Agatha Raisin e i giorni del diluvio

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Era una di quelle giornate grigie in cui una pioggerella leggera ti vela il parabrezza e i rami degli alberi spogliati dall’inverno sgocciolano tristi, formando pozzanghere che sembrano un pianto per l’estate perduta. Agatha Raisin accese la ventola per disappannare il vetro dell’auto. Sentiva di avere dentro di sé un buco nero, il complemento perfetto per la cupezza della giornata. Era diretta all’agenzia di viaggi di Evesham, con un unico pensiero martellante in testa. Andare via… andare via… andare via. Sì, perché l’infelice Agatha si sentiva rifiutata. Aveva perso suo marito, che non le era stato portato via da un’altra donna, ma da Dio in persona. James Lacey era in Francia, in un monastero, e si stava preparando a prendere i voti. Sir Charles Fraith, che le era sempre stato amico, e le era stato vicino quando James era scomparso, si era appena sposato a Parigi, e non l’aveva neppure invitata al matrimonio. Era venuta a sapere delle nozze leggendo un trafiletto sulla rivista “Hello”. E c’era anche una fotografia di Charles con la sposa, una francesina minuta, snella, giovane, tale Anne-Marie Duchenne. Di pessimo umore, l’attempatella 1


Agatha lasciò correre l’auto lungo la discesa di Fish Hill, in direzione di Evesham. Sarebbe fuggita da tutto quanto: dall’inverno, dal villaggio di Carsely e dai Cotswolds, dove abitava, da un cuore infranto e dalla sensazione di rifiuto. Per quanto, rifletté, i cuori non si spezzano. Sono le viscere che si contorcono per il dolore. Sue Quinn, la proprietaria del Giramondo, alzò lo sguardo all’arrivo di Agatha Raisin e si chiese che cosa fosse capitato a quella cliente, di solito così vispa e sicura di sé. I capelli di Agatha mostravano il grigio della ricrescita, i suoi occhietti ursini erano tristi, la bocca aveva gli angoli all’ingiù. Agatha si lasciò cadere su una sedia di fronte a Sue. “Voglio partire,” disse, guardando distrattamente i manifesti appesi al muro, le pile di opuscoli di viaggi dai colori vivaci, e poi tornando a fissare la carta geografica del mondo appesa al muro, alle spalle di Sue. “Bene, vediamo,” disse Sue. “Un posto al sole?” “Magari. Non saprei. Un’isola. Un luogo remoto.” “Le è successo qualcosa di brutto?” chiese Sue. La lunga esperienza nel ramo le diceva che le isole erano la meta preferita delle persone infelici. Infelici, oppure alcolizzate. Le isole le attiravano come una calamita. “No,” rispose Agatha, seccamente. Era talmente infelice da non aver alcuna voglia di confidarsi con chicchessia, e aveva la sensazione morbosa che questa sua infelicità la potesse ancora tener legata a James Lacey. “D’accordo,” disse Sue. “Mi faccia vedere. Lei ha l’aria di una cui un po’ di sole farebbe bene. Ecco qui; che ne dice dell’Isola di Robinson Crusoe?” “E dove si trova? Io non voglio uno di quei posti da Club Med.” 2


“Fa parte dell’arcipelago Juan Fernández.” Sue fece ruotare la sedia e indicò un punto sulla carta. “Appena al largo della costa del Cile. Fu qui che approdò, naufrago, Alexander Selkirk.” “E chi è?” “Un marinaio scozzese che naufragò in quelle acque. Daniel Defoe venne a sapere della sua storia e scrisse Robinson Crusoe, ispirandosi alle avvenure di Selkirk.” Agatha aggrottò la fronte per la concentrazione. A scuola l’aveva letto, Robinson Crusoe. Non ricordava un granché, però il titolo le evocava un’immagine remota di spiagge coralline e palme. Avrebbe passeggiato sulla sabbia, avrebbe assaporato il sole e rimesso insieme i pezzi della propria vita. Scrollò stancamente le spalle. “Mi pare vada bene. Prenotiamo pure.” Tre settimane dopo, Agatha era al sole e al caldo nell’aeroporto Tobalaba di Santiago, e fissava il minuscolo apparecchio delle linee aeree lassa che l’avrebbe portata fino a Robinson Crusoe. C’erano solo altri due passeggeri: un uomo magro e barbuto, e una donna giovane e graziosa. Il pilota si presentò e li invitò a salire a bordo. La ragazza si sedette al posto del copilota, e Agatha e l’uomo barbuto sulle poltroncine di una fila laterale. L’altra fila era ingombra di rotoli di carta igienica e di panini. Il bagaglio di Agatha si limitava, come da istruzioni, a un’unica sacca da viaggio. Però la temperatura dell’aria a Santiago si aggirava attorno ai trentotto gradi, e quindi Agatha aveva messo in valigia solo biancheria e abiti leggeri. Il pranzo era contenuto in un sacchetto di carta: una lattina di Coca-Cola, un tramezzino e una confezione di patatine fritte. L’aereo decollò. Agatha guardò in basso, la vasta distesa 3


