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Nessuno sapeva quando Lisi Badichi fosse arrivata alla festa degli Orenstick, e nemmeno con chi. In fondo a chi interessava? Non era uno di quei tipi che si notano subito, benché non la si potesse nemmeno definire una persona che lascia indifferenti; certo che no, con quei suoi piedoni piatti che sembravano pinne di foca, con quel suo petto voluminoso e compresso che, per chi l’avesse dimenticata, faceva tornare in mente l’esistenza della forza di gravità, e con le parole che biascicava tra un “tesoro” e un “eh?”, infilandole come perle difettose in una vecchia catenina. In redazione la chiamavano “Lisi la svitata”, lei lo sapeva e sosteneva che non le faceva né caldo né freddo, a patto che la si lasciasse lavorare in pace e non si ficcasse il naso in quel che scriveva. Ufficialmente era “la nostra corrispondente” de “La Gazzetta del Sud”, ma in realtà faceva lei tutto il giornale. Quando ce n’era bisogno partiva in piena notte, si inumidiva le tempie per tenersi sveglia, si spalmava un rossetto unticcio sulle labbra, si metteva giganteschi orecchini di plastica, infilava il cercapersone nella cintura e trascinava le sue fette per il marciapiede desolato, sperando che il motorino di avviamento della macchina non creasse problemi, che l’informatore si trovasse al posto prestabilito e soprattutto, soprattutto, che la notizia venisse pubblicata sull’edizione nazionale, così la sua costanza sarebbe stata premiata. Sapeva, e del resto a Be’er Sheva lo sapevano tutti, che lei era 1