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La luna piena illuminava la strada dritta davanti a lei. Era una lunga strada vuota. Le case avevano imposte chiuse e segreti androni d’ombra. Solo qua e là il battente d’ottone di una porta o il radiatore di un’auto parcheggiata lungo il marciapiede riflettevano la luce della luna. Non c’era rumore di traffico e, nonostante le sirene della contraerea avessero suonato un’ora prima, lei gli aeroplani non li sentiva. “Te la cavi?” le avevano chiesto. “Ce la fai ad arrivare a Paddington? Meglio se prendi un taxi.” Con la testa stavano già in viaggio. Le dettero un bacio di addio, si frugarono in fretta e furia nelle tasche per un impulso dell’ultimo istante. “To’, prendi questo. Per il taxi. Sta’ attenta, eh?” Issarono i bagagli sul treno, si infilarono nel corridoio gremito e scomparvero senza voltarsi in mezzo alla ressa di divise cachi e blu, all’odore di tabacco, uniformi umide, sudore. Le banconote tra le dita intirizzite erano ancora tiepide del loro corpo; spinse i pezzi di carta stropicciata nella borsetta e fece scattare la chiusura. Taxi non ce n’erano. “Se c’è un’incursione,” aveva detto uno dei due, “cerca riparo. Va’ in un rifugio, oppure prendi la metropolitana. Non c’è pericolo nella metropolitana.” Sentendo freddo, infilò le mani nelle tasche. Trovò i guanti, 1
si fermò per calzarli e, alzando gli occhi alla luna, cercò le stelle dietro il suo chiarore. “Londra è meravigliosa al chiaro di luna,” aveva detto uno di loro, “un’austera mescolanza di neri e di grigi, severa, misteriosa…” La memoria della loro voce già svaniva. Ci fu uno scoppio distante di artiglierie e nello stesso istante si udì il ronzio dei bombardieri che risalivano il Tamigi, guidati alla meta dalla luna traditrice. Con un brivido si rialzò il bavero del cappotto. Le scarpe nuove le stringevano le dita: era stata in piedi tutto il giorno e non era abituata al selciato dei marciapiedi. Le tolse e rimase con le calze. Il marciapiede era liscio e ghiacciato. Il calore della sua pelle sciolse la brina, le inumidì i piedi. Quando riprese il cammino, la strada le parve senza fine. In lontananza, un gruppetto di persone uscì di corsa da un angolo per infilarsi in una casa, una lama di luce brillò un istante sull’asfalto nell’aprirsi e richiudersi della porta. Se raggiungeva l’angolo da cui erano apparsi, forse avrebbe ritrovato l’orientamento, capito dove si trovava. Forse c’era un taxi o, se aveva fortuna, una stazione della metropolitana. La decisione di andare a piedi perché nessuno la vedesse piangere ora sembrava sciocca. A un tratto gli aerei furono sopra di lei, da qualche parte lì vicino l’artiglieria prese a sparare e una voce d’uomo urlò, stridula: “Maledetta luna troia!” trasmettendole la sua paura. Si camminava molto meglio senza scarpe. Cercava di non pensare ai bombardieri. Il loro treno doveva esser fuori città, ormai. Superata la periferia, attraversava sbuffando la campagna aperta. Accelerò il passo e mettendosi quasi a correre finse di poter acchiappare la propria ombra, come loro le avevano insegnato in anni passati, quando era ancora piccola e credulona. (“Trattieni il fiato, sta’ calma, corri più veloce che puoi, visto? Ho acchiappato la sua ombra, tu puoi acchiappare la tua, è facile, non ci vuol nulla.”) Avevano fatto quel gioco l’ultima settimana di agosto, al tempo 2