della capitale cilena, e poi le vette aride delle Ande. Puntarono verso il Pacifico, ad Agatha si appesantirono le palpebre e si addormentò. Si svegliò un’ora dopo. Sapeva che era inutile tentare di chiacchierare con i compagni di viaggio, perché lei non parlava spagnolo e loro non parlavano inglese. E a parte le miglia e miglia di oceano, non c’era proprio un bel niente da vedere. Si dimenò sul sedile, infelice, e rimpianse di non essersi portata un libro da leggere. Il pilota aveva un giornale aperto sopra i comandi. Agatha si augurò che sapesse dove stava andando. E poi, all’improvviso, dopo altre due ore di volo sopra l’oceano apparentemente infinito, e proprio quando Agatha stava ormai cominciando a pensare che non sarebbero mai arrivati, ecco apparire l’Isola di Robinson Crusoe. Uao! Sembrava emergere dal mare simile a un cavallo imbizzarrito, nera e frastagliata, come se il Pacifico l’avesse appena vomitata. L’aeroplanino puntò sbuffando verso una parete rocciosa a picco sul mare, vicina, sempre più vicina. Che succede? pensò Agatha mentre l’aereo cominciava a innalzarsi di quota di fronte alla roccia. Non ce la faremo mai. Ma con un rombo improvviso il velivolo si sollevò bruscamente e scavalcò la sommità della montagna, per poi atterrare in un campo. Non c’erano edifici, e neppure una torre di controllo, solo una distesa pianeggiante di terra rossa e polverosa. Venne fuori che il pilota era in grado di spiccicare un po’ d’inglese. Agatha capì che i passeggeri avrebbero dovuto scendere a piedi per andare a prendere una barca, e che i bagagli e il carico sarebbero stati trasportati a parte. Aveva la pelle d’oca. Nonostante il sole, l’aria era fresca. Pareva una bella giornata estiva nelle Highlands scozzesi. Agatha non si rese conto di essere entrata in una zona subtropicale. Sapeva solo che avrebbe dovuto infilare un maglione in 4


valigia. La ragazza graziosa che aveva viaggiato con loro indicò la strada da prendere, e insieme al tizio barbuto attraversarono la distesa arida e rossa del campo di volo, su cui le locuste svolazzavano e saltavano come tanti pezzi di carta velina sbatacchiati dal vento. La strada scendeva a curve. La jeep con il carico di merci e i bagagli li superò con grande strepito. “Bastardi,” borbottò Agatha, che frequentava solo alberghi a cinque stelle. “Avrebbero potuto darci un passaggio.” E quando ormai cominciava ad avere mal di gambe per tutto quel camminare, Agatha vide apparire sotto di sé il mare, un’insenatura e una lancia che galleggiava ferma all’ancora. Nell’acqua verdeazzurra nuotavano foche distese sul dorso. Centinaia di foche. Sul pontile c’era già gente in attesa, tutti giovanotti con lo zaino sulle spalle. Agatha, quando era infelice, adorava essere viziata e sentirsi oggetto di mille attenzioni. Quando, una volta caricato a bordo il bagaglio, la gente si imbarcò e furono distribuiti a tutti i giubbotti salvagente con l’invito ad accomodarsi sui boccaporti, Agatha si pentì di non essere rimasta a casa. “Inglese?” chiese un tizio alto con l’aria dell’escursionista. “Sì,” disse Agatha, grata di poter parlare dopo un silenzio forzato. “Quanto ci metteremo ad arrivare?” “Circa un’ora e mezza. Ci si arriva anche in automobile, volendo, ma la strada è piuttosto impervia.” “Sembra tutto piuttosto impervio,” osservò Agatha. Sopra di lei si levavano alte nel cielo azzurro montagne nere e scogliere a strapiombo. Niente spiagge. Nulla, solo rocce brulle. Uno scenario ideale per un film dell’orrore o sui marziani. Incredibile, pensò Agatha, come la televisione satellitare ci faccia dimenticare che il mondo resta ancora un posto davvero vasto. 5


