Madame Sousatzka

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Era da tutta la vita che la signora Crominski usava l’ansia al posto delle anfetamine. E naturalmente con il passare degli anni ne era diventata dipendente. Senza ansia non sarebbe riuscita a vivere, e anche se non c’era nulla di cui preoccuparsi lei assumeva la sua dose quotidiana in modo da garantirsi una notte inquieta e insonne, cosa che per lei era diventata la norma. Si portava dietro l’ansia, come un’ombra incorporata, che la seguiva passo passo perfino quando il sole non splendeva. La signora Crominski svoltò l’angolo e sbucò nella strada dove abitava. Dopo una mezza dozzina di passi le apparve casa sua. Era ancora lì, tutta intera, e in casa a Dio piacendo c’era Marcus, e di nuovo a Dio piacendo Marcus era a letto. Odiava quelle notti in cui le toccava lavorare fino a tardi, con Marcus a casa tutto solo e costretto a prepararsi la cena per conto suo. Fa’ o Signore che mi abbia dato ascolto e non abbia acceso il fuoco sotto il bollitore. Adesso riusciva a vedere la finestra della camera da letto di Marcus, e la luce che filtrava tra le tende. Oh, grazie Signore, Marcus è in casa. “Marcus,” gridò, con la chiave ancora nella serratura. “Mamma?” lo udì rispondere. 1


C’è, e soprattutto è vivo. Salì le scale continuando a tirarsi dietro la pesante sporta della spesa, perché non voleva perdere tempo. Cercò di aprire la porta della camera, ma era chiusa a chiave. “Marcus,” sussurrò in preda al panico. “Che cosa succede?” “Mi sto svestendo, mamma.” “Svestendo,” strillò, sollevata. “E tu davanti a tua madre hai vergogna. È un bambino,” disse, rivolta al pianerottolo vuoto, “ha undici anni ma con la sua mamma lui ha vergogna.” Depose la sporta. “Quanto ci metterai?” “Cinque minuti.” Si sedette sul baule di cuoio, posando le mani aperte sulle ginocchia. “Marcus,” disse, “hai mangiato, tu?” “Sì, mamma.” “Hai esercitato, tu?” “Sì, mamma.” “Le scale?” “Sì, mamma.” “Gli arpeggi?” “Sì, mamma.” “I pezzi?” “Sì, mamma.” “Tutti due volte, da inizio a fine?” “Sì, mamma.” La signora Crominski sospirò soddisfatta, come se avesse spuntato una lista della lavanderia, trovandola completa. “Compiti?” aggiunse. “Sì, mamma.” Trovava sempre lievemente irritante che tutto potesse filare liscio anche se lei non era in casa. “Lavato i tuoi denti?” “No, mamma.” La signora Crominski sorrise. Sentì Mar2


cus aprire la porta e poi saltare nel letto. Entrò nella stanza, senza fretta. Marcus era sdraiato con le lenzuola tirate fin sotto il mento. La chioma nera nascondeva per metà il marcus ricamato in azzurro sul cuscino. La signora Crominski si sedette sul letto e Marcus non accennò a farle posto. Lei si accomodò in bilico sull’orlo e si chinò sul figlio. “Va bene,” disse lui. Sapeva a memoria il questionario in arrivo. “Cosa ti hanno dato per pranzo, oggi?” chiese Marcus, prevenendo la madre. “E allora? Che cosa ti hanno dato da mangiare?” “Mamma, ogni giorno ci danno carne, patate e gravy, torta e crema.” “E non danno a voi verdura, in queste belle scuole moderne?” “Spinaci.” “Tu sempre dimentichi verdure, Marcus.” “Insomma, gli spinaci non mi piacciono.” “Fanno tuo bene. Spinaci, piselli, fagioli. Tutti i vegetali fanno bene. Hai avuto verifica, oggi?” si affrettò a chiedere. “L’abbiamo avuta ieri, mami, te l’ho detto.” “I risultati oggi, magari?” “Sì.” La signora Crominski tentò di lasciar passare un intervallo di tempo dignitoso. “E allora?” disse, con la massima disinvoltura possibile. “Sono arrivato secondo.” “Secondo sei arrivato,” disse lei, abbracciandolo. “E chi è primo?” Marcus si divincolò dall’abbraccio. “Peter Goldstein.” “Uhm,” disse la signora Crominski, “ragazzino che tartaglia. Lui nebisch, lui secchione, lascia pure che sia lui primo, con sua balbuzie. Quanto ha preso?” 3


