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Agatha Raisin era in procinto di vendere casa e lasciare per sempre Carsely. O meglio, il piano originario era quello. Aveva già preso in affitto un cottage nel villaggio di Fryfam, nel Norfolk. Lo aveva preso alla cieca. Non conosceva né il villaggio né alcun altro luogo del Norfolk. Un’indovina le aveva detto che proprio lì, nel Norfolk, stava il suo destino. Il vicino di casa di Agatha, l’amore della sua vita, James Lacey, era partito senza nemmeno salutarla e così lei aveva deciso di trasferirsi nel Norfolk e il villaggio di Fryfam l’aveva scelto infilzando la carta geografica con uno spillo. Una telefonata alla locale centrale di polizia l’aveva messa in contatto con un agente immobiliare del posto, il cottage era stato preso in affitto e adesso ad Agatha non restava che vendere il suo e partire. Ma c’era un problema, ovvero le persone che venivano a vedere la casa di Lilac Lane. O erano troppo attraenti, e Agatha non aveva alcuna intenzione di fornire a James Lacey una vicina di casa attraente, o erano acide e immusonite, e in tal caso Agatha non se la sentiva di infliggerle al villaggio. 1
Il trasloco nel cottage del Norfolk era stato fissato per i primi di ottobre e si stava avvicinando la fine di settembre. Foglie autunnali dai colori vivaci turbinavano per i viottoli dei Cotswolds. Era un’estate indiana fatta di pigre e dolci giornate di sole e di notti nebbiose. Carsely non era mai apparsa così bella. Ma Agatha era determinata a liberarsi dalla sua ossessione nei confronti di James Lacey. Fryfam probabilmente era altrettanto bella. Agatha stava cercando di resuscitare la volontà infiacchita quando sentì suonare alla porta. Andò ad aprire. Si trovò davanti due persone basse e tonde. “Buongiorno,” disse vivacemente la donna. “Siamo il signore e la signora Baxter-Semper. Siamo venuti a vedere la casa.” “Avreste dovuto prendere appuntamento con l’agenzia immobiliare,” brontolò Agatha. “Oh, ma qui fuori abbiamo visto il cartello in vendita.” “Entrate,” sospirò Agatha. “Date un’occhiata in giro. Se avete domande mi trovate in cucina.” Si chinò su una tazza di caffè nero al tavolo di cucina, e si accese una sigaretta. Attraverso la finestra vedeva i suoi gatti, Hodge e Boswell, giocare in giardino. Bello essere gatti, pensò amaramente Agatha. Niente amore senza speranze, niente responsabilità, niente conti da pagare, niente altro da fare se non aspettare di essere nutriti, e ruzzolare al sole. Sentiva la coppia muoversi in giro per le stanze. Poi udì il rumore di cassetti aperti e richiusi. Andò ai piedi delle scale e gridò verso l’alto: “Vi ho dato il permesso di visitare la casa, non di frugare tra le mie mutande”. Ci fu un silenzio scioccato. Poi il signore e la signora Baxter-Semper tornarono al piano di sotto. “Abbiamo pensato che magari lei potrebbe lasciarci i mobili,” disse la donna, sulla difensiva. 2
“No, ho intenzione di metterli in un deposito,” disse stancamente Agatha. “Ho preso una casa in affitto nel Norfolk e la terrò finché non trovo da comprare.” Lo sguardo della signora Baxter-Semper oltrepassò Agatha. “Oh, ma quello è il giardino?” “Sì, è ovvio,” disse Agatha, soffiando il fumo verso di lei. “Guarda, Bob. Potremmo buttare giù quel muro della cucina e fare una bella serra.” Oddio, pensò Agatha, una di quelle odiose escrescenze in legno bianco e vetro dovrebbe sporgere sul retro del mio cottage. I due rimasero lì impalati, come in attesa che Agatha offrisse loro un tè o un caffè. “Vi accompagno alla porta,” disse Agatha con tono scontroso. Mentre sbatteva con energia la porta alle spalle della coppia, Agatha sentì la signora Baxter-Semper dire: “Che villanzona!”. “Però la casa per noi sarebbe perfetta,” le fece notare il marito. Agatha prese il telefono e chiamò l’agenzia immobiliare. “Ho deciso di non vendere, per il momento. Sì, sono la signora Raisin. No, non voglio vendere. Tirate via quel vostro cartello, e basta.” Quando rimise giù la cornetta, si sentì più felice di quanto non lo fosse stata da tempo. Lasciando Carsely non avrebbe ottenuto nulla. “E così hai deciso di non trasferirti nel Norfolk?” esclamò qualche ora dopo la signora Bloxby, la moglie del pastore. “Sono così contenta che non ci lasci.” 3
“Oh, ma io nel Norfolk ci andrò. Cambiare aria non mi farà male. Ma tornerò.” La moglie del pastore era una donna di aspetto piacevole, con i capelli grigi e gli occhi miti. Con i suoi abiti ragionevoli da signora, le scarpe basse, la gonna di tweed sformata, la camicetta di seta e un vecchio cardigan appariva l’esatto opposto di Agatha Raisin, che era un po’ inquartata ma aveva bellissime gambe avvolte in calze trasparenti, e sfoderava un tailleur corto sartoriale. I capelli lucidi erano tagliati elegantemente a caschetto, e gli occhietti ursini, a differenza di quelli della signora Bloxby, guardavano al mondo con sospetto e diffidenza, sulla difensiva. Sebbene fossero molto amiche, spesso si chiamavano tuttora per cognome – signora Bloxby, signora Raisin – perché questa era l’usanza antiquata in vigore presso la Società delle Dame di Carsely, di cui entrambe facevano parte. Erano sedute nel giardino della canonica. Era un pomeriggio di fine autunno, tiepido e dorato. “E che mi dici di James Lacey?” chiese gentilmente la signora Bloxby. “Oh, me lo sono quasi dimenticato.” La moglie del pastore guardò Agatha dritta negli occhi. La giornata era tranquilla. Una rosa tardiva fioriva, rossa e splendente, contro i muri dolcemente dorati della canonica. Al di là del giardino c’era il camposanto, le pietre tombali sghembe proiettavano ombre sull’erba a ciuffi. L’orologio del campanile batté le sei. “Le notti si stanno allungando,” disse Agatha. “Ebbene no, la storia con James non l’ho superata. L’idea di andarmene nasce da questo. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.” “Non funziona.” La signora Bloxby tirò un pallino di 4
