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“Oh Capitano! Mio capitano!” Il capitano di tutti questi uomini di morte che vennero da lui per portarselo via era la Consunzione, perché fu essa a portarlo alla tomba. John Bunyan, La vita e la morte di Mr Badman
Prendersi la tubercolosi a metà della vita è come andare in centro per fare un sacco di commissioni urgenti e venire investiti da un autobus. Quando riprendi conoscenza non ricordi assolutamente niente delle commissioni urgenti. Non ricordi nemmeno dove stavi andando. Adesso le cose importanti sono il dolore alla gamba, le fitte alla schiena, cosa mangerai per cena, chi c’è nel letto accanto al tuo. Per storia personale e indole alcune persone sono più adatte di altre a venire investite da un autobus. Per esempio Doris, che aveva lavorato con me in un ufficio statale. Sua madre aveva un piccolo tumore, il padre una gamba “che proprio non andava”, Doris una quantità di “problemi femminili” e tutti speravano che la nonna avesse il cancro. Doris, i suoi fratelli e le sue sorelle, le zie e gli zii, sua madre e suo padre, sua nonna e suo nonno, tutti loro, avevano cominciato la vita da minuscoli neonati prematuri, formati a malapena, portati in giro su cuscini e nutriti con il contagocce. Se riuscivano ad arrivare vivi al primo compleanno, e ci riuscivano spesso, da quel momento la loro vita era un susseguirsi di continui dolori, patimenti, starnuti e colpi di tosse. Quando Doris o un qualsiasi altro membro della sua grande famiglia malaticcia si chiedevano come stavano non era solo un convenevole: volevano saperlo davvero. Erano così timorosi di ammalarsi che si preparavano per le giornate da raffreddore in anticipo sui germi, come se si allenassero per la partita dell’anno. Il lunedì mattina a colazione Doris 1
annunciava che forse le sembrava di avere un inizio di raffreddore. Tutta la casa si mobilitava all’istante, e per tutta la settimana le davano del tè bollente con whisky e limone, un maglioncino da indossare sotto la camicetta, una quantità di pillole da portare in ufficio con tanto di gocce per il naso – che Doris applicava stesa sulla scrivania con la testa a penzoloni –, un piccolo paravento da mettere intorno alla scrivania per combattere gli spifferi, trattamenti con lampade solari sulla schiena, pediluvi alla senape e tutto l’incoraggiamento del mondo. Al sabato di solito aveva un po’ di “infreddatura”, come la chiamavano in famiglia, e nel corso della settimana successiva la trasformava in qualcosa di grosso. Per Doris e la sua famiglia la tubercolosi sarebbe stata deludente, ma comunque una risorsa. Quindi naturalmente fui io, non Doris, a beccarmi la tubercolosi, e il contrasto tra le nostre due famiglie saltava agli occhi. Tanto per cominciare il motto della mia famiglia era “Tutti stanno bene e chiunque non stia bene è un fetentone”. Secondariamente, in famiglia c’erano cinque figli ma nemmeno un minuscolo neonato prematuro. Avevamo cominciato la nostra vita da neonati grandi e grossi e nati a termine, pieni di vigore e forza e tutti, tranne una, con i capelli rossi come il fuoco. Mio padre, un ingegnere minerario convinto ammiratore della salute, dedicava gran parte del suo tempo libero e delle sue energie a mantenerci sani. Appena fummo in grado, in inverno ci faceva correre intorno all’isolato tutte le mattine prima di colazione, d’estate camminare per chilometri e chilometri tra le montagne con lui e mamma, tutte le sere alle otto ci faceva andare a letto, dovevamo bere dieci bicchieri d’acqua al giorno e giocare sempre all’aperto (perlopiù contro la nostra volontà) quando c’era luce. Con mia sorella Mary e mio fratello Cleve (le mie sorelle Dede e Alison dovevano ancora arrivare) questo regime diede i risultati sperati ma io uscii dall’infanzia magra e verde in viso, e tale rimasi a prescindere da quanto corressi intorno all’isolato; senza dubbio fu questo il motivo per cui ero la nipote preferita di Gammy. 2