del raccolto, prima che fosse dichiarata la guerra, con loro che correvano e saltavano al chiaro di luna, tra i covoni del grano, alti più di due metri entrambi, le loro ombre bizzarre e bellissime accanto alla sua, così piccolina. Questa sera le erano parsi ancora più alti, alla stazione, quando si erano chinati ad abbracciarla, con la testa già altrove, ma ancora attenti alle buone maniere. “Abbi cura di te.” “Prendi un taxi.” “Meglio la metropolitana.” Quando le bombe cominciarono a cadere si rannicchiò accanto alla rete metallica, tenendosi la borsa e le scarpe sulle orecchie. Finito l’attacco, si mise a correre; doveva arrivare in fondo alla strada. Correndo, evitava le crepe del selciato, allungando e accorciando il passo, come un uccello ferito. Quando l’uomo l’afferrò per il gomito, spingendola su per dei gradini e dentro un portone, lanciò un piccolo grido, a metà tra lo spavento e l’indignazione. Mentre quello chiudeva la porta, prese fiato per protestare. “È più sano, qua dentro,” disse lui, lasciandola andare. “E più caldo. Dove andavi così di corsa?” aggiunse, quando lei, invece di protestare, restò muta. Si stava togliendo il soprabito, che lasciò cadere su una sedia. Lei disse: “A Paddington”. “Avresti fatto meglio a prendere la metropolitana. È più sicuro. Come ti chiami?” “Juno.” Non rise, come facevano tutti; non commentò che doveva crescere ancora un bel po’ per portare quel nome, Giunone. Invece disse: “Bello. E di cognome?”. “Marlowe.” “Stanno bene insieme.” Era alto, ma curvo e fragile, con capelli scoloriti, quasi bianchi. Ansava, come respirasse a fatica. “Andrà avanti così tutta notte,” disse mentre le bombe ricominciavano a cadere. “Queste sembrano dalle parti di Wigmore Street.” La guardò sussultare. “Sembra che un gigante si sia messo a strappare lenzuola, o vele… oh, ecco che fa fuori il miglior lenzuolo di lino! Non ridi? Non ti diverte? Porti sempre le scarpe in mano, tu?” 3
Lei disse: “Mi fanno male. Corro meglio, senza”. Avrebbe voluto chiedergli come si chiamava, dato che lei gli aveva detto il suo nome, ma tacque. Lui disse: “Chiaro. È meglio che resti qua finché l’attacco finisce. Vuoi comunicare a qualcuno dove sei? Telefonare?” Lei disse, no grazie, non era necessario. “Allora andiamo a vedere chi altro c’è in casa. Saranno tutti di sotto. C’è un tavolo robusto in cucina, che sembra ispirare fiducia alla gente, anche se personalmente ho il terrore di restare intrappolato sotto terra e finire sepolto vivo. Le notti come questa le passo su un letto che ho fatto portare in salotto. Ma tu puoi scendere di sotto, se preferisci.” Era colpita dalla sua cortesia. Alla luce fioca del corridoio le parve malato. Alzò la voce per farsi sentire sopra il rombo delle artiglierie, gridò che anche a lei faceva paura stare sotto il livello della strada. Non era il momento per dirgli che era la prima volta che si trovava sotto le bombe. “Bene, allora. Vada per sopra. Io non mi spoglio,” aggiunse precedendola sulle scale che scendevano al piano seminterrato. “Mi sembra poco dignitoso farsi tirare fuori dalle macerie in pigiama. Ma prima vediamo chi c’è di sotto, che congrega si è radunata questa sera.” La gente raccolta in cucina ciondolava attorno al tavolo. Un uomo in uniforme della Marina sonnecchiava con la testa sulle braccia. Due donne sedute sulle seggiole lavoravano a maglia. Davanti alla stufa un donnone rimescolava qualcosa in un tegame. C’erano anche due ragazze in abito da sera e i loro cavalieri, che vestivano l’uniforme della Guardia; bevevano vino, tutti raggruppati, vulnerabili. La donna accanto alla stufa disse: “Ciao, sei in ritardo, pensavamo che fossi rimasto incastrato. Minestra?”. “No, grazie.” Scosse la testa. “E tu, Juno?” Juno disse: “No, no, grazie”. “Che bevete?” chiese lui. “Vino,” rispose una delle ragazze. “Ne vuoi?” 4
