Kerestetíl

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Ma sì, Mutter, l’abbiamo capito. Avevano capito, Roberta e Lucia, che se arrivava Suzette, l’amica della mamma, l’amica francese (ma no, non è francese, è belga, correggeva saputella Roberta, la maggiore delle due sorelle). Se capitava la disgrazia, diceva Lucia, che arrivasse a raggiungerle in quella vacanza montanara e piovosa l’amica Suzette, graziosa sì ma non abbastanza, sapiente sì ma non tanto da insegnare loro nulla di nuovo, spiritosa sì ma non a sufficienza per essere divertente, lievemente impicciona e soprattutto afflitta sempre da problemi di cuore in senso sentimentale. Se arrivava Suzette, che ne aveva sempre una da dire, su come mettere correttamente il dentifricio sullo spazzolino, su come ci si doveva lavare la faccia, su come era meglio stendere l’olio solare, su come tenere la forchetta a tavola (forchetta che, al pari del coltello, delle posate da pesce e dei vari bicchieri le due sorelle tenevano più che correttamente, ma una predica in più non guasta mai, ribatteva sorridente lei)… Insomma, se i prossimi giorni, che erano gli ultimi delle vacanze estive “estere” delle due fanciulle, fossero stati divisi con Suzette, 1


a quanto pare Roberta e Lucia dovevano stare molto attente, quando se ne andavano cantando di prato in prato e di valloncello in valloncello, a non accennare mai, neanche con un uhm uhm, la canzone che loro chiamavano Baisers Volés, parte di un gruppo e di un’epoca di canzoni a loro particolarmente care, se persino le non tanto stupide suore Marcelline, che conducevano la elegante scuola della fiorita piazza Tommaseo di Milano dove studiavano le due sorelle, l’avevano messa nel menu ufficiale della festa di primavera, corso di francese, unendo per così dire l’utile (lo studio della lingua che allora sembrava indispensabile per la preparazione culturale e sociale di una ragazzina di buona famiglia) al dilettevole (cantare, cantare, cantare, come le due fanciulle facevano con entusiasmo e partecipazione romantica). Era l’epoca di Charles Trenet, di Barbara, di Edith Piaf, di Charles Aznavour, di Gilbert Bécaud. E Roberta e Lucia, ragazzine precocemente sapienti educate ai grandi sentimenti attraverso la musica, i quadri, le letture, si abbandonavano alle travolgenti passioni, ai rimpianti e ai dolori cantati dalle canzoni francesi, soffrendo con un anticipo di almeno un decennio i fantasticati amori che a tempo debito sarebbero certamente arrivati, anzi, che sarebbero arrivati hopefully, ci contavano proprio, come diceva Roberta, che studiava anche l’inglese. Tra queste amate canzoni, quella più teatrale, più drammatica, più forte era senza dubbio Le prisonnier de la tour, praticamente un intero romanzo gotico in tre minuti, compreso il suicidio del prigioniero della torre, e lo stigma su colei che lo ha amato (e qui si spalancava in famiglia l’inquietante quesito circa il grado di intimità che aveva legato 2


il prigioniero della torre e la fanciulla in questione, quesito che veniva esaminato quando l’affettuosa sorveglianza della mamma si affievoliva. Insomma la ragazza del prigioniero l’aveva fatto o no, il grande passo, e il pizzo del vestito da sposa cui non aveva più diritto era una metafora? Sì, dicevano proprio metafora, le due saputelle). Ragione per cui la canzone più amata e frequentata era, come già detto, Que reste-t-il de nos amours, studiata in ogni dettaglio linguistico, in ogni trucco seduttivo della voce di velluto di Charles Trenet, in ogni dettaglio di alta scuola della nostalgia. E cosa c’entrava Suzette con i baci rubati di Charles Trenet? C’entrava, c’entrava. Perché a quanto sembra nella vita della signorina belga (ma che peccato, non era meglio se era francese? Lo sai che i francesi dicono sui belgi le stesse cattiverie e le stesse barzellette che noi qui diciamo a proposito dei carabinieri?), nella vita della single Suzette (ma la parola single ancora non si usava, al suo posto si usava, per chiunque sopra i venticinque anni, il termine zitella), nella tranquilla vita della belga era passato, lasciando rovine e brutti ricordi, tale italianissimo Cesare, che aveva procurato ferite apparentemente incurabili, e peggio (e qui interveniva l’autocensura della mamma narratrice e delle figlie ascoltatrici). Ragion per cui, una volta che Cesare se ne era uscito dalla vita di Suzette – anzi, bisognerebbe dire che si era volatilizzato, sparito, puff, sintetizzava la mamma, niente indirizzo, nessuna lettera, e neanche arrivederci – Suzette era rimasta a leccarsi le ferite (ma all’epoca le due sorelline non avrebbero parlato con metafore così eloquenti), a rimediare al problemaccio che Cesare si era lasciato cinicamente alle spalle. Qualunque fosse. 3


