Sophy la grande

Page 1

3

Le vacanze pasquali erano già iniziate da una settimana quando la cugina Sophia giunse in Berkeley Square. Le uniche informazioni che la zia ricevette nei dieci giorni intercorsi furono un breve messaggio di sir Horace, in cui le comunicava che la sua missione era stata leggermente ritardata ma che avrebbe certamente visto la nipote da lì a poco. I fiori che Cecilia aveva sistemato con tanta eleganza nella sua camera appassirono e furono gettati via; e la signora Ludstock, una governante estremamente meticolosa, aveva dovuto arieggiare per ben due volte le lenzuola prima che, nel mezzo di un luminoso pomeriggio primaverile, un tiro a quattro, generosamente infangato, giungesse alla porta. Cecilia e Selina erano andate in carrozza con la madre nel Parco ed erano rientrate in casa da non più di cinque minuti. Stavano per salire la scalinata, quando il giovane Hubert Rivenhall la scese di corsa esclamando: “Deve essere mia cugina, perché la carrozza è carica di bagagli. E che cavallo! Mai ne ho visto uno tanto bello!”. Questa profusione di parole fece sì che le tre donne lo guardassero con sconcerto. Il maggiordomo, che si era appena allontanato dall’atrio, vi tornò solennemente accompagnato dai suoi attendenti annunciando, con un inchino a lady Ombersley, che era sua opinione che la signorina Stanton-Lacy fosse or ora giunta. Il portone venne spalancato e le tre signore poterono ammi1


rare non soltanto il tiro a quattro ma il viso attonito dei bambini di casa, fuori a giocare nel giardino della piazza, che fissavano, a dispetto delle rimostranze della signorina Adderbury, il cavallo che aveva indotto Hubert a scendere a precipizio le scale. L’arrivo della signorina Stanton-Lacy era in realtà degno di ammirazione e di stupore. Quattro cavalli fumanti tiravano la sua carrozza, due cavalieri la scortavano, e dietro cavalcava uno staffiere di mezza età che teneva per la briglia uno splendido morello. I gradini vennero abbassati, la portiera aperta, e subito scese a terra un levriero italiano, seguito da una ragazza dal viso smunto che reggeva una valigetta, tre parasoli e una gabbietta. Infine, la signorina Stanton-Lacy in persona scese dalla carrozza, ringraziando il lacchè che le porgeva la mano ma pregandolo di reggere invece il suo povero piccolo Jacko. Il povero piccolo Jacko era una scimmietta in marsina scarlatta e non appena tale rifulgente circostanza si rese palese ai bambini, questi oltrepassarono la scandalizzata governante, aprirono il cancello del giardino e si precipitarono in strada gridando: “Una scimmia, ha portato una scimmia!”. Lady Ombersley, quasi incollata ai gradini del portone, cominciava a capire con vivo sdegno che il modo con il quale un gentiluomo di notevole altezza e non meno notevoli proporzioni guardava sua figlia era ingannevole. La piccola Sophy di sir Horace era alta un metro e settantacinque e costruita senza economia: gambe lunghe e seno fiorente, un viso pieno di gaiezza, e lucenti e folti riccioli castani sotto uno dei cappellini più audaci ed eleganti che mai le cugine avessero visto. Indossava un mantello abbottonato fino al collo, una lunga stola di zibellino che le scivolava dalle spalle, e aveva un enorme manicotto di zibellino, che si affrettò a dare al secondo lacchè per essere libera di salutare Amabel, la prima a raggiungerla. La stupefatta zia la vide chinarsi con grazia sulla bambina, prenderle le mani e dire con voce ridente: “Sì, sì, sono vostra cugina Sophia, ma non vuoi chiamarmi Sophy? Se qualcuno mi chiama Sophia mi sento in disgrazia, e non è piacevole. E tu, come ti chiami?”. 2


“Amabel, e, oh, per favore, posso prendere la scimmia?” balbettò la più giovane delle signorine Rivenhall. “Ma certo che puoi, l’ho portata per te. Soltanto, sii buona con lui all’inizio, perché è timido, sai.” “Portata per me?” ansò Amabel, pallida per l’emozione. “Per voi tutti,” spiegò Sophy includendo Gertrude e Theodore nel suo caldo sorriso. “E anche il pappagallo. Non preferite gli animali ai giocattoli o ai libri? Per me era così, e ho pensato potesse essere così anche per voi.” “Cugina!” esclamò Hubert, interrompendo le entusiastiche esclamazioni di assenso dei piccoli, che trovavano che la nuova arrivata avesse valutato i loro gusti con un’accuratezza raramente eguagliata nella loro esperienza dagli adulti. “Quel cavallo è vostro?” Lei si volse, guardandolo con una sorta di tranquilla ingenuità, il sorriso ancora sulle labbra. “Sì, è Salamanca; lo trovate bello?” “Se lo trovo bello…? È spagnolo? Lo avete portato dal Portogallo?” “Cugina Sophy, come si chiama il cane, e che cane è?” “Cugina Sophy, il pappagallo parla? Addy, possiamo tenerlo nella sala da studio?” “Mamma, mamma, la cugina Sophy ci ha portato una scimmia!” L’ultimo grido, uscito dalle labbra di Theodore, fece volgere Sophy. Scorgendo la zia e le due cugine nel vano del portone, corse in fretta su per i gradini esclamando: “Cara zia Elizabeth, vogliate scusarmi! Stavo facendo amicizia con i bambini; come state? Sono tanto felice di essere qui con voi, e grazie di avermelo permesso!”. Lady Ombersley non si era ripresa dallo stupore e ancora si afferrava all’immagine ormai languente della timida nipotina della sua fantasia, ma a quelle parole l’insipida donzella svanì per sempre tra le cose dimenticate e non rimpiante. Strinse tra le braccia Sophy, alzando il viso verso quello ridente e luminoso 3