“No, ho del whisky di sopra.” Cadde un’altra raffica di bombe. “Queste devono essere dalle parti dello zoo.” La ragazza che non aveva ancora parlato disse: “Chissà dove hanno evacuato i pinguini”. “A Whipsnade?” gridò il suo compagno, scagliando le parole sopra il crepitio dell’artiglieria. “A Whipsnade, sicuro.” In un angolo un uomo starnutì, si soffiò il naso e disse: “Ho un raffreddore terrificante, lo passerò a tutti, chiedo scusa per il contagio fin d’ora”. “Poco importa, se dobbiamo restare uccisi stanotte,” osservò il secondo soldato della Guardia, ridendo, con un’aria di preveggenza. “Oh, Nigel, ma ti pare!” esclamò la sua ragazza. “Stavamo andando a ballare al Café de Paris. È l’ultima sera di congedo di Jonathan,” spiegò. “Ci siamo infilati qui solo fin tanto che si calmi un po’.” La sua voce aveva un che di piagnucoloso che strideva nell’orecchio. Ma venne soffocata da un’altra bomba. La donna che rimestava la minestra disse: “Questa sì che era vicina”. Ma l’uomo con il raffreddore si soffiò il naso e dichiarò: “Secondo me era più lontana delle altre. Tu che dici, Evelyn?”. Tutti si voltarono a guardare Juno e l’uomo che l’aveva portata in quella casa. Juno pensò, Evelyn, che bel nome, non conosco nessuno che si chiama Evelyn. Dunque è così che si chiama. Evelyn disse: “Difficile giudicare. Vieni, Juno, andiamo a berci un whisky”. Si voltarono per tornare di sopra e lui si gridò alle spalle: “Il Café de Paris ha il tetto di vetro. Immagino lo sappiate”. Risero tutti, anche l’uomo che in apparenza dormiva, e uno dei due giovanotti gridò: “Chi vuoi prendere in giro? Il Café de Paris è sottoterra”. “E con questo?” borbottò Evelyn, precedendola di sopra, nell’ingresso e poi su per le scale che portavano al primo piano. 5
Si afferrava al corrimano della ringhiera per salire. Entrato nel salotto, si lasciò cadere in poltrona, ansimando, inseguendo ogni respiro. Lei vide che era mortalmente pallido. “Beh, qua è meglio,” disse lui. “Ti spiace versarmi da bere? La bottiglia è sul tavolo, dovrebbero esserci anche i bicchieri. Prendine anche tu, ti farà bene.” Juno versò un dito di whisky in due bicchieri e ne porse uno a Evelyn. Lui inghiottì un sorso, ringraziò, si lasciò andare contro lo schienale allungando le gambe. Poggiò il bicchiere in equilibrio sul bracciolo e disse: “Non senti che freddo? Puoi accendere il fuoco?”. Lei si inginocchiò per accendere il gas. Le fiamme cominciarono a scoppiettare e gorgogliare tra i carboni finti. Lui disse: “C’è un gabinetto dall’altra parte del pianerottolo, in caso ti serva. Mi slacci le scarpe, per favore?”. Guardandolo da sotto in su, mentre gli slacciava le scarpe, Juno pensò che pareva stremato. Lui disse: “Grazie, Juno. Quelli sono tutti vicini di casa, vengono sempre a rifugiarsi nella mia cucina”. “Non sono la sua famiglia?” “No, no. Vengono qui a farmi coraggio.” “Ma io invece ho percepito la paura,” disse lei. “Naturale. Ma stringersi tutti insieme serve. Ho un sacco di roba forte da bere e la vicina porta la minestra, il che le dà diritto a entrare. Dovevi assaggiarla, è squisita.” “Ero troppo spaventata.” E troppo triste, pensò guardando il bel colore del whisky nel bicchiere. “E allora bevi,” disse Evelyn scrutandola. “Il coraggio non ce l’hanno solo gli olandesi. Dai, butta giù.” Inghiottì, obbediente, cercando di non lasciar trapelare lo stupore. Non aveva mai assaggiato il whisky, anche se ne conosceva l’odore. Sentì l’alcol bruciarle in gola e salirle alla testa e cercò dove sedersi. Ma poiché c’era un’unica poltrona accanto al fuoco e ci stava Evelyn, si accovacciò in terra a gambe incrociate, voltandogli le spalle. 6
Lui disse: “Appena riprendo fiato, mi stendo sul letto, là, e tu ti metti accanto a me, ascolti le bombe e mi racconti la storia della tua vita”. Juno non rispose. Fissava il fuoco che ardeva come il whisky che le bruciava nel petto. Lui disse: “Allora, da dove venivi quando andavi a Paddington, ché sembravi inseguita dal demonio?”