Dalla nostra corrispondente

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Nessuno sapeva quando Lisi Badichi fosse arrivata alla festa degli Orenstick, e nemmeno con chi. In fondo a chi interessava? Non era uno di quei tipi che si notano subito, benché non la si potesse nemmeno definire una persona che lascia indifferenti; certo che no, con quei suoi piedoni piatti che sembravano pinne di foca, con quel suo petto voluminoso e compresso che, per chi l’avesse dimenticata, faceva tornare in mente l’esistenza della forza di gravità, e con le parole che biascicava tra un “tesoro” e un “eh?”, infilandole come perle difettose in una vecchia catenina. In redazione la chiamavano “Lisi la svitata”, lei lo sapeva e sosteneva che non le faceva né caldo né freddo, a patto che la si lasciasse lavorare in pace e non si ficcasse il naso in quel che scriveva. Ufficialmente era “la nostra corrispondente” de “La Gazzetta del Sud”, ma in realtà faceva lei tutto il giornale. Quando ce n’era bisogno partiva in piena notte, si inumidiva le tempie per tenersi sveglia, si spalmava un rossetto unticcio sulle labbra, si metteva giganteschi orecchini di plastica, infilava il cercapersone nella cintura e trascinava le sue fette per il marciapiede desolato, sperando che il motorino di avviamento della macchina non creasse problemi, che l’informatore si trovasse al posto prestabilito e soprattutto, soprattutto, che la notizia venisse pubblicata sull’edizione nazionale, così la sua costanza sarebbe stata premiata. Sapeva, e del resto a Be’er Sheva lo sapevano tutti, che lei era 1


“La Gazzetta” in persona, il che le faceva risparmiare tempo e smancerie d’ogni genere. Quando c’era bisogno d’intervistare la madre della vittima o la moglie del cantante che aveva stuprato una puttana facendole saltare quattro denti, o invece il valoroso soldato, orgoglio del quartiere, Lisi era lì, lei e i suoi giganteschi piedi. Sapeva che Dahan, il direttore della pubblicità de “La Gazzetta del Sud”, aveva telefonato all’ufficio di Tel Aviv comunicando che “Lisi la svitata è partita per andare da quel drogato cui hanno cavato un occhio”, ma questo non le dava fastidio, perché sapeva anche che avrebbe concluso la frase con “lei riuscirà a tirargli fuori una storia”. Lisi non andava particolarmente fiera di quel che faceva, ma non era nemmeno eccessivamente modesta. Era il suo lavoro, sapeva di essere una professionista e la cosa l’appagava. Se avesse lavorato alla manifattura di tessuti, come sua madre, o fatto iniezioni all’ospedale Soroka, come le sue sorelle Georgette e Chavazelet, anche in questo caso sarebbe stata una professionista, e la cosa l’avrebbe appagata comunque. Invece era la “nostra Gazzetta del Sud”. Bell’affare. Fra due mesi avrebbe compiuto trent’anni, cosa che faceva davvero impressione a sua madre e a Georgette e Chavazelet. A volte le sue sorelle andavano da lei a sviolinare, ma Lisi sapeva che alla fine le avrebbero chiesto un prestito e lei lo avrebbe concesso, ripromettendosi che all’occasione successiva avrebbe risparmiato a quelle due i salamelecchi. Ma la volta dopo le lasciava di nuovo esclamare estasiate quanto lei fosse brava e importante e quanto fossero fiere che una così venisse dalla famiglia Badichi, che non aveva prodotto niente di buono tranne lei, lasciando loro la sensazione di averla messa nel sacco: almeno questa soddisfazione poteva concedergliela, dopo l’umiliazione di aver chiesto un prestito. Avevano dei figli da nutrire, vestire e mandare a scuola, e questo era più importante del suo orgoglio. Aveva incominciato a lavorare come impiegata di Dahan. Tappava i buchi quando non c’era nessuno da mandare in Co2