“Me l’ero immaginata come un’isola tropicale,” disse. “Solo perché Daniel Defoe aveva ambientato Robinson Crusoe ai Caraibi.” “Oh,” disse Agatha, e ripiombò nel suo silenzio plumbeo. Si rasserenò solo quando la lancia entrò nella baia di Cumberland e si videro un piccolo centro abitato, alberi e fiori. Si rivolse all’escursionista alto. “Dove si trova il mio albergo? Il Panglas?” “Laggiù. Quel tetto rosso.” “Ma come ci arrivo? Mi pare sia lontano miglia e miglia.” “A piedi,” disse quello, e lui e i suoi compagni risero di gusto. Sbarcarono su un molo. La ragazza carina tirò Agatha per la manica e la condusse fino a una jeep. “Ci danno un passaggio,” disse Agatha, con sollievo. Ma il sollievo fu di breve durata. La jeep si avviò sobbalzando e procedette a scatti per una strada piena di cunette, che pareva più il letto asciutto di un torrente, poi sterzò per costeggiare il ciglio di una scogliera, e infine si tuffò lungo una discesa ripida per poi risalire quasi in perpendicolare, e con il motore che ululava, il pendio di fronte. Quando torno, io Sue la uccido, pensò Agatha, e poi si rese conto con un leggero shock che dal campo di atterraggio fino a quello spaventevole viaggio in direzione dell’albergo non aveva pensato a James neppure per un istante. Registrò con sollievo che l’albergo era bello. C’era un ampio salone con vetrate panoramiche affacciate sulla baia. La camera era molto piccola, ma il letto era confortevole. All’esterno del salone c’era un terrazzo con delle poltrone. Agatha frugò in valigia e indossò una maglietta con sopra una maglia a maniche lunghe. 6


Uscì sul terrazzo e ordinò un bicchiere di vino a un cameriere premuroso. Il sole era caldo e l’aria era come champagne. Nel suo corpo cominciò a farsi largo una curiosa sensazione di benessere. Che posto strano, pensò. Le parve quasi di sentir sollevare il drappo nero che le gravava addosso. Il suo umore migliorò ulteriormente all’ora di cena, quando come antipasto le servirono una delle aragoste più grosse che avesse mai visto. L’affrontò con gusto e poi si guardò attorno, studiando gli altri commensali. La ragazza carina c’era, il tizio barbuto no. Il tavolo centrale era occupato da una famiglia numerosa, che parlava spagnolo. Era composta da una coppia palesemente sposata, un uomo e una donna snelli e atletici, con tre figlie – tre belle bambine –, poi c’erano una donna di mezza età e un giovanotto. Alla destra di Agatha, un uomo e una donna, marito e moglie, stavano mangiando l’aragosta in silenzio. Sentì tornare strisciando un pizzico della vecchia infelicità. Non sapeva una parola di spagnolo. Era naufraga sull’Isola di Robinson Crusoe e condannata al silenzio per il resto del soggiorno. La donna di mezza età, che nel frattempo le aveva lanciato qualche occhiatina di straforo, all’improvviso si alzò e andò al tavolo di Agatha. “Ho saputo dal personale che lei è inglese,” disse. Aveva una faccia paffuta e materna e occhi piccoli e scintillanti. “Mi chiamo Marie Hernández e sono qui con mia figlia e mio genero, e con mio figlio, Carlos. L’albergo non ha molti ospiti. Magari potremmo sedere tutti insieme?” Agatha consentì di buon grado. Si unì alla famiglia Hernández, e lo fece anche la ragazza carina, ma l’uomo e la donna taciturni si limitarono a scuotere la testa e rimase7


ro dov’erano, nel loro angolo. A parte le piccole, tutti gli Hernández, che erano di Santiago, parlavano inglese, e traducevano a beneficio della ragazza carina, la quale disse di chiamarsi Dolores. E anche loro, come Agatha, dissero di essersi aspettati in realtà un’isola tropicale. Marie annunciò di avere in valigia un maglione d’avanzo e che lo avrebbe prestato ad Agatha. Marie spiegò ad Agatha che l’isola era un parco nazionale. Suo figlio Carlos si premurò di tenerle una lezione sulla storia di Alexander Selkirk. Costui era un marinaio imbarcato sul Cinque Ports, una nave corsara, e per tutto il tempo mentre circumnavigavano Capo Horn non aveva fatto che lamentarsi della sistemazione e del vitto a bordo. Quando la nave raggiunse Juan Fernández per fare rifornimento di acqua dolce, Selkirk chiese di essere lasciato a terra con un moschetto, della polvere da sparo, e una Bibbia. Ma quando vide che il capitano era davvero intenzionato ad accontentarlo, Selkirk disse di aver cambiato idea, però il capitano ne aveva avuto abbastanza di quel marinaio brontolone, e così lo piantarono lì. La maggior parte dei naufraghi si sarebbe sparata o sarebbe morta di fame, invece Selkirk fu salvato dalle capre, introdotte dagli spagnoli, le abbatté con il moschetto usandone le pelli per coprirsi e le carni per nutrirsi. Sopravvisse per quattro anni, fino al 1709, quando arrivò il suo salvatore: Woodes Rogers, comandante delle navi corsare Duke e Duchess, con il famoso pirata William Dampier. Quando Selkirk tornò a Londra, era una celebrità. Ad Agatha, che non era avvezza a fare amicizia con facilità, alla fine del pasto pareva di conoscere quella famiglia già da un bel pezzo. Dolores imparava parole inglesi con rapidità stupefacente. Nell’avviarsi a letto, Agatha lanciò un’occhiata incurio8


