Amiche devote

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Sylvester dava una festa. Gli ospiti arrancavano su per scale buie, una rampa dopo l’altra. Jane era così abituata al puzzo di gatti e di ammoniaca delle scale (c’era una stalla di sotto) che non notava quasi più il punto dove il puzzo spariva e cominciavano i profumi raffinati delle stanze di Sylvester. C’era stata spesso lassù, quell’estate, perché Sylvester preferiva ricevere in casa anzichè in ristoranti o night club. “È più da me,” diceva, “e molto più economico e molto meglio… vi pare?” E i suoi amici assentivano entusiasticamente. Da Sylvester si mangiava e si beveva sempre bene. Non che Jane badasse a quel che mangiava o beveva (purché da bere ce ne fosse in abbondanza). Se in vita tua non hai avuto in tavola altro che le cose più rare e costose, a ventotto anni sei diventata un’intenditrice. Oppure non te ne importa più niente. A Jane non importava più niente. Da bere prediligeva il brandy: parecchi brandy e soda seguiti da un numero indefinito di brandy lisci gradevolmente ondeggianti nel bicchiere bollente. Non era per il rinfresco che Jane veniva da Sylvester ogni volta che era invitata, e spesso anche quando non era 1


invitata. Era perché continuava a sperare a dispetto delle reiterate delusioni che Sylvester la mettesse in un libro o in una commedia. Non le entrava in testa che Sylvester non metteva mai nei libri e nelle commedie le persone che metteva nella sua vita. Quando glielo diceva, lui sperava che l’adulazione implicita nella parte sulla vita placasse quella sua assurda ansia di vedere se stessa come desiderava che lui la vedesse. Ma nonostante il tono dolce e allusivo con cui le parlava – “Jane, lo sai che non metto mai nei miei libri le persone di cui mi importa davvero” – lei si limitava a rispondere: “Oh, sei orrido con me,” con quella sua intensa voce americana del Sud, così piena di sentimento e così povera di parole. E però, nonostante la riluttanza a incastonare per l’eternità l’essenza del corpo e dello spirito di Jane in un aspic di parole, Sylvester era sempre molto affettuoso con lei. Benché il suo nuovo spettacolo fosse avviato a buoni incassi e il suo ultimo libro vendesse bene, poteva sempre arrivare il momento in cui avesse bisogno di un prestito, o quanto meno di usare le sue vetture o le case o un altro dei molteplici benefici che la Provvidenza dispensa a giovani donne molto ricche perché giovanotti molto poveri possano goderne un poco. Erano due anni che Sylvester aveva smesso di essere un giovanotto molto povero, ma non aveva ancora perso del tutto l’abitudine. La sua sobrietà era autentica, com’erano autentiche le sue doti di discreto scrittore e di abile drammaturgo. Jane invece non aveva nulla di autentico. Sylvester pensava che anche la sua immensa stupidità fosse in parte una posa. Quanto fosse una posa, un torbido esibizionismo, il suo affetto per Jessica, questo non lo sapeva. 2


Ora Jessica e Jane erano in camera sua a ripassarsi il trucco per la festa. La camera di Sylvester era tutta forma e niente colore. Era arredata nei toni del marrone, del grigio e del nero. Jane la trovava sempre incredibilmente tetra, ma Jessica, che si riteneva esperta di arredamento, tutto a un tratto andò in visibilio per le luci. Si sforzò di trasmettere la sua impressione a Jane con parole esatte, difficili. Metteva sempre grande cura, e determinazione, nella scelta delle parole. Ma Jane disse solo: “Io dico che è orrida; e lo dirò sempre”. Jessica guardò Jane in piedi nello spazio incolore della stanza di Sylvester. La guardò, distolse gli occhi, tornò a guardarla. “Che bella forma ha,” pensò fugacemente – vestendo di parole a proprio beneficio un indefinibile turbamento – “ovunque stia, fa la sua figura.” Jane stava bene davvero in quella stanza grigia e nera e marrone, perché le sue linee avevano un che di vagamente geometrico, quasi che la carne le fosse stata messa sul corpo solo per essere poi limata via con maniacale precisione. Le ossa erano talmente sottili da giustificare la teoria che fosse evanescente, non però macilenta. In realtà sfuggiva di misura a quella poco attraente condizione del corpo. I folti capelli biondi erano di un amabile tonalità slavata e lei se li acconciava con grandissima cura in fogge infantili. A volte, quando era in uno stato d’animo particolarmente fanciullesco, se li legava addirittura con un nastro. Ma era la cicatrice del labbro leporino che dava al viso quella sua singolare e remota espressione di tristezza, riscattando del tutto i lineamenti dall’insulsa grazia puerile in cui, non fosse stato per quel tratto, sarebbero certamente stati atteggiati: quell’esilissima cicatrice, che le tirava appena la bocca di lato e le storceva lievissimamente il naso, aveva un suo 3


fascino. Imponeva curiosità. Al primo momento appariva un filo inquietante, poi subito la si trovava immensamente divertente. Lei si dipingeva la bocca seguendone le linee, un poco di sghembo, e anche questo era divertente. Per effetto della cicatrice gli occhi restavano alquanto spalancati (il motivo sarà subito evidente quando si ripieghi il labbro superiore su se stesso), il che conferiva allo sguardo una permanente espressione di fissità velata di lacrime. Jessica, che viveva con Jane ormai da sei mesi, era una donna di tutt’altro genere. Aveva ricevuto un’educazione molto perbene dalla sua ricca famiglia, cosa che – l’intelligenza essendo la sua ossessione – trovava non poco seccante. Le sue opinioni erano scelte con cura e, se non sempre originali, quanto meno di solito facili da ammantare di importanza. Ma per la scelta di quelle opinioni, la loro cristallizzazione in frasi e la successiva enunciazione di quelle frasi al momento giusto (se possibile in assenza di quanti avessero già avuto modo di apprezzarle in precedenza) la vita in famiglia le sembrava poco propizia. In quella casa agiata e poco solidale il fascino di Jessica non era ritenuto fascino. Ma che Jessica lo possedesse, non c’era dubbio, un fascino oscuro, prepotente. Quanto poi ne fosse duratura l’influenza era questione molto variabile. Nelle amicizie sia maschili che femminili Jessica si dava con tanta liberalità e passione che in breve di lei non restava più nulla: aveva speso tutto nello strenuo sforzo di raggiungere una completa adesione mentale alla persona amata. E non avendo riservato nessun minimo appiglio di sé per se stessa, nessun appoggio per gli estremi passi segreti della sua mente, si ritraeva da quelle amicizie piena di rabbia e di disperazione. E allora parlava di chi aveva amato con crudeltà e scherno e disprezzo. 4