di lei e disse con voce tremante: “Cara, cara Sophy, quale gioia per me! Assomigli tanto a tuo padre! Benvenuta, cara bambina, benvenuta!”. Si sentiva sopraffatta, e le ci volle qualche minuto prima di riprendersi per presentare Sophy a Cecilia e Selina. Sophy guardò Cecilia ed esclamò: “Voi siete Cecilia? Siete bellissima! Come è possibile che non lo ricordassi?”. Cecilia rise. Non si poteva sospettare Sophy di dire cose simili per far piacere, diceva esattamente ciò che le passava per la testa. “Ebbene, neppure io ricordavo; ricordavo una cuginetta bruna, tutta gambe e capelli scarmigliati.” “Sì, e lo sono ancora… no, non scarmigliata forse, ma tutta gambe e molto bruna! Non sono diventata una bellezza. Sir Horace dice che ormai devo abbandonare ogni speranza e lui è un intenditore, sapete!” Sir Horace non si ingannava: Sophy non sarebbe mai stata una bellezza. Era davvero troppo alta; il naso e la bocca erano troppo pieni; e due begli occhi grigi non valevano da soli a riscattare gli altri difetti. Ma nessuno poteva dimenticare Sophy, per quanto uno potesse non ricordarne la forma del viso o il colore degli occhi. Si era volta nuovamente alla zia. “La vostra gente vorrà avere la bontà di indicare a John Potton dove può condurre Salamanca, signora? Soltanto per questa notte. E guidarlo a una camera dove possa dormire? Poi penserò io a tutto appena avrò imparato a muovermi da sola qui.” Hubert Rivenhall si affrettò a dirle che avrebbe condotto lui stesso John Potton alle scuderie. Lei sorrise e lo ringraziò e lady Ombersley disse che c’era posto a sazietà per Salamanca nelle scuderie e che Sophy non doveva darsi pena per queste cose. Ma, a quel che sembrava, Sophy intendeva darsi pena perché ribatté in fretta: “No, no, i miei cavalli non devono esservi di peso, zia! Sir Horace vuole che sia io a occuparmi di queste cose, se desidero avere una scuderia, ed è quel che intendo fare. Ma per questa notte soltanto, se volete avere la bontà…!”. 4


Ce n’era abbastanza da far vacillare la mente di sua zia. Quale singolare nipote era mai questa, che voleva avere una scuderia, occuparsene personalmente, e chiamava il padre sir Horace? La distrasse l’arrivo di Theodore, che con la scimmia spaventata abbarbicata in braccio le chiedeva se poteva dire a Addy che gli era permesso di portare l’animale nella sala studio, visto che la cugina Sophy l’aveva regalato a loro. Lady Ombersley si ritrasse dalla scimmia, e disse debolmente: “Amor mio, non penso… oh caro, cosa dirà Charles?”. “Charles non ha certo paura di una scimmia!” dichiarò Theodore. “Oh, mamma, dite a Addy che possiamo tenerla!” “Davvero, Jacko non morderà nessuno,” disse Sophy. “L’ho con me da quasi una settimana, ed è la più gentile delle creature! Non la manderete via, signorina… signorina Addy? No, so che non lo farete.” “Signorina Adderbury, ma noi la chiamiamo Addy,” spiegò Cecilia. “Piacere,” disse Sophy tendendole la mano. “Perdonatemi! È stato impertinente da parte mia, non sapevo. Permetterete ai bambini di tenere il povero Jacko?” Tra lo sgomento di doversi occupare di una scimmia e il desiderio di compiacere questa ragazza radiosa, che le sorrideva in modo così gentile, e che le aveva teso la mano in modo così franco, la signorina Adderbury si perse in una sfilza di mezze frasi. Lady Ombersley intervenne dicendo che dovevano chiedere a Charles, e questo venne subito interpretato come un permesso di portare Jacko nella sala studio, visto che nessuno dei bambini aveva un’opinione così bassa del fratello da ipotizzare che potesse loro impedire di tenere il nuovo animale. Sophy venne quindi condotta nel Salotto Azzurro, dove gettò su una sedia i suoi zibellini, si slacciò il mantello e si tolse il cappellino alla moda. La zia, traendola affettuosamente a sedere accanto a sé, le chiese se era stanca del viaggio e se voleva bere qualcosa. “No davvero; vi ringrazio, ma non sono mai stanca, e, sebbene mi abbia un poco tediato, non riesco a vederlo come un 5