Gammy era la madre di mio padre che viveva con noi e minava costantemente il suo regime salutistico. Era una nonna stupenda. Non si stancava mai di leggere a voce alta, cucire abiti per le bambole, raccontare storie e portarci a passeggiare, ma era pessimista, il tipo di pessimista convinto che ogni male venga per nuocere, eccome. In Gammy il pessimismo non era un fenomeno occasionale causato dai nervi o dalla cattiva salute, era una disposizione che durava ventiquattr’ore al giorno, e a lei piaceva moltissimo. Cominciava ad annunciare sciagure al mattino quando papà costringeva Mary, Cleve e me a uscire dalla porta per fare il giro dell’isolato di corsa. Abitavamo a Butte, nel Montana; spesso al mattino il freddo era tagliente e noi bambini, che non eravamo esattamente entusiasti di questo esercizio mattutino, ci precipitavamo fuori dalle nostre stanze e ci sedevamo a tavola per la colazione sperando che papà avesse dimenticato la corsa. Ma non la dimenticava mai. “Mettiamo un po’ di colore su quelle guance,” diceva con entusiasmo, ci staccava a forza dalle dita forchette e cucchiai, ci metteva cappotto e galosce senza tanti complimenti e ci portava fuori nell’aria pungente. Gammy rimaneva in piedi accanto alla porta sventolando il “grambiale” e gemendo: “Darsie Bard, come puoi costringere i bambini a uscire con questo freddo terribile?”. Noi indugiavamo sui gradini respirando fiato caldo nell’aria gelida, e guardandolo fumare speravamo che Gammy addolcisse papà, ma lui si limitava a riderle in faccia e a chiudere con decisione la porta. A quel punto ci avviavamo strascicando i piedi di malumore e spingendoci l’un l’altro giù dal marciapiede, nella neve alta, ma a circa metà dell’isolato il naturale istinto di competizione infantile prendeva il sopravvento e ci sfidavamo a chi andava più forte per il resto del percorso fino a tornare a casa con il sangue in circolo e, nel caso di Mary e Cleve, con le gote arrossate. Il primo che entrava dalla porta sul retro sentiva sempre Gammy dire: “Ecco che arrivano quei poveretti, adesso ci preparo un po’ di Potsum caldo”. (Chiamava sempre “Potsum” il Postum, una bevanda simile al caffè d’orzo.) 3
Dopo averci preparato un po’ di Potsum bollente e servito una porzione troppo abbondante della sua pappa d’avena grigia, collosa e piena di grumi, Gammy prendeva il giornale del mattino e leggeva a voce alta le brutte notizie. “Vedo che quei disgraziati di tedeschi tagliano il seno a tutte le belghe,” osservava amabilmente bevendo un sorso di Potsum. Oppure: “Beh, ecco un povero bambino distratto che giocava sui binari ed è arrivato il treno e gli ha mozzato tutt’e due le gambe all’attaccatura. Povera piccola creatura senza gambe”. Oppure: “Ecco una ragazzina di montagna che ha avuto un bambino a tredici anni. Beh, forse non si è mai troppo giovani per imparare cosa la vita ha in serbo per noi”. Dopo aver esaurito tutte le brutte notizie sulle persone, leggeva i bollettini meteorologici sul brutto tempo di tutto il mondo. Bufere di neve, cicloni, siccità, inondazioni, uragani e onde anomale erano la sua gioia. Mamma supplicava papà di non comprare più il giornale del mattino, ma noi bambini ci divertivamo. Come tutti i bambini, eravamo piccoli mostri assetati di sangue e adoravamo i racconti di Gammy, pieni di brutalità, morte e violenza. Le nostre storie preferite, inventate da Gammy, riguardavano un ragazzino che si infilava fagioli nel naso e gli spuntava un germoglio di fagiolo in cima alla testa, con brandelli del suo cervello appiccicati ai rami, e una bambina che ingoiava un nocciolo di pesca facendo sì che un pesco cominciasse a crescere dentro di lei; alla fine il ramo più grosso le si cacciava in gola soffocandola a morte. I nostri libri preferiti erano Pierino Porcospino e un allegro racconto lasciato in una delle nostre case da un precedente inquilino; parlava di un gruppetto di uomini intrappolati in una grotta a Yellowstone che finivano per mangiarsi l’un l’altro. Il libro narrava con dovizia di particolari l’odore della zuppa fatta con la gamba di Tom e il sapore dolciastro, simile a quello della carne di maiale, delle braccia arrostite di Ernest. Lo consumammo a furia di chiedere a Gammy di leggercelo, cosa che lei faceva volentieri. Gammy era convinta che tutti gli sforzi di papà per mante4