I suoi foschi entusiasmi erano tollerati dagli amici per amore di quei momenti in cui, con le labbra ritratte sui denti come un cane, la saliva agli angoli della bocca e la furia negli occhi, cominciava a raccontare – e non la finiva più – quelle vicende passate della sua vita, dilaniando con parodie impietose e voluta malignità sulla ruota delle sue parole – la ruota della propria disperazione – chi con lei le aveva condivise. Venezia in compagnia della persona amata, o una settimana sullo yacht di qualche conoscente: faceva quelle ore a brandelli, descrivendo, con scoppi di riso isterico, come questa o quella cosa avessero suscitato la commozione o l’entusiasmo di chi l’accompagnava, mentre lei non le aveva trovate nemmeno degne di riso. Chissà come avrà fatto Jane a dar voce all’entusiasmo, si chiedevano gli ascoltatori, che non l’avevano mai sentita dire altro se non: “Sto così male, me lo prepari un brandy e soda?”. Ma Jessica riusciva a essere così forsennatamente spassosa a proposito della gente più improbabile, che meritava aspettare la storia, e sopportare la sua interminabile ossessione. Jessica era una snob intellettuale. Si degnava di rado di mostrarsi allegra, mentre riusciva a impegnarsi a fondo per essere scortese. Adorava esprimere a parole le proprie reazioni a persone, cibi, forme e colori. Ora disse a Jane: “Sei magnifica stasera… non restiamoci troppo, a questa festa… Sai, Jane, sei così conturbante in quell’abito d’argento… Così … slavata, così… opaca…”. Ogni volta che si trovava in difficoltà con le parole, Jessica creava un’atmosfera mentale di puntini gravidi di significato. Jane disse: “Opaca? Come sei orrida con me”. E scesero di sotto. 5


La festa era appena cominciata, sicché Jane decise immediatamente che era arrivata troppo presto, il che fu un inizio disgraziato. Sylvester comunque si dimostrò felice di vederle, tutte e due. A Jessica disse: “Spero tu abbia qualcosa di molto sgradevole e scortese da dirmi, tesoro. Dobbiamo chiacchierare un po’, noi due, più tardi, quando saranno arrivati tutti, però. Detesto essere interrotto quando posso parlare con te”. E poi disse a Jane: “Che bella collana, Jane. Assolutamente divina”. La fece scorrere tra le dita per guardarla e di colpo nelle sue lunghe mani ironiche la collana di Jane, che fino a quel momento aveva avuto soltanto un’aria molto costosa, acquistò un subitaneo scintillio di bellezza che mantenne anche quando lui gliela ebbe restituita. Sebbene non gli restassero passioni di sorta – neppure del genere più scontato, tipo collezionare incisioni o brutte porcellane rare – sebbene avesse trent’anni e fosse un giovanotto molto annoiato, nonché moderatamente ricco, Sylvester conservava dentro di sé un rispetto per le cose, fossero belle collane o cavalli al galoppo, un brindisi fatto come si deve o il motivo per cui una mosca intreccia le zampe anteriori. Ma se lo teneva dentro, perché aveva in orrore le fantasie sia nella vita che nelle lettere. Può darsi che la cicatrice di Jane gli consentisse di vederla come una “cosa”, vagamente meritevole di curiosità. Altrimenti è difficile comprendere perché si desse la pena di mantenere la sua amicizia, giacché la vaga eventualità di doverne avere bisogno in futuro difficilmente avrebbe potuto condizionarlo a tal punto. Al momento però Sylvester non aveva molto tempo da dedicare alle ragazze, perché accoglieva un ospite dopo l’altro con la sua usuale, antiquata cortesia. Era dunque 6


solo nella tarda serata che alle sue feste poteva concedersi l’egoistico lusso di conversare con quelli tra loro che lo tediavano meno. Jessica osservava Sylvester scambiare qualche parola con gli invitati. “Lo osservava di nascosto,” disse a se stessa, anche se, in verità, lo stava fissando apertamente, con la mandibola lasca e la bocca semiaperta, tentando per l’ennesima volta di dare un nome alla indescrivibile qualità che costituiva la presa di Sylvester sugli altri. Di tutti gli scrittori che aveva conosciuto, solo lui sapeva scindersi dalla sua professione ed essere se stesso. Amabile e simpatico e quasi stupido. Gentile e affabile e cortese… “Un doppio gin tonic, prego,” disse Jessica e passò a esaminare la festa. Dall’altra parte della stanza sentì la voce lamentosa di Jane: “Oh, tesoro, me lo procureresti un brandy e soda, mi sento così male”. Si voltò a guardare con chi parlava, ma vedendo che era solo un aitante giovanotto si tranquillizzò e tornò alla sua silenziosa analisi dei presenti, cosa che al momento le sembrava di decisiva importanza. Jessica era ormai smodatamente sbronza, così sbronza che si sarebbe messa a cavillare con chiunque sulla propria assoluta sobrietà. Anzi, avrebbe sostenuto con fervore la propria fama di reggere l’alcol come un uomo. Era splendida. Gli occhi scuri erano pieni di mistero e le mani brulicanti di vita. “Se ne vada, per l’amor del cielo,” stava dicendo a un giovanotto che le aveva portato un altro doppio gin e pensava di potersi fermare lì a chiacchierare un momento. “Non voglio parlare con lei. Voglio parlare con questa ragazza. Questa ragazza è più il mio tipo.” Sylvester, sapendo che non conosceva la ragazza – un tipetto grazioso di nome Hearty (chissà poi perché l’ave7


va invitata quella sera) – osservava divertito. Con immensa soddisfazione la sentì cominciare a denigrare la sua ultima opera teatrale. Farla a pezzi con competenza. “C’è una sola frase in tutta l’opera,” dichiarò Jessica di punto in bianco, “ed è quella che gli ho prestato io, quando la ragazza dice: ‘Portami una birra’ – solo questo, una birra, al colmo della noia, capisci – lo capisci, no – voglio dire, a me pare… a me pare che stia tutto in quella frase. Può darsi che mi sbagli. È solo la mia opinione. Sai. Ma… ‘Portami una birra’. Ci sono persone che ti fanno esattamente quell’effetto, no? Quando sei lì con loro e non fai che pensare, Cristo, avessi una birra invece di star qui a chiacchierare con costoro. È un po’ l’impressione che ha fatto a me la pièce di Sylvester. Ma naturalmente il bello è che lui non ha capito che intendevo quello. Ci tiene talmente alle sue opere. Ma il piacere per me (dal mio punto di vista) è che posso andare a vedere quel mortorio di pièce tutte le volte che penso di riuscire a reggerla e ogni volta sentire la ragazza che dice quella frase… Uno spasso, per me.” Sylvester cominciò a rammaricarsi per la piccola Hearty che si ritrovava così invischiata nella impietosa rete di chiacchiere di Jessica. Le donne come Jessica, pensò, dovrebbero portare qualche segno esteriore a mo’ di avvertimento per quelli che le avvicinano. Una corona di dalie bianche magari, o una ghirlanda, quella era stata una moda graziosa. Comunque quella povera ragazza era annoiata quanto lui era affascinato. Sarebbe andato volentieri in suo soccorso, ma Jessica non era abbastanza ubriaca da continuare a denigrargli quel mortorio di pièce in faccia. O magari sì. No. Meglio non correre il rischio di interrompere una disanima così avvincente. Ma era appena giunto a quella egoistica conclusione che 8