mune a informarsi sul perché avessero bloccato l’erogazione d’acqua al quartiere tre o su quando avrebbero finito la strada al quattro, imparando così che ogni informazione ha il suo prezzo. La gente pian piano si era abituata a quella ragazzona con quelle fette che lambivano il marciapiede, le sopracciglia addormentate su quegli occhi che nulla riusciva a sorprendere né a risvegliare. Chiedere a qualcuno di Be’er Sheva se Lisi masticava chewinggum significava sentirsi rispondere, cento volte su cento, “certo che sì”, anche se in vita sua lei non aveva mai messo in bocca una gomma, perché così era stata educata. Una brava ragazza, anche se povera in canna, deve rispettare le buone maniere. Lei ormai povera non lo era più, e non masticava chewing-gum, però aveva l’aria un po’ così, di un ruminante, e lo sapeva, eccome, se lo sapeva. Non parlava con nessuno del fatto di essere vergine, non sono cose di cui si parla. Ma indubbiamente le pesava, e da anni ormai aveva deciso che alla prima occasione avrebbe rimediato, però con l’andare del tempo la prima occasione era sfumata sempre di più, e ora Lisi si trovava in una situazione in cui non poteva più permettersi di andare a letto con uno qualsiasi, perché cosa avrebbe mai detto a quel qualcuno se avesse scoperto di essere il primo? Magari avrebbe pensato che aveva aspettato proprio lui per tutti quegli anni e, dopo, vai a spiegare come stavano le cose senza offenderlo o rimanere ferita. D’accordo, se avesse avuto diciassette anni avrebbero detto che era un po’ tonta e l’avrebbero dimenticata in fretta, ma a trent’anni meno due mesi era un po’ come andare per la prima volta all’opera, e vai a spiegare che non si trattava di un colpo di fulmine. Con quella sua aria un po’ addormentata seguiva le trattative di Dahan che ogni tanto tagliava la corda diretto al Country Club, o a quell’albergo davanti all’ambulatorio, con la proprietaria di una nuova boutique o una liceale in calore, dicendo “se mi cercano, torno nel pomeriggio”, e tornava davvero nel pomeriggio, seguito da un sentore di avventura, gli occhi vispi come al solito, sotto i quali ancora stagnava un avanzo di calore ardente. 3


Fra lei e Dahan c’era un rapporto di mutuo rispetto. Avevano cominciato insieme in un bugigattolo d’ufficio dietro il supermercato, saltellando fra cassette di cavoli e furgoncini del pane, e insieme si erano trasferiti al complesso di uffici riattato sopra la stamperia di Prosper Parpar, scambiandosi una muta pacca sulle spalle. Lui apprezzava il fatto che Lisi non avesse mai detto “missione impossibile”, che non mancasse una conferenza stampa, che verificasse ogni brandello di notizia orecchiata, e non meno apprezzava la certezza che lei non avrebbe mai rivelato a sua moglie o a nessun altro le avventurette che si concedeva di tanto in tanto. E Lisi ammirava la sua avidità, questo suo correre dietro al denaro e alle donne, questa sua disinibita passione per i soldi e il successo. Sentendosi come a cavallo di un siluro, qualche granello di polvere di meteorite sarebbe arrivato pure a lei. Era Dahan l’uomo che aveva deciso che Lisi doveva prendere la patente, che era giunto il momento di lasciare la casa di sua madre e che l’aveva aiutata a ottenere un mutuo; lui aveva anche convinto la direzione che Lisi, quella Lisi con l’aria di un cammello, era una gran risorsa per il giornale e conveniva fornirla di automobile. È vero che non capitava tutti i giorni che un cittadino di Be’er Sheva, una città confinata ai bordi del deserto del Negev, diventasse giudice distrettuale, ma ai fini del giornale non è che la festa dagli Orenstick avesse valore di notizia, al massimo poteva guadagnare due o tre righe nella rubrica “In società”. Ma Dahan era riuscito a ottenere un’inserzione pubblicitaria dagli strumenti musicali Israha, e aveva detto a Lisi di fare la brava e di andare alla festa a casa del giudice Orenstick, mettere qualche parola buona su Jackie Danzig, il pianista, e per la solenne occasione anche sul pianoforte che avrebbe suonato durante la festa, benché sapesse che alle quattro del mattino successivo Lisi doveva essere al blocco stradale vicino a Gaza. Lisi non era al corrente di cosa avesse ricevuto Jackie Danzig per averla introdotta alla festa degli Orenstick, ma qualcosa doveva avere ricevuto, ne era 4