E la mamma, che era tutta gentilezza e comprensione e sensibilità, sapeva quanto evocativa fosse per Suzette, per quanto belga, la canzone di Charles Trenet, di quanti incontri amorosi fosse stata la colonna musicale, come permeasse tutto il ricordo dell’affaire, e chiedeva una moratoria alle simpatie musicali delle sue figlie, per evitare di turbare gli stati d’animo e la relativa tranquillità dell’amica. Quell’anno – l’anno della guerra, lo avrebbero sempre chiamato in famiglia, come se di guerre la famiglia non ne avesse conosciute altre mentre il folklore familiare era pieno di leggende sulla Resistenza e i campi, e gli amici perduti – il luogo designato per la vacanza “intelligente” del clan era Kitzbühel, in Austria. Non sapevano bene perché in montagna e perché l’Austria. Lontana ma sempre troppo vicina infuriava la guerra in Corea. La mamma era partita con tutta la truppa, particolare comico/ scabroso, con il reggiseno imbottito di sterline d’oro, just in case, e una valigia piena di libri in previsione delle giornate di pioggia che si annunciavano in quel tratto bellissimo delle Alpi tirolesi. Al momento stava leggendo (rileggendo, diceva lei elegantemente) La montagna incantata, che ancora era tale, e non magica, in un volumone rivestito di verde. Quanto al “progetto” per quel lungo mese e più che avrebbero passato in Austria, consisteva nello studio delle lingue. Dai proverbi educativi (Morgen, morgen, nur nicht heute, sagen alle faulen Leute, versione germanica di mai rimandare a domani ecc.), alle sottigliezze con cui contribuiva alla sapienza collettiva lo zio Antonio, uno dei rari uomini in vacanza al Lacedelli (Essen und kein Fressen, mangiare e non 4


divorare come fanno gli animali, aveva sentenziato un giorno in cui Roberta aveva particolarmente appetito e si era buttata sulla cena con eccessivo entusiasmo, stranamente, visto che la medesima consisteva in pallottole di pane naviganti in un malinconico brodino), alle raccomandazioni augurali prima del sonno (Gute Nacht, träume süss und strecke Füss, di cui non si capiva perché quei piedi diritti dovessero rendere il sonno tanto più piacevole). Ogni giorno si aggiungeva una nuova espressione o una parola (Ich habe eine Birne gegessen, Es tut mir leid ecc.). Ogni giorno si cominciava o si finiva, nella quieta atmosfera alpina dell’Hotel Lacedelli – così italianamente si chiamava il villone alpino dove alloggiavamo, sulla riva lato sud dello Schwarzsee, a circa un chilometro e mezzo dal centro cittadino di Kitzbühel, tutto folklore, gerani, pasticcini, cioccolata calda con panna e portici. I letti, faceva finta di lamentarsi la mamma, erano dannatamente a schiena d’asino, i materassi di crine (“Sanissimi,” chiosava sempre lei) scricchiolavano a ogni movimento del corpo. Ma noi eravamo tanti, occupavamo quasi intero un piano, il luogo era accogliente e familiare, il personale gentile e ben disposto nei confronti di questa tribù matriarcale di cui non si vedevano uomini, salvo il fuggitivo zio Antonio, ma solo ragazzini apparentemente asessuati e belle zie sole, visibilmente in attesa di qualcosa che tardava a venire (attesa? Erwartung). Al primo piano, che ospitava tutto il clan italiano, c’era anche un bel balcone intagliato secondo tradizione, dove zia Giulia, al crepuscolo o dopo cena, ci raccontava i film della stagione appena passata: creando un terreno molto favorevole agli incubi 5