Jessica smise di parlare di lui, nonché di ogni altro argomento meno interessante. Sylvester vide il suo immusonito silenzio, lei riusciva ad avvolgerselo intorno in pieghe astiose. Notò che consentiva alla ragazza che così clamorosamente non era il suo tipo di cominciare le manovre di fuga, e poi vide il suo sguardo implacabile spegnersi dall’altra parte della stanza dove Jane giaceva placida e manifestamente a proprio agio nelle braccia di un giovanotto. Era evidente che quello le aveva procurato un bel numero di brandy e soda, o forse solo di brandy, perché lei aveva raggiunto quell’educato, quasi elegante stato comatoso in cui Sylvester la trovava più tollerabile. Perché allora di rado apriva bocca: in effetti se ne stava tranquilla e quieta sotto l’effetto dell’alcol e non disturbava nessuno e nemmeno chiedeva amore. Perché allora Jessica doveva guardare quel placido momento di pausa con occhi di appassionato rancore e mettersi a pontificare, quando Sylvester venne a sedersi accanto a lei, sul male e la follia del bere femminile? “Tu e Jane dovrete cominciare a metter le cose in chiaro,” disse lui. Perché se Jessica poteva essere seccante e noiosa, lui sapeva non essere da meno. Ma si accorse che lei faceva sul serio. Se ne stava lì seduta tormentandosi le grandi mani bianche in grembo (le unghie dipinte avevano un che di osceno, a metà tra il fiore e l’animale). Era disarmante come Jessica riuscisse a metter su all’improvviso nel bel mezzo di una festa come quella una disposizione mentale e un atteggiamento perfettamente domestici e patetici, tipo quell’orrore della smania di bere… Un grembo, pensò Sylvester guardandola, che non avrebbe fatto sfigurare il grembiule di seta nera di una governante dei tempi andati, anche se ora era fasciato da abito da sera di Molyneax. 9


Si chiese se quella non fosse la prima avvisaglia dell’inevitabile buriana che avrebbe posto fine a quella strana amicizia. Che dovesse arrivare una tempesta lo vedeva per certo, col cielo che incupiva e le foglie mutate in un verde immoto e glaciale sullo sfondo nero. Sarebbe stato lui il primo a sentire Jessica dare finalmente la stura all’argomento Jane? Che bottino di simpatiche espressioni avrebbe fatto allora, da conservare a proprio privato divertimento per quella graziosa pièce di cui non si sarebbe mai disfatto – non consegnandola alla penna, non al più caro degli amici, non per denaro… beh, forse per molto denaro sì. No. No. Mai. Quelle confidenze, che etichettava con piacere “sacre e femminili”, erano tutte sue, solo sue, e per sempre. Jessica però stava prendendo la sua tirata sul “male del bere” un po’ troppo alla larga. La si poteva sopportare solo a patto che cominciasse a restringere l’argomento a Jane e agli effetti dell’alcol su Jane, non su un milione di Jane. “Sì, ma ora,” le disse, “guarda Jane”. E guardando Jane a un tratto in modo nuovo, per così dire, e non con il solito sguardo blando, si sentì quasi ferito dalla pietà che gli ispirava, povera ragazza, a vederla là stesa sulle geometrie argento e muschio del suo divano. Nella mite luce chiara della stanza la sua faccia sbilenca pareva come annegata nell’acqua e perfettamente in pace. Guardò Jane, come aveva suggerito a Jessica, e poi di nuovo Jessica, i suoi occhi ardenti. E si sentì immensamente preoccupato per Jane, una preoccupazione che lo invadeva al punto da non lasciare quasi più spazio alla speranza che Jessica riversasse su di lui i suoi primi bei torrenti di ingiurie all’indirizzo di Jane. “Non sopporto di vederla così,” continuò Jessica, “mezzo addormentata… mezzo ubriaca. Mi ripugna. Sì, meglio 10


vederla morta, ecco.” E con ciò prese una bottiglia di acqua di selz e la brandì minacciosamente all’indirizzo di Jane, all’altro capo della stanza. Jane ebbe appena il tempo di strillare: “No, Jessica, non tirarmi quella bottiglia…” che Sylvester, immobile in una sorta di fascinazione da cui non riuscì a riscuotersi neppure per fermare il braccio alzato di Jessica (che ai suoi tempi era stata una famosa giocatrice di cricket a Heather Close), vide la cascata di vetri in frantumi e sentì Jane strillare: “Oh… sei orrida con me,” mentre abbandonava la testa sanguinante sul suo prezioso divano. Gli amici di Sylvester erano persone beneducate e non degnarono la scena di uno sguardo (anche se non ve ne fu uno solo che non coltivasse gelosamente in cuor suo l’impressione che ne aveva avuto). Continuarono a giocare a carte, bere, mangiare e chiacchierare mentre Jessica e Sylvester aiutavano Jane a raggiungere la camera di Sylvester e poi il bagno, perché in camera c’erano due ospiti immersi in privata conversazione, sicché Jane, dopo aver mormorato: “Oh, che orridi, voi due ragazzi,” aveva proseguito barcollando verso la sala da bagno. Là Jessica le inumidì la fronte. C’era un taglio superficiale, causato da una scheggia, che correva in obliquo sotto i capelli e sanguinava abbondantemente. Certo, non aveva più la mira dei tempi in cui i suoi lanci terrorizzavano gli avversari sul campo di cricket di Heather Close. Jessica smise di tamponare la testa di Jane per farlo notare a Sylvester. Lui, che non sopportava la vista del sangue raggrumato nell’acqua, se ne stava seduto sull’orlo della vasca verde quadrata, ondeggiando avanti e indietro. Provava un vago malessere, in parte per la vista del sangue di Jane e in parte perché capiva cos’era quel feroce istinto di coccolare 11


che – ubriaca, pallida, tenera – Jessica esibiva passando e ripassando sulla fronte di Jane la spugna da lui preferita: temibilmente protettiva mentre cinque minuti prima era stata con ogni evidenza e intenzione un’assassina. La preferiva, pensò Sylvester, nel repentino dar corso al suo crime passionel. Acqua ossigenata, garza, bende: dovette andare a cercare prima una cosa, poi l’altra e l’altra ancora; e Jane intanto se ne stava seduta lì, nella luce corallo di quella stanza verde surriscaldata, con un telo da bagno legato attorno al collo come un cliente dal barbiere, la bocca storta semi aperta e tutto l’atteggiamento altrettanto svuotato di emozione di quello di qualunque donna al termine di un sanguinoso diverbio con l’amante. Una cosa insopportabile. Ma non erano affari suoi. Jessica avrebbe di certo ucciso Jane prima che Jane riuscisse a liberarsi di lei. Ma ciò non lo riguardava. E comunque, Jane magari era molto meglio morta… Eccola, quel mortorio di pièce. Ma quello, a quanto pareva, doveva deciderlo Jessica. La Jessica che ora stava dicendo: “Siediti lì, mia cara, che vado a prendere i mantelli e ti porto a casa”. Come Jessica fu uscita lui disse rapidamente, anche se non erano fatti suoi: “Io non c’entro nulla, Jane, lo so, ma un giorno o l’altro lei finirà per ucciderti”. “Sì,” disse Jane. “È orrida con me.” “Ma ti tira spesso bottiglie addosso?” “Oh, Sylvester, le sue collere sono orribili. Sono affezionata a Jessica, mi piace averla intorno, ma ho una paura da morire che mi uccida.” “Jane, sei scema a continuare a vivere con lei. Neppure tuo marito era una compagnia così devastante.” “Ah sì,” disse Jane, “pigliava lo scoramento a vivergli insieme. Mi deprimeva tanto vedere sempre e soltanto lui. 12