sicura, perché non le era mai capitato di imbattersi in una cosa che non avesse il suo prezzo. La casa stava sulla collina di Omer, nel quartiere residenziale di Be’er Sheva; tamerici e piccoli cespugli argentei dicevano da quanto tempo i proprietari abitavano la villa. Piante di buganvillea ricoprivano il muro di cinta in pietra grigia e rosa e due tortuosi sentieri abbracciavano la porta d’ingresso per scomparire chissà dove in fondo al giardino. Jackie e Lisi rimasero un istante sulla soglia, stringendo la mano al giudice Orenstick, lisciando il pavimento di marmo nero con qualche passo esitante, per permettere agli occhi di abituarsi alla luce abbagliante dei grandi lampadari. Jackie poi si girò e corse verso il pianoforte bianco accostato a una parete, e Lisi, dopo aver lanciato alle sue spalle avvolte in una camicia di seta nera un “non fare lo scemo”, andò in giardino. Come se avessi la lebbra, pensò mentre stava accanto al banco del bar, osservando da fuori il grande salotto e ascoltando la musica che Jackie Danzig emetteva dall’Israha bianco. La luce del lampadario brillava sul suo farfallino rosa; stava suonando qualcosa di romantico che suscitava il sorriso degli astanti e faceva venire voglia di ballare. Lisi si ricordò che dicevano fosse l’amante di qualcuno ma non rammentava chi. Venivano entrambi, Jackie e Lisi, dal quartiere tre e avevano più o meno la stessa età. La sua espressione inebetita contrastava con il ritmo della dolce melodia che gli fioriva fra le dita. O forse no. Due che ce l’avevano fatta e ora giocavano fuori casa, ecco quel che erano. Qualcosa le solleticò la memoria, fece per affiorare, lei lasciò che gli occhi vagassero dal salotto verso il giardino e poi di nuovo verso la porta d’ingresso. Qualche coppia stava ballando sul terrazzo, molte altre erano già in giardino, in parte sedute ai tavolini rotondi sotto il baldacchino di lampadine colorate e in parte in movimento fra le pozze di luce e ombra. Riconobbe qualcuno, qualcuno la riconobbe e si chiese cosa mai ci facesse lì. Lisi era fuori posto, luogo, circostanza. La casa di un giudice distrettuale non era esattamente l’ambiente adatto per una come Lisi la svitata, regina del gior5