lana del suo cardigan. “Stai consentendo a una persona di vivere nella tua testa, e non le fai pagare l’affitto.” “Parli come una psicoterapeuta,” disse Agatha, sulla difensiva. “E però è vero. Tu andrai nel Norfolk ma lui continuerà a restare con te finché non ti sforzerai di cacciarlo via. Spero che tu non venga coinvolta in altri omicidi, Agatha, ma ogni tanto mi capita di sperare che qualcuno uccida James.” “È una cosa terribile da dire!” “Non ho potuto farne a meno. Non importa. In ogni caso perché il Norfolk, perché questo villaggio, come si chiama, ah sì, Fryfam?” “Ho puntato uno spillo sulla carta. Sai, quell’indovina mi aveva suggerito proprio il Norfolk.” “Non mi meraviglio che le chiese siano vuote,” disse la signora Bloxby, quasi parlando tra sé e sé. “Trovo che la gente che si rivolge a chiaroveggenti e indovini manchi di spiritualità.” Agatha si sentì a disagio. “Io vado via solo per divertirmi e riderci su.” “Un divertimento dispendioso, affittare un cottage. L’inverno nel Norfolk. Farà un gran freddo.” “Anche qui farà freddo.” “È vero, ma il Norfolk è così… piatto.” “Sembra una battuta di Noël Coward.” “Mi mancherai,” disse la signora Bloxby. “Immagino che ti farebbe piacere se ti telefonassi nel caso di un ritorno di James?” “No… cioè, sì.” “Lo sapevo. Beviamoci un po’ di tè.”
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Per Agatha il giorno della partenza arrivò fin troppo in fretta. Quella sua smania di fuggire da Carsely si era placata. Ma il tempo era ancora bello e insolitamente mite, e lei aveva pagato una sostanziosa caparra sul cottage di Fryfam e così cominciò a caricare controvoglia le valigie nel portabagagli dell’auto e anche sul nuovo portapacchi appena montato sul tettuccio. La mattina della partenza lasciò le chiavi del cottage alla donna delle pulizie, Doris Simpson, e poi tornò a casa per convincere Hodge e Boswell a entrare nel loro trasportino. Avviò la macchina, percorse a ritroso Lilac Lane lanciando un’ultima occhiata di rimpianto al cottage di James, svoltò l’angolo e poi accelerò risalendo la collina boscosa in uscita da Carsely, con i gatti nelle loro gabbiette sul sedile posteriore e una carta stradale aperta accanto a sé, sul sedile del passeggero. Il sole splendette per tutto il viaggio finché Agatha non raggiunse il confine della contea di Norfolk e a quel punto il cielo si rannuvolò sulla campagna piatta e tetra. Il Norfolk – che in origine significava “Casa del popolo del Nord” – divenne parte dell’Anglia orientale dopo l’invasione degli anglosassoni nel Quinto secolo. L’area era in origine la più grande palude d’Inghilterra. Le alture erano sede di accampamenti romani. I romani avevano tentato di prosciugare il terreno e costruito alcune strade attraverso le Fens, come veniva chiamata la zona paludosa di un tempo. Dopo l’arrivo degli anglosassoni però la loro opera fu lasciata decadere, e si dovette aspettare fino al Seicento per avere il primo efficace sistema di bonifica, consistente in una serie di dighe e canali. Agatha, abituata alle strade tortuose e alle colline dei Cotswolds, trovò infinitamente deprimente tutto quel piattume che si estendeva a perdita d’occhio. 6
Si fermò in una piazzola e studiò la carta. I gatti alle sue spalle non la smettevano di raspare. “Tra poco ci siamo,” gridò loro Agatha. Non riusciva a trovare Fryfam. Tirò fuori una carta topografica dell’Istituto geografico militare e alla fine ci riuscì. Adesso che sapeva dov’era Fryfam consultò di nuovo la carta stradale e il nome sembrò balzarle subito agli occhi. Perché non lo aveva visto un minuto prima? Il villaggio era annidato in mezzo a una rete di strade di campagna. Agatha scrisse con cura i numeri di tutte le strade che portavano al villaggio, e poi ripartì. Il cielo si stava oscurando e una pioggerella sottile cominciava a velare il parabrezza. Alla fine, con un sospiro di sollievo, vide un cartello con la scritta fryfam e seguì la direzione indicata da quel dito bianco. Su entrambi i lati c’erano boschi di conifere e il paesaggio si stava facendo collinoso. Dietro un’altra curva ecco il cartellone fryfam ad annunciarle che era arrivata. Si fermò di nuovo e tirò fuori le indicazioni fornite dall’agente immobiliare. Il cottage Lavanda, sua nuova dimora temporanea, si trovava nel vicolo dei Folletti, dall’altra parte del parco comunale. Un parco comunale davvero vasto, pensò Agatha, facendone il periplo. C’erano un gruppo di case con i muri in pietra, un pub, una chiesa e poi c’era il vicolo dei Folletti, lungo il camposanto. Era una stradina assai stretta e lei la percorse lentamente, sperando che non arrivasse una macchina nell’altro senso. Agatha era un disastro nelle retromarce. Accese i fari. Poi vide un cartello sbiadito, vicolo dei folletti, svoltò a sinistra e procedette sobbalzando lungo un viottolo laterale. Il cottage era lì in fondo. Era una casa a due piani in pietra e mattoni e aveva un’aria molto antica. Pendeva leggermente verso il giardino, un giardino 7