“Novantasei, e Peter Goldstein non è quello che balbetta, mamma. Quello è suo fratello.” “Ha preso novantasei e non tartaglia,” rifletté la signora Crominski. “E tu?” “Novantaquattro.” “Novantaquattro,” disse, alzandosi in piedi per conferire sincerità alla sua affermazione. “Dovresti solo cercare di fare tuo meglio e io non mi sto lamentando. Hai fatto tuo meglio, Marcus?” “Secondo è un buon risultato, mamma.” “Non mi sto lamentando,” gli strillò lei. “Ho forse detto che non è buon punteggio? Vorrei vedere che mi lamento di voto del genere. Hai fatto del tuo meglio. In ogni caso,” aggiunse a bassa voce, chinandosi su di lui, “questo Peter Goldstein vorrei proprio vederlo suonare il piano. Domani al concerto tu farai vedere a quelli. Tu sarai migliore, migliore,” ripeté, “non secondo. E adesso dormi. Domattina laverai denti due volte.” Gli occhi di Marcus erano chiusi e la madre pensò che si fosse addormentato. Lo guardò intenerita, pentendosi di tutte le piccole ferite che gli aveva inferto, di tutte le rampogne. Le volte che gli aveva negato il permesso di andare a nuotare perché era rincasato tardi da scuola. Si sarebbe fatta perdonare l’indomani. Tutte le sere, quando lo guardava dormire, pensava che si sarebbe fatta perdonare l’indomani. Spense la luce di Marcus e chiuse piano la porta. Scese le scale con la sua sporta pesante e i pensieri su Peter Goldstein, ancora più pesanti. Marcus si tirò a sedere sul letto e rigirò il cuscino, facendo sparire la sua identità ricamata in fil di seta. Tirò fuori la mano destra da sotto le lenzuola e la studiò attentamente. Il neo alla base del palmo, tutte le linee intrecciate che si diramavano come i binari in un terminal ferroviario. Girò la mano e si studiò le unghie. Quel che 4


vide non prometteva granché bene. L’unico dito cui fosse rimasto un frammento di unghia rosicchiabile era il mignolo, e lui se lo voleva serbare per dopo il concerto dell’indomani, in modo da festeggiare un po’. Tirò fuori anche la mano sinistra, sapendo fin troppo bene quello che avrebbe trovato. Ogni unghia era stata consumata fino in fondo. Prima di poter raccogliere qualcosa avrebbe dovuto lasciar riposare quella mano per almeno una settimana. Ristudiò il mignolo destro, con l’acquolina in bocca per la tentazione. Si affrettò a ricacciarlo sotto le lenzuola e si inginocchiò sul letto con aria solenne, seduto per bene sui talloni, una posizione che assumeva sempre quando le scorte di unghie scarseggiavano. Dopo un po’ gli vennero i crampi ai piedi e si allungò sotto le coperte serrando forte le palpebre. Si sfregò le orbite con le nocche. In quel modo riusciva a vedere un caleidoscopio di colori, e dai colori emergevano occhi, e dagli occhi le persone, e dalle persone dei quadri. Di tanto in tanto si strofinava di nuovo gli occhi, in modo da mettere meglio a fuoco, o dissolvere del tutto le immagini. Pensò al concerto della scuola. George Welsh era il primo, nel programma. Probabilmente avrebbe cantato l’Ave Maria. Cantava sempre l’Ave Maria, come se da lui ci si aspettasse questo. George era una mezza femminuccia. E poi ci sarebbero stati tutti quei bambinetti delle elementari, con la loro recita, con le madri che suggerivano le parole dell’alberello di noci su cui nascevano solo la noce moscata d’argento e la pera d’oro. E poi sarebbe toccato al capoclasse Hodges, della sesta superiore. Avrebbe suonato il clarinetto e tutta la classe lo avrebbe applaudito, insieme ai bambini di prima, che lo consideravano un dio. E Marcus sarebbe stato l’ultimo. Non voleva pensarci, alla sua esibizione. Sperava solo che sua madre non arrivasse in ritardo come aveva fatto l’ultima volta. E sperava che non si mettesse quel suo 5