. “Da Euston.” “E che ci facevi, a Euston?” Sorrise, intuendo perché l’andatura della ragazza gli era parsa così bizzarra, quando l’aveva vista venire di corsa verso di lui: saltava le fessure tra le pietre della pavimentazione. “Quanti anni hai?” “Diciassette. Ero andata a salutarli.” “Chi?” “Jonty e Francis.” “Chi sono?” “Amici.” “Che partivano per la guerra.” “Come fa a…?” Voltò la testa a guardarlo. “La storia si ripete.” Chiuse gli occhi, si lasciò andare contro lo schienale, risparmiando il fiato. “E così non torneranno.” “Non ho detto questo,” ribatté lui, secco. “Io, per esempio, dall’altra guerra sono tornato. E se può esserti di conforto, in questa guerra probabilmente non ci saranno tanti morti come nell’ultima.” “Ma il dolore sarà lo stesso.” “Ah, vuoi vedere il lato nero delle cose a tutti i costi, eh? Bevi il tuo whisky e raccontami di te e di questi Jonty e Francis. Fratelli?” “Grandi amici. E anche cugini.” “E tu sei innamorata di loro?” “Più o meno.” “E loro sono innamorati di te.” “No! No. Io sono una… una che è lì attorno, per così dire.” 7
“Però ti hanno portata a dirgli addio alla stazione. Bevi, Juno, stai trascurando il bicchiere.” Sorpresa che la chiamasse per nome, obbedì, trangugiando troppo in fretta. Il whisky le salì nel naso, provocando un accesso di tosse. “Asciugati i piedi.” Lui si raddizzò, allungò il braccio a prendere la bottiglia, ricadde nella poltrona con un ansito e le versò di nuovo da bere, piano, prima di abbandonarsi contro lo schienale a occhi chiusi. Lei stese le gambe verso il fuoco, guardando le calze che cominciavano a fumare. Sua zia Violet diceva che quello è il modo per farsi venire i geloni. Portò il bicchiere alle labbra e inghiottì un piccolo sorso, cauta. Evelyn disse: “Continua”. “Non volevano che andasse nessuno della famiglia a salutarli alla stazione, dicevano che li deprimeva troppo.” (Una noia, aveva detto Jonty.) “Ma poi, all’ultimo momento, come per scherzo, hanno portato me.” (“Perché non ce la portiamo dietro per un tratto? Fino a Euston. L’ultimo saluto di casa.”) Si chinò a tirare la punta delle calze, che erano umide e calde. “Siamo venuti a Londra ieri sera, oggi avevano delle compere da fare, calze, cose così. Poi siamo andati al cinema. Ingrid Bergman, l’ha vista?” “Sì.” “Siamo andati a mangiare da Wilton prima del cinema, una gran quantità di ostriche, pane nero e burro. E birra scura per loro. Conosce il posto, no?” “Sì.” “Poi, dopo Ingrid Bergman, siamo andati a cena, anche se era presto. Da Quaglino. Neppure là ero mai stata. Conosce anche quel posto?” “Che cosa avete mangiato?” “Non ricordo.” “Vai avanti.” “Intanto era venuta l’ora di andare alla stazione… Uh!” Si tappò le orecchie con le mani e sussultò, sfiorando le gambe di 8
lui, sotto il sibilo e l’urlo delle bombe che cadevano da qualche parte lì vicino, poi via via più lontano. “Dio, che rumore.” “Neanche tanto, questa volta. Continua. Siete andati a Euston.” “Sì. È tutto qua. Mi hanno detto di prendere un taxi. Tutti e due. Mi hanno dato dieci scellini ciascuno e poi hanno detto, mettiti al sicuro, se c’è un’incursione, meglio se prendi la metropolitana. E sono saliti sul treno.” “Era una contraddizione.” “Non pensavano a quello che dicevano. Con la testa erano già partiti. Li ho visti altre volte così, quando tornavano in collegio, o all’università.” “Tu sei adulta a metà.” “Come?” “Ce l’hai un padre?” “È morto.” “E tua madre?” “È andata in Canada.” “E vuole che tu la raggiunga?” “Ma io non voglio andarci.” “Quando parti?” “Non parto affatto. Non voglio lasciare l’Inghilterra e poi ho paura dei sottomarini, e…” “Vuoi restare il più vicino possibile a Jonty e Francis.” Non rispose. Mosse le dita dei piedi nelle calze quasi asciutte. Passò un’autopompa in velocità, seguita da un’ambulanza a sirene spiegate. L’artiglieria sparava ancora, ma più lontano; si udirono passi affrettati per la strada. Lui disse: “E allora che cosa hai intenzione di fare? Dove vuoi andare? Hai parenti?”. “No, nessuno.” Nessun parente che io sopporti; solo zia Violet, che è molto compita e perbene, e mi asfissia e vuole sempre dire la sua. “No,” ripeté, con l’ostinazione nella voce. Lui disse: “D’accordo, se è così che vuoi, anche se qualche parente ce l’hanno tutti”. Non le credeva. “E allora, dove eri diretta quando da Euston andavi a Paddington?” 9