davvero grande. Agatha uscì indolenzita dall’auto e osservò l’edificio attraverso la siepe. L’agente immobiliare aveva detto che la chiave di casa sarebbe stata sotto lo zerbino. Si chinò e la trovò. Era una chiave molto grossa, come quella del portone di una chiesa antica. La serratura fece resistenza, ma con un colpo secco Agatha riuscì ad aprire. Appena dietro la porta trovò un interruttore, accese la luce e si guardò attorno. Era in un minuscolo vestibolo. Sulla sinistra c’era la sala da pranzo e a destra un salotto. Sul soffitto travi basse e nere. Una porta in fondo all’ingresso dava su una cucina moderna. Agatha aprì le ante dei mobiletti. Erano pieni di piatti, pentole e padelle. Tornò alla macchina e portò dentro uno scatolone di alimenti. Tirò fuori due scatolette di cibo per gatti che versò in due ciotole, altre due le riempì d’acqua e poi andò a prendere Hodge e Boswell che erano ancora nell’auto. Quando li vide mangiare tranquilli, Agatha cominciò a portare dentro anche il resto dei bagagli. Lasciò tutto nell’atrio. Adesso per prima cosa aveva voglia di una tazza di caffè e di una sigaretta. Aveva smesso di fumare in macchina da quando un giorno le era caduta una sigaretta accesa sulla camicetta e per poco non si era schiantata. Solo dopo essersi seduta al tavolo di cucina con una tazza di caffè in mano e la sigaretta nell’altra si rese conto di due cose. In cucina mancava un forno a microonde. Negli ultimi tempi Agatha aveva rinunciato alle sue incursioni nell’arte della “vera” cucina ed era tornata all’uso del microonde. E poi nel cottage faceva molto freddo. Si alzò e cominciò a cercare un termostato per alzare il riscaldamento. Solo al termine di una vana ricerca capì che in quella casa non c’erano termosifoni. Andò in salotto. C’era un camino grande a sufficienza per arrostirci un bue. Accan8
to al camino c’era una cesta di ciocchi. Trovò anche una confezione di esche e una pila di giornali vecchi. Accese il fuoco. Perlomeno la legna era asciutta e ben presto i ciocchi cominciarono a scoppiettare allegramente. Agatha perlustrò di nuovo la casa. C’erano camini in ogni stanza, a parte la cucina. In cucina trovò in un armadio una stufetta a gas Calor. Ma è ridicolo, pensò Agatha. Mi toccherà spendere una fortuna per scaldare questo posto. Uscì dalla porta principale. Il giardino continuava a sembrarle molto grande. Avrebbe avuto bisogno dei servigi di un giardiniere. Il prato era coperto da un fitto tappeto di foglie cadute. Era sabato. L’agenzia immobiliare non avrebbe riaperto fino a lunedì. Dopo aver svuotato gli scatoloni della spesa e riposto in freezer i pasti surgelati, Agatha aprì la porta sul retro. Il giardino aveva uno spazio per il bucato e poco altro. E mentre guardava sbatté le palpebre. In fondo al prato danzavano piccole, strane luci colorate. Lucciole? Non nel freddo Norfolk. Attraversò il giardino in direzione delle luci, che sparirono di colpo al suo avvicinarsi. Lo stomaco di Agatha brontolò, ricordandole che non mangiava da un po’. Decise di chiudere casa e di andare a piedi al pub per vedere di riuscire a rimediare un pasto. Era a metà del viottolo quando con un gemito si rese conto di non aver tirato fuori le cassettine dei gatti. Tornò al cottage, fece quel lavoretto e poi uscì di nuovo. Il pub si chiamava Dragone Verde. Davanti alla porta pendeva il ritratto mal dipinto di un drago verde. Agatha entrò. I clienti erano pochi, tutti uomini, tutti omettini piccini. Si avvicinò al bancone e i clienti la osservarono, in silenzio. 9
Era un pub molto tranquillo, niente musica, niente slotmachine, niente televisore. Dietro il bancone non c’era nessuno. Lo stomaco di Agatha emise un altro brontolio. “Non c’è un cameriere, qui?” gridò lei. Si girò a guardare gli altri avventori che prontamente abbassarono gli occhi sul pavimento a lastre di pietra. Agatha si girò di nuovo verso il bar, spazientita. Ma in che postaccio sono capitata? pensò amaramente. Si sentì uno scalpicciare di tacchi alti in avvicinamento e poi dietro il bancone si materializzò una visione. Era una bionda giunonica che pareva la polena di una nave. Aveva una folta chioma bionda – bionda naturale – che ricadeva in morbide onde partendo da una faccia liscia color panna e pesca. Gli occhi erano molto grandi e molto azzurri. “Come posso esserle d’aiuto, missus?” chiese la donna con voce flautata. “Ho fame,” disse Agatha. “Avete qualcosa da mangiare?” “Mi dispiace molto. Non serviamo pasti.” “Oh, ma santi numi,” ululò Agatha, al colmo dell’esasperazione. “C’è un qualche posto in questo villaggio dimenticato dal tempo in cui io possa mangiare qualcosa?” “Pensi quanto è fortunata. Mi è avanzata una porzione del nostro steak pie. La vuole?” Scoccò ad Agatha un sorriso abbagliante. “Sì, grazie,” disse Agatha, rabbonita. La bionda le tenne aperto lo sportelletto del bar. “Venga pure. Lei deve essere la signora Raisin, quella che ha preso in affitto il cottage Lavanda.” Agatha la seguì nel retro, arrivando in una cucina grande e squallida, con al centro un tavolo di legno grezzo. “Prego, si accomodi, signora Raisin.” “E lei chi è?” 10