sita alla coppia che non si era unita a loro. La donna era bionda, una bionda tinta, molto attraente anche se un po’ del genere pupattola, e l’uomo era bruno, dall’aria latina. Erano seduti vicini su uno dei divani nel salotto. La donna gli stava sussurrando qualcosa nell’orecchio, concitata, e lui le accarezzava la mano. Agatha percepì che c’era qualcosa che non andava. Forse il viaggio l’aveva stancata al punto da provocarle strane fantasie. Andò a letto e piombò nel primo sonno senza sogni dopo tanto tempo. L’indomani mattina a colazione, Marie disse che il programma della giornata prevedeva una camminata fino al posto di vedetta di Alexander Selkirk. Indicò la coppia silenziosa. “Chiederò se vogliono venire anche loro.” Si avvicinò al loro tavolo e si tuffò in un rapido discorso in spagnolo. Ma a quanto pareva la coppia non aveva voglia di prendere parte all’escursione. Dopo colazione, scesero tutti la scalinata che portava giù dalla scogliera davanti all’albergo, dove un dipendente li caricò su un gommone, divisi in due gruppi, per portarli a San Juan Bautista, l’unico insediamento sull’isola. “Mezzogiorno di fuoco,” disse Dolores che a quanto pareva possedeva un vocabolario inglese limitato quasi esclusivamente ai titoli dei film. Guardò la strada principale, ampia, polverosa e deserta e tutti risero mentre Dolores estraeva e faceva ruotare una pistola immaginaria. Cominciarono a inerpicarsi, prima per una rampa di gradini poco ripida, poi su un sentiero in terra battuta. Il torrentello sotto di loro era fiancheggiato da parecchie varietà di fiori selvatici. Poi entrarono nel silenzio di una pineta. Agatha cominciò ad avere le gambe indolenzite, ma sentì di non potersi arren9


dere mentre la paffuta Marie marciava impavida e perfino le bambine non manifestavano alcun segno di cedimento. Continuarono a camminare finché Agatha non si fermò di colpo nel vedere un lampo rosso. “Cos’era quella roba?” “Colibrì,” disse Carlos. Aspettarono e osservarono. Colibrì verdi e rossi frullavano tutt’attorno. Qualcosa, nella loro bellezza, fece venire un groppo in gola ad Agatha, che all’improvviso si sedette su una roccia e scoppiò a piangere. Le si avvicinarono tutti, abbracciandola e baciandola mentre Agatha raccontava la storia del suo divorzio. Finito il racconto, Marie disse: “E così lei comincia un nuovo capitolo, qui sull’Isola di Robinson Crusoe. Un gran posto per i nuovi inizi, no?”. Agatha le fece un sorriso lacrimoso. “Mi dispiace, però mi sento molto meglio.” “Adesso facciamo il picnic,” disse Marie, con tranquillità, “e ci riposiamo un attimo. Prima che lei scendesse a far colazione, mi stavo facendo qualche domanda sulla coppia che non ha voluto venire con noi. Si chiamano Conchita e Pablo Ramón, abitano a Santiago anche loro. Sono in luna di miele.” “Strano, però,” disse Agatha, scartocciando un panino. “Non sembrano una coppia in luna di miele.” “No. Lei lo ama molto, credo. Ma lui la guarda come se stesse aspettando qualcosa.” “Forse pensa di aver fatto un errore,” azzardò Carlos. Finirono di mangiare e, sebbene nessuno parlasse più dello sfogo di Agatha, lei si sentì avvolta in una calda coperta di amicizia e simpatia. Per arrivare al punto di vedetta occorreva un ultimo tratto di arrampicata lungo una parete di roccia. Agatha e Marie dichiararono che si sarebbero fermate lì 10