viaggio. Sarei giunta questa mattina, se non avessi dovuto recarmi prima a Merton.” “A Merton?” le fece eco lady Ombersley. “Ma perché, mia cara? Hai dei parenti là?” “No, no, sir Horace voleva che lo facessi.” “Mia cara, chiami sempre tuo padre sir Horace?” Negli occhi grigi si accese nuovamente il sorriso. “No, se mi fa davvero infuriare lo chiamo papà!” disse Sophy. “Lo detesta: povero caro, è davvero triste per lui avere una quercia per figlia, e nessuno può attendersi che se ne rallegri.” Vide che la zia pareva scandalizzata e aggiunse, con sconcertante franchezza: “Non vi piace. Me ne dolgo molto, ma, credetemi, è un padre delizioso e io lo amo moltissimo. È lui a dire sempre che l’affetto non deve rendere ciechi ai difetti delle persone care”. La sconvolgente affermazione che una figlia dovesse venir incoraggiata a osservare i difetti del padre inorridì a tal punto lady Ombersley da lasciarla senza parole. Selina, che amava andare in fondo alle cose, chiese perché sir Horace voleva che Sophy si recasse a Merton. “Per condurre Sancia nella sua nuova casa,” spiegò Sophy. “Per questo mi avete vista con quegli assurdi cavalieri di scorta. Nulla poteva convincere Sancia che le strade inglesi non sono percorse da banditi e guerriglieri!” “Chi è Sancia?” chiese, sempre più turbata, lady Ombersley. “La marchesa de Villacañas. Sir Horace non vi ha detto il suo nome? Vi piacerà, anzi dovrà piacervi. È sciocca, e terribilmente indolente come tutti gli spagnoli, ma tanto bella e amabile!” Vide che la zia era sempre più stupita e la guardò con esitazione. “Dunque non sapete? Non ve lo ha detto? Questo è davvero troppo da parte sua! Sir Horace sposerà Sancia.” “Che cosa?” sussultò lady Ombersley. Sophy si chinò in avanti per prenderle la mano e stringerla affettuosamente. “Sì, è così e voi dovete esserne felice, ve ne prego, perché andrà molto bene per lui. È vedova, e ricchissima.” “Una spagnola! Non me ne ha mai detto nulla.” 6


“Sir Horace dice che le spiegazioni sono tediose,” disse Sophy in sua difesa. “Immagino abbia pensato che gli sarebbe stato necessario troppo tempo. Oppure,” aggiunse con uno sguardo malizioso, “che lo avrei fatto io per lui.” “Non ho mai udito nulla di simile,” proruppe lady Ombersley. “E davvero degno di Horace, questo! E quando, mia cara, intende sposare la sua Marchesa?” “Ebbene,” spiegò Sophy con improvvisa serietà, “forse è per questo che non ha voluto spiegarvelo lui. Sir Horace non può sposare Sancia prima di essersi liberato di me. È così imbarazzante per lui, povero caro! Gli ho promesso di fare del mio meglio, ma non posso accettare di sposare un uomo che non amo, e lui mi comprende perfettamente. È giusto dire questo di sir Horace: non è mai irragionevole.” Lady Ombersley era d’avviso che quelle frasi fossero assai inadatte alle orecchie delle figlie, ma non vedeva come far tacere la nipote. Selina, sempre desiderosa di andare in fondo alle cose, chiese: “Perché vostro padre non può sposarsi finché voi non sarete sposata, Sophy?”. “A causa di Sancia. Sancia dice che non vuole diventare la mia matrigna.” Lady Ombersley si sentì commossa fino alle lacrime. “Mia povera bambina,” esclamò, mettendo una mano sul ginocchio di Sophy. “Sei tanto coraggiosa, ma con me puoi confidarti. È gelosa di te: credo che tutti gli spagnoli siano sempre molto gelosi. Horace davvero non dovrebbe… se soltanto lo avessi saputo! È scortese con te, Sophy? Ti detesta?” Sophy diede in una gaia risata. “Oh, no, no; credo non abbia mai detestato nessuno in vita sua! Soltanto, se sposa sir Horace mentre io sono ancora con lui, tutti si aspetteranno che sia una madre per me, ed è troppo pigra per farlo! E inoltre, pur con le migliori intenzioni, io continuerei a occuparmi di sir Horace e della sua casa come ho sempre fatto. Ne abbiamo parlato e devo riconoscere che non ha torto. Ma quanto a gelosia, no davvero! È troppo bella per essere gelosa di me e troppo 7


