La festa

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PROLOGO

l’omelia funebre

Nel settembre del 1947 il reverendo Gerald Seddon, di St Frideswide, Roxton, fece la solita visita annuale al reverendo Samuel Bott, di St Sody, Cornovaglia settentrionale. Sono due vecchi amici e la loro più grande soddisfazione è passare insieme questa vacanza. Il reverendo Bott, infatti, che non può permettersi il lusso d’andare in villeggiatura, si gode le vacanze quando ospita il reverendo Seddon. Abbandona l’abito talare, con cui lo si vede sempre, per un paio di vecchi calzoni di flanella e un maglione, e va ad avventurarsi sulle rocce per osservare gli uccelli. Alla sera giocano a scacchi. Hanno passato entrambi la cinquantina, sono celibi, anglocattolici, e sinceri in modo sconcertante. Ci tengono a farsi chiamare padre dai loro parrocchiani ma non amano le schermaglie con i protestanti come succedeva loro da giovani. Padre Bott è grigio, tarchiato e peloso, ricorda uno Scottish terrier, e non è molto benvoluto nella parrocchia di St Sody. Padre Seddon ha una certa aria malinconica da cane di Sant’Uberto; la sua vita è più dura e sgradevole, ma è amato e stimato dai suoi parrocchiani. Arriva di solito all’ora della cena, e appena finito il pasto i due sacerdoti tirano fuori la scacchiera. A Londra, invece, padre Seddon è solito passar le serate fra i circoli e le missioni, cosicché non vede l’ora di godersi questo svago. Perciò rimase molto male 1


la sera del suo arrivo nel 1947, quando il collega gli disse di metter via la scacchiera. “Stasera non posso giocare,” spiegò Bott. “Mi spiace molto, ma devo scrivere un sermone.” Seddon sollevò le sopracciglia. La regola della vacanza prevedeva che Bott preparasse tutti i suoi sermoni anticipatamente. “È un sermone inatteso. Ho cercato di prepararlo questo pomeriggio. Ma non sono riuscito a pensare a nulla da dire.” “Molto strano,” disse poco educatamente Seddon. “Beh… è un’omelia funebre…” Bott andò a togliere il coperchio alla macchina per scrivere. “E non si tratta neanche di un funerale di quelli soliti,” aggiunse in tono lamentoso. “Anzi, non è nemmeno un funerale. Non possiamo seppellire i morti. Sono già sepolti. Sotto una rupe.” “Ah, Pendizack Cove?” Seddon non aveva mai tempo di leggere i giornali, ma ricordava questo incidente perché era avvenuto nella parrocchia del suo amico. Nel mese di agosto degli enormi massi erano franati precipitando da una rupe in una piccola insenatura a circa due miglia dal villaggio di St Sody, distruggendo una casa che prima sorgeva su un piccolo spiazzo sul lato est della baia. Tutti coloro che erano in casa erano morti. “È stata una mina, no?” chiese. “Una mina spinta dal mare in una grotta dietro la casa?” “In parte. Tuttavia l’incidente della mina era accaduto mesi prima,” disse Bott, “l’inverno scorso. Ma l’esplosione era avvenuta nella grotta, senza recare danni apparenti. Tutti pensammo che la casa l’avesse scampata. Era un albergo, sai? Una volta era un’abitazione privata, ma poi i proprietari l’avevano trasformata in un alberghetto. La baia si apre sotto la rupe a picco. Lo scoppio deve aver scosso le rocce interne staccando una enorme fetta della rupe dirimpetto. In seguito furono trovate delle fenditure in cima alla rupe, a un centinaio di metri di distanza. Humphrey Bevin – che è il sovrintendente e sta sulla strada di Falmouth – ne fu informato e venne a fare un sopralluogo. Era indeciso 2


sul da farsi; gli pareva che se l’enorme rupe doveva precipitare, a quell’ora avrebbe dovuto già essere caduta. Poi ci pensò su e scrisse a Siddal, il padrone dell’albergo, dicendogli che se le fenditure si fossero ulteriormente allargate, la casa probabilmente non sarebbe stata al sicuro e sarebbe stato meglio se se ne fossero andati. Siddal non rispose mai. Non fece mai niente in proposito. E adesso lui è rimasto là sotto.” “Intendi dire che sono ancora tutti sepolti?” “Non è possibile estrarli. Dovresti vedere il posto, non puoi avere idea. La baia non c’è più. Nessuno può immaginare che lì ci fossero una casa e un giardino e delle stalle. E ora ci toccherà fare una cerimonia alquanto lugubre: funzione in chiesa, e il resto il più vicino possibile agli scomparsi… arrampicandoci sulle rocce. Non mi piacciono queste cose ma non posso esimermi, e bisognerà, nei limiti del possibile, cercare di dare alle vittime una parvenza di sepoltura cristiana. L’avremmo fatta anche prima, ma all’inizio si sperava ancora di poterle tirar fuori. Sarà domani. E se fossi in te, starei via tutta la giornata. Ci saranno i giornalisti, immagino, e macchine piene di curiosi… E ci si attende che io preghi!” Bott si mise alla macchina. Scriveva sempre a macchina le sue prediche, perché aveva una calligrafia talmente orribile che lui stesso non riusciva a leggerla. Né riusciva sempre a leggere ciò che aveva battuto, perché era davvero inesperto. Stavolta mise una “q” in cima alla pagina, indugiò, schiacciò il tasto della maiuscola e scrisse il titolo: VOLONTÀDI DIO. Poi fece una pausa di venti minuti. Seddon si immerse in un problema scacchistico. La modesta sveglia sul caminetto ticchettava in fretta. Bott tracciava disegni sulla carta assorbente. Prima disegnò un delfino. Poi alcuni capitelli. E poi disegnò il promontorio di Pendizack, a strapiombo sul mare. Era ancora là, sul lato estremo 3