nerci in buona salute fossero una ridicola perdita di tempo e non c’era da meravigliarsene, perché secondo lei l’infanzia era una fase della vita assai pericolosa e, se noi bambini non fossimo stati morsicati dai serpenti a sonagli, divorati dagli animali selvatici, uccisi dai ladri o stecchiti da un fulmine, erano comunque in agguato dietro l’angolo catarro, consunzione e lebbra. Gammy diceva che catarro, consunzione e lebbra erano malattie comunissime tra i bambini, ed erano causate dal giocare con lo slittino fino a tardi, non rifarsi il letto, bisticciare, non dare da mangiare ai polli, frequentare cattive compagnie, non lavarsi le mani, barare a croquet, essere sfacciati e mangiare troppe uova. Prima imparammo cos’erano il catarro e la consunzione. La lebbra arrivò un po’ più tardi. Gammy diagnosticava qualsiasi problema di salute dal collo in su come “catarro” e qualsiasi cosa dal collo in giù come “consunzione”. Del catarro non avevamo paura. Era solo una vecchia conoscenza che ci faceva gocciolare il naso e spesso preannunciava una delle malattie infantili meno interessanti come morbillo, scarlattina o varicella. La consunzione però era diversa. Rimaneva vaga in quanto a cause ed effetti, ma sembrava infallibilmente mortale e facilissima da prendere. Basti pensare alla “povera piccola Beth”, a Robert Louis Stevenson, Chopin, Keats, O. Henry, Elizabeth Browning, Thoreau e Paganini. Sapevamo della consunzione perché a Gammy piaceva moltissimo leggerci a voce alta e sepolcrale “il capitano di tutti questi uomini di morte che vennero da lui per portarselo via era la Consunzione…”. Mary aveva un brutto raffreddore quando Gammy ci lesse per la prima volta quel passaggio da La vita e la morte di Mr Badman, e ricordo che Gammy volgeva spesso lo sguardo verso di lei e mormorava: “Poverina”. Eravamo così certi che Mary avrebbe preso la consunzione che Cleve e io litigammo per decidere chi avrebbe ereditato i suoi pattini da ghiaccio. Quando Gammy ci lesse Piccole donne, ci spiegò con voce triste che “la povera piccola Beth” in realtà era morta di consunzione. Ci lesse tutte le poesie di Robert Louis Stevenson indugiando però mor5
bosamente su Quando ero malato e quasi sempre a letto… e ci raccontò che “il povero piccolo Robert Louis Stevenson” aveva sempre avuto la consunzione a causa della quale alla fine era morto. Mary, Cleve e io avevamo perigliosamente raggiunto la veneranda età di otto, sei e cinque anni quando la lebbra entrò nelle nostre vite. Un pomeriggio d’inverno subito dopo pranzo, Gammy ci annunciò che ci avrebbe portato a vedere Charlie Chaplin. Poiché si trattava della nostra prima pellicola cinematografica, fummo immediatamente travolti da un’eccitazione frenetica e prestammo scarsa attenzione mentre lei ci infilava a forza negli abiti l’uno delle altre. Per Gammy gli abiti erano solo coperture per il corpo contro il peccato della nudità, ed era del tutto indifferente all’idea che ci fossero un davanti e un dietro, destra, sinistra e taglie. Accoppiava abiti e bambini con il semplice espediente di afferrare il primo di ogni categoria a portata di mano e costringerli ad adattarsi. Quell’inverno indossavamo tutti ghette di lana blu scuro abbottonate dalla caviglia fino a oltre il ginocchio, dotate di scivolosi bottoncini neri simili a gocce di liquerizia; cappottini alla marinara blu scuro in lana di cincillà, muffole di lana saldamente assicurate l’una all’altra da una lunga cordicella fatta all’uncinetto che si doveva far risalire lungo una manica, passare intorno al collo e far scendere lungo l’altra manica, ma che era più soggetta a finire lungo una gamba e dentro la manica di qualcun altro, o su per una manica e giù nelle insondabili profondità della fodera, e lucenti galosce nere impossibili da distinguere e da mettere o togliere; però scricchiolavano deliziosamente sulla neve dura e asciutta. Mary e io ci distinguevamo da Cleve grazie a cappelli di castoro blu scuro a tesa larga, che Gammy ci cacciò in testa subito dopo aver costretto la mia mano a entrare nella muffola di Mary e averci condotto fuori dalla porta, nella gelida aria invernale. Per via dell’eccitazione scricchiolammo sulla neve per mezzo isolato prima di accorgerci che Mary indossava le ghette di Cleve, che Cleve, paonazzo e sul punto di soffocare, aveva il cappotto 6