“Io sono la signora Wilden. Le posso offrire un bicchiere di birra?” “Se non chiedo troppo, non mi dispiacerebbe del vino.” “No, non chiede troppo.” La signora Wilden sparì e tornò poco dopo con una caraffa di vino e un bicchiere. Poi mise davanti ad Agatha coltello, forchetta e tovagliolo. Aprì lo sportello del forno di una cucina economica Aga e tirò fuori un piatto con una fetta di steak pie. Lo mise su un piatto di portata, poi aprì un altro sportello della cucina ed estrasse un vassoio di patate arrosto. Un altro sportello ancora ed ecco saltare fuori carote, broccoli e piselli. La donna servì ad Agatha un piattone colmo di tutto, ci aggiunse una salsiera di gravy bollente, che pareva aver fatto comparire per magia dal nulla, un cestino di panini croccanti e una fettona di burro color oro. Non solo il cibo era delizioso, ma il vino era il migliore che Agatha avesse mai assaggiato. Di solito non distingueva un vino da un altro, ma in qualche modo capì che quello era speciale, e avrebbe voluto che sir Charles Fraith, l’amico baronetto, lo potesse assaggiare per dirle che cos’era. Si girò per domandarlo alla signora Wilden, ma la bellona era scomparsa di nuovo. Agatha mangiò fino a non poterne più. Sentendosi rilassata e leggermente brilla, tornò al bancone. “Allora, tutto bene?” chiese la signora Wilden. “Era tutto squisito,” disse Agatha. Tirò fuori il portafoglio. “Quanto le devo?” In quei begli occhi azzurri si accese un lampo di stupore. “Ma gliel’ho detto, non serviamo pasti.” “Ma…” “Quindi è stata mia ospite per il cibo e il vino,” disse la signora Wilden. “Adesso è meglio se va a casa a dormire un po’. Sarà stanca, credo.” 11
“Grazie mille,” disse Agatha, mettendo via il portafoglio. “Una sera dovete venire a cena da me, lei e suo marito.” “È molto gentile da parte sua, ma mio marito è morto e io sono sempre qui.” “Mi dispiace per suo marito,” disse Agatha, imbarazzata, mentre la signora Wilden le teneva aperto lo sportello del bar per farla passare. “Ma quando ha detto il nostro steak pie, ho pensato…” “Intendevo dire mio e di mia madre.” “Ah, bene, è stata molto gentile. Magari potrei offrire da bere a tutti?” Gli avventori del pub stavano parlando sottovoce, ma alle parole di Agatha seguì un improvviso silenzio. “Non stasera. Non lo faccia, altrimenti si viziano, vero Jimmy?” Jimmy, un vecchietto rattrappito, borbottò qualcosa e guardò tristemente il boccale vuoto. Agatha si diresse all’uscita. “Grazie ancora,” disse. “Oh, senta, mi è capitato di vedere in fondo al giardino sul retro delle strane lucine danzanti. Da queste parti avete degli insetti simili alle lucciole?” Per un momento il silenzio nel pub fu assoluto. Tutti sembravano congelati, come statue. Poi la signora Wilden prese un bicchiere e cominciò a strofinarlo. “Non abbiamo niente del genere, in questa zona. Probabilmente i suoi poveri occhi erano stanchi, dopo quel lungo viaggio.” Agatha scrollò le spalle. “Può essere.” Uscì nella sera. Le venne in mente di aver lasciato il camino acceso, e di non averci messo davanti un parafuoco. Corse per tutta la strada fino a casa, atterrita al pensiero di ritrovare i suoi adorati gatti fritti come patatine. Frugò nella borsetta alla ricerca di quella ridicola chiave. Devo oliare la serratura, pensò. Aprì la porta e si precipitò in salotto. Il fuoco ardeva 12
rosso. I gatti erano sdraiati lì davanti. Con un sospiro di sollievo Agatha si chinò ad accarezzare i loro corpi caldi. Poi andò di sopra, per infilarsi a letto. C’erano due camere, una con un letto matrimoniale e l’altra con un letto singolo. Scelse la matrimoniale. Il letto era coperto da un piumone grande e spesso. Agatha esplorò il bagno. Aveva un riscaldatore a immersione. Ci sarebbero voluti secoli per scaldare l’acqua della vasca. Lo accese, si lavò la faccia e i denti, andò a letto e scivolò in un sonno profondo e senza sogni. La mattinata era luminosa e soleggiata. Agatha si fece un bagno caldo, si vestì e si concedette la solita colazione a base di due tazze di caffè nero e tre sigarette. Lasciò uscire i gatti nel giardino sul retro e poi, tornando in cucina, prese la lista con la dotazione della casa compilata dall’agente immobiliare. Agatha, vecchia volpe delle case prese in affitto, sapeva quanto fosse importante il controllo degli inventari. Voleva riavere l’intera caparra, e non voleva vedersela decurtare in nome di perdite inesistenti. Era a metà dell’opera quando qualcuno bussò alla porta. Andò ad aprire e si trovò di fronte quattro donne. La capa del gruppo era una signora di mezza età lunga e allampanata, con un gilet trapuntato indossato sopra una camicia a scacchi. Portava calzoni di velluto a coste sformati sulle ginocchia. “Io sono Harriet Freemantle,” disse. “Le ho portato una torta. Apparteniamo tutte all’Associazione Donne di Fryfam. Mi consenta di fare le presentazioni. Questa è Amy Worth.” Una donna minuscola e slavata con un vestito che le penzolava addosso sorrise timidamente e porse ad Agatha un vasetto di chutney. “E questa è Polly Dart.” Una signorottona di campagna con le sopracciglia cespugliose e un accenno di baffi. “Le ho portato un po’ 13