notturni, visto che le scelte cadevano sempre su gran melodrammi e passioni proibite – benché edulcorate. Zia Giulia raccontava, imitando il tono del doppiatore italiano di Olivier in La voce nella tempesta, i rumori e le voci che accompagnano nella notte il ritorno di Heathcliff alla fattoria di Cime tempestose, il vento che sibila, il ramo che sbatte contro la finestra, effetti sonori che lei ricreava con un rametto da niente, e con notevoli risultati drammatici. Raccontava La luce che si spense, ed era così intensa nel suo racconto da sembrare lei stessa la protagonista di questa tragedia, quando il povero Dick si scopriva cieco per sempre. E in più imitava benissimo lo stile di recitazione di Ida Lupino – garante la mamma. Qualche volta al gruppetto tutto femminile, timido, pigro e annoiato, si aggiungeva Peter, un bambino che avrà avuto otto anni, figlio dei proprietari di un altro alberghetto sul lago. Peter era simpatico, grassoccio, rosso di capelli e di guance, perennemente in Lederhosen. E chiaramente aveva una cotta per Roberta. Ma altrettanto chiaramente non aveva avuto successo con la sua amata, che non se lo filava per niente e scantonava scontrosa quando lui arrivava con dei mazzetti di foglie di tabacco nelle varie sfumature del verde e oro che le offriva, fresche, ogni mattina all’apertura dell’hotel. (Tabacco? perché? come mai? Non ci fu un’indagine, non ci fu mai una risposta. Ma in seguito Roberta apprese che il tabacco avrebbe potuto coltivarlo anche lei in terrazza, e scoprì il piacere lento delle sigarette rollate a mano.) Peter che per tutto il giorno avrebbe ciondolato attorno all’Hotel Lacedelli nella speranza di cogliere un bagliore, un segno, un profumo della sua diletta. Mentre 6


lei invece festeggiava i suoi dieci anni (compleanno sotto il segno del Leone) stando in panciolle in riva al lago, ascoltando con aria indifferente i discorsi dei grandi (la guerra, il dopoguerra, la Corea, il ruolo dell’Austria nella guerra da poco finita) o leggendo Storie della storia del mondo, da cui non riusciva a staccarsi. Ogni tanto passava qualche amico milanese in viaggio verso Salisburgo o verso Vienna. Si festeggiava con un picnic sul lago, una torta speciale preparata dalla signora Lacedelli per l’evento, e poi via con la dolce routine vacanziera, i canederli, il vino bianco servito in gocce per festeggiare questa o quella cosa, le passeggiate mattutine in cerca di fragole e lamponi, le capatine a Kitzbühel centro per una coppa di mirtilli e panna, le sceneggiate serali sul balcone della zia, che trasportavano le due ragazzine in un’atmosfera romantica e nostalgica così intensa che prima di andare a dormire nei lettoni a schiena d’asilo Roberta e Lucia intonavano Que reste-t-il de nos amours, e che continuavano a cantare anche a letto (chi canta a tavola e a letto è un matto perfetto), come se facessero scorta di quella melodia e di quelle parole prima che venisse decretato l’embargo. Per via di Suzette. Che finalmente arrivò, in un gran mulinare di cappelli di paglia e di fiori rosa sull’abito bianco. Come una sposa abbandonata all’altare, avrebbero detto i più bonari. Come la Sabina non rapita, avrebbero decretato i più cattivi. Come una ragazza (dopotutto, come la mamma, aveva poco più di trent’anni) decisa a ricostruire la sua vita, secondo la zia. Trillava in francese quanto eravamo cresciute dall’ultima volta a Milano, com’era bello il posto, com’era fiera di noi 7