abbottonato sulla schiena, e che era anche impedito dalle ghette di Mary, così lunghe per lui che gli strisciavano dietro sulla neve come lunghe ombre della sera, e che tutte le nostre galosce sembravano essere fatte per lo stesso piede. Ci fermammo di botto e chiedemmo di essere risistemati e vestiti come si doveva, ma Gammy disse che non c’era tempo e che lo avremmo potuto fare molto più comodamente dentro il cinema caldo. Mi afferrò la mano e si avviò di nuovo, ma Cleve e Mary non la seguirono. Si misero testardamente a sedere sulla neve e cominciarono a sbottonare faticosamente gli scivolosi bottoncini neri delle ghette con dita rese goffe dalle muffole. Alla fine Gammy fu costretta a tornare indietro e ad aiutarli a scambiarsi di abito, e anche se così stavano molto più comodi perdemmo gran parte del film di Charlie Chaplin. Gammy disse che non importava perché l’avrebbero proiettato tutto di nuovo ma si sbagliava, e fu così che la lebbra entrò nelle nostre vite. Perché quando il film ricominciò invece di Charlie Chaplin proiettarono una lunga e deprimente pellicola sulla lebbra. Ho ricordi vaghi della storia, ma ricordo benissimo un uomo, senza alcun dubbio uno scienziato di valore, che lavorava nel suo laboratorio e all’improvviso sollevava lo sguardo dal microscopio per fissarlo sul pubblico e diceva qualcosa con enormi occhi spaventati. La parola comparve sullo schermo un secondo dopo. Tutta sola, in caratteri neri. lebbra! Gammy ce la lesse e ci spiegò in tono confortante: “La lebbra è una terribile malattia. Non esiste cura. Muoiono sempre!”. Le scene successive mostravano lo scienziato di valore che si lavava con cura le mani molte volte. Poi un giorno, mentre si stava lavando le mani, si guardò il polso, e c’era una macchia bianca grande come una moneta da cinquanta centesimi. Corse da un altro scienziato e gliela mostrò. Poi guardarono tutt’e due la macchia al microscopio, e naturalmente era lebbra. Il resto del film era dedicato a macchie bianche, a piaghe orrende, a braccia e gambe che si staccavano, a una ragazza bellissima che prendeva la lebbra e a un uomo che si buttava da un palazzo. 7
Non ricordo più se rivedemmo Charlie Chaplin o meno, ma ricordo benissimo che ci fermammo sotto un lampione tornando a casa, ci tirammo su le maniche e cercammo le temute macchie bianche, e che per settimane dopo quell’episodio ci controllammo le braccia tutti i giorni mattina e sera alla ricerca di macchie. Diverse volte Cleve si allarmò molto, fino a quando non si accorse che la macchia bianca sulle sue braccia sporche era solo un punto in cui era caduta per sbaglio dell’acqua perché, nonostante la paura, non avevamo ancora raggiunto il livello di disperazione che ci avrebbe convinti a lavarci per bene. Ci venne però in mente che papà, in qualità di ingegnere minerario, era uno scienziato di qualche tipo: cominciammo a supplicarlo di lavarsi meglio le mani e tutte le mattine gli controllavamo il polso. Alla fine volle sapere cosa diavolo ci stesse succedendo, quindi gli raccontammo del film. Ci proibì all’istante di tornare al cinema, poi prese l’Enciclopedia Britannica e ci lesse un lungo, esauriente articolo su lebbra e lebbrosari. Ascoltammo con grande attenzione mentre papà leggeva a voce alta con grande abilità, e confrontammo le sue informazioni con quelle di Gammy. Decidemmo che Gammy ne sapeva di più perché aveva già aggiunto la lebbra al catarro e alla consunzione nell’elenco delle malattie infantili comuni. La lebbra, ci disse, era il risultato immediato e naturale delle cattive compagnie e della scarsa dimestichezza con acqua e sapone. Quando noi bambini avevamo rispettivamente undici, nove, otto e due anni lasciammo Butte e ci trasferimmo a Seattle, nello Stato di Washington. Fino a quel momento, e nonostante le cure di papà sotto forma di esercizio fisico e quelle di mamma sotto forma di buon cibo, avevamo avuto, nell’ordine, morbillo, orecchioni, varicella, congiuntivite, scarlattina, pertosse e tonsillectomia. Fu dopo l’ultima ondata di rosolia che papà cominciò a controllare la storia medica di entrambe le famiglie. Entrambe avevano goduto di una salute eccellente. Gli antenati di mamma erano olandesi e avevano tutti vissuto una vita attiva fino agli ottantacinque o novant’anni. Mamma dal canto suo non si amma8
