una stanza imponente, simile a una cripta, con un letto quasi altrettanto imponente. Il copriletto sembrava impolverato e le lenzuola non particolarmente pulite, ma non aveva importanza. Era pur sempre un letto. Ci infilammo lì e dormimmo per quindici ore.


Estratto da Katherine Dolan, Le ragazze di Rub‛ al-Khālī Titolo originale dell’opera: Girls of  the Empty Quarter Traduzione dall’inglese di Marina Morpurgo © 2016 astoria srl, corso C. Colombo 11 – 20144 Milano Prima edizione: ottobre 2016 ISBN 978-88-98713-53-0 Progetto grafico di copertina: zevilhéritier Progetto grafico degli interni: Simone Bertelegni

www.astoriaedizioni.it


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