nalaccio locale. E Orenstick… in fondo lo sapevano tutti che se Orenstick l’avesse voluto, sarebbe stato da tempo sistemato a Gerusalemme o a Tel Aviv, e se la sua carriera andava a rilento era proprio perché lui aveva scelto – sì, aveva scelto – di abitare lì. Non che soffrisse più di tanto dell’esilio che si era imposto. Era l’intellettuale locale, la giustizia del Sud e la morale del Negev. Dai tempi di Ben Gurion nessun altro aveva saputo dare all’arido deserto quella specificità e quel senso che gli aveva dato Orenstick Pinchas, giudice, che ora era lì all’ingresso della sua villa ad accogliere gli invitati. Teneva con la mano sinistra un fascio di candelotti per i fuochi d’artificio e con la destra ne consegnava uno ciascuno agli ospiti, dicendo “la festa è in giardino” e sfoderando un sorriso placido e sbiadito come una persiana scarrucolata, ansioso di liberare i suoi ospiti da ogni indugio di cui potesse essere responsabile. Dove sono i suoi amici, i suoi parenti, si chiese Lisi, perché lo lasciano in quella ridicola postazione vicino alla porta, invece di farlo entrare in casa? Forse è proprio quella distanza la fonte della sua energia? E poi che razza di energia? Benefica o malefica? O forse semplicemente l’energia bastante per ignorare i giochi di società che non facevano per lui? “Puzza di scioldi,” disse la donna che stava accanto a lei, schiacciando le chiappe contro il banco del bar. Lisi si ficcò una manciata di arachidi in bocca e masticò, gli occhi sotto le spesse sopracciglia che vagavano fra la folla degli invitati. I tronchi degli alberi erano stati dipinti d’oro e festoni di carta sbrilluccicante penzolavano fra i rami. “Sci è dimenticata Or… Orensdig sulla porta con i suoi fuochi d’artifiscio,” ghignò la donna sbronza, e Lisi borbottò qualcosa pensando fra sé che schifo, che schifo. “Chi paga questa bella festa?” chiese alla donna, aggiungendo subito: “Mi chiamo Lisi Badichi, corrispondente de ‘La Gazzetta del Sud’”. Aveva abbastanza esperienza da sapere di doversi presentare 6


prima di chiedere un’informazione, perché poi non si dicesse che prendeva in giro le persone con cui parlava o che estorceva loro notizie senza che sapessero con chi stavano parlando. Guardò la sua minuta vicina chiedendosi cosa mai la rodesse. Denaro? Amore? Dignità? “Chi finanziaaaaa? Pfui! È Lubitz Vini & Co. che finanzia! Il padre della moghlie del giudisce distrettuale Oren… Orensdig. Conosci il negossio di vini viscino alla stassione scentrale? Ricordi vino mezcolato a ferro che hanno importato dalla Jugozlavia? Eri una bambina piiiccola. Il padre! Suoscero di Orensdig. Lui. Lui si è preoccupato che suo genero potesse dedicare la vita al bene della gente. Guarda i quadri originali, i lampioni, non arrivano dallo stipendio da giudisce! Ti piace il caviale? Io mangio caviale perché è caro. Se non fosse caro non ne mangerei. Prendi!” Lisi notò che la donnina non s’impappinava più. Sporca delatrice, si disse fra sé, prendendo un tramezzino con capperi e caviale. “Lubitz è qui?” chiese. “Lei lo conosce?” “Sceerto che lo conosco,” ghignò la donna, con quel suo alito acido di alcol, “è mio papà, no?” Lisi avrebbe voluto chiederle se era la sorella della padrona di casa. Invece divorò il tramezzino e mormorò qualcosa d’indecifrabile come faceva quando voleva guadagnare tempo. Alex, la moglie del festeggiato, girava per il giardino, con indosso un vestito a minuscoli lustrini d’oro che si muovevano e frusciavano a ogni suo respiro. Affondava i seni nel petto degli ospiti, socchiudendo gli occhi castani truccati d’oro, e Lisi si domandò cosa volesse dimostrare, cosa volesse ottenere, chi diavolo volesse scandalizzare. E questa storia del vino adulterato, sarà poi vera? E com’è che non è uscita sui giornali? Si vide il titolo davanti agli occhi: Il suocero del giudice distrettuale O. ha importato dalla Jugoslavia una partita di vino adulterato. Per questo avrebbe avuto un premio. Si sarebbero fatte rivedere le sue sorelle, che Dio le benedica, rintronandola con le loro lamentele ed estorcendole quel poco che nel frattempo era riuscita a risparmiare. 7