lava mai. I progenitori di papà erano scozzesi e scoppiavano di salute. Papà, poi, aveva dimostrato il massimo della resistenza fisica diventando alto, bello e vigoroso nonostante la cucina di Gammy. Papà decise che a tutti noi bambini serviva solo metterci in forma, quindi comprò una serie di dischi di esercizi di ginnastica per il grammofono e ci fece alzare alle cinque di mattina per fare un bagno freddo e gli esercizi. Ci iscrisse ai corsi offerti nelle palestre della ywca (Associazione cristiana della gioventù femminile) e della ymca (Associazione cristiana della gioventù maschile). Fece prendere lezioni di danza classica a Mary e a me. Trasformò in palestra la sala da ballo nel seminterrato di casa. Non ci permetteva di mangiare sale. Ci impediva di bere acqua durante i pasti. Ci ordinava di masticare cento volte ogni boccone. Comprava vagonate di mele e ci faceva mangiare fette di pane tostato dure come mattoni e verdure crude. Ci leggeva lunghi, noiosissimi articoli sui cibi naturali e sulle diete degli aborigeni di diversi paesi. Evidentemente una tribù dotata di ottima struttura ossea e denti robustissimi si era nutrita esclusivamente di pesce affumicato perché papà comprò cinquanta chili di aringa affumicata e ci ordinò di masticarla dopo la scuola. Fortunatamente per noi consegnò a mamma istruzioni e aringhe subito prima di partire per un viaggio di lavoro, così lei ci aiutò a buttare tutti i cinquanta chili dentro la fornace. Quando papà tornò a casa circa un mese dopo, si era completamente dimenticato delle aringhe e ordinò un enorme sacco di gallette da farci masticare dopo la scuola. Alla fine ce le mangiammo tutte perché Gammy ci insegnò ad ammorbidirle tuffandole nella cioccolata calda o nel tè Taylor (acqua calda con zucchero e latte). Papà comprò anche cinquanta chili di arachidi, “un cibo naturale ricco di proteine”, che ci parvero un netto miglioramento. Adoravamo le arachidi e ce ne riempivamo le tasche mattino e sera. Per settimane mamma disse che poteva seguire le nostre tracce di gusci di arachidi da casa a scuola e viceversa, e in tutto il quartiere. Riusciva a seguirle anche in casa, con suo notevole fastidio. 9
Quando a papà venne la fissa dei bagni freddi, ci fece dare la parola d’onore, quindi naturalmente baravamo. Andavamo in bagno completamente vestiti e facevamo scorrere l’acqua fredda a tutta forza, rumorosamente. Poi, quando la vasca era piena, ci chinavamo in avanti, agitavamo le mani nell’acqua e urlavamo come se ci stessimo immergendo. Per una meravigliosa settimana neppure una goccia d’acqua fredda sfiorò i nostri corpicini innocenti. Papà non disse nulla. Si limitava a osservarci pensieroso quando tutte le mattine ci mettevamo in fila per fare gli esercizi con un sorriso ebete, asciuttissimi e ovviamente caldi di letto, con i capelli arruffati. Poi andò in centro e comprò alcuni grandi asciugamani inglesi, marroni e ruvidi, e da quel momento in poi supervisionò personalmente la tortura. Dovevamo entrare nella vasca e immergerci tutti, testa esclusa, mentre lui contava lentamente fino a dieci. Poi, quando uscivamo tremanti e immusoniti, ci strofinava via gran parte della pelle dai corpicini bluastri con uno dei grandi asciugamani inglesi. Dovevano averli fatti con una canapa di pessima qualità perché, oltre a essere terribilmente ruvidi, qua e là avevano degli aghetti che strappavano acute urla alla vittima di turno. Gammy si alzava con noi alle cinque tutte le mattine, non perché pensasse che faceva bene alla salute, ma per starsene in piedi in corridoio a gemere: “Darsie Bard, stai portando dritto alla consunzione queste povere creaturiiine”, mentre papà ci portava in branco dai nostri lettini caldi all’acqua gelida del bagno. Salute Perfetta Per Tutti era diventato l’obiettivo di papà, così Gammy aveva calato il sipario sulla lebbra perché troppo improbabile e sul catarro perché troppo comune, e aveva tirato fuori dall’armadio e rispolverato la consunzione facendone di nuovo il nostro spauracchio. Dopo il bagno Mary e io mettevamo una camicetta con il colletto alla marinara e ampi calzoncini neri mentre Cleve infilava pantaloni alla zuava e maglietta, poi andavamo tutti e tre di sotto, imbronciati. Le nostre stanze erano al terzo piano. Al secondo ci raggiungevano nostra sorella Dede, che era troppo 10