cappello marrone o il cappello nero o il cappotto marrone o il cappotto nero. Che altro avrebbe potuto mettersi? Niente. Forse non sarebbe riuscita a farsi dare il pomeriggio libero. Forse… aprì rapidamente gli occhi, come per scacciare il pensiero. All’improvviso gli parve di vederla, seduta dabbasso, davanti alla sua cena solitaria. Si era cavata le scarpe e stava riposando su un cuscino i piedi gonfi e calzati in filo di Scozia marrone. Di colpo gli venne voglia di correre giù per le scale a darle un bacio, di farsi perdonare per tutte le piccole ferite che le aveva inferto. Domani sarò gentile con lei, pensò. Domattina le darò un bacio. E se non c’è nessuno lì a guardare le darò un bacio anche a scuola. Si mise a sedere e girò il cuscino. Passò la mano sul suo nome ricamato in seta e posò la testa sulla mano. Si sentì graffiare la fronte, un ricordo del raccolto eccezionale sul mignolo. Se lo fece scivolare in bocca e lo mordicchiò, felice, finché non si assopì. Come Marcus aveva previsto, sua madre arrivò in ritardo. E come Marcus aveva temuto, si era messa il cappello marrone e il cappotto nero. Lui era seduto sul palco insieme agli altri interpreti. Gli diedero dei colpetti di gomito, lungo la fila. “Lì c’è la tua,” come se lui non fosse in grado di vedere la madre. Se solo avesse potuto avrebbe negato l’esistenza di un rapporto con quella donna. Ma sua madre era troppo conosciuta, a scuola, per via dei suoi frequenti colloqui con il preside. “Professore, Marcus può essere esonerato di scuola, oggi? Domani ha concerto.” Oppure: “Sarebbe meglio che Marcus non gioca a calcio, penso. Nuoto d’accordo. A ragazzo un po’ di esercizio fisico fa bene”. Ogni settimana c’era una storia diversa. Marcus fissò ostinatamente il soffitto. Non osava guardare in direzione di sua madre. E soprattutto temeva che intercettando il suo 6


sguardo, lei lo avrebbe salutato con un cenno. Contemplò i pannelli di legno scuro e gli anelli e le scalette di corda che venivano immancabilmente appesi lassù ogni volta che la palestra veniva utilizzata come sala spettacoli. Lui odiava sua madre perché era arrivata in ritardo, per quel suo cappello marrone e per il cappotto nero e la sporta della spesa che era diventata parte integrante del suo guardaroba. E Marcus vedeva che era piena, il cavolfiore faceva capolino, e i porri, e le patate sotto tutto il resto. Verdure, verdure, verdure. Ne avvertiva il peso e ancora una volta vide i piedi di sua madre, gonfi e calzati di filo di Scozia marrone. Guardò deliberatamente in quella direzione e sorrise. E come era prevedibile lei gli fece ciao con la mano. Il concerto era quasi finito. Quella di Marcus era l’ultima esibizione. George Welsh aveva cantato con trasporto l’Ave Maria, e la madre era svenuta platealmente in prima fila, per far capire bene che quello era suo figlio. Sei bambini piccoli avevano recitato una poesiola di Milne, tutti quanti con la stessa cantilena monotona, tutti quanti avevano portato al mercato la loro monetina lustra e nuova di zecca, seguiti, l’uno dopo l’altro, da una madre orgogliosa che bofonchiava quegli stessi versi in silenzio. Hodges, il capoclasse, aveva fatto il suo assolo di clarinetto, offrendo al pubblico, come certamente aveva promesso il preside, una grande interpretazione. Adesso toccava a Marcus. L’annuncio del suo nome fu accompagnato da mormorii di assenso del pubblico, e anche da mormorii di apprezzamento sincero. Perché Marcus quando dava un concerto veniva sempre considerato un professionista e dunque fuori da ogni competizione. Marcus si sedette al piano, e aspettò che gli applausi cessassero. Stava per cominciare quando si spalancarono le porte in fondo alla sala. Tutto il pubblico si girò a guardare 7