dei miei scones,” disse con il suo vocione di basso. “Io sono Carrie Smiley.” L’ultima a farsi avanti era una tipa piuttosto giovane, sulla trentina, con capelli e occhi scuri e un bel corpo messo in evidenza da jeans e maglietta. “Le ho portato un po’ del mio vino di sambuco.” “Accomodatevi, prego,” disse Agatha. Le condusse in cucina. “Hanno risistemato bene la casa del vecchio Cutler,” disse Harriet, mentre lei e le altre depositavano i loro doni sul tavolo di cucina. “Cutler?” disse Agatha, inserendo la spina del bollitore. “Un vecchio che ha vissuto qui per secoli. La figlia affitta il cottage,” disse Amy. “Quando il padre morì, questa casa era ridotta a un disastro. Non buttava mai via niente, lui.” “Mi stupisce che la figlia non si sia limitata a metterlo in vendita. Deve essere difficile riuscire ad affittarlo.” “Non saprei,” disse Harriet. “Lei è la prima.” “Qualcuno di voi ha voglia di un caffè?” chiese Agatha. Ci fu un coro di assenso. “E magari possiamo mangiare un po’ del dolce della signora Freemantle.” “Harriet. Qui ci chiamiamo tutte per nome.” “Come probabilmente sapete già, io sono Agatha Raisin. Faccio parte di una società di dame del mio villaggio, che sarebbe Carsely.” “Una società di dame?” esclamò Carrie. “È così che la chiamate?” “Siamo un po’ antiquate,” disse Agatha. “E ci chiamiamo sempre per cognome.” Harriet stava tagliando a fette con perizia una deliziosa torta al cioccolato, e sistemando le fette sui piatti. Se non sto attenta metterò su peso, pensò Agatha. Prima quel pasto gigantesco e adesso una torta al cioccolato. 14
Una volta riempite le tazze, tutte quante si trasferirono in salotto con i loro caffè e i piatti di torta. “Volete che accenda il fuoco?” chiese Agatha. “No, abbiamo caldo a sufficienza,” disse Harriet senza interpellare le altre. “Penso che avrebbero potuto installare un qualche impianto di riscaldamento centrale,” si lamentò Agatha. “L’affitto era già abbastanza caro senza doverci aggiungere la spesa per la legna.” “Oh, ma di legna qui ce n’è in abbondanza,” disse Polly. “In fondo al giardino c’è un capanno pieno di ceppi.” “Non l’ho visto. Ma era buio, quando sono arrivata. Oh, e tra l’altro, in fondo al giardino ho visto danzare delle strane luci.” Ci fu un silenzio e poi Carrie chiese: “Manca qualcosa?”. “Sono arrivata a controllare solo metà dell’inventario, quindi non lo so. Perché?” Ancora silenzio. Poi Harriet disse: “Ci chiedevamo se durante il suo soggiorno non le andrebbe di essere socia onoraria del nostro gruppo femminile. Stiamo trapuntando”. “Sarebbe a dire?” bofonchiò Agatha, con la bocca piena di torta. Perché non volevano parlare di quelle luci? “Stiamo facendo trapunte patchwork. Sa, cuciamo quadrati di stoffa sopra vecchie coperte.” Competitiva come al solito, Agatha Raisin non avrebbe mai ammesso di non essere capace di cucire. “Sembra divertente,” mentì. “Potrei fare un salto, prima o poi. Siete state così gentili a portarmi tutti questi regali.” “Stasera,” disse Harriet. “Ci troviamo questa sera. Passerò a prenderla alle sette, subito dopo la funzione della sera. Lei fa parte della Chiesa d’Inghilterra?” 15
“Sì,” disse Agatha, che in realtà non era religiosa ma sentiva che l’amicizia con la signora Bloxby le forniva titoli sufficienti a far parte della Chiesa d’Inghilterra. “Oh, in tal caso, ci vedremo in parrocchia questa sera, e poi andremo direttamente da lì,” disse Harriet. Agatha era pronta a mentire dicendo che si sentiva uno straccio e che non ce l’avrebbe fatta ad andare da nessuna parte, quando Polly disse all’improvviso: “Avanti, allora. Ci racconti del suo cuore infranto”. Agatha arrossì. “Di cosa state parlando?” “Quando abbiamo saputo della sua venuta,” disse Harriet, “e che lei abitava in un villaggio dei Cotswolds, ci siamo chieste chi glielo facesse fare di andarsi a cercare una casa in affitto da un’altra parte e quindi abbiamo deciso che dovesse avere dei problemi con un uomo, e volesse tagliare la corda.” Mi sbarazzerò di voi alla svelta, pensò Agatha. Sorrise a tutte, quel sorriso da pescecane che indicava che Agatha Raisin era in procinto di sparare una bugia colossale. “In realtà al momento sto scrivendo un libro,” disse. “Volevo un posto in cui poter lavorare in pace e tranquillità. Vedete, continuano a piombarmi in visita vecchi amici londinesi e non ho tempo a sufficienza per me. Stasera uscirò con voi, ma temo che mi toccherà fare un po’ la reclusa.” “Cosa sta scrivendo?” chiese Amy. “Un giallo.” “Come si chiama?” “Morte al maniero,” disse Agatha, improvvisando freneticamente. “E chi è il detective, nel suo giallo?” “Un baronetto.” “Ci sta dicendo che ha creato una nuova specie di lord Peter Wimsey?” 16