piccola per il bagno freddo, e mamma, assonnata e disinteressata al nostro regime salutistico. Dalle scale che portavano al primo piano echeggiava il ritmo rumoroso e gagliardo della marcia Our Director. Era il primo dei dischi da grammofono per l’esercizio fisico. “Sbrigatevi!” chiamava papà dall’ingresso, dove lui e Gammy erano in attesa. Ci mettevamo faticosamente in riga proprio quando la voce nasale dell’uomo del disco cominciava: “Mani sui fianchi, piedi vicini. Testa eretta, spalle indietro! Quando dico uno alzate le braccia…”. Cominciava la musica: “Diaaaaaa, da da, dada, da… daaaaa, da, da, da, da…”. Attaccavamo. Gammy ci osservava per un po’, poi se ne andava in cucina con un “Poveri bambini”, per preparare una farinata o frittelle. Difficile dire quale piatto fosse più indigesto. La farinata, invariabilmente pappa d’avena, era grigia e collosa, e le frittelle, grandi e ben dorate in superficie, avevano lo stesso sapore della lana. Potevamo sognare quelle delizie mentre, dopo gli esercizi, facevamo correndo il giro dell’isolato. Il sabato, dopo il bagno freddo, papà sostituiva il tennis agli esercizi. Camminando a grandi passi davanti a tutti nelle strade pervase dal silenzio del primo mattino, conduceva i suoi riluttanti figlioli in un parco a circa dieci isolati di distanza, dove a quell’ora assurda c’erano campi da tennis sempre liberi. Papà ci insegnò a fare un buon rovescio, a tenere i punti e a piazzare la palla. Con l’ausilio di energici colpi di racchetta sul posteriore ci insegnò inoltre che, anche con lui come compagno, quando si gioca il doppio entrambi i tennisti devono giocare invece di aggrapparsi alla rete a bocca aperta, pensando al letto caldo lasciato così di recente. Papà ci spiegò anche, con parole taglienti, che neppure darci botte in testa a vicenda con la racchetta dopo ogni set era un buon esempio di comportamento sportivo. Ci insegnò a saltare la rete e a stringerci la mano alla fine della partita. Spesso accompagnavamo la stretta di mano con una linguaccia o con i gesti di chi vomita, e papà, che aveva il senso dell’umorismo, ci ignorava. Due anni più tardi Mary e io arrivammo seconde al torneo di tennis della St Nicholas School for Girls e, anche se il nostro 11
gioco lasciava molto a desiderare, facemmo sensazione con il nostro atteggiamento sportivo e l’abilità nel saltare la rete. Cleve è a tutt’oggi un ottimo tennista, ma non sono sicura che si attenga ancora alle maniere apprese nel parco. Dopo il tennis facevamo colazione, poi andavamo in palestra e alla lezione di nuoto. Credo che il mio odio innato per qualsivoglia forma di esercizio fisico e per tutti gli insegnanti di ginnastica sia nato in quei primi anni all’Associazione cristiana della gioventù femminile, la ywca. Le insegnanti erano sempre donnoni mascolini con i capelli corti e tendenze sadiche. Ci facevano arrampicare su corde che arrivavano al soffitto per poi scivolare giù, cosa che ci bruciava le mani e lasciava cicatrici permanenti sui pantaloncini di satin. Mettevano il gran cavallo di pelle marrone così alto che quando riuscivamo a metterci a cavalcioni dopo un salto con rincorsa cadevamo di faccia dalla parte opposta. Quando saltavamo, ruggivano: “Più in alto! più in alto! più in alto!” e ci facevano paura, così partivamo con il piede sbagliato e facevamo salterelli barcollanti invece dei lunghi balzi atletici che pretendevano. Ci facevano mettere in riga per l’appello con mani sui fianchi, piedi uniti e testa girata a sinistra. Quando ringhiavano il nostro nome dovevamo uscire dalla fila, girarci di fronte, dire “Presente”, fare un passo indietro e girare ancora la testa a sinistra. Qualcuna commetteva sempre un errore e ci toccava ricominciare tutto da capo. Nel corso c’erano circa quindici bambine, e a volte tutto quello che combinavamo per due ore era fare un elegante passo in avanti, girarci di fronte e dire “Presente”. Ci lamentavamo moltissimo con Gammy delle insegnanti di ginnastica, e lei era l’ascoltatrice più comprensiva che si possa immaginare. “Associazione cristiana della gioventù femminile, bah,” grugniva mentre ci rifilava di nascosto grandi tazze di caffè forte. Cleve non aveva molti problemi con le sue lezioni di ginnastica per la ragione semplicissima che non ci andò mai. Si presentava religiosamente tutti i sabati alla ymca, ma non in palestra. Si intrufolava nella sala di lettura, dove sedeva in silenzio a sfogliare 12