la nuova venuta. Lei prese posto in piedi, laggiù alle spalle degli altri, e salutò il preside con un vago cenno del capo. Marcus la guardò attentamente. Nel giro di un secondo assorbì ogni dettaglio del suo aspetto. La caratteristica più eccitante del viso della donna era la fronte, semplicemente perché era invisibile. Era coperta da un frangione nero e folto, una massa che sembrava spuntare direttamente dalle sopracciglia. Era vestita da capo a piedi di stoffa nera, e perfino la borsetta pareva il prolungamento di una crinolina. Sul petto e dai polsi penzolava un assortimento di perle e pendagli colorati. Se ne stava immobile e silenziosa come le due colonne che le facevano da cornice, in fondo alla sala. Marcus capì chissà come che era venuta per lui, e all’improvviso si innervosì assai. Il pubblico era in attesa, ma Marcus sentiva di non poter cominciare senza il permesso di quella donna. La guardò, in attesa di un segnale. E lei fece di nuovo un cenno con il capo, quasi impercettibile, e Marcus attaccò a suonare. Aveva scelto un valzer di Chopin, essenzialmente perché era un brano popolare, e uno dei preferiti di sua madre. Non presentava alcuna difficoltà tecnica per lui, e dopo un po’ si ritrovò a suonare in automatico, come se stesse azionando una pianola. Avvertiva su di sé lo sguardo della donna. Chissà se aveva aggrottato le sopracciglia sotto quella massa di capelli, se stava sorridendo, o magari annuiva. Marcus provava un desiderio lancinante di girarsi a guardarla. Lanciò un’occhiata furtiva al palco, alla fila di insegnanti. Nessuno di loro lo stava guardando. Avevano tutti gli occhi fissi sul fondo della sala. Marcus sì sentì defraudato e aveva una gran voglia di piantare lì il pezzo. Cominciava a odiare quella donna, perché lei gli stava rubando le luci della ribalta. Rimase sorpreso nel rendersi conto di essere vicino alla battuta finale. Il pubblico aveva cominciato a battere 8


le mani dopo il primo dei tre accordi conclusivi. Marcus si chiese se anche la donna stesse applaudendo. Decise di non guardarla, al momento degli inchini al pubblico, ma poi scoprì comunque che lei lo stava fissando. Senza battere le mani. Era lì immobile in piedi in fondo alla sala. Marcus si girò per ringraziare degli applausi scroscianti dal palco. E poi si girò di nuovo alla svelta e la colse nell’atto di applaudire approfittando dell’attimo in cui Marcus aveva la schiena girata. La donna lasciò ricadere le mani lungo i fianchi con aria colpevole e ricambiò lo sguardo. La gran parte del pubblico si stava alzando per passare lentamente davanti al lungo tavolo accostato a una parete, dove veniva servito il tè. Marcus osservò la donna e la vide percorrere il corridoio centrale e avvicinarsi al preside, che le era andato incontro per salutarla. Si salutarono più o meno a metà strada. Il preside guardò in direzione di Marcus e gli fece un cenno di richiamo. La signora Crominski aveva visto il segnale. Tutto quello che riguardava Marcus riguardava anche lei, e dunque si portò accanto al preside ancor prima dell’arrivo di Marcus. “Questa è la madre,” disse il preside, “la signora Crominski, e questo,” allungò il braccio in direzione di Marcus, “questo è il ragazzo che lei è venuta a sentire. Marcus,” proseguì, “questa signora è una grande insegnante. Madame Sousatzka.” La signora Crominski sussultò. Il nome aveva un sapore netto di celebrità. “È meraviglioso, Marcus,” disse, “che signora così importante venuta a sentirti.” Marcus si infastidì per l’osservazione di sua madre e pregò in silenzio che madame Sousatzka la perdonasse. Madame Sousatzka sorrise alla signora Crominski. “Signora Crominski,” disse, “suo figlio ha molto talento.” Il suo inglese era incerto, notò Marcus, ma non quanto quel9