Jessica invece – anche se è orrida con me – è una donna vera, forte. Ma lo sai, Sylvester, la settimana scorsa è andata così in collera che ha spaccato tutte le porcellane del bagno e poi si è buttata giù a mordere la vasca e così si è rotta un dente… per forza, perché la mia vasca è tutta di alabastro, unica nel suo genere. L’hai vista, Sylvester? Beh, anche la tua è una bella vasca, niente da dire, ma la mia è proprio una delizia …” Il ritorno di Jessica mise fine alle confidenze e Sylvester, guardandola avvolgere Jane nel mantello e portarsela via, provò una ingiustificata irritazione. Perché poi doveva irritarsi se non erano affari suoi? Nemmeno se Jessica tirava fuori una rivoltella dalla borsetta e sparava a Jane con una frase adeguata – “Sorridi, piccola, per l’ultima volta, sorridi!” – e poi scarrozzava il suo costoso cadavere nella costosa vettura di lei finché non trovava un posto adatto a scaricarlo, erano fatti suoi. No, non si sarebbe lasciato coinvolgere. Con quella risoluzione, Sylvester tornò alla festa, che trovò più o meno come l’aveva lasciata. Sulla soglia della stanza verde quadrata (stanze o vasche da bagno, a Sylvester piacevano verdi e quadrate) si fermò un momento a guardare. Stare così lo affascinava. Era come leggere di una festa altrui in un libro, o guardare una festa a teatro. Ma quella gente gli sembrava più inconsistente, più irreale di un teatro; come altrettante belle fotografie, se ne stavano lì disposti a gruppi, meravigliosamente eloquenti, esibendo fantastiche contraddizioni e inimmaginabili esempi di Finzione nella Vita. La vecchia Veronica, per esempio, con quel volto senza età e la bella chioma, mentre a lui sembrava di sentirla scricchiolare fin dentro le ossa, tanto era decrepita, decrepita sì, e stanca eppure sempre indefessa nella gran compe13


tizione. Era lì a giocare a carte e di fronte a lei era seduto Hubert, il suo amante; Hubert, capelli e ciglia biondo rame – quindici ghinee alla volta – abbassate sugli occhi verdi che guardavano ottusamente un mondo che fraintendeva tanto e però dava tanto. Che cosa ci trovava, si chiese Sylvester, la vecchia, vorace, scricchiolante Veronica, in quell’Hubert, da doverselo tenere stretto con orologi di platino e gemelli di diamante e Dio sa che altro? Al tavolo con loro c’erano Blanche e Stephen. Perché poi aveva invitato Blanche e Stephen a quella festa? Erano così assurdamente diversi dalla maggior parte degli altri ospiti. Aveva commiserato Blanche quando l’aveva vista preda di quell’umore di Jessica che pretendeva un ascoltatore da irretire, e qualunque vittima faceva al caso. Ora la invidiava perché erano seduti lì, lei e Stephen, l’uno di fronte all’altra, a farsi depredare da Veronica e Hubert, ma con quel qualcosa addosso di cui nessuna coppia di bari poteva derubarli. Blanche, così alta e così placida e così noiosa. Se la figurò nell’ambiente in cui la conosceva meglio: in sella a fidati cavalli da caccia nella campagna irlandese, al tavolo di un bridge tutto casa e famiglia dopo cena, col padre, quel vecchio falco di un generale, che si lanciava in interminabili autopsie di ogni mano giocata. Se la figurò coi suoi cani, tenerissima, un affetto senza affettazione; e con le sue giovani amiche, così simili a lei. Capelli castani. Occhi castani. Divertimenti sani, e molto poco divertenti. Sì, questo era vero, ma importava? Le prospettive più segrete e impersonali da cui Sylvester guardava alla vita erano così fragili e sottili da rischiare di evaporare in nulla. Una parola falsa e il divertimento lo abbandonava per sempre, o comunque era irrecuperabile per il momento. 14


Ma Blanche e Stephen avevano di più, molto di più di quello che lui e Hubert e Veronica e Jessica e Jane e tutti gli altri come loro avessero mai perso. Perché era qualcosa che loro non avevano mai avuto. Blanche aveva Stephen e Stephen aveva Blanche. Si amavano e si fidavano l’uno dell’altra. Si sarebbero sposati e Blanche avrebbe seguito Stephen in Egitto e in India (perché lui era un militare) e lo avrebbe guardato giocare a polo (perché lui era un gran giocatore di polo). E quando fossero tornati, una volta ogni tre anni, per la stagione della caccia, lei non avrebbe potuto montare a causa del bambino che gli stava facendo (Sylvester era deciso a vedere il futuro di Blanche quanto più tetro e felice possibile). Senza lamentarsi – anzi probabilmente rallegrandosene – lei avrebbe dato alla luce molti di quei bambini e li avrebbe cresciuti alla stessa solidità di certezze e di felicità che avrebbe mantenuto tutta la vita, purché non fosse mai così sfortunata da cadere per un istante vittima del proprio cinismo o della propria disperazione. Com’era bene, pensò Sylvester, che ci fossero ancora al mondo, e finanche nella sua cerchia di conoscenze, molte, moltissime copie del quadretto Blanche e Stephen. Si sentì sopraffatto da una intensissima percezione del loro valore. E però quel pensiero gli causò anche un soprassalto di grandissima noia. Li si poteva ammirare, sì, ma non si poteva certo mescolarsi con gente del genere. Fu quasi con sollievo che passò a esaminare l’anziana lady Bracken. Come gli piaceva vedere una vecchia davvero ben truccata e ben vestita. Gli dava lo stesso fremito di eccitazione del levarsi in volo di un uccello. Capelli bianchi, abito d’argento e perle, il più bell’ornamento. Lei era la regina di tutti i pesci ingioiellati raccolti nel suo acquario 15