con i bambini, mentre i più atletici scalavano. “Lei è cattolica?” chiese Marie. “No,” disse Agatha. “Non sono nulla, in realtà. Frequento la chiesa del mio villaggio – è una chiesa anglicana – perché la moglie del pastore è una mia amica.” “E suo marito? Era cattolico?” “Prima? No.” “Però non capisco. Come ha potuto farsi monaco essendo divorziato e nemmeno cattolico?” “Quando è entrato nel monastero non lo ha detto.” “Ma adesso lo sanno di sicuro.” “Forse non considerano il nostro un vero matrimonio, visto che io non sono cattolica. Ma parliamo d’altro,” si affrettò a dire. Poi l’attenzione di Marie fu monopolizzata dalle bambine. Agatha guardò la vasta distesa del Pacifico e fu colta da un pensiero improvviso. E se James non avesse avuto davvero intenzione di prendere i voti? E se avesse voluto semplicemente liberarsi di lei e il monastero gli fosse sembrato una buona scusa? Il loro divorzio era stato amichevole. Avevano parlato di argomenti neutri – di pettegolezzi di villaggio, della vendita della casa di James – ma della fede appena trovata non avevano mai discusso. Al pari degli altri ospiti, Agatha aveva prenotato una stanza al Panglas per una sola settimana. I giorni successivi furono un sogno, tra l’aria fresca e l’attività fisica. Visitarono la grotta di Robinson Crusoe, camminarono sulle colline, tornando che era buio, felici e stanchi morti. La bellezza strana di quel posto, il suo essere lontano dal mondo sembravano possedere un certo non so che in grado di guarire il passato e ridare coraggio. 11


La sera lo sguardo di Agatha finiva per scivolare sulla coppia in viaggio di nozze. L’ultima sera, la sposina aveva le guance accese, era vivace e parlava in uno spagnolo veloce. Suo marito era appoggiato allo schienale, l’ascoltava con espressione impenetrabile, ma con quella strana aria di essere in attesa di qualcosa. Gli addii furono pieni di affetto e lacrime. Agatha e Dolores avrebbero preso un volo successivo a quello della famiglia. Si scambiarono gli indirizzi e la promessa di restare in contatto. “Triste,” disse Dolores. “Sì, triste,” confermò Agatha, “però tornerò.” Agatha spezzò il viaggio di ritorno con un breve soggiorno a Rio de Janeiro in un albergo di lusso. Ma non se lo godette molto. Faceva un caldo terribile, l’afa era soffocante. Andò a vedere il Pan di Zucchero e poi decise di non fare altre esplorazioni. Tra i dépliant a disposizione in albergo ce n’era uno che pubblicizzava un giro turistico nei quartieri più poveri, per vedere come si viveva laggiù. Ma che razza di gente è, si stupì Agatha, quella che si iscrive a un tour del genere e va a fissare imbambolata degli sventurati? Fu un sollievo quando finalmente si imbarcò su un volo British Airways diretto a Londra. Aveva preso un biglietto in classe turistica. Era sul fondo dell’aereo. C’era un unico schermo, là dietro, e così Agatha non riuscì a vedere neppure un film e per tutta la notte batté i denti per colpa del getto di aria condizionata. Si lagnò con un’assistente di volo, che scrollò le spalle e disse: “Okay,” e poi se ne andò. Non cambiò nulla. La gente si contorceva per infilarsi un maglione, o si infagottava nelle coperte, e nessuno, a parte Agatha, manifestava alcun desiderio di protestare. Maledetti inglesi, pensò, 12


acchiappando finalmente uno steward. Lui la guardò male e poi annuì. L’aeroplano si scaldò, alla buon’ora. In futuro, si disse Agatha, in un museo avranno un esemplare di questo aereo infernale e la gente si meraviglierà che degli esseri umani potessero viaggiare in condizioni simili, proprio come oggi ci stupiamo nel vedere com’erano stipati i passeggeri sulle vecchie navi. A Gatwick non c’era un gate disponibile per il loro volo e così dovettero sopportare una snervante attesa prima di essere caricati sugli autobus che attraversavano la pista. Agatha partì per la lunga camminata verso il ritiro bagagli. Cominciò a pensare che l’aereo fosse atterrato nel Devon, e che i passeggeri dovessero arrivare a piedi a Gatwick. Quando recuperò i bagagli, era ormai furibonda. Ma il malumore svanì non appena ebbe localizzato la macchina e si fu avviata lungo la strada verso casa. Cominciò a preoccuparsi per i suoi gatti, Hodge e Boswell. Li aveva affidati alla donna delle pulizie, Doris Simpson, che andava tutti i giorni a prendersene cura. James se n’era andato. Charles pure. I gatti erano gli unici rimasti nella sua vita. Il viaggio era stato un volo notturno e Agatha non era riuscita a dormire per il freddo. Quando imboccò la strada dei Cotswolds che portava al villaggio di Carsely, e dunque a casa, gli occhi le si chiudevano quasi per la stanchezza. Il suo cottage dal tetto coperto di paglia sonnecchiava in Lilac Lane, sotto un cielo invernale. Agatha parcheggiò ed entrò in casa. I gatti le vennerono incontro, stiracchiandosi e sbadigliando e strofinandosi contro le sue gambe. Lei si accovacciò e li accarezzò e poi si vide riflessa nel grande specchio che aveva sistemato nell’atrio in modo da potersi dare una controllata prima di uscire. Si raddrizzò lentamente e si guardò con attenzione. 13