“Vi dispiace se non parliamo più del mio lavoro?” disse Agatha. “Non amo discuterne.” “Ci dica solo questo,” disse Amy, protendendosi in avanti. “Gliene hanno già pubblicato qualcuno?” “No, questo è il mio primo tentativo. Sono un’investigatrice, nella vita reale, e dunque ho pensato che avrei potuto romanzare alcune delle mie avventure.” “Ci sta dicendo che lei lavora per la polizia?” domandò Harriet. “Di tanto in tanto lavoro con la polizia,” disse Agatha, grandiosamente. Procedette a menare vanto dei casi da lei affrontati. Con irritazione di Agatha, proprio al culmine dell’emozione di uno di questi misteri Harriet si alzò e disse all’improvviso: “Mi dispiace, dobbiamo andare”. Agatha le accompagnò alla porta. Andò con loro fino al cancello del giardino e le salutò con un cenno della mano. Rimase appoggiata alle sbarre, godendosi il sole. Alle sue orecchie giunse la voce di Harriet. “È evidente che stava mentendo.” “Lo pensi davvero?” la voce di Amy. “Oh, sì. Non c’era una sola parola di verità. Quella donna probabilmente non è capace di mettere giù due frasi in croce.” Agatha serrò i pugni. Befanaccia gelosa. Gliel’avrebbe fatta vedere lei. Avrebbe scritto un libro. Dopotutto scrivere era scrivere, e lei nella sua veste di addetta alle pubbliche relazioni aveva scritto abbastanza comunicati stampa. Si era portata appresso il computer e la stampante. Cominciò a provare una certa eccitazione. Il suo nome sarebbe giunto in cima alla classifica dei best seller, e a quel punto James avrebbe drizzato le orecchie e prestato attenzione. Rientrando in casa, Agatha lanciò un’occhiata al di so17
pra della siepe, al vialetto dove era parcheggiata la sua auto. Che cosa avevano voluto dire, chiedendo se mancava qualcosa? Agatha aprì la porta della cucina e andò in fondo al giardino, trovando un capanno dietro a un gruppetto di alberi. Era pieno di legna. Tornò in cucina con i gatti che le saltellavano dietro. Perlomeno a loro questo posto piace, pensò. Diede loro da mangiare e tornò al controllo dell’inventario, senza però smettere di farsi domande sulle sue visitatrici. Avevano dei mariti? Non potevano essere tutte vedove. Dopo aver finito di spuntare tutte le voci dell’elenco, mise in un tegame il contenuto di una confezione di Curry Bengalese Genuino, raschiando ben bene. Doveva procedere all’acquisto di un forno a microonde. Mangiò quel poltiglione piccante e poi decise di cominciare a scrivere il suo libro. Sistemò il computer sul tavolo della cucina, digitò “Capitolo Uno”, e poi fissò lo schermo. Invece del libro si ritrovò a scrivere delle scuse per schivare le trapunte. “Ho un attacco di emicrania.” No, non andava bene. Sarebbero piombate lì tutte, armate di pastiglie. “È sopraggiunto un impegno urgente.” Quale? E come diamine avrebbe fatto a mettersi in contatto con loro? La signora Wilden giù al pub certamente lo sapeva. Agatha decise di andare a piedi fino al pub. Mentre percorreva a passo di marcia il vicolo dei Folletti, si disse che avrebbe dovuto cominciare a osservare la campagna che aveva attorno. Gli scrittori lo facevano. Nella siepe alla sua destra si vedevano le bacche rosse della rosa canina e del biancospino. Okay. “Le bacche rosse della rosa canina e del biancospino splendevano come lampade tempestate di pietre preziose…” No, cancelliamo. “Le bacche 18
rosso vivo della rosa canina e del biancospino pendevano come lampade sopra il…” Nada, riproviamo. “Le bacche del biancospino costellavano la siepe.” No, le bacche non possono costellare. I fiori sì. Ma in ogni caso chi cavolo desidera fare la scrittrice? Il pub era chiuso. Agatha rimase lì, indecisa sul da farsi. Nel mezzo del parco comunale c’erano uno stagno delle anatre ma senza anatre, e una panchina che guardava lo stagno. Agatha attraversò il prato e si sedette a contemplare l’acqua. “’ngiorno.” Agatha sobbalzò nervosamente. Un vecchio rattrappito si era seduto accanto a lei senza fare rumore. “’ngiorno,” disse Agatha. Il vecchio scivolò lungo la panca fino ad arrivarle vicinissimo. Puzzava di zuppa di prosciutto e fumo di sigaretta. Aveva chiaramente addosso il vestito della domenica, a giudicare dal vecchio abito spelacchiato, dalla camicia bianca e dalla cravatta a righe. I suoi stivali troppo grandi erano lucidissimi. Poi Agatha sentì qualcosa sul ginocchio, e abbassando lo sguardo vide che il vecchio le aveva piazzato una mano sopra. Agatha gli sollevò la mano, e gliela piazzò sul suo, di ginocchio. “Veda di comportarsi come si deve,” disse, secca. “Non si preoccupi di quel suo tizio che l’ha trattata male. Ci pensiamo noi, a lei, ci pensiamo.” Agatha si alzò e si allontanò a lunghi passi, paonazza in viso. L’intero villaggio aveva deciso che lei doveva avere il cuore infranto? Ma che se ne andassero tutti quanti a quel paese. Come prima cosa lunedì mattina sarebbe andata a parlare con l’agente immobiliare per disdire il contratto. Trovò una strada che partiva dall’altra estremità del 19