riviste finché non era ora di nuotare. Dopo la nuotata si univa a noi per il pranzo, a meno che non gli andasse di fare una passeggiata sul lungomare, cosa che capitava spesso. Cleve è sempre stato così. Faceva esattamente quel che gli andava di fare senza mai scomporsi. Quando era in quinta B non gli piaceva l’insegnante, quindi non andava a scuola. A quell’epoca abitavamo in campagna e andavamo a scuola con l’autobus; tutte le mattine Cleve si alzava e saliva sull’autobus, ma non scendeva. Rimaneva al suo posto, e andò su e giù insieme all’autista dell’autobus per tutto il trimestre. L’insegnante avrà pensato che ci fossimo trasferiti. Il trimestre successivo l’insegnante gli piaceva, quindi scendeva dall’autobus e andava a scuola. Lo scoprimmo dall’autista anni dopo, quando l’uomo diventò il nostro lavandaio e prese l’abitudine di passare ore in cucina a bere caffè e ad ascoltare Gammy che parlava degli sprechi continui in casa nostra. A mo’ di prova gli mostrava enormi barattoli aperti ma intatti della marmellata che aveva fatto lei, buttando insieme tutti gli avanzi di frutta, marmellata, gelatine, salsa di mele, burro di arachidi, miele e caramelle, che faceva bollire fino a ottenere un massa gommosa marrone scuro. La chiamavamo “Gammellata” e ci rifiutavamo di toccarla. Quando l’autista dell’autobus raccontò a Gammy che Cleve non era andato a scuola lei commentò: “In questa casa fanno tutti come gli pare,” e sollevò un grosso barattolo della marmellata intonsa. “Guardi qui, dell’ottima marmellata che nessuno si sogna di toccare. Sissignore, facciamo tutti come ci pare in questa casa.” Dopo aver pranzato al bar dell’Associazione cristiana della gioventù femminile, Mary e io facevamo la nostra lezione di danza classica e tutti i sabati tornavamo a casa raccontando a papà delle gambe della nostra insegnante di danza. “Papà, ha le gambe dure come i sassi,” gli dicevamo. “Dovresti venire a toccarle.” Lui scoppiava sempre a ridere, e noi non capivamo il perché. La domenica facevamo passeggiate per osservare gli uccelli. Papà comprò un libro con illustrazioni colorate che parlava degli 13
uccelli dell’Ovest, e armato di libro, binocolo, taccuino, svariati cani e i suoi figlioli disinteressati e in lite gli uni con gli altri, camminava per ore e ore lungo il Lake Washington Boulevard. “Ecco un picchio,” annunciava all’improvviso puntando il binocolo in una zona densa di alberi. Ci fermavamo tutti all’istante, urtandoci l’un l’altro, prendendoci a spintoni e pestandoci i piedi. Dopo aver esaurito spintoni e schiaffi facevamo a turno con il binocolo, puntandolo a terra o su una foglia lontana. Raramente vedevamo qualcosa, ma facevamo finta perché così ci sbrigavamo più in fretta. Le passeggiate per vedere gli uccelli – diventate parte del programma salutista per via delle camminate – erano nate come ultima tappa di un programma intellettuale avviato fin dalla nostra nascita. Appena nasceva un bambino, papà accostava un oggetto ai suoi occhi per vedere se e come vi concentrava lo sguardo. Da piccolissimi eravamo stati testati per il daltonismo, il senso dell’equilibrio e la messa a fuoco, e appena imparammo a parlare cominciammo a fare test dell’intelligenza. “Qual è il contrario di nero?” chiedeva papà. “Bianco,” scattavamo tutti all’unisono. “Di alto?” “Basso.” “Di su?” “Giù.” “Ripetete questi numeri dopo di me,” ordinava elencandone almeno ventisette. “Ditemi un sinonimo di casa.” “Insediamento.” “Di donna.” “Femmina.” “Di maccheroni.” “Spaghetti”. “Di bello.” “Carino.” “Se un bambino cammina alla velocità di quindici chilometri all’ora ed esce di casa alle due…” A volte, passeggiando per avvistare uccelli, cercavamo di fargli rispolverare gli antichi giochi intellettuali. “Giochiamo ai numeri, o a cos’ha in tasca Johnny,” pregavamo, ma a papà non interessava più. Adesso era fissato con la salute e ci faceva saltare i tronchi per terra sul sentiero e afferrare rami per dondolarci sui ruscelli. Il programma salutistico proseguì finché papà non morì tre anni dopo. Circa un anno dopo la sua morte cominciai all’improvviso a sbocciare e a trasformarmi in una ragazzona grassa e piena di salute, e questo dimostrava o che il programma di papà 14