verde. Ed ecco che ora vide la festa con la lieve distorsione di cose viste attraverso l’acqua – o, tanto più limpido, il gin – tutti lì in bilico come appeso a fili, come quei pesci che vendevano davanti al Lords (e anche altrove, certo). Sì, loro si credevano liberi dal suo acquario, e liberi dalla propria vita, perché non si accorgevano mai che i fili dei loro movimenti erano tutti raccolti e agganciati a un rocchetto del fato o del caso che li teneva prigionieri nei suoi disegni o, peggio ancora, nella sua mancanza di disegno, misura o scopo. Perché Jane – povera sciocchina – non poteva essere felice come Blanche? Serena come Blanche, a ringraziare il cielo (con lo stomaco pieno) per “l’amore di un brav’uomo”? Perché invece doveva essere amata e maltrattata e magari assassinata da quella orrenda Jessica? Doveva pur essere possibile tagliare, come con delle forbicine da unghie, il filo del suo fato, di modo che riuscisse a nuotarsene via in tempo, a tornare alla calda palude della vita domestica. Comunque, non erano fatti suoi. Aveva dimenticato George Playfair. Era nelle braccia riluttanti di George che Jane aveva adagiato il suo corpo pervaso dalla pace che le veniva dall’alcol. Ed era George che ora gli stava davanti. Quel bell’uomo elegante. George, che era amico di Blanche e amico di Stephen, George che per tutta la settimana era stato seduto accanto a Blanche mentre lei (confortevolmente avviluppata in un mantello di pelliccia contro i rigori di luglio) guardava Stephen far gloriosamente la sua parte in sfreccianti partite di polo, animandosi tutta nel guardarlo. Era con Blanche e Stephen che George quella sera era venuto alla festa. Era il migliore amico di Stephen e gli piaceva affettare una certa misteriosa nobiltà d’animo, una ferma repressione di una sua inespres16


sa tenerezza nei confronti di Blanche. Perché anche George l’aveva amata. Era una cara ragazza e molti l’avevano amata oltre a George. Ma per sua fortuna (e Sylvester usava la parola fortuna con cognizione di causa) George non aveva capito la natura del suo bisogno finché lei non era stata irrevocabilmente di un altro. Che quell’altro dovesse essere Stephen – Stephen, il migliore amico di George – era così perfettamente consono alla situazione che Sylvester quasi lo invidiava. Perché c’è forse qualcosa nella vita che assorba più di un amore vagamente infelice? L’amore in cui l’immaginazione governa i sensi, in cui non c’è mai stato né mai potrebbe esserci scopo o attualizzazione, ma solo un vago disagio e un delizioso senso di perdita. Al tempo dei suoi innamoramenti, Sylvester avrebbe invidiato a George quella condizione. E tuttora provava disappunto nel vedere quanto andassero sprecati con lui i vantaggi della situazione. Figurarsi dunque il suo stupore quando George gli si piantò davanti, un whisky e soda in una mano, la sigaretta nell’altra, e con la sua bella voce gli chiese con intenzione e interesse – cioè quanto di più vicino conoscesse all’entusiasmo – il nome di Jane e l’indirizzo e, di fatto, tutto quello che Sylvester poteva dirgli di lei. È proprio vero che certi spiriti più rozzi non sono in grado di apprezzare quando la situazione in cui si trovano è di quelle da cui derivano i piaceri più sottili. Non c’era nulla in ciò che conosceva di George Playfair che potesse indurre Sylvester a immaginarlo colpevole di una qualsivoglia sottigliezza nello spendere i propri sentimenti. Ma Sylvester era ottimista riguardo ai suoi amici. La loro rozzezza di rado mancava di deluderlo. George e Sylvester si conoscevano e nutrivano una mo17


derata simpatia l’uno per l’altro dai giorni felici dell’infanzia, e oltre, fino ai tempi della giovinezza e ancora della piena maturità. Perché George era sempre stato più abile di Sylvester in tutti gli sport virili, e Sylvester era sempre stato più abile di George in tutte le più fini sottigliezze del vivere. Ora dunque Sylvester rispose alle domande di George con una affettuosa reticenza per quanto riguardava Jane, perché era una povera ragazza, e molto particolare, e lui provava tenerezza nei suoi confronti e non gliene importava nulla se George si invischiava nel bene o nel male nella singolare esistenza di lei. “È una cara ragazza,” disse. “Aveva un marito ricco, che non c’è più. Ha un bell’appartamento, e quanto alla bruna che le ha lanciato una bottiglia, quella è un tipo ameno, un’impulsiva… un temperamento focoso, tutto qui.” “Focoso?” lo interruppe George. “Davvero? Avrei detto che era piuttosto un tipo pudibondo. Tu pensa! Lanciare una bottiglia contro un’amica solo perché ti pare stia esagerando. E poi non è vero… che stava esagerando, voglio dire. Era stesa lì, come una bimba…” “Ma certo,” lo interruppe prontamente Sylvester. Non bisognava dimenticare che George era un Playfair ed era cattolico ed era un maschio in tutto e per tutto. E poi a Londra veniva di rado, e solo quando i suoi migliori amici partecipavano a tornei internazionali di polo e le sue ex fiamme assistevano alle partite (e qualche lacrimuccia la versavano sempre), oppure dopo il raduno degli artiglieri a Sandown. Perché George, prima di entrare in possesso della sua proprietà nella contea di Westcommon, era stato nel Reggimento Reale d’Artiglieria. A ogni modo era uomo di idee semplici e in effetti spesso più vicine alla verità di quelle di altri. Che se le tenesse così. 18


Perciò, “Sì, sì,” disse Sylvester, “sono molto affezionato a Jane.” “Mi è piaciuta, sai, Sylvester,” disse George. “Ho intuito qualcosa di molto dolce e sincero in lei. Mi è piaciuto che sia tornata a casa con quella donna tremenda anche se quella le aveva tirato addosso una bottiglia.” “Sì, Jane ha un carattere dolce,” ammise Sylvester di buon grado. “Vai a trovarla. Ha un appartamento delizioso,” e dette a George l’indirizzo, incoraggiandolo a portare avanti la cosa. Lei d’altronde lo aveva invitato a farle visita, ma poi nella confusione seguita al gesto inconsulto di Jessica aveva dimenticato di dirgli come si chiamava e dove abitava. Così Sylvester si liberò di George senza turbare i suoi migliori sentimenti di Playfair e di uomo d’onore. Perché, a che cosa sarebbe servito? Come spiegargli che il marito di Jane e i suoi amanti e le sue amicizie passionali erano irreali quanto lei? George avrebbe dovuto imparare prima un linguaggio della vita totalmente nuovo e una volta imparatolo avrebbe lo stesso trovato insoddisfacente la spiegazione che poteva dargli Sylvester. L’Anticristo: ecco che cosa avrebbe rappresentato per George tutto quello che Jane era, se George avesse potuto capire com’era. Una cosa del mondo infero. Immonda. Inconcepibile. Sì, questo avrebbe pensato George della povera Jane. E perché mai Sylvester avrebbe dovuto incoraggiare chicchessia a pensar male di qualcun altro? La violenza e stupidità degli uomini come George le trovava particolarmente esasperanti. Lo osservò rientrare nel flusso della festa: avrebbe detto a Blanche e a Stephen che se ne andava e poi sarebbe tornato ad accomiatarsi da lui. Lo avrebbe ringraziato, dicendo, Quando vieni a stare un po’ su da noi, nel Westcommon? Hester e Piggy muoiono dalla voglia di rivederti. 19