parco, e offriva un piccolo assortimento di negozi. C’erano un ufficio postale con emporio, simile a quello di Carsely, un negozio di prodotti elettrici, uno che vendeva abiti stile Laura Ashley, un antiquario e in fondo alla strada c’era Bryman, l’agenzia immobiliare. Agatha studiò gli annunci in vetrina. I prezzi delle case erano inferiori a quelli dei Cotswolds, ma non di molto. Tornò nel parco, sola come una nuvola, e decise di rientrare a casa e impiegare utilmente la giornata disfacendo il resto dei bagagli. Il giardiniere passò nel pomeriggio e domandò ad Agatha se c’era qualcosa in particolare che desiderava vedere fatto. Agatha desiderava che lui rastrellasse via le foglie, tosasse il prato e tenesse in ordine le aiuole fiorite. Era un giovanotto muscoloso e tatuato, con una massa di capelli castani scuri. Disse di chiamarsi Barry Jones, e che sarebbe tornato l’indomani. Agatha lo ringraziò e, quando lui si voltò per andarsene, gli disse: “Ha per caso sentito parlare di certe strane luci? Ieri sera ho visto danzare in fondo al giardino delle lucine misteriose”. Quello non si girò neppure. “Ammetto di non saperne nulla,” disse e si allontanò a passi veloci. C’è qualcosa di strano in questa faccenda delle luci, pensò Agatha. Magari si tratta di un maledetto insetto velenoso e la gente del posto non ne vuole parlare per timore di far scappare i turisti. Tornò ai suoi lavori domestici, chiedendosi, mentre appendeva gli abiti, se i camini a legna sarebbero stati sufficienti per tenere calda la casa nell’eventualità di un’ondata di freddo. L’agenzia immobiliare avrebbe dovuto avvertirla. Quando Agatha si accorse che si erano fatte quasi le sei, cominciò a domandarsi se fosse il caso di schivare o no la 20
chiesa e le trapunte. Controllò la guida ai programmi televisivi che si era portata appresso. Non c’era un granché. E poi si rese conto di soffrire la solitudine. Chiuse casa e arrivò in chiesa in tempo per la preghiera serale. Con suo grande stupore vide che in quei giorni di senza Dio la chiesa era piena. Il sermone del pastore verteva sulla fede da opporre alla superstizione, e la mente di Agatha tornò a quelle luci. Il villaggio di Fryfam aveva un che di chiuso, di anacronistico, di comunità senza rapporti con l’esterno. Là fuori nel mondo imperversavano fuoco e inondazioni e carestie. Eppure a Fryfam dame con il cappellino e gentiluomini in abito levavano le loro voci nel canto di Resta con noi, Signore, come se non esistesse nulla al di là del loro sicuro mondo inglese governato dall’avvicendarsi delle stagioni e dal calendario della chiesa: la Festa di san Michele, la Candelora, la Festa del Raccolto, l’Avvento, il Natale. Agatha attese sul sagrato. Le venne incontro Harriet, circondata dalle altre tre donne. Portavano gli stessi vestiti ma si erano messe in testa i cappelli: Harriet una calottina in feltro, Amy un cappello di paglia, Polly un berretto da pescatore in tweed mentre Carrie sfoggiava un cappellino da baseball. Agatha, che si era cambiata scegliendo un completo pantalone di sartoria e una camicetta in seta, si sentì fin troppo elegante. “Bene,” disse Harriet. “Andiamo!” Una coppia superò il gruppo, bisticciando con acrimonia. “Non essere così pesante, Tolly,” stava dicendo la donna. Alle narici di Agatha giunse una zaffata di Envy di Gucci. Si fermò a guardare la coppia. La donna possedeva quella che Agatha giudicava la “nuova” bellezza, nel senso che piaceva agli altri. I capelli erano biondi, portati lunghi 21
fino alle spalle. Indossava un completo in tweed di buon taglio, e la gonna aveva uno spacco laterale che metteva in mostra una gamba ben tornita fasciata da una calza dieci denari: autoreggenti, e non collant, perché lo spacco era profondo a sufficienza da lasciar intravvedere un bordo. Gli occhi erano azzurro chiaro, e ben distanziati. Gli zigomi erano alti, ma il naso era troppo vicino alla bocca, e quella bocca allungata era troppo vicina al mento squadrato. L’uomo era più anziano, piccolo, grassoccio e bilioso, con i capelli radi e il colorito rosso acceso. “Andiamo, Agatha,” ordinò Harriet. “Chi sono quelli? Quella coppia?” “Oh, quello è il nostro signorotto, si è eletto tale da solo, ha fatto i soldi montando docce nei bagni, e lei è sua moglie Lucy. I Trumpington-James. Buffo, non è vero?” disse Harriet con voce udibile per tutto il sagrato. “Non molto tempo fa un cognome doppio denotava una nobildonna o un gentiluomo. Adesso invece ti fa capire di essere in presenza di un parvenu di rango medio o basso.” “Non sta facendo un po’ la snob, Harriet?” chiese Agatha. “No,” disse Harriet. “Sono decisamente odiosi, come constaterà di persona.” “E come farò a constatarlo?” “Sono convinti che faccia parte dei loro doveri di signori e capi dare il benvenuto ai nuovi arrivati. Vedrà.” “Dove stiamo andando?” “A casa mia.” Harriet abitava dall’altra parte del parco comunale, in un edificio squadrato del primo periodo vittoriano. Facendo strada al gruppo verso un salotto ampio ma tetro, Harriet accese le luci e disse: “Qualcuna vuole bere qualcosa, intanto?”. E prima che Agatha potesse chiedere 22