“Da nessuna parte. A loro ho detto… gli ho raccontato una bugia, non volevo che si preoccupassero.” “Perché? Secondo te Jonty e Francis si preoccupano?” Offesa dal tono derisorio, alzò gli occhi a guardarlo, furiosa. “Cattivo.” Tentò di alzarsi, ma il whisky aveva intaccato il suo senso dell’equilibrio, meglio restare seduta. Cercò il fazzoletto e si soffiò il naso. Disse: “Gli ho lasciato credere che sarei partita per il Canada. Sanno che mia madre ha portato con sé il mio bagaglio e che mi è rimasta solo una valigia. Voglio andare a prenderla e farmi restituire i soldi del biglietto, così ho tempo per pensare cosa fare”. “Ah.” “So bene,” disse, rigida, “che loro non scriveranno.” “Mm… m…” “Non possono. È proibito, dove vanno. Parlano entrambi due lingue, francese e tedesco, saranno addestrati a…” “Jonty e Francis non avrebbero dovuto dirtelo.” Jonty e Francis non sopravviveranno a lungo, pensò lui. “Non me lo hanno detto, sono io che ho origliato.” Articolava le parole con difficoltà. “Devo essere ubriaca, non avrebbe dovuto darmi del whisky. Non ne avevo mai bevuto prima.” “E io come facevo a saperlo?” “Ora li ho traditi!” “Non dire scemenze.” Era stanco. Chiuse gli occhi, inspirò lentamente. La fiammella scoppiettava nella grata, l’incursione si allontanava. Si udirono voci di sotto, nell’ingresso, un rumore di porte che si aprivano e si chiudevano, lo scroscio di uno sciacquone, passi sul selciato. La porta d’ingresso sbatté. Lui disse: “Via, a ballare,” si alzò in piedi con cautela, e andando a sedersi alla scrivania tirò a sé un blocco di carta da lettera, scrisse qualcosa, piegò il foglio, lo infilò in una busta, leccò il risvolto, chiuse e tornò in poltrona. “Per quello che vale,” disse, “ho scritto a mio padre. Lui ti aiuterà, se i tuoi parenti non…” “Ma io non ho…” 10
“Sì, sì, ho capito. Nessun parente. Ma in caso tu non sapessi che pesci prendere, avessi bisogno di aiuto… Tieni, mettila via. Dai.” Juno infilò la lettera nella borsetta. Lui disse: “Ora dammi la mano, sei ubriaca ed è ora di dormire”. La tirò in piedi e la condusse accanto al letto, dove si distese, vestito com’era. Lei si sentiva girare la testa. Sedette accanto a lui, tenendosi il capo tra le mani. Lui disse: “Sdraiati, ti sentirai meglio”. Juno si sdraiò. Lui tirò una coperta su tutti e due. “Non muoverti, dormi.” Lei sapeva che non sarebbe riuscita a dormire, la stanza girava e girava. Gridò: “Io…”. “Che c’è ora?” “Niente, niente.” “Verrà un giorno,” disse lui sgarbatamente, “che Jonty e Francis saranno solo un brutto sogno.” Juno si scostò con un brivido, ma lui la tirò indietro, tenendola ferma con un braccio di traverso sul corpo. Era ubriaca. Avrebbe atteso che lui si addormentasse per sgattaiolare via, uscire dalla casa, scappare. Ma quando suonò il cessato allarme, continuò a dormire, il respiro profondo e regolare. La svegliò il freddo. I piedi intirizziti dove la coperta era scivolata via. La sensazione di gelo dove il braccio di lui le gravava sul petto, la pressione fredda del corpo di lui contro il dorso. Scivolò giù dal letto, in punta di piedi andò alla porta, attraversò il pianerottolo per raggiungere il gabinetto, sedette sulla tazza a liberarsi, ascoltando il silenzio surreale, sollevò un filo la tendina nera, vide che fuori era chiaro e nevicava, la strada era già bianca. Tornò nel salotto a cercare le scarpe che giacevano davanti al fuoco, le calzò. “Evelyn,” disse, ricordando il nome, “Evelyn, nevica.” Lo scosse per un braccio, che ricadde inanimato. Toccò il volto con il dorso della mano, trattenne il respiro, ma non sentì quello di lui, capì che era morto. 11