amabile. Dice di avere enorme affetto per me, ma con me non intende dividere la casa. E non pensate che io la biasimi per questo!” “Sembra una donna singolare,” disse lady Ombersley con disapprovazione. “E perché vive a Merton?” “Sir Horace ha preso là una villa graziosissima per lei, dove Sancia intende vivere appartata fino al suo ritorno in Inghilterra. E questo,” spiegò ridendo, “perché è terribilmente pigra. Resterà a letto tutta la mattina, mangerà una gran quantità di dolci, leggerà molti romanzi e sarà lieta di ricevere gli amici che si daranno la pena di recarsi in visita da lei. Sir Horace dice che è la donna più riposante che lui conosca.” Si chinò ad accarezzare il cane che era rimasto sempre fermo ai suoi piedi. “Non più riposante di Tina, si intende. Cara signora, mi auguro non vi dispiacciano i cani. È molto buona, credetemi, e non riuscivo a separarmi da lei.” Lady Ombersley le assicurò che non aveva nulla contro i cani ma non amava molto le scimmie. “Oh, povera me!” esclamò Sophy ridendo. “Ho fatto dunque male a portarla per i bambini? Quando l’ho vista a Bristol, mi è parsa il dono migliore. E ora che gliel’ho data, mi sembra difficile portargliela via.” Lady Ombersley pensò che sarebbe stato impossibile, e poiché sembrava non vi fosse altro da dire sull’argomento, e si sentiva piuttosto confusa dalle rivelazioni della nipote, suggerì che Cecilia conducesse Sophy nella camera a lei destinata, dove avrebbe potuto riposarsi un momento prima di cambiarsi per la cena. Cecilia si alzò subito, pronta a convincere Sophy se ce ne fosse stato bisogno. Non credeva che Sophy desiderasse riposarsi, perché dal poco che aveva visto si era convinta che la cugina fosse una creatura piena di vita, raramente bisognosa di riposo. Ma si sentiva molto attratta da lei, ed era ansiosa di diventarle amica. Dal momento che la cameriera di Sophy stava disfacendo le valigie, Cecilia pregò Sophy di recarsi nella sua camera. Selina, capito che non sarebbe stata ammessa a questo tête-à-tête, mise il broncio ma si consolò pensando che a lei sarebbe toccato il 8


compito di raccontare alla signorina Adderbury ogni dettaglio della conversazione di Sophy nel Salotto Azzurro. Cecilia era per natura timida, e sebbene i suoi modi non fossero così riservati come quelli di suo fratello maggiore, era poco incline alla confidenza. Nel volgere di pochi minuti, però, si trovò a raccontare alla cugina le sue sventure. Sophy l’ascoltava con interesse e partecipazione, ma il continuo ripetersi del nome del signor Rivenhall pareva riuscirle incomprensibile, e infine interruppe la cugina per chiederle: “Vorrete scusarmi, ma Charles non è vostro fratello?”. “Il mio fratello maggiore, sì.” “Era ciò che avevo intuito. Ma che cosa dunque ha da dire in tutto questo?” Cecilia sospirò: “Scoprirete presto, Sophy, che nulla in questa casa può venir fatto senza il consenso di Charles. È lui che decide tutto, guida tutto e dirige tutto!”. “Non riesco a comprendere. Mio zio non è morto, non è così? Sono certa che sir Horace non me ne ha mai fatto parola.” “Oh, no, ma papà – non dovrei parlare di lui, e non so con precisione come stiano le cose – ma papà si è trovato in gravi difficoltà. In realtà, so che è così, perché una volta ho trovato mia madre gravemente turbata, e mi ha raccontato qualcosa; era così assente che non sapeva ciò che stava facendo. In genere, non direbbe mai niente su papà a nessuno di noi, a eccezione di Charles, credo, e a Maria, ora che è una signora sposata. E poi morì il prozio Matthew e lasciò tutta la sua fortuna a Charles, e non so bene che cosa accadde, ma credo Charles abbia fatto qualcosa riguardo alle ipoteche. Sembra che questo abbia messo il povero papà nelle sue mani. So per certo che è Charles a pagare gli studi di Hubert e Theodore, e ad aver saldato tutti i debiti, perché questo la mamma me lo ha detto.” “Deve essere molto disagevole per vostro padre!” osservò Sophy. “Mio cugino Charles sembra una creatura sgradevole.” “Detestabile! A volte penso si rallegri nel rendere infelici gli altri, poiché ci nega i più innocenti svaghi ed è ansioso soltanto di 9


farci sposare uomini rispettabili dotati di vaste ricchezze, uomini di mezza età, privi di romanticismo e capaci soltanto di prendere gli orecchioni!” Comprendendo che quel tragico discorso doveva riferirsi a qualcosa di preciso, Sophy chiese a Cecilia di parlarle del rispettabile gentiluomo con gli orecchioni; dopo una breve esitazione, e con molte espressioni vaghe, Cecilia non soltanto rivelò che era stato combinato il matrimonio tra lei e lord Charlbury (sebbene non fosse stato ancora annunciato) ma le fornì una descrizione di Augustus Fawnhope che sarebbe parsa frutto del delirio a chiunque non avesse avuto il privilegio di aver visto lo straordinario giovane. Sophy aveva avuto tale privilegio, e invece di insistere con la cugina perché si sdraiasse sul letto con una bevanda rinfrescante, disse in tono pratico: “Sì, è proprio vero. Non ho mai visto lord Byron, ma mi dicono sia niente paragonato al signor Fawnhope. Credo sia il giovane più bello che abbia mai visto”. “Conoscete Augustus!” ansò Cecilia, portandosi le mani al seno palpitante. “Sì… per meglio dire, ho fatto la sua conoscenza. Credo di aver danzato con lui una o due volte, l’anno passato a Bruxelles. Non era in qualche modo in diplomazia, al servizio di sir Charles Stuart?” “Uno dei suoi segretari, ma Augustus è un poeta e non ha alcuna disposizione per queste cose, o per gli affari, il che, a quanto credo, disgusta Charles più di tutto. Oh, Sophy, quando ci siamo incontrati… era da Almack’s, e io indossavo un abito di raso di un azzurro pallidissimo, ricamato con boccioli di rosa in seta… appena ci siamo visti… Lui mi ha assicurato che gli è successa la stessa cosa! Come potevo immaginare che qualcuno si sarebbe opposto? I Fawnhope sono una famiglia antichissima, e se io non mi do alcuna pena per inezie quali la ricchezza o i titoli nobiliari, perché mai dovrebbe occuparsene Charles?” “Perché mai infatti?” disse Sophy. “Non piangete, vi prego, Cecilia. Ditemi solo questo: vostra madre disapprova l’idea del matrimonio con il signor Fawnhope?” 10