con gratitudine un gin tonic, Harriet disse: “Sì, ecco, possiamo bere un po’ del vino di sambuco di Carrie”. Agatha si guardò attorno. La stanza aveva dei finestroni lunghi e il soffitto alto, ma era ingombra di mobili pesanti. Le pareti erano di un verde smorto, con quadri dozzinali di cavalli e selvaggina morta. Amy stava tirando fuori da un grosso cassettone nell’angolo coperte, scatole di stoffe e strumenti per il cucito. “Penso che dovrebbe lavorare su una trapunta insieme a Carrie,” disse Amy. “Lei si mette da una parte e Carrie dall’altra. Se vi sedete vicine potete stendere la coperta in mezzo a voi.” Harriet tornò con un vassoio di bicchieri colmi di vino di sambuco. Agatha assaggiò il suo con cautela. Era molto dolce e aveva un retrogusto di medicina. “Siamo tutte vedove, qui?” chiese Agatha, guardandosi attorno. “Non ci sono mariti?” “Mio marito è al pub con il marito di Amy e quello di Polly,” disse Harriet. “Carrie è divorziata.” “Credevo che il pub fosse chiuso la domenica. Ci sono passata all’ora di pranzo ed era chiuso.” “È aperto la domenica sera.” Harriet si scolò il bicchiere e lo rimise sul vassoio. “È meglio se cominciamo.” Dovrebbe essere facile, pensò Agatha, mentre Carrie le passava una piccola pila di quadrati di stoffa. Devo solo cucirli lì sopra. “Non così,” disse Carrie, nel vedere che Agatha conficcava un ago vicino al bordo di un quadrato. “Prima ci fa un orlo, lo cuce e poi sfila l’orlo.” Agatha la guardò malissimo e procedette al tentativo di fare un orlo a uno scivolosissimo quadratino di seta. Non appena eseguito un punto, la seta si sfrangiava sui bordi. Agatha lasciò cadere surrettiziamente 23
il pezzo di seta e tirò fuori un quadrato di lana colorato. Lanciò un’occhiata di sguincio a Carrie, che stava piazzando velocemente in vari quadrati di tessuto piccoli punti ordinati, pressoché invisibili. Decise di avviare una conversazione per tentare di distogliere l’attenzione delle altre dal suo modo dilettantesco di cucire. “La signora Wilden mi ha offerto un pasto delizioso, ieri sera al pub. È una donna di una bellezza decisamente straordinaria.” “Peccato abbia una moralità da gatto maschio,” ribatté secca Polly, spezzando il filo con i suoi denti forti e giallastri. “Oh, davvero?” disse Agatha, osservando incuriosita quelle facce irrigidite. “A me è parsa una tipa piuttosto amabile.” “Buon per lei che non è sposata,” fece Amy, con voce quasi lacrimosa. “Quando è mancato suo marito, Agatha?” domandò Carrie. “È passato un po’ di tempo,” disse Agatha. “Non mi va di parlarne.” Non aveva voglia di raccontare a quelle donne che suo marito era stato assassinato subito dopo essere riemerso dal passato per impedire ad Agatha di sposare James Lacey. “Mi sto ancora interrogando su quelle luci,” proseguì. Notò con sorpresa che, distratta com’era dalle chiacchiere, era riuscita a fare l’orlo a un riquadro di stoffa. “Le ha viste di nuovo?” s’informò Harriet. “No.” “E allora, qui la volevo. Probabilmente era stanca dopo aver guidato tanto e se l’è solo immaginate.” Agatha lasciò perdere la faccenda delle luci. Era sicura che quelle donne tra di loro spettegolassero liberamente. Lei era l’estranea, non era ancora stata accettata, e questo metteva un freno a qualsiasi conversazione. 24
Quando Harriet dopo un’ora disse “Ebbene, per stasera dovrebbe bastare,” Agatha si sentì come se fosse suonata la campanella della scuola. Nell’uscire si fermò ad ammirare una composizione di foglie autunnali in un vaso all’ingresso. Harriet tirò fuori il mazzo di foglie e lo diede ad Agatha. “Lo prenda,” disse. “Io immergo le foglie nella glicerina, quindi dovrebbero durarle tutto l’inverno.” Agatha tornò a casa con le foglie. Si ricordava di aver visto un grosso vaso in pietra, posato sul pavimento del salotto, accanto al camino. Entrò nel cottage, lieta di essersi portata dietro i gatti come compagnia, mentre Hodge e Boswell le si strofinavano su e giù attorno alle caviglie. Attraversò la cucina e posò le foglie sul bancone. Guardò fuori dalla finestra, ed eccole di nuovo lì, le luci danzanti. Agatha aprì la porta e andò in giardino. Le luci erano scomparse. Borbottando tra sé e sé rientrò in casa. Stava succedendo qualcosa di strano. Non se l’era sognate, quelle luci, e la sua vista non aveva nulla che non andasse. Agatha andò in salotto a prendere quel vaso. Non c’era più. Cominciò a chiedersi se per caso non se lo fosse immaginato. Tirò fuori dal cassetto della cucina il foglio con l’inventario. Sì, eccolo lì, sotto “Contenuto del salotto”: un vaso in pietra. Agatha all’improvviso si sentì minacciata. Controllò che le porte fossero chiuse e andò di sopra, a letto. Lo stomaco borbottava, rammentandole che non aveva cenato, ma il pensiero di scendere nuovamente al piano di sotto l’atterriva. Si fece un bagno, si cambiò e strisciò sotto il piumone tirandoselo sopra la testa, per chiudere fuori le paure della notte.
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Estratto da Agatha Raisin e le fate di Fryfam Titolo originale dell’opera Agatha Raisin and the Fairies of Fryfam Traduzione dall’inglese di Marina Morpurgo © 2000 by M.C. Beaton © 2014 astoria srl corso C. Colombo 11 – 20144 Milano Prima edizione: settembre 2014 ISBN 978-88-96919-87-3 In copertina: illustrazione di Alice Tait Progetto grafico: zevilhéritier
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