Notò la ricrescita grigia, la pelle opaca e la figura appesantita, e trattenne il fiato. Si era lasciata andare! E tutto a causa di due uomini inutili, per cui non sarebbe valsa proprio la pena di affliggersi. Chiamò il suo solito salone di bellezza di Evesham, Ali di Farfalla, e fissò un appuntamento per l’indomani. “Rosemary ha un corso di pilates,” disse la segretaria, “quindi al mattino non è disponibile. Dovrebbe venire nel pomeriggio, signora Raisin.” “Cosa diamine è il pilates?” “Un insieme di esercizi per la postura e la respirazione, è una ginnastica che rafforza tutti i muscoli del corpo.” “Mi interessa.” “C’è un posto libero nella lezione di domattina. È un corso per principianti.” “Mi segni. A che ora è?” “Comincia alle dieci e finisce all’una.” “Ma quanto dura! Oh, mi iscriva lo stesso.” Agatha chiuse la telefonata. Diede da mangiare ai gatti, li fece uscire in giardino e poi portò i bagagli in camera. Troppo stanca per disfare le valigie o svestirsi, piombò sul letto e sprofondò nel sonno. Al mattino, mentre guidava in direzione di Evesham, Agatha cominciò a pentirsi di aver prenotato la lezione di pilates. Lei era il classico tipo che si iscrive a corsi costosissimi in palestra, ci va un paio di volte e poi si tira indietro buttando via i soldi. Però insomma, da un po’ di attività fisica non poteva esimersi. “Al piano di sopra,” le disse la receptionist. “Stanno per cominciare.” Agatha salì le scale. Quattro signore si stavano insaccando in calzamaglie e magliette. 14


“Agatha!” disse Rosemary, l’estetista. “Bentornata.” “Rieccomi a casa,” disse Agatha, sorridendo. Rosemary era una figura assai rassicurante con la sua pelle liscia e chiara e i capelli lucidi. Aveva un che di materno e così le donne di fronte a lei non si vergognavano della linea appesantita e della pelle piena di imperfezioni. Sì, c’era qualcosa di rassicurante che pareva dire: “A tutto c’è rimedio”. La lezione ebbe inizio. Dopo una fase di rilassamento, gli esercizi sembravano abbastanza blandi però richiedevano una concentrazione estrema. Dovevano coordinarsi con la respirazione e il rafforzamento dei muscoli addominali e pelvici. Finalmente fecero una pausa per un caffè e qualche biscotto. Rosemary cominciò a spiegare al gruppetto che Joseph Pilates era stato internato durante la Prima guerra mondiale, e proprio in quel frangente aveva inventato il suo sistema di esercizi, poi alla fine della guerra era emigrato in America e aveva organizzato dei corsi nella stessa sede della New York Ballet School. Rosemary si interruppe e prese Agatha da parte: “So che sta morendo dalla voglia di fumarsi una sigaretta. Può sgattaiolare al piano di sotto e rifugiarsi nella stanza sul retro”. Agatha avrebbe tanto voluto poter dire che non le importava nulla, ma la fame di nicotina si faceva sentire. Andò nella stanzetta sul retro sentendosi in colpa, ma questo non le impedì di accendere la sigaretta. Sarah, l’assistente di Rosemary, era impegnata con una cliente nella stanza accanto. Una voce femminile disse: “Non volevo farlo. Però Zak desidera che io mi faccia fare una ceretta da bikini prima del matrimonio”. E la dichiarazione fu seguita da una risatina. “Non sposarlo!” ebbe la tentazione di gridare Agatha. 15