Cinque minuti dopo? Dieci? Un attimo solo? Piano piano uscì sul pianerottolo, le orecchie tese. La ringhiera di mogano invitava a scendere nell’ingresso. Si appoggiò al corrimano, sollevò i piedi e si lasciò scivolare, un tratto, un altro tratto. Quando fu di sotto, aprì il portone e uscì. Quando finalmente lo scompartimento si svuotò dei passeggeri in divisa, diretti tutti allo stesso campo, Jonty si lasciò andare contro lo schienale del sedile d’angolo, allungando le gambe. A loro due restava ancora mezz’ora di viaggio. Pensò che ora, con il vagone vuoto, potevano parlare. Si protese avanti ad aprire il finestrino, far entrare aria fresca, liberarsi dall’odore di troppi giovani corpi ammassati in uno spazio troppo esiguo. “Così va meglio,” disse. Sul sedile di fronte Francis fissava il vuoto, gli occhi chiari senza espressione, il viso vacuo. Erano simili ai suoi i pensieri che si affollavano nella mente dell’amico? Lo avrebbe schernito se gli avesse comunicato quello che pensava, che avrebbero fatto meglio a cercare una donna esperta, la prima volta? Avrebbe ammesso di aver avuto la sua stessa identica paura di vedersi deriso? Sarebbe stato terribile, e avvilente, essere fatti oggetto di riso da parte di una donna sconosciuta. Se non altro avevano evitato quel baratro. Se l’erano cavata, anche senza esperienza. Ma certo anche Francis doveva riconoscere che un po’ di esperienza non avrebbe guastato. Strano come il silenzio avviluppasse le ultime ventiquattr’ore, rendesse difficile il dialogo; non era possibile, ora, parlare della comune avventura. Davvero una delle cose più importanti che possono accadere a un uomo non si poteva discutere con l’amico del cuore, con il proprio cugino? Pure, così stavano le cose, a quanto pareva. Jonty sospirò, aprì la bocca per dire qualcosa, la richiuse, accavallò le gambe in un senso, poi nell’altro. Forse Francis pensava che tutto fosse andato bene. Che non avessero commesso abuso di sorta. O forse credeva che tutto fosse lecito perché lei era innamorata di loro, che dunque loro non si 12
erano spinti troppo in là? Possibile che in cuor suo non provasse le fitte del rimorso? Possibile che non temesse che la loro ignoranza, la loro goffaggine, l’avessero disgustata? Non che lei potesse rendersi conto di quanto erano ignoranti. No, Francis avrebbe detto che, fossero mai venuti a parlarne, probabilmente con una donna esperta avrebbero rischiato di beccarsi lo scolo, quante volte li avevano messi in guardia? Magari, invece, Francis pensava se la fossero cavata alla grande, che quando si era trattato di venire al dunque avessero condotto magistralmente tutta la faccenda. A ogni buon conto, era andata così, quel che era fatto era fatto. E lei era innamorata di loro, no? Jonty lanciò un’occhiata al cugino e volse gli occhi altrove. Di fronte a lui, Francis borbottò qualcosa, si alzò, uscì e si avviò al gabinetto in fondo al corridoio. Sbottonandosi la patta, si accorse che il pene gli doleva. Ci siamo comportati in modo brutale e crudele, pensò. Tornò allo scompartimento, disse: “Tra poco ci siamo,” calò la valigia dalla rete, provò l’impulso di rivolgere una parola di conforto a Jonty, non gli venne in mente nulla. Avrebbe voluto dire: “L’abbiamo trattata come un giocattolo. Mai più. Non avremmo dovuto farcela tutti e due”. Ma Jonty avrebbe potuto dargli del sentimentale. Jonty avrebbe potuto ridere.
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Estratto da: Mary Wesley, Come un soprammobile Titolo originale dell’opera: Part of the Furniture Traduzione dall’inglese di Paola Mazzarelli © 1997 by Mary Wesley Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria, on behalf of Toby Eady Associates Ltd. © 2014 astoria srl, Milano Prima edizione: febbraio 2014 ISBN 978-88-96919-62-0 Progetto grafico: zevilhéritier
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