lo di sua madre. L’inglese di sua madre era stentato nel corpo e nello spirito. In madame Sousatzka le fratture tra una parola e l’altra erano meno gravi. “Chi è il suo insegnante?” “Il signor Lawrence,” disse la signora Crominski, con il tono di chi fa una dichiarazione importante. Madame Sousatzka non manifestò alcuna reazione. “Accademia Reale della Musica,” aggiunse la signora Crominski, come questo rendesse il signor Lawrence meritevole di un qualche riconoscimento. Madame Sousatzka rimase in silenzio. “Professore associato del College Reale. Diploma,” continuò la signora Crominski, con un accenno di disperazione. Madame Sousatzka rimase in attesa. La signora Crominski decise di giocarsi l’ultima carta. “Master of Art a Oxford,” disse. Il signor Lawrence evidentemente era un uomo che cambiava i suoi cavalli a metà del guado. Se la signora Crominski avesse saputo che tipo era madame Sousatzka si sarebbe resa conto dell’inutilità di snocciolare qualifiche. “Piacerebbe a me avere qvesto ragazzo come mio allievo,” si limitò a dire Madame. Il primo pensiero della signora Crominski fu il denaro, o meglio la mancanza di esso. Marcus sperò ardentemente che non ne parlasse. Si vergognava della loro povertà in presenza dei ricchi, e immaginava che madame Sousatzka fosse ricca. Ma la signora Crominski non provava altrettanta vergogna. “Noi tutti quei soldi,” rise, “non abbiamo.” Il preside scrollò le spalle di fronte a quel dettaglio irrilevante. “Madame Sousatzka,” spiegò alla signora Crominski, “è una vecchia amica. La conosco da quando è arrivata in questo paese, tanti anni fa. Madame Sousatzka non prende come allievi i primi che passano. Il denaro per lei ha un’importanza secondaria.” Che cara signora ebrea, pensò la signora Crominski, e poi ad alta voce, rivolgendosi a lei: “Mio figlio ripagherà 10


lei, madame Sousatzka, ripagherà con gli interessi, mille volte. E lei avrà un gran vantaggio. Non pentirà di averlo preso”. La signora Crominski aveva un talento speciale nel guardare in bocca al caval donato. Madame Sousatzka aprì la borsa. Pendeva come un braccialetto dal suo polso. Non la sfilò dalla mano. Aprì il gancio e quella si spalancò. Ci frugò dentro alla cieca e ne tirò fuori un cartoncino bianco. Quando ritirò la mano, Marcus scrutò l’interno della borsetta. Il disordine che c’era là dentro lo sbigottì. Non corrispondeva in alcun modo all’aspetto impeccabile di madame Sousatzka. Riuscì a identificare, grazie ai colori, la presenza di almeno quattro fazzoletti. Un pettine rotto era impigliato in un portacipria di metallo, c’erano ovunque macchie di cipria rosa. Una stilografica aperta aveva lasciato chiazze d’inchiostro sulla fodera e nella tasca interna si erano infilate alcune forcine per capelli, che vagavano alla rinfusa. Marcus pensò al caos dentro la borsa di sua madre, un caos fatto degli stessi ingredienti, fazzoletti sporchi, pezzi di carta, spilli e biglietti dell’autobus. Se avessero aperto la borsa di sua madre, esponendola al pubblico, Marcus sarebbe fuggito per la vergogna. Ma in madame Sousatzka quel disordine pareva in qualche modo giusto, appropriato. Marcus cominciò a essere molto orgoglioso di lei. “Venerdì alle tre,” la sentì dire. “Lì sul biglietto da visita c’è indirizzo.” “Sì,” disse il preside, anticipando la domanda della signora Crominski. “Marcus può uscire da scuola alla una.” Si sfregò le mani, e accompagnò le donne al tavolo del tè. La signora Crominski si guardava attorno raggiante, la gente osservava il gruppetto con stupore e ammirazione. Mise un braccio attorno alle spalle di Marcus per guidarlo al tavolo. “Per favore non qui, mamma,” la supplicò lui. 11


La signora Crominski lasciò ricadere lentamente il braccio e Marcus capì di averla ferita. Camminava davanti a lui e Marcus nel guardare il suo cappello pensò che quello era il marrone più marrone che avesse mai visto. Quella sera dopo cena la signora Crominski aveva voglia di parlare di madame Sousatzka. Marcus invece aveva solo voglia di pensarci. “Che gran donna,” disse la signora Crominski, “e solo il meglio lei prende, mi hanno detto. Dovresti essere grato, Marcus. E senza pagare lei prende mio figlio.” “Ma perché hai tirato fuori la storia dei soldi, mamma?” “E dovevo dire bugia? Non ti preoccupare. Con pianoforte farai un sacco di soldi. La ripagherai. Cento volte tu ripagherai.” “Non è carina, mamma?” Marcus stava quasi parlando da solo. “Carina non direi. Lei un tipo, forse. Parla inglese buffo. Non come noi. È profuga lei, è chiaro. E quelli possono anche passare tutta vita in Inghilterra ma mai parlano come veri inglesi. Sì,” rifletté, “lei molto, molto straniera.” “Vediamo il suo biglietto da visita, mamma,” disse Marcus, prendendo la borsetta. La signora Crominski gliela tolse di mano. “Che c’è di tanto speciale in biglietto da visita?” borbottò, aprendo il gancio. Spalancò la borsa sul tavolo. Sotto lo specchietto interno era fissata una foto ingiallita del defunto padre di Marcus. “Sarebbe bello lui sapesse,” disse tristemente la signora Crominski. “Ma lui sa. Mi diceva sempre, lui, non ti preoccupare Sadie. Quando Marcus grande lui prenderà cura di te.” A Marcus veniva ricordata in continuazione la promessa che il padre aveva fatto a nome suo. Il padre di Marcus era morto che lui aveva soltanto tre anni, e lui lo ricordava appena, ma la signora 12