Le si era risvegliato dentro un istinto di ribellione femminista. Era giustissimo tenersi in forma e cercare di essere belle il più possibile, ma una totale rimozione dei peli, tale da trasformare una donna in una Barbie, no, questo ad Agatha pareva veramente troppo. E che razza di uomo doveva essere uno che ordinava alla sua fidanzata di farsi fare una ceretta pubica? “Grazie, Sarah,” sentì dire alla ragazza. “Devo andare. Zak mi starà aspettando. Vuole essere certo che io mi sia fatta depilare davvero.” Agatha la sentì uscire. All’improvviso fu colta da una gran voglia di vedere questo Zak. Spense la sigaretta e andò nell’atrio. E lì trovò un giovanotto, che stava abbracciando una biondina graziosa. “Sei pronta, Kylie?” disse lui. Quel tipo bruno e attraente e la ragazza bionda e carina fecero tornare in mente ad Agatha la coppia dell’Isola di Robinson Crusoe. Lei lo teneva stretto stretto, però lui dava la stessa impressione del tizio sull’isola, ovvero di essere in attesa di qualcosa. Agatha si riscosse, scrollò le spalle e tornò al piano di sopra proprio quando la seduta di pilates stava ricominciando. E al termine della lezione, si iscrisse gioiosamente ad altre dieci. Si sentiva rilassata e a suo agio e gli esercizi le parevano sensati. Era ora di combattere la senescenza. Di rafforzare le rotule evitandone la dislocazione; di tonificare i muscoli pelvici e di evitare l’onta dell’incontinenza. Disse a Rosemary che sarebbe andata a mangiare e poi tornata per il trattamento al viso. Tirò fuori il cellulare, chiamò la parrucchiera e prese appuntamento sul tardi per farsi la tinta. Alla fine della giornata, quando rientrò a casa con i capelli tornati castani e lucidi e la faccia massaggiata e incremata, Agatha cominciò a sentirsi di nuovo quella di un tem16


po, quella del tempo prima di James. Il cartello in vendita era sparito dal giardino del cottage. Chissà che tipo sarebbe stato il nuovo vicino. L’indomani mattina passò a trovarla la signora Bloxby, la moglie del pastore. “Ma come siamo belle, cara la mia signora Raisin,” disse. “La vacanza deve averti fatto bene.” Agatha cominciò a raccontarle della famiglia conosciuta sull’Isola di Robinson Crusoe e di quanto avesse goduto della compagnia. Mentre parlava si rese conto di non essersi mai vantata con loro, neppure una volta, delle sue doti di investigatrice. “Hai avuto notizie di James?” s’informò la signora Bloxby. “James chi?” chiese seccamente Agatha. La signora Bloxby la guardò con curiosità. L’amica prima di partire si era rifiutata di parlare ancora di James. Però ad Agatha all’improvviso tornò in mente che Marie aveva detto che James certamente non avrebbe potuto prendere i voti, in quanto divorziato. Che James potesse aver inventato quella storia solo per defilarsi era una cosa che non voleva neppure prendere in considerazione. “E allora come ve la siete cavata da queste parti?” chiese in tono disinvolto. “Nessun crimine?” “Non abbiamo omicidi da offrirti,” disse la moglie del pastore. “È stato tutto molto tranquillo.” “Chi ha comprato il cottage accanto al mio?” “Non lo sappiamo. Abbiamo un nuovo acquisto nella Società delle Dame, è arrivata una certa signora Anstruther-Jones. Si è appena trasferita nel villaggio. Avrebbe voluto prendere il cottage ma qualcuno l’ha preceduta, quindi ha comprato Il Pero Fiorito… sai, la casetta alle spalle dei negozi.” 17


“Che tipa è?” “Lo vedrai da te. Stasera c’è una riunione.” “Questo significa che ti è antipatica.” “No, non ho detto niente di simile.” “Tu sei una che non dice niente, se non può mettere una parola buona. Come sta la signorina Simms?” La signorina Simms, ragazza madre, era la segretaria della Società delle Dame di Carsely. “La signorina Simms ha un nuovo innamorato. Si occupa di divani.” “Sposato, suppongo.” “Suppongo anch’io. Ma senti un po’. Ha ripreso a piovere. Non ha fatto altro da quando sei partita.” Qualcuno suonò alla porta. “Io vado,” disse la signora Bloxby. Agatha aprì e si trovò davanti il sergente Bill Wong. “Salve,” disse la signora Bloxby. “Ci vediamo stasera, signora Raisin.” “Ma io pensavo che ormai vi chiamaste per nome, voi due,” disse Bill, seguendo Agatha in cucina. “Quando si tratta di faccende della Società delle Dame usiamo chiamarci con signora e il cognome, e in questo mondo così invadente e toccaccione a me non dispiace,” disse Agatha. “Caffè?” “Sì. Vedo che non hai smesso di fumare.” “Ti ho mai detto di aver intenzione di farlo?” chiese Agatha con la ferocia del tossicodipendente incallito. “Pensavo che magari…” “Lascia perdere. Eccoti il caffè. Come va il crimine?” “Niente di drammatico. Nulla, a parte i soliti tagli al bilancio. Le centrali di polizia nei villaggi stanno tutte chiudendo. Lo sai che hanno chiuso anche quella di Carsely?” 18