Avvenne come aveva previsto. E Sylvester rispose: “Beh, sono stato su in aprile a pescare e non c’era acqua nel fiume. E non sai quanto mi rimprovero la sciocchezza di aver regalato loro quella radio così costosa e potente il Natale scorso. In quanto cugino e facoltoso scrittore avrei dovuto essere più accorto e regalare un bel gioiello a ciascuna, o uno yacht o una pelliccia di visone. Adoro stare da loro e ora che mi sono reso quel posto invivibile con le mie mani, me ne rammarico immensamente”. “In ogni caso,” e George inclinò la testa con un sorriso d’intesa, “sarai su in autunno. Ti darò il solito cavallo e uscirai con noi a caccia. Quando i cani escono alle nove, certo, non prima.” “La tenuta è perfetta adesso,” aggiunse poi. “Chi ha i mezzi può fare davvero molto in tre stagioni, se ci si mette d’impegno. Le macchie… Te la ricordi Carnarogue? Era infestata da tutte le capre e gli asini dei calderai del paese e il ginestrone arrivava al cielo. È stato tutto tagliato e recintato e adesso ci è cresciuta una bella macchia fitta.” Sì, Sylvester ricordava Carnarogue. Una forra coi ripidi versanti coperti di ginestrone. Sul fondo correva un torrente nero e incassato. Ma ora ne vedeva lo sbocco, dove l’acqua si allargava e si faceva poco profonda: c’era un sentiero tracciato dal bestiame macilento che andava a bere laggiù. Lì c’è uno spolverio d’oro nel ginestrone nel giorno più buio di dicembre, e l’eccitazione è un grido dorato nel vento e il pericolo una corona… Pensieri del genere erano volgari e adatti giusto a un’isterica romanziera irlandese che scriva le sue settantamila parole in cui riecheggia di continuo il latrato dei cani; dove i maestri di caccia sono giovanotti avvenenti e partiti appetibili, e desiderabili fanciulle non fanno che calpestare i cani assistendo a magnifiche battute 20


di caccia in sella a portentosi animali di tre anni; e tutti – anche dopo la giornata più faticosa – sono capaci di forti emozioni notturne. Basta! Lì era la festa, a casa sua. “Adesso lui ha una gran bella muta,” disse George. E quelle poche parole scombussolarono di nuovo Sylvester e tutti i suoi propositi di intima padronanza di sé; perché quale poeta avrebbe potuto esprimere meglio di George una bellezza così sobria quale quella che George aveva espresso in quelle poche misurate parole: parole gradevoli, rapide, pericolose. Sylvester vide e sentì bellezza e velocità, velocità e bellezza dentro quelle parole, ed esse trasmisero un’emozione troppo forte nel qui e ora. Pensieri del genere mettevano a repentaglio l’equilibrio del suo educato e fragile modo di vivere. Se ne lasciava influenzare troppo. Cortese, amabile, precaria creatura qual era, le cose che più amava erano un pericolo dentro di lui. Ammettere le proprie passioni – o comunque riconoscere quali erano le sue vere passioni – lo distruggeva. Essere spudoratamente romantici significa essere troppo accessibili agli altri. Bisogna proteggere se stessi. E dunque Sylvester sorrise distrattamente e scosse la testa. Era tutto troppo remoto da quella festa in casa sua, dal qui e ora. E comunque aveva tutte le intenzioni di essere in Irlanda entro la fine della settimana. Perché era stanco, una vecchia palude stanca, con la sua povera testa agitata come un topolino meccanico. Avrebbe mai avuto fine quel mortorio di festa che aveva organizzato e a cui aveva dato vita? Come commiserava se stesso e la sua idiozia e come desiderava che fossero di più quelli come George, che se ne andavano dalle feste quando non erano desiderati. Che non interpretavano le cose con una comprensione amara e sprezzante, ma prendevano le Jane e le Jessica e gli Hubert 21


e tutti gli altri “orridi ragazzi” – come li chiamava Jane – quali li vedevano e non quali erano davvero. Ma ora, guardando i suoi amici, Sylvester ebbe l’impressione che i loro piedi fossero piantati per l’eternità in un deserto salato e bruciante (anche se un attimo prima li aveva visti come pesci che nuotavano appesi ai fili del caso). I loro volti erano all’ombra della Morte e del Peccato. Cadaverici erano i visi, e vuota la risata, e le battute di un’arguzia esile e insincera, sempre fondate su una grossolana malignità. Sylvester a volte comprava fiori tinti per decorare la casa. Ce n’erano alcuni in un vaso anche ora, gigli tinti di verde e gigli color bronzo. Erano ugualmente stucchevoli dei suoi amici, in effetti, e ugualmente decorativi, ma in quel momento gli parvero detestabili. Si trovò a pensare appassionatamente a monti invisibili nella pioggia, a strade fangose e pecore fradice. E non gli dispiacque il sentimentalismo di quei pensieri. Gli pareva quasi che l’esilio da quegli scenari rurali per lui fosse obbligatorio e ciò acuì la romantica nostalgia con cui li pensava e l’avversione nei confronti della gente che in quel momento lo circondava. Doveva sopportare all’infinito le loro cialtronerie, le lodi di cui colmavano il suo lavoro e l’immediata percezione e feroce derisione che mostravano dei suoi fallimenti? Sì. Sapeva che finché avesse vissuto quella vita di dispendiosa semplicità – e per essere davvero semplice la vita deve essere estremamente dispendiosa – avrebbe dovuto sopportare il loro apprezzamento o la loro commiserazione. Il suo lavoro era lì e lì c’erano i soldi. E lui non era così stupido, né così determinato, da mollare tutto. Né voleva mollare tutto, quella era la verità. Di fatto anche lui recitava come chiunque di loro, e aveva altrettanta paura di essere solo. Essere soli senza difese da se stessi significa – a meno che non si sia autentici al di là di 22


ogni possibile finzione – finire sconfitti o distrutti. Ciò che costituisce il vero se stesso è cosa così piccola, e impotente, e volgare. Solo ciò che si è diventati consente di vedere la meschinità di ciò che si era. Ma quello che sono diventato, pensò Sylvester, non è quello che sono. Io ho paura – paura per il mio piccolo darmi da fare, per la volgare, fragile furbizia dei miei scritti. Un giorno il mio mestiere mi tradirà. Sono così pieno di inganni. Come vorrei essere come George, come Stephen, come Blanche. Come vorrei essere in pace, o in difficoltà, o innamorato. La mia vita è il riflesso dell’acqua nell’acqua, altrettanto vaga, altrettanto instabile, altrettanto smarrita e irreale. Preso com’era da quelle riflessioni, Sylvester riusciva tuttavia a passare gaio e animato dall’uno all’altro dei suoi ospiti. O meglio, forse né gaio, né animato: ma era lui che induceva quegli stati d’animo negli altri. Giacché quelli che più frequentemente applaudivano il suo spirito caustico e la sua sferzante ironia erano quelli alle cui briose finzioni Sylvester era tanto sensibile. Infine se ne andarono, gli allegri e i melanconici, gli ubriachi e i sobri, accomiatandosi con parole di gratitudine per la magnifica festa: ciance vuote, facce cadaveriche, ossa scricchiolanti. Si compiacque immensamente del proprio disprezzo nei loro confronti. Godette della avversione che gli suscitava il giovane volto smorto di Hubert, i suoi due pollici di ciglia ingessate da un cosmetico perché stessero dritte in fuori. Avvertì il profumo di Veronica con un’improvvisa ondata di ribrezzo. Quel liscio volto senza età gli ripugnava. Lei gli chiese di pranzare insieme quel giovedì. Un posticino nuovo che aveva appena scoperto. Tanto simpatico. Arrivederci Sylvester. È stata una gran bella festa. 23