che adesso dicevamo delle frasi anche in tedesco, che ci avrebbe però portato a dimenticare lei e la sua lingua. Cosa impossibile. Suzette riempiva della sua momentanea estroversione tutti gli spazi comuni dell’albergo, il prato dell’hotel, il piccolo stabilimento balneare cinquecento metri più giù, dove sguazzando tra il pelo verde dell’acqua (in effetti lo Schwarzsee si sarebbe dovuto chiamare Grünsee, perché tutto verde di erbe, e anche un po’ fastidioso, per chi avesse amato acque più limpide), Lucia, praticamente unica fruitrice, faceva finta di battere il crawl, in realtà sostenuta da un cuscinetto gonfiabile. Il clima da collegio femminile piaceva a Suzette. E anche lei, dopo due o tre giorni, cominciò a raccontare storie, e storie di cinema. Ci provò con La fiamma del peccato, che risultò un po’ troppo forte per il pubblico del Lacedelli, e venne confusamente concluso. Ci raccontò Casablanca, che era sul crinale tra passione e sentimento e parlava di un quasi adulterio, ma che filò via liscio perché la cronaca ogni giorno riferiva di Ingrid Bergman e la vicenda non era cancellabile. Raccontò Le diable au corps e cercò di illustrare pudicamente il senso dello scandalo che aveva suscitato. Accennò a una storia finita male, e se non male, in maniera ridicola, con un giovinotto di Parigi aspirante attore. Si disse convinta che oramai la vita non avesse più niente in serbo per lei. Parlò di tornare in Belgio (ma non le credette nessuno). Si guardò in giro, con occhi velati di lacrime e di rimpianto, rievocò la sua fallimentare storia sentimentale, mai sposata, senza un vero boyfriend, con il peso del futuro tutto sulle sue spalle. Era passata quasi una settimana all’arrivo di Suzette e quella sera del l6 agosto l’Hotel Lacedelli era in festa. 8


Menu speciale (stufato al barolo con risotto), musica dal vivo (e cioè walzer viennesi accompagnati dal piano), gara di canto (Rosamunda, proposta dalla signora Lacedelli con fredda professionalità, Lili Marlene, cantata dalla stonatissima mamma in vena di nostalgia, perché anche lei incontrava il suo amato durante la guerra unter die alte Tur), Douce France – e qui si entrava in un terreno pericoloso. Mentre la depressa, la disperata, l’abbandonata Suzette non si vedeva e la mamma cominciava a preoccuparsi, temendo qualche gesto sconsiderato. Dopo un quarto d’ora senza che lei apparisse e dopo molte canzoni austriacamente storpiate, la mamma aveva deciso di partire in esplorazione. Capitanando un piccolo plotone di esploratori, Dio mio, il lago, non si sarà annegata? Dio mio, la torre dell’albergo, non si sarà gettata, come le prisonnier de la tour? Dopo mezz’ora senza risultati la ricerca di Suzette, nel buio senza luna, divenne frenetica, l’ansia agghiacciante. Fu la mamma ad avere la sua idea copernicana. Perché non nella sua stanza, a piangere in solitario? E fu così che Suzette venne trovata. Nuda, nel suo letto a schiena d’asino, sotto un candido piumone, intenta a cantare a due voci assieme a un robusto e prestante giovinotto dell’hotel, molto irritato di dover interrompere una piacevole seduta musicale con la bella e burrosa amica della mamma. Suzette sorrise seduttiva all’intera squadra e si alzò dal letto con grazia, lanciando un sorriso allusivo al suo pubblico: perché non cantiamo tutti insieme? E uscendo dalla stanza per raggiungere i ranghi dei festaioli, mentre il maschione tirolese se la dava a gambe, 9


non capendo il perché di tanto casino, Suzette rivelò anche quanto siano fragili e passeggeri gli affetti umani, e complicati. Perché, arrivata nella sala da pranzo trasformata in sala da ballo, Suzette chiese immediatamente al pianista di attaccare Que reste-t-il de nos amours? e si lanciò in una folle danza. Con tutti che cantavano la canzone proibita. Le bambine, ancora un po’ tramortite dalla scena primaria appena finita, si unirono al coro. Much Ado about Nothing, commentò cinica la solita Roberta. Un minuto prima di accorgersi che Suzette piangeva.

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Estratto da: Irene Bignardi, Kerestetìl astoria © 2017 Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano Prima edizione: giugno 2017 ISBN 978-88-98713-68-4 Progetto grafico: zevilhéritier Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale astoria srl corso C. Colombo 11 – 20144 Milano

www.astoriaedizioni.it


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