“No!” “Sì, e anche quella di Chipping Campden e quella di Blockley. Quindi passiamo la maggior parte del nostro tempo per strada. Qualcuno stanotte ha chiamato il 999 ululando che si trattava di un’emergenza. Siamo arrivati lì e abbiamo scoperto che si trattava di un gatto bloccato su un albero.” “E la tua vita amorosa?” “In pausa.” Agatha lo guardò con affetto. Bill era di padre cinese e madre inglese, e questa combinazione gli aveva donato begli occhi a mandorla in una faccia tonda e un gradevole accento del Gloucestershire. “E la tua?” chiese Bill. “Inesistente.” Agatha capì che Bill stava per chiedere di James, e quindi si affrettò a descrivere la strana sensazione suscitata dalla coppia sull’Isola di Robinson Crusoe. “Mi sa tanto che ti stavi annoiando ed eri alla ricerca di un pizzico di azione, Agatha.” “Non mi annoiavo affatto, anzi. Ho conosciuto della gente fantastica. Eppure… c’era qualcosa di strano, in quei due. E ieri a Evesham ho incrociato una coppia che me li ha ricordati.” “Sarà meglio che tu ti sbrighi a trovare un lavoro, o finirai per vedere crimini ovunque. Stai pensando di tornare a fare un po’ di pubbliche relazioni?” “Potrei anche.” Agatha in passato aveva guidato con grande successo una società di pubbliche relazioni, ma l’aveva ceduta per poter andare in pensione anzitempo e trasferirsi in campagna. Da allora aveva lavorato spesso come collaboratrice esterna. “Oggi il mondo delle pubbliche relazioni è diverso,” disse. “Un tempo non eri né carne né 19


pesce. Disprezzata dai giornalisti e dai pubblicitari, come se il tuo non fosse stato un vero lavoro. Ora spesso a fare le pubbliche relazioni sono le stesse celebrità.” “Ho saputo che Charles si è sposato.” “E allora?” “Oh, d’accordo,” si affrettò a dire Bill. “Meglio che vada, ora. Fammi sapere se inciampi in qualche cadavere. Un po’ di movimento non mi dispiacerebbe.” Dopo che Bill se ne fu andato, Agatha accese il computer per controllare la posta elettronica. C’era un messaggio di Roy Silver, un giovanotto che in passato aveva lavorato per lei, e che le chiedeva dove fosse finita; e uno di Dolores, la graziosa ragazza cilena. Agatha vide con disappunto che era scritto interamente in spagnolo, però lesse i nomi di Conchita e Pablo Ramón. Lo stampò e poi si recò a Evesham, al ristorante Falconeria, a chiedere a Juan, il proprietario spagnolo, che glielo traducesse. “Allora,” disse Juan, “cara Agatha, che agitazione. Ti ricordi quella coppia, Pablo e Conchita Ramón? Ebbene, Pablo è appena stato arrestato. È su tutti i giornali. Conchita è annegata nel mare dell’Isola di Robinson Crusoe e secondo la versione di Pablo è caduta dalla barca. Ma una persona che stava facendo un’escursione sulle colline l’ha visto spingere in acqua la moglie. E Pablo sapeva che Conchita non era in grado di nuotare. Le aveva fatto sottoscrivere una grossa assicurazione sulla vita e la famiglia di Conchita è molto benestante. Tu come stai? Dammi notizie. Con affetto, Dolores.” Ecco perché lui aveva l’aria di aspettare qualcosa, pensò Agatha. Aspettava l’occasione propizia. Si pentì di non avergli detto nulla, di non avergli fatto capire che lo teneva 20


d’occhio. Ma in fondo non aveva notato nulla di così significativo. Nel corso della riunione serale della Società delle Dame, Agatha ascoltò mentre la signorina Simms, la segretaria, con la sua solita mise impropria di microgonna, pancia in mostra, piercing all’ombelico e tacchi a spillo, riepilogava il verbale della seduta precedente. Le tazze da tè producevano un tintinnio di porcellane, i vassoi di dolci giravano, e la pioggia tambureggiava sul giardino della canonica. Agatha scoprì che la signora Anstruther-Jones era una di quelle donne bene in carne e prepotenti dotate di voce forte e ragliante. La odiò all’istante. Sentì tornare, strisciante e insidiosa, un poco della vecchia infelicità e a quel punto provò uno degli esercizi di respirazione che le erano stati insegnati, e con suo stupore si rese conto che stava cominciando a rilassarsi. Avrebbe telefonato a Roy per vedere se aveva qualche proposta di lavoro da farle. James era perso e anche Charles lo era e Agatha Raisin era arcignamente determinata a passare oltre.

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Estratto da M.C. Beaton, Agatha Raisin e i giorni del diluvio Titolo originale dell’opera Agatha Raisin and the Day the Floods Came Traduzione dall’inglese di Marina Morpurgo © 2002 by M.C. Beaton © 2015 astoria srl corso C. Colombo 11 – 20144 Milano Prima edizione: giugno 2015 ISBN 978-88-98713-13-4 In copertina: illustrazione di Alice Tait Progetto grafico: zevilhéritier

www.astoriaedizioni.it


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