“Buonanotte, Sylvester…bello. Bello. Mi sono divertito.” Hubert uscì dietro di lei. Così sparirono tutti. La vecchia lady Bracken era talmente ubriaca che continuava a cincischiare le sue perle borbottando: “Gentaglia. Proprio gentaglia. Vorrei sapere perché sono venuta qui stasera”. Stephen e Blanche, che erano lì accanto e avevano sentito, avevano tutta l’aria di pensare la stessa cosa, anche se erano troppo sobri e troppo educati per dirla. E Sylvester sapeva che così pensavano tutti i suoi ospiti di quella sera, e del resto quello significava essere nel marcio e nella morte. L’ultimo a cui disse arrivederci – un abile stilista, che aveva disegnato i costumi del suo ultimo spettacolo – aveva i denti guasti. Molto guasti, notò Sylvester e pensò: “Che schifo, costui! Perché l’ho invitato?”. E seppe che la morte e il marcio erano anche dentro di lui. Che lui ne era parte. In quel momento non riusciva a pensare a nessuno dei suoi amici per cui nutrisse vera simpatia, e poi era stanco, stanco e depresso. Ora doveva fare ordine prima di andare a dormire. Sylvester questo lo faceva sempre da sé: ridurre il caos ostile che restava dopo una festa al proprio ordine personale gli dava una sensazione di compiaciuto dominio. Sistemò con amorevole esattezza le due sedie Hepplewhite contro la parete; raccolse i bicchieri vuoti sparsi qua e là e li portò in sala da pranzo; sprimacciò i cuscini come avrebbe potuto fare la migliore delle massaie; mise l’una di fronte all’altra sulla mensola del camino le due scatole smaltate di Battersea che contenevano le sigarette; sistemò i dischi del grammofono in una bella pila lucente, con i suoi due preferiti in cima; poi, soddisfatto che la stanza avesse recuperato l’abituale quiete da acquario, andò alla porta per spegnere le luci. Aveva la mano sull’interruttore, quando con strepito 24


odioso e insistente prese a squillare il telefono. Sylvester sollevò la cornetta pensando nel frattempo alle potenzialità drammatiche di una conversazione telefonica a senso unico. A teatro o in un libro era un’ipotesi che trovava sempre stimolante. Nella vita reale, però, di rado risultava interessante. Ora poteva essere solo un’ospite sbadata che aveva lasciato lì una spilla di diamanti. Certo che telefonare a quell’ora per una cosa del genere… Disumano. “Sì?” disse stancamente, irritato. “Oh, sei tu, Sylvester?” “Già.” “Oh, Sylvester… Jessica è stata orribile con me … sono terrorizzata.” “Che ha fatto, ancora?” Sylvester si figurò Jane costretta sott’acqua nella vasca da bagno finché affogava… Jane con la gola tagliata da un rasoio… Jessica che grugniva come una bestia, mentre il sangue zampillava (zampilla, il sangue, quando si taglia una gola? O è solo un lugubre sgocciolio?) e ancora Jessica, compiuto l’assassinio, esausta e gelida. Vide tutto questo, perché per quanto si sforzasse di approdare a una cinica indifferenza, era incurabilmente e insaziabilmente romantico. “È così cattiva,” piagnucolò Jane all’altro capo del filo. “Mi ha picchiata, sai. Mi ha sbattuta di qua e di là per la stanza… è odiosa, perfida.” “Ma perché telefoni ora, per dirmelo, povera bambina?” “Oh, Sylvester, volevo un po’ di simpatia. Che può fare mai una povera ragazza?” “Fossi in te la lascerei, prima che ti si butti addosso e ti tagli la gola. O che ti torca il collo… Sì, fossi lei, credo che ti torcerei il collo,” aggiunse Sylvester meditabondo. Sentì Jane strillare, uno strillo debole, eccitato. 25


“Ma è quello che ho fatto, Sylvester. L’ho lasciata. Pensa, sono qui fuori al freddo, ti chiamo da una orribile cabina pubblica. Ero così spaventata che mi sono buttata addosso una pelliccia e sono scappata via subito.” “E che hai intenzione di fare adesso?” Sylvester era piacevolmente sorpreso. Che Jane fosse riuscita a trovare il coraggio necessario a fuggire da Jessica, sia pure temporaneamente, lo trovava sorprendente. C’era così poco di autentico in lei che gli sembrava già incredibile che potesse provare autentica paura. Doveva incoraggiarla. Povera bambina. Sola all’alba in una cabina telefonica pubblica. Che situazione. Si schiarì la gola. “Allora vai in un albergo?” “Ma no. A Jessica ormai sarà passata. Ora torno a casa.” Ma l’idea di un così docile ritorno dell’agnello al mattatoio ripugnava al gusto di Sylvester per le occasioni. Una fuga in fondo è una fuga e non avviene tutti i giorni. Bisogna trarne il massimo. “Non puoi tornare da lei,” disse in tono imperioso nella cornetta. “Vai in un albergo… puoi anche venire qui se vuoi.” “Oh, Sylvester, sì, mi piacerebbe tanto… Jessica, molla il telefono … Ehi, lasciami andare il braccio! … Oh, sei orrida con me…” Queste furono le parole che Sylvester stupefatto sentì giungergli all’orecchio. Ora sì che erano guai, con Jessica, falco crudele, che piombava nell’alba su quel povero piccioncino starnazzante. Attese il colpo di rivoltella che avrebbe sistemato Jane una volta per tutte. E va detto che se l’avesse sentito non si sarebbe sorpreso affatto. Sentì invece la voce di Jessica dire: “Torna a letto, Jane… stupida. Ti beccherai un malanno ad andartene in giro in camicia così…”. Una Jessica dura e imperiosa, ma certo 26


non con intenti assassini. Ma perché poi uno dovrebbe essere in una cabina telefonica in camicia da notte? Un brutto sospetto riempì la testa di Sylvester. “Jessica?” mormorò. “Sei tu? Dove sei, Jessica?” “Sylvester? Sì, sono io ora. Jessica. Dove vuoi che sia! A casa, no? Jane l’ho rispedita a letto. Perché le hai telefonato?” “Volevo sapere,” rispose Sylvester, “se è sua una cosa che ho trovato nel mio letto. Una spilla di diamanti… molto graziosa, a forma di spiga. È tua per caso?” “No,” disse Jessica seccamente. “Buonanotte.” Sylvester riappese la cornetta. Che rivoltante piccola esibizionista, quella Jane. Che cosa la spingeva a simili buffonate? Non era la prima volta che mentiva spudoratamente per indurlo alla eccitata convinzione che lei si trovasse in imminente pericolo personale. Doveva essere il contrario di quella empatia malata che gioisce nel vedere, persino nell’infliggere dolore agli altri. La cosa singolare di tutta la faccenda era che, secondo Sylvester, Jane si trovava davvero e indubitabilmente in pericolo per la violenza delle passioni di Jessica. Ma perché avrebbe dovuto importargliene qualcosa? Ebbe un moto di disgusto al pensiero della prontezza con cui le aveva offerto asilo in casa sua. Terribile pensare che poteva essere lì proprio ora, e saltar fuori incespicando dalla vettura nel buio e piombargli in casa – avvolta nella pelliccia strappata a una reclusione di canfora per dar sostanza alla storia – strillando: “Oh, Sylvester, mi sento così male. Dammi un brandy e soda”. Tutto ciò era davvero troppo per lui. Lo invase un senso di disgusto, di stanchezza infinita. No, neppure come “cosa” Jane poteva interessarlo più. Non gli importava se e quando Jessica l’avrebbe uccisa. Non voleva neppure sentire quello che avrebbe detto di Jane se mai lei l’avesse lasciata. Jane 27