della baia. C’era stato per centinaia, forse migliaia di anni. Ma sul lato est il caos della roccia e dell’enorme masso precipitato era là soltanto da un mese, insieme con la nuova ruvida parete rocciosa. Questo Bott non l’avrebbe potuto disegnare; non poteva accettare che avesse una forma. Per settimane quell’ammasso confuso di pietre lo aveva ossessionato, dominando il corso dei suoi pensieri, facendolo rabbrividire e rivivere l’impressione provata nel trovare la strada ostruita la notte in cui era accorso per vedere quel che era successo. Perché aveva udito, tutti in paese avevano udito, il sinistro boato della rupe franata. Mentre correvano per i campi, incontrava gente che gridava che l’Albergo Pendizack era “andato”. Si aspettava di trovare rovine, fracasso, confusione, urla, cadaveri… ogni orrore tranne quello che trovò. Un polverone asfissiante aveva investito coloro che scendevano dalla collina verso le rocce, lasciando vedere ben poco. Il vialetto dell’albergo era sprofondato e appariva a tratti, in ripidi zig-zag, in mezzo ad alberi e arbusti di fianco a un precipizio. Il silenzio che regnava là sotto aveva già cominciato a gelargli il cuore ancora prima della seconda svolta. Una collina era comparsa di fronte a lui. Giù non c’era più strada. Lì per lì aveva creduto che si trattasse di una serie di massi erratici e aveva tentato di scalarli, ma era stato costretto a rinunciarvi, respinto dalle rocce sdrucciolevoli e insidiose e, tornato sul vialetto, aveva preso un sentierino a forma di galleria in mezzo ai rododendri, che lo aveva condotto fuori, presso la rupe isolata. Qui, al chiarore lunare impregnato di polvere, aveva potuto rendersi conto dell’accaduto. La roccia precipitata aveva colmato l’intera baia, come sassi in una bacinella. Non c’era traccia della casa, del piccolo pianoro su cui sorgeva, o di qualsiasi cosa fosse stata là. La marea stava già lambendo i nuovi macigni, come se ci fossero sempre stati. La costa aveva assunto una nuova conformazione e le rupi avevano ripreso la loro primitiva e tranquilla stabilità. Sospirò, cancellò il titolo già scritto e ne batté un altro:

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sTAI TRANQUILLO ESAPPI CHE io sono DIO “Non vai molto in fretta,” osservò Seddon. “Avevo paura,” disse Bott. Scrisse: morte improvvisa. E aggiunse: “Sono ancora spaventato”. “Niente in confronto al nord di Londra nel ’41, avrei pensato,” disse Seddon. “Lo so.” Bott si alzò e andò alla finestra. Era una bella notte, con una brezza leggera. Si vedevano gli alberi ondeggianti attorno al campanile, una massa oscura che si disegnava su un cielo senza stelle. Tra poco le foglie sarebbero cadute e rimaste sparpagliate sulle tombe per poi appassire e farsi terra. I rami nudi sarebbero stati sbattuti dal gelido vento invernale, in attesa di ricoprirsi di nuove foglie. Ogni settimana, ogni mese avrebbe sempre più ricacciato nel passato il ricordo di quella notte d’estate. Bott si sentì più sicuro del futuro. Niente è certo, pensò, tranne la certa primavera. “I sopravvissuti,” disse, “vennero qui. La prima notte vennero a rifugiarsi qui.” “Ci furono dei sopravvissuti?” “Oh, sì. Vennero qui e parlarono. Stettero qui seduti e parlarono tutta la notte. Sai come parla la gente quando ha subito uno shock. Dicono cose che in altre circostanze non direbbero mai. Dicono le cose più sorprendenti. Mi raccontarono come erano riusciti a scampare… Mi raccontarono troppo. Vorrei non l’avessero fatto.” “Come fecero a mettersi in salvo?” “Mah, non saprei dirlo con esattezza,” rispose Bott, voltandosi dalla finestra. “Non so cosa pensare. Mi hanno raccontato tante cose, ma certo non mi hanno detto tutto. Nessuno saprà mai l’intera verità. Ma ciò che mi hanno raccontato…” S’avvicinò al caminetto, prese una sedia e sedette di fronte a Seddon. “Ascolta,” mormorò. “Vediamo che cosa ne pensi…” 5


Estratto da: Margaret Kennedy, La festa Titolo originale dell’opera The Feast Traduzione dall’inglese di Bruna Mora © Margaret Kennedy, 1950 © 2014 astoria srl corso C. Colombo 11 – 20144 Milano Prima edizione: novembre 2014 ISBN 978-88-96919-96-5 Progetto grafico: zevilhéritier

www.astoriaedizioni.it


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