aveva prodotto risultati concreti o che “pentola guardata non bolle mai”. Quest’improvvisa comparsa di curve fu per me un’esperienza amara, e sfogliavo febbrilmente riviste ritagliando buoni sconto per farmi spedire libri su come dimagrire. Poi, una mattina prima di andare a scuola, respinsi la tazzona di pappa d’avena piena di grumi che Gammy mi aveva piazzato di fronte con un tonfo, e lei gemette: “Dimagrire! Dimagrire! Queste stupide ragazzine. Ti beccherai la consunzione senza nemmeno accorgertene, Betsy”. Peccato che non fosse più viva quando la tubercolosi la buscai davvero. Sarebbe stata una tale soddisfazione per lei! Quando sbatteva una ciotola di pappa d’avena di fronte a Cleve, che non era a dieta ma odiava la pappa d’avena, lui annunciava in tono di sfida: “Voglio le uova”. A quell’epoca, se ben ricordo, nell’intimità di casa indossava una calza di seta nera a mo’ di berretto per lisciare i capelli ricci. La indossava ben calcata sulla fronte, e quell’aggeggio lo faceva sembrare un siluro. La somiglianza con il siluro, insieme alla frase di sfida, gli conferiva un’aria piuttosto pericolosa e Gammy di solito capitolava e gli friggeva un uovo. Prima, però, diceva in tono di minaccia: “Adesso friggo un uovo per tua madre,” spingendo di nuovo la ciotola verso Cleve e comportandosi come se l’uovo l’avesse deposto lei e fosse l’unica cosa in grado di mantenere in vita mamma. “La dieta della signorina Kurshible dice che per colazione dovrei mangiare un uovo, una fetta sottile di pane glutinato e una piccola melagrana matura,” leggevo pomposamente dalla mia ultima dieta. “A me non interessa cosa dice questa signorina Kurshible, io voglio solo un uovo e me lo cucino da solo!” strillava Cleve facendo per alzarsi. “Non c’è bisogno di urlare,” sibilava Gammy a labbra strette. “Cuocerò l’uovo a te e a Betsy.” Così dicendo tirava fuori una padella, la riempiva a metà di grasso, che scaldava fino a riempire la cucina di fumo azzurro, poi vi rompeva dentro le uova, invariabilmente accompagnate da numerosi pezzetti di guscio. Le uova esplodevano al contatto con il grasso e Gammy urlava in tono accusatorio mentre toglieva dal 15
fuoco la padella e la copriva con un grande coperchio. Dopo pochi minuti ci serviva su piatti freddi come il ghiaccio le uova unte e ormai gommose, avvolte in una patina tra il bianco e il grigio, e adagiate precariamente su una fetta durissima di pane tostato. Mentre attaccavamo il manicaretto, Gammy prendeva una cucchiaiata di pappa d’avena da una delle nostre ciotole intatte, la metteva su un piattino, la copriva di latte scremato e la mangiava. Mangiava sempre dai piattini, e quand’era possibile cibo avanzato. Lo faceva senza alcuna ragione, a parte il fatto che secondo lei mangiare non era salutare, e un tratto bizzarro del suo carattere amava la frugalità di quel rituale. Un’altra fissazione motivava la sua avarizia in fatto di uova. Abitavamo in campagna e avevamo i polli, e in cucina c’erano sempre recipienti colmi di grosse uova marroni. Ma stando a Gammy le uova erano per cena e per gli adulti, e per uova intendeva un uovo solo. Solo i pooorci mangiavano due uova. Una volta, durante una delle sue liti a proposito delle uova con noi bambini, un nostro delizioso vicino le disse, senza arrossire e con nonchalance, che a volte lui ne mangiava dieci per volta. Era un vicino adorabile e anche molto bello, ma Gammy non lo perdonò mai. “Ecco la quantessenza del maiale,” borbottava guardandolo passare in macchina la mattina. “Dieci uova,” grugniva mentre lui le faceva un allegro cenno di saluto. Vista l’avversione di Gammy ai “mangioni” e ai loro “occhi ingordi”, pensavo che sarebbe stata felicissima della mia dieta, e credo sarebbe stato così se tutte le diete non avessero richiesto tante uova. “Un vovo a colazione tutte le mattine?” leggeva incredula dalla Dieta miracolosa dei venti giorni. “E un altro uovo a pranzo?” Era inorridita. “Lascia perdere, Betsy,” diceva alzandosi gli occhiali sulla fronte. “È solo una moda inventata da una stupida e ti farà venire la consunzione.” E andò davvero così, ma ci vollero anni e non fu colpa di diete, bagni freddi o di quando baravo a croquet. Delle uova non saprei dire.
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Estratto da: Betty MacDonald, La peste e io Titolo originale dell’opera The Plague and I Traduzione dall’inglese di Valentina Ricci © 1948 by Betty MacDonald © renewed 1976 by Joan MacDonald Keil and Ann Elizabeth Canham By arrangement with the Proprietors. All rights reserved © 2017 astoria srl corso C. Colombo 11 – 20144 Milano Prima edizione: febbraio 2017 ISBN 978-88-98713-63-9 Progetto grafico: zevilhéritier
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