“Per cosa sta Alex?” chiese alla piccola ubriacona. “Alexandra, vuol dire. Sta per Alexandra degli Asmonei,” rispose questa sorseggiando il whisky, con gli occhi che vagavano verso il giardino. Lisi seguì il suo sguardo e giunse a quello che doveva essere il tavolo di famiglia, dove sedevano i genitori di Alex, Lubitz Vini & Co. e consorte, un bambino e una bambina che con ogni probabilità erano i figli di Orenstick, e un uomo che li guardava con un’aria preoccupata e doveva essere il marito dell’ubriacona. Tutti mangiavano coscienziosamente, seguendo con un’espressione assorta gli ospiti che affollavano il giardino. Lisi decise di lasciare la cognata ostile, di salutare Jackie e di andarsene a casa. C’era stata, aveva visto, aveva di che imbastire un duecento parole, di più non c’era bisogno. Entro mezz’ora sarebbe stata a casa, avrebbe scritto il suo pezzo e, se non ci fossero stati intoppi, sarebbe riuscita a infilarsi sotto le coperte prima di mezzanotte. Gli scaldabagni a energia solare erano di nuovo rotti, per la centesima volta si era detta che in fondo poteva permettersi un riscaldamento autonomo, così l’indomani – sì, l’indomani – appena tornata dal blocco stradale vicino a Gaza, ancora prima di scrivere una parola, sarebbe andata a informarsi. Non aveva marito, non aveva figli, non si era mai presa ferie se non per il festival d’autunno ad Akko, allora una ragazza che lavora ha ben diritto all’acqua calda in bagno; comunque non aveva la minima intenzione di sentirsi in colpa. Andò verso Jackie, facendosi strada fra la gente in sala, e solo quando fu proprio vicino al pianoforte si accorse che Alex la stava seguendo. “Facciamo i fuochi d’artificio a mezzanotte,” disse Alex. “Ha già bevuto qualcosa? Ha già mangiato? Non se ne va mica?” Fra una parola e l’altra Alex inghiottiva aria a piccoli sibili, la voce pareva cogliesse al volo le parole come un giocoliere che lancia le palline, il suo seno faceva venire i nervi con quel movimento perpetuo dei lustrini d’oro. Lisi ringraziò la signora Orenstick (“No! No! Chiamami Alex! Tutti mi chiamano Alex!”) 8


e si scusò di dover andare via, il tutto mentre Jackie continuava a suonare, con gli occhi sui tasti. La mano di Alex si posò sulla spalla di lui, e Lisi si ricordò dei pettegolezzi che circolavano su Jackie, su una tipa di professione ingegnere che si era innamorata di lui e gli aveva comprato un appartamento. Alex aveva circa dodici anni più di Jackie, e Lisi si domandò se avesse una passione per le donne più vecchie di lui, ripromettendosi di guardare con attenzione le sue compagnie. “Devo dire a suo marito di entrare?” chiese Lisi ad Alex. “È maggiorenne e vaccinato, entrerà quando vuole,” rispose Alex, e Lisi pensò che in fondo aveva ragione. Se ha deciso di festeggiare la sua incoronazione restando in piedi sull’ingresso con quei futili candelotti in mano, buon per lui, io cosa c’entro? “Sua moglie è ingegnere?” chiese a Orenstick poco prima di salutarlo. “Sì.” La sua espressione non cambiò nel risponderle, ma Lisi si accorse che aveva capito perché gli aveva fatto quella domanda. Si chiese come avesse fatto sua moglie a restare con lui per tutti quegli anni. Era bella e arrogante, una professionista, la figlia di Lubitz dei vini, imbottita di soldi. Che cosa la legava a lui? La condizione sociale? I figli? La cultura? L’abitudine? I radi capelli gialli, spruzzati di grigio, davano a Orenstick un aspetto torbido, la pelle pareva carta di giornale spiegazzata, costellata di vecchie macchie di tè. Non cercava d’impressionare né lei né tantomeno gli altri ospiti. E, malgrado la festa fosse in suo onore, quella sua posizione fissa all’ingresso con il fascio di candelotti in mano aveva un che di protervo e distaccato, irritante non meno della farsa inscenata da sua moglie con quella profusione d’oro in onor suo. “Ha bevuto? Ha mangiato?” “Perché rimane lì in piedi? Perché non entra?” “Ha ragione. Venga, entriamo.” “Sto andando a casa.” 9