“La cara mamma ha tanta sensibilità che senza alcun dubbio è dalla mia parte,” disse Cecilia, asciugandosi obbediente le lacrime. “Me l’ha detto, ma non osa opporsi a Charles! Ecco il clima di questa casa.” “Sir Horace ha sempre ragione,” concluse Sophy alzandosi e scuotendosi la gonna. “Io volevo mi conducesse in Brasile poiché, a dire il vero, non riuscivo a immaginare come sarei riuscita a trascorrere il tempo a Londra senza altro da fare che svagarmi in casa della zia. Lui mi ha detto che avrei trovato qualcosa di cui occuparmi, e vedete bene che aveva valutato con esattezza le cose. Forse sapeva tutto questo? Mia cara Cecilia – oh, non posso chiamarvi Cecy? Cecilia è così impronunciabile – abbi fiducia in me; ti sei lasciata andare allo scoraggiamento, e non ve ne è motivo. Al contrario, niente è più fatale, serve soltanto a pensare che non si possa fare nulla mentre un pizzico di risolutezza è sufficiente a portare le cose a una felice conclusione. Ora devo andare nella mia camera e vestirmi per cena, o farò tardi, e nulla è odioso quanto un ospite in ritardo ai pasti.” “Ma, Sophy, che mai vuoi dire? Che cosa puoi fare tu per aiutarmi?” “Non ne ho idea, ma immagino vi siano un centinaio di cose che posso fare. Quanto mi hai detto mi mostra che tutti voi avete ceduto a una scandalosa malinconia! Tuo fratello! Santo cielo, come gli avete permesso di divenire tanto tirannico? Non permetterei neanche a sir Horace di diventare dispotico, cosa che fanno anche gli uomini migliori, se le femmine della famiglia sono così sciocche da incoraggiarli. Non fa loro bene, oltre a trasformarli in esseri mortalmente noiosi. Charles è mortalmente noioso? Sono certa di sì. Non importa. Se si diverte a combinare matrimoni, certo si darà a cercare un marito per me, e questo varrà a distrarlo. Ora vieni nella mia camera, Cecy. Sir Horace ha voluto che io scegliessi delle mantiglie per te e mia zia e immagino che Jane le abbia ormai estratte dai bagagli. Come ho fatto bene a sceglierne una bianca per te! La mia carnagione 11


è troppo scura per sopportare il bianco, ma a te starà in modo incantevole.” Condusse Cecilia nella sua camera dove trovò le mantiglie, avvolte in carta d’argento, e ne portò immediatamente una a lady Ombersley dichiarando che sir Horace l’aveva incaricata di donarla, con tutto il suo affetto, alla cara sorella. Lady Ombersley fu lietissima della mantiglia, nera e di grande bellezza; e molto commossa dal messaggio, di cui non credeva una sola parola (rivelò in seguito a Cecilia) ma che mostrava tanta delicatezza in sua nipote. Quando Sophy aveva mutato l’abito da viaggio con un abito da sera di crespo verde pallido ornato all’orlo da un festone di seta e stretto in vita da una cintura a nappine, anche Cecilia aveva completato la sua toletta e attendeva di accompagnare la cugina nel salotto. Sophy cercava di agganciarsi una collana di perle mentre la smunta cameriera, pregandola di non essere così irrequieta, era decisa ad abbottonare i polsi delle lunghe e ampie maniche. Cecilia, vestita con eleganza e semplicità di mussola a fiori, con una fusciacca azzurra, disse con invidia che sicuramente l’abito di Sophy veniva da Parigi. Non aveva torto: tutti gli abiti di Sophy venivano da Parigi. “Il mio solo conforto,” aggiunse ingenuamente Cecilia, “è che a Eugenia non piacerà in alcun modo.” “E chi è mai Eugenia?” esclamò Sophy, facendo una piroetta. “A me non sembra un brutto abito, a te?” “Insomma, signorina Sophy, potete restare seduta?” si intromise Jane Storridge, dandole uno strattone. “No davvero,” rispose Cecilia. “Ma Eugenia non indossa mai abiti alla moda: dice che vi sono cose più importanti cui pensare.” “Sciocchezze. S’intende che vi sono cose più importanti cui pensare, ma non, a mio avviso, quando ci si sta vestendo per la cena. Chi è Eugenia?” “La signorina Wraxton. È la fidanzata di Charles, e la mamma mi ha appena fatto sapere che cena qui questa sera. Lo ave12