era una squilibrata. Un fungo matto. Tanto graziosa fuori quanto velenosa dentro. Così stupida. Così stucchevole. E neppure volgare. Privato ora di ogni difesa e di ogni maschera, guardiamolo, Sylvester. Non bisogna essere troppo severi nei suoi confronti, né del resto l’autore deve tradire una conoscenza troppo approfondita, né una simpatia troppo parziale per la figura e il carattere del suo eroe. Quella era una regola cui lo stesso Sylvester si era sempre sforzato di attenersi nei suoi libri e nelle sue commedie, finché un giorno scoprì che solo nell’azione i suoi personaggi si tradivano davvero; e quanto alla figura, non c’era mai una descrizione diretta e banale in tutto il libro. In frasi che descrivevano azioni, sì. Ecco un artificio con cui si poteva rendere con maggior sottigliezza un ritratto. Per esempio: “Oliver si accese una sigaretta: le mani meticolose, brutte, così lente e precise nei gesti che Patience fu sul punto di urlare che non lo sopportava più. ‘Tesoro, dobbiamo parlare.’ Voce e mani erano uguali: pignole, incapaci di mutamento. Era assurdo odiare un uomo perché la sua voce e la forma delle sue mani non ti turbavano più…” Ecco, in questo modo avevi la forma delle mani e il suono della voce, senza aver detto: “Aveva mani brutte e una voce monotona. Le si sedette accanto sul divano. ‘Tesoro,’ disse, ‘dobbiamo parlare’. Lei fu sul punto di urlare: ‘Oh, vattene, sei insopportabile. Non voglio parlare. Lasciami in pace…’.” Chi notava, o a chi importava se con la prima o con l’ultima frase si venivano a sapere quelle cose del noioso Oliver e della impulsiva Patience? A guardarlo ora, Sylvester sembrava in tutto e per tutto il figlio maggiore in uno di quei ritratti settecenteschi di nobili famiglie immerse in bei conversari. Avete presente, 28


il melanconico giovanotto che ormai non trova se non una risibile distrazione in tutto ciò che può offrirgli la vita in campagna. Nella scena occupa una posizione di rilievo in primo piano, ed è lì che giocherella con il fucile da caccia o le morbide orecchie del suo spaniel. Anche la faccia di Sylvester era pallida e triste e perfettamente in tono con l’espressione che gli era abituale, di chi scappa a gambe levate da ogni argomento serio, ogni verità antipatica o decisione sgradevole. C’erano uno spazio troppo esiguo e troppo poca decisione di linee tra gli zigomi alti e il lungo mento. Solo gli occhi, i suoi espressivi occhi scuri tradivano una gentilezza d’animo che l’atteggiamento scostante non riusciva mai a smentire del tutto. Per una sorta di autodifesa Sylvester poteva diventare tremendamente sgarbato con le persone innocue e stucchevoli che lo seccavano o lo irritavano, come d’altronde poteva arrivare a estremi assurdi nei suoi slanci di protezione nei loro confronti. Basta pensare all’incidente che per poco non gli aveva fatto riaprire le porte di casa a quella sgualdrinella tutta imposture di Jane… con tutto che era stanco come un cane. Ma per continuare il catalogo onesto e senza orpelli dei suoi tratti fisici: statura media, figura proporzionata, mani e piedi ben fatti, orecchie inusitatamente lunghe e appuntite, che con l’aggiunta di un naso corto e leggermente schiacciato davano ad alcune malelingue il destro per descrivere il suo aspetto con la parola “gnomesco”. Quel detestabile aggettivo disturbava sommamente Sylvester. Non è esagerato dire che per un certo tempo gli aveva addirittura tolto il sonno. La voce non aveva nessuna qualità cui aggrapparsi per dire per esempio: “Che brutta voce!” o “Che bella voce!” Era scialba, a volte affettata e però finiva sempre per tradire con qualche sciagurata intonazione involontaria una sfumatura 29


di significato che lui non voleva metterci o che non sapeva di averci messo finché non gliela sentiva dentro. Non possedeva concentrazione. Quello era il suo principale motivo di rammarico riguardo a se stesso. Sapeva che le sue commedie erano brutte e i suoi libri anche peggio e ciò lo addolorava. Non riusciva a guardarli con distacco, limitandosi ad accettare il fatto che gli portavano denaro, tanto denaro quanto guadagnano solo i molto bravi o i molto famosi. No, lui doveva infilarci dentro pezzi di sé, rovinati dal suo entusiasmo – pezzi che prima lo atterrivano per ciò che avevano di buono, poi lo sgomentavano per la loro trasparenza – che lo disgustavano e lo irritavano fino a farlo star male e poi non gli appartenevano più. Lui su tutto questo bleffava spudoratamente, indicando l’uno o l’altro di quei pezzi terribili che in verità erano pezzi di sé dicendo: “Così teatrale, mio caro, una delizia”. “Eccoti una gran bella bischerata…” “Mio caro, come se lo sono bevuto, questo… un applausone… e tutto il teatro col fazzoletto in mano…” e simili. Così distruggeva se stesso e si persuadeva che la verità non era in lui. E se era lui a tradirla, non avrebbe lasciato che fosse lei a tradire lui. Ma ora Sylvester dormiva, avvolto in lenzuola di crêpe de chine come una star cinematografica. Perché adorava le cose belle, calde, soffici.

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Estratto da Molly Keane, Amiche devote Titolo originale dell’opera: Devoted Ladies Traduzione dall’inglese realizzata dagli allievi della Scuola di specializzazione in traduzione editoriale dell’Agenzia formativa tuttoeuropa, Torino corso 2015/2016, lingua inglese: Valeria Abate, Davide Astegiano, Daniela Barale, Arianna Brondolo, Valeria Burzillà, Alessio Caddeo, Elio Cannarsa, Federica Fugazzotto, Sara Galluccio, Greta Leoni, Davide Locati, Misha Marchetto, Rossana Mongiovì, Gabriella Sacco, Tommaso Turi, Martina Turrisi © M.J. Farrell 1934 © 2016 astoria srl corso C. Colombo 11 – 20144 Milano Prima edizione: ottobre 2016 ISBN 978-88-98713-50-9 Progetto grafico: zevilhéritier

www.astoriaedizioni.it


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