“Senza Jackie Danzig?” “Ho avuto una giornata pesante e mi devo alzare presto.” “Ha visto la casa? La piscina l’ha vista?” La afferrò per il gomito e lei si lasciò condurre verso il piccolo corridoio accanto all’entrata, confidando nei suoi dieci anni a “La Gazzetta”, nel suo intuito, quel suo istinto particolare che le intimava “chiudi il becco tesoro e smuovi quei tuoi piedi da papera, magari te ne escono fuori quattrocento parole in prima pagina”. Dopo il guardaroba e la stanza della televisione e due salotti e la stanza del figlio che andava al liceo e la stanza della figlia che faceva le medie, giunsero al seminterrato che conduceva alla piscina. Un tavolo da ping-pong smontato, un tubo di gomma arrotolato, qualche paio di ciabatte da piscina di varie misure, e sul lato sinistro la porta della stanza della filippina, che ora si aggirava fra gli ospiti con un grembiulino di pizzo bianco a forma di cuore legato alla vita. Orenstick si chiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò; Lisi scorse minuscole gocce di sudore sulla fronte e capì che costui aveva deciso di farsi un regalo, ma dopo un primo attimo di spavento rimase lì a specchiarsi negli occhi di lui: un cammello con orecchini di pessimo gusto, l’amica del pianista che si scopa mia moglie, ora gli rendo la pariglia. Lisi valutò se mettersi a urlare. La musica di Jackie arrivava debole e attutita, una specie di coperta che il soffitto aveva rimboccato sopra le loro teste, e lei sapeva che se anche avesse gridato la sua voce non sarebbe mai arrivata fino al giardino e se avesse detto: “Sua eccellenza giudice distrettuale, sono vergine,” lui sarebbe morto dal ridere. Si guardarono a vicenda, due persone abbruttite e stanche, che avevano visto più di quanto uno sia tenuto a vedere nella vita per conservare quel briciolo di innocenza cui ha diritto. Dei jeans quasi da bambina stavano posati sullo schienale di una vecchia poltrona e sul sedile era poggiata una cintura marrone con una fibbia di metallo ornata da un drago. Sul tavolo c’erano una scatola di aspirine e degli orecchini di perle dentro un portacenere 10


impolverato. Lisi si chiese che angosce avesse, la piccola filippina, e se si sentiva sola, così lontana da casa, e pensò che già questo valeva una storia. Sua eccellenza il giudice si scostò lievemente, si piegò in avanti, allungò la mano verso lo spazio fra la schiena e la porta, cercò a tastoni la chiave, e trovatala serrò la porta, gli occhi incollati su Lisi, pronto a ogni reazione. Nell’aria aleggiava un odore di muffa, di polvere, di finestre chiuse e spezie esotiche. Le lenzuola non erano pulite, Lisi provò un certo ribrezzo. Non aveva termini di paragone, ma sapeva che lui era arrabbiato. Arrabbiato per gli amanti di sua moglie e arrabbiato perché lo sapevano tutti, persino Lisi Badichi meglio nota come “Lisi la svitata”, lo straccio del giornalaccio locale, dunque avrebbe scaricato su di lei la sua rabbia. Il dolore fu forte, fendette il suo corpo grande e pesante, e lei pensò: mi sono presa questa misera cosa come le altre donne prendono lo scontrino al supermercato. Aveva le gambe bagnate e aspettava che Orenstick si voltasse per asciugarle con il lenzuolo della filippina, solo che le stava schiacciato addosso, coprendosi gli occhi con le mani, e i suoni che gli sgorgavano dalla gola non erano quelli che lei si aspettava di sentire, cioè non come aveva visto al cinema. Il lenzuolo mandava odore di muffa, Lisi pensò che di sicuro andava a letto anche con la filippina, era entrato qui come fosse stato il padrone di casa. Anche Or… Orensdig aveva i suoi segretucci, non solo la moglie. “Perché non me l’hai detto?” chiese. Ha paura, pensò lei meravigliata, ha paura di me. Giudice distrettuale violenta giornalista. Sì, c’era del potenziale. Persino per un premio. Si sentì grande e buona e forte. Se lo scrostò dal seno, gli levò la mano dagli occhi e guardò le sue sopracciglia chiare e le palpebre rugose, le lentiggini giallastre sulle spalle e le chiazze sulla pelle opaca, fissandosi nella memoria ogni particolare del viso dell’uomo che l’aveva finalmente affrancata dalla verginità. Gli sorrise, gli accarezzò i capelli radi e bagnati, poi sussurrò: “Devi tornare dai tuoi ospiti”. 11