vamo dimenticato nell’emozione del tuo arrivo. Immagino sia già in salotto, perché è sempre molto puntuale. Sei pronta, vogliamo scendere?” “Se solo la mia cara Jane fosse un pochino più veloce!” disse Sophy, porgendo l’altro polso alla cameriera e guardando con malizia l’espressione critica della signorina Storridge. La cameriera accennò a un sorriso, ma non disse niente. Finì di abbottonare la manica, drappeggiò una sciarpa con dei ricami d’oro sulle braccia della sua padrona, e fece un piccolo cenno d’approvazione. Sophy si chinò, la baciò sulla guancia e disse: “Grazie! Vai a letto, e non pensare di svestirmi, perché non sarà così! Buonanotte, cara Jane!”. Colma di stupore, Cecilia disse mentre scendevano le scale: “Immagino sia con te da molto tempo. Temo che la mamma non approverebbe vederti baciare una cameriera!”. Sophy sollevò il sopracciglio. “Davvero? Jane era la cameriera di mia madre, e la mia governante quando mia madre morì. Spero di non fare niente di peggio che provochi la disapprovazione di mia zia.” “Oh! Naturalmente capirebbe benissimo la situazione,” rispose in fretta Cecilia. “Soltanto sembrava così strano, sai?” Un deciso scintillio negli occhi della cugina sembrò indicare che non apprezzava particolarmente la critica al suo comportamento, ma erano ormai arrivate in salotto e si limitarono a entrare. Lady Ombersley, i due figli maggiori e la signorina Wraxton erano seduti accanto al camino. Tutti si volsero all’aprirsi della porta e i due gentiluomini si alzarono, Hubert guardando la cugina con franca ammirazione, Charles esaminandola con aria critica. “Vieni, mia cara Sophy,” disse lady Ombersley. “Come vedi, indosso quella bella mantiglia in luogo di uno scialle. Un pizzo delicatissimo! La signorina Wraxton l’ha molto ammirata. Mia cara Eugenia, permettete che vi presenti la signorina StantonLacy. Cecilia ti avrà detto, Sophy, che presto avrai la gioia di vedere nella signorina Wraxton un membro della famiglia.” 13


“Sì,” assentì Sophy sorridendo e tendendo la mano. “Vi auguro ogni felicità, signorina Wraxton, a voi e a mio cugino,” e si volse, dopo aver stretto la mano di Eugenia, porgendola a Charles. “Come state?” Lui gliela strinse e si accorse di essere guardato con aria altrettanto critica. La cosa lo stupì e lo divertì, e sorrise. “E voi come state? Non dirò che vi ricordi bene, cugina, poiché sono certo che né io né voi abbiamo alcun reciproco ricordo.” Sophy rise. “Infatti! Neppure la zia Elizabeth mi ricordava. Cugino… Hubert, non è così? Ditemi, se non vi dispiace, di Salamanca e di John Potton. Sono entrambi ben sistemati?” E si fece da parte per parlare con Hubert. Lady Ombersley, che aveva fissato ansiosamente il figlio maggiore, si rallegrò vedendo che aveva un’aria di assoluta amabilità, per non dire di ammirazione. Sulle labbra gli aleggiava un lieve sorriso, mentre osservava Sophy, fino a quando la sua attenzione non venne richiamata dalla fidanzata. Eugenia Wraxton era una giovane donna esile, che era solita sentirsi definire alta ed elegante. Aveva lineamenti aristocratici e veniva giudicata d’aspetto gradevole, seppure lievemente incolore. Vestiva con grande modestia un abito di crespo grigio tortora, in armonia con il suo lutto. I capelli erano di un colore morbido, tra l’oro e il castano; le mani e i piedi erano lunghi e sottili; il petto minuscolo, che tuttavia si vedeva raramente, perché sua madre era molto contraria ai corpetti tagliati bassi come (per esempio) quello che indossava la signorina Stanton-Lacy. Era figlia di un conte e, sebbene si desse gran pena per non parere orgogliosa, ne era perfettamente consapevole; aveva modi garbati e si studiava sempre di mettere gli altri a proprio agio; ora era risoluta a essere particolarmente garbata con Sophy, ma quando si era alzata per stringerle la mano si era vista costretta ad alzare lo sguardo per fissare quello di Sophy, e questo le rendeva difficile essere garbata. Per un istante si sentì indispettita, ma si riprese e disse a Charles a bassa voce, con il suo quieto sorriso: “È davvero molto alta la signorina Stanton-Lacy! Mi sento ridotta a un nulla”. 14