“E tu?” “Io sto bene.” Lui la guardò e lei si accorse che solo in quel momento la vedeva davvero, la guardò come nessuno mai l’aveva guardata; Lisi lo lasciò rimirare la pelle candida e gli occhi castani, un po’ a mandorla, la corta chioma stopposa e i giganteschi orecchini di plastica ancora appesi alle orecchie, simbolo di Lisi la svitata. Si sentì bella. Sentì la fragrante luminosità della propria pelle e, sdraiata così, persino i suoi seni compressi sembravano pieni, turgidi e attraenti. “La prossima volta non farà più male,” disse lui. “Lo so.” “Dove abiti?” “Non telefonarmi, tesoro. Ora sei giudice distrettuale.” D’un tratto scoppiarono a ridere e Lisi si accorse che lui aveva capito che non avrebbe avuto fastidi da lei, si stava rilassando e cominciava persino a divertirsi. “Cosa fa tuo cognato?” chiese Lisi. “Lavora con mio suocero. Commercia nei vini.” “Non gli piace il suo lavoro?” “No.” “Tua cognata ce l’ha con te.” “È gelosa di sua sorella. I Lubitz hanno deciso di scommettere sul mio cavallo.” “Forse perché al tuo cavallo piace correre.” La guardò sorpreso e poi si chinò ad accarezzare con il pollice la morbida baia fra braccio e seno, sollevò l’orecchino sfiorando con le labbra la curva del collo, fra orecchio e capelli, e lei udì il respiro farsi affannoso e il desiderio riaccendersi. Da sopra al soffitto giungeva la melodia ritmata del tango Jalousie. Lisi si domandò se per caso non ci fosse un’altra uscita, dalla parte della piscina. “Sei una ragazza in gamba, Lisi.” “Anche tu sei un tipo a posto, signor Orenstick.”

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Quando arrivò a casa aprì il rubinetto del bagno e si sedette a scrivere le duecento parole sulla festa organizzata in onore di Pinchas Orenstick, il nuovo giudice distrettuale. Si ricordò di infilare il nome di Jackie Danzig e non dimenticò nemmeno di nominare l’Israha, il pianoforte che non abbandonava mai. Il titolo del pezzo era Un eroe dei nostri tempi.

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Estratto da Shulamit Lapid Dalla nostra corrispondente Titolo originale dell’opera: ‫( מקומון‬Mekomon) Traduzione dall’ebraico di Elena Loewenthal e Sarah Kaminski © 1989 by Shulamit Lapid Published by arrangement with The Institute for the Translation of Hebrew Literature © 2014 astoria srl, Milano Prima edizione: gennaio 2014 ISBN 978-88-96919-75-0 Progetto grafico: zevilhéritier

www.astoriaedizioni.it


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