“Sì, è troppo alta.” Lei non poté non sentirsi lieta che Charles non sembrasse ammirare la cugina, perché sebbene dopo un più attento esame capì che Sophy non era bella quanto lei, la sua prima impressione era stata quella di una giovane donna mozzafiato. Ora vide che era stata ingannata dalla dimensione e dalla brillantezza degli occhi di Sophy, gli altri suoi tratti non erano ugualmente notevoli. “Sì,” disse, “forse; ma ha molta grazia.” Sophy sedette accanto alla zia e Charles vide soltanto allora il cagnolino che le stava attaccato alle gonne, spaventato da tanti stranieri. “A quel che sembra,” disse, “abbiamo due ospiti. Come si chiama, cugina?” Tendeva la mano al cagnolino, ma Sophy disse: “Tina; temo tuttavia che non verrà da voi: è molto timida”. “Oh, sì, verrà,” ribatté lui facendo schioccare le dita. La sua tranquilla sicurezza sembrò irritante a Sophy, ma quando vide che non si ingannava e che il cagnolino gli faceva civettuole profferte di amicizia, lo perdonò immediatamente e si diede a pensare che non poteva essere cattivo come le era stato dipinto. “Che graziosa creaturina,” osservò amabilmente la signorina Wraxton. “Io non amo molto la presenza di animali in casa; mia madre, cara lady Ombersley, non ha mai voluto neppure un gatto, ma questo è senza dubbio un’eccezione.” “Alla mamma piacciono molto i cagnolini,” affermò Cecilia. “Abbiamo sempre un cane, non è così?” “Grassi, ipernutriti carlini,” ribatté Charles guardando con una smorfia la madre. “Confesso di preferire questa elegante signorina.” “Oh, questo non è il più straordinario degli animali della cugina Sophy,” intervenne Hubert. “Aspetta e vedrai, Charles, che cosa ha portato dal Portogallo!” Lady Ombersley si mosse con aria inquieta poiché non aveva ancora rivelato a Charles che una scimmia in marsina scarlatta regnava ora nella sala da studio. Ma Charles disse soltanto: “So, 15


cugina, che avete portato con voi il vostro cavallo. Hubert non parla d’altro. È spagnolo?”. “Sì, e addestrato dai mammalucchi. È molto bello.” “Scommetto che siete una famosa cavallerizza, cugina!” disse Hubert. “Questo non lo so. Per certo ho dovuto cavalcare molto.” In quel momento si aprì la porta, ma non per lasciare entrare il maggiordomo ad annunciare che la cena era servita, come pensava lady Ombersley. Entrò lord Ombersley, affermando di voler dare un’occhiata alla piccola nipote prima di andare da White’s. Lady Ombersley, che già pensava che si fosse comportato male nel non voler cenare a casa in onore della signorina Wraxton anche senza questo sfoggio di ulteriore maleducazione, non fece trasparire la propria irritazione, dicendo solo: “Non tanto piccola, amor mio, come potete vedere”. “Questa poi!” esclamò sua signoria quando Sophy si alzò per accoglierlo. Quindi cedette all’ilarità, abbracciò Sophy e disse: “Bene, bene, bene! Siete alta quasi quanto vostro padre, mia cara! E gli assomigliate molto”. “La signorina Wraxton, lord Ombersley,” disse lady Ombersley in tono di rimprovero. “Come? Ah, certo. Come state? Vi considero una della famiglia e non faccio cerimonie con voi. Venite a sedere accanto a me, Sophy, e ditemi di vostro padre.” Trasse Sophy a un divano e si immerse con lei in un’animata conversazione, ricordando episodi di trent’anni prima, ridendone calorosamente, e sembrando aver del tutto dimenticato di avere un impegno a cena al club. Era sempre ben disposto verso le belle giovani donne, e se queste aggiungevano vivacità al loro fascino e intuivano come lui amasse condurre il corteggiamento, si divertiva immensamente in loro compagnia e non aveva mai fretta di lasciarle. Dassett, entrando pochi minuti dopo per annunciare la cena, comprese immediatamente la situazione, e dopo aver scambiato uno sguardo con la padrona, si ritirò per far mettere un altro piatto a tavola. Quando tornò per fare il suo 16


annuncio, lord Ombersley esclamò: “Già ora di cena? Credo che dopo tutto cenerò a casa”. Offrì il braccio a Sophy, ignorando che la signorina Wraxton avrebbe avuto diritto a quell’onore e, mentre sedevano a tavola, le chiese di dirgli che cosa mai fosse preso a suo padre di volersi recare in Perù. “Non in Perù, in Brasile.” “Non fa grande differenza, mia cara. Non ho mai conosciuto nessuno che viaggiasse tanto. La prossima meta sarà la Cina.” “No, lord Amherst è andato in Cina,” disse Sophy. “A febbraio, mi pare. Sir Horace è stato chiamato in Brasile poiché conosce assai bene gli affari portoghesi e si spera possa persuadere il reggente a tornare a Lisbona. Il maresciallo Beresford è diventato molto impopolare, e non me ne stupisco. Non è in grado di essere conciliante, e non ha alcun tatto.” “Il maresciallo Beresford,” disse con la sua voce musicale Eugenia a Charles, “è un amico di mio padre.” “In tal caso,” ribatté Sophy con il suo rapido sorriso, “vorrete perdonarmi se dico che non ha tatto. È la verità, ma senza alcun dubbio ha molte altre qualità eccellenti. È un peccato che stia facendo una tale figura.” Lord Ombersley e Hubert risero, ma la signorina Wraxton si irrigidì appena e Charles lanciò un’occhiata scarsamente benevola alla cugina, come stesse mutando la prima, favorevole impressione. La fidanzata, che si comportava sempre con rigida correttezza, non riuscì, anche se si trattava di una cena informale, a parlare attraverso la tavola, e volle dimostrare la propria superiore educazione ignorando l’osservazione di Sophy, e cominciando a parlare di Dante con Charles, in particolare della traduzione del signor Cary. Lui l’ascoltò con cortesia, ma quando Cecilia, seguendo l’esempio anticonvenzionale della cugina, si unì alla conversazione per esprimere la propria preferenza per lo stile di lord Byron, non fece alcun tentativo di ignorarla, sembrò anzi accoglierla con favore. Sophy approvò con entusiasmo il gusto di Cecilia, e disse che la sua copia de Il corsaro era così consumata 17


da essere sul punto di disintegrarsi. La signorina Waxton disse di non poter esprimere un’opinione in proposito, perché la madre non vedeva ragione di tenere in casa alcuno dei libri di sua signoria. Le difficoltà matrimoniali di lord Byron erano oggetto dei pettegolezzi più scandalosi di Londra, e si diceva che, su sollecitazione degli amici, fosse sul punto di lasciare il paese: l’osservazione della signorina Wraxton fece sembrare la discussione improvvisamente volgare. Furono perciò tutti sollevati quando Hubert, dichiarando di non avere alcun amore per la poesia, andò in estasi per quel romanzo straordinario che era Waverley. Anche in questa occasione la signorina Wraxton non fu in grado di edificare la compagnia con la sua moderata critica, ma si degnò di dire che riteneva il libro in questione un romanzo davvero ineccepibile. Lord Ombersley commentò che gli sembravano tutti molto libreschi, e che per lui La guida alle corse di Ruff era una lettura più che interessante, e distrasse Sophy dalla conversazione chiedendole notizie di vecchi amici, dei quali, facendo essi parte di diverse ambasciate, era certo Sophy sapesse qualcosa. Al termine della cena, lord Ombersley non si recò in salotto, il richiamo del gioco delle carte era troppo forte per essere ignorato, e la signorina Wraxton chiese molto gentilmente che si permettesse ai piccoli di scendere, aggiungendo, con un sorriso a Charles, che non aveva avuto il piacere di vedere il suo piccolo amico Theodore da quando era tornato a casa per le vacanze. Tuttavia, quando il suo piccolo amico giunse teneva sulla spalla Jacko, e lei rabbrividì nella sua poltrona e diede in un grido di protesta. Era giunto il temuto istante della rivelazione, e grazie (pensò amaramente lady Ombersley) alla mancanza di controllo della signorina Adderbury sui suoi protetti, era giunto nel momento peggiore. Charles, dapprima incline a trovare divertente la cosa, venne subito riportato al senso del dovere dalla palese disapprovazione della signorina Wraxton. Disse che, per quanto desiderabile potesse essere una scimmia come ospite della sala da studio – questione peraltro da dover essere ancora discussa – non lo 18


era altrettanto nel salotto di lady Ombersley, e ordinò irrevocabilmente a Theodore di condurre via Jacko. Theodore assunse una espressione ribelle e per un tragico istante lady Ombersley temette una scena sgradevole. Ma Sophy si affrettò a dire: “Sì, portalo di sopra, Theodore. Avrei dovuto dirti che non ama affatto trovarsi in compagnia. E fai presto, perché intendo mostrarti uno splendido gioco di carte che ho imparato a Vienna”. Lo spinse fuori dal salotto mentre parlava e richiuse la porta. Volgendosi, vide Charles che la guardava gelidamente, e chiese: “Sono in disgrazia per aver portato ai bambini un regalo che voi non approvate? Vi assicuro che è perfettamente bene educato: non dovete aver paura di lui”. “Non ho paura di lui. E siete stata molto amabile a donarlo ai bambini.” “Charles, Charles,” esclamò Amabel tirandolo per la manica. “Ha portato anche un pappagallo, e parla in modo eccellente! Ma Addy gli mette lo scialle sulla gabbia, perché ha detto che devono avergli insegnato a parlare dei rozzi marinai. Ditele di levare lo scialle.” “Oh, ora sono davvero rovinata!” esclamò Sophy con comico sgomento. “E quell’uomo mi aveva assicurato che il pappagallo non avrebbe detto nulla di scorretto! Cosa si può fare?” Ma Charles rideva. “Dovete recitargli ogni giorno delle poesie edificanti, Amabel, per dargli pensieri migliori. Cugina, lo zio Horace ci aveva detto che eravate una cosina amabile che non ci avrebbe causato alcun disturbo. Siete con noi da meno di mezza giornata: rabbrividisco al pensiero della rovina che avrete perpetrato alla fine della settimana!”

19


Estratto da Georgette Heyer, Sophy la Grande Titolo originale dell’opera The Grand Sophy Edizione integrale Traduzione dall’inglese di Anna Luisa Zazo Traduzione delle parti mancanti di Bruna Mora © 1950 by Georgette Heyer © 2012 astoria srl via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano Prima edizione: giugno 2012 ISBN 978-88-96919-36-1 La prima edizione italiana (parziale) è stata pubblicata da Mondadori nel 1981 Progetto grafico: zevilhéritier Stampato nel mese di maggio 2012 da Galli e Thierry Stampa, Milano

www.astoriaedizioni.it


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.