Crominski lo aveva sempre al suo fianco. “Tuo padre sarebbe orgoglioso di te,” ripeteva spesso, oppure: “Grazie a Dio tuo padre non qui a vederti, che Dio lo benedica, quanto lui vergognerebbe di te”. “Cosa avrà di tanto speciale un biglietto?” borbottò, frugando tra i fazzoletti e i pezzi di carta. Lo tirò fuori, già spiegazzato e pieno di macchie. “madame sousatzka,” lesse, “132 vauxhall mansions, w.2. Bel po’ lontano da Stamford Hill, altroché,” disse, “vicino Hyde Park. Posto molto elegante.” “Mamma, dallo a me,” disse Marcus, allungando la mano. “Lo perderai. Non hai tu perso chiavi di casa, la settimana scorsa?” “Lo terrò in camera mia, promesso.” “Prendilo,” disse lei, lievemente disturbata dall’entusiasmo del figlio. “Ma cerca non esagerare. Cosa tu aspetti da lei? Madame Sousatzka è gran donna, profuga molto per bene, ma anche lei essere umano come tutti.” Marcus stava fissando il biglietto, ammaliato. “È essere umano come me, ecco cosa lei è, Marcus. Mi hai tu sentita?” disse, pur sapendo che lui non stava ascoltando. “Non è niente di speciale. Dammi quel pezzo di carta. Lo tengo io.” Glielo strappò di mano. “E adesso vai a letto. È tardi.” Marcus si alzò da tavola e uscì dalla stanza. Lei aspettò che il ragazzo fosse sulle scale e poi gridò: “Non tu dimenticato qualcosa, Marcus?”. “No, mamma,” gridò lui di rimando. Il bacio della buona notte se l’era ricordato, ma aveva deciso di non darglielo, di proposito. “Troppo tu impegnato pensare a madame Sousatzka, immagino,” gli urlò dietro lei. 13


Marcus andò in camera sua, e soffiò un bacio alla madre con la punta delle dita, giù per le scale. Fin lì era disposto ad arrivarci. Tirò indietro il copriletto e girò il cuscino. Rimase lì sdraiato a pensare al biglietto da visita. 132 Vauxhall Mansions. Immaginò un grande castello ai margini del parco. E dentro c’era la castellana, madame Sousatzka. Le pareti erano coperte da arazzi, e dai soffitti tremolavano le luci dei candelabri. Marcus sedeva al pianoforte, dentro una voliera, e madame Sousatzka gli accarezzava i capelli attraverso le sbarre. All’inizio dolcemente, con il palmo a sfiorargli la fronte. Ma a poco a poco le sue mani si indurirono e lei le premette sempre più forte, affondandole nello scalpo di Marcus. Gli stava facendo male, eppure lui non voleva che madame Sousatzka smettesse. Moriva dalla curiosità di sapere come sarebbe andata a finire. E all’improvviso attorno a lui la gabbia si squagliò, come un cerchio di candeline da compleanno, e Marcus si svegliò tutto sudato, con la sensazione strana e terrificante di aver scoperto quel che nessun altro al mondo aveva mai saputo. Udì i passi della madre su per le scale. Si affrettò a girare il cuscino e finse di dormire. Sentì sua madre china su di lui, la carezza sui capelli, il tocco delle labbra ruvide sulla fronte. “Domani,” pensò, “domani mi farò perdonare.”

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Estratto da Bernice Rubens, Madame Sousatzka Titolo originale dell’opera Madame Sousatzka Traduzione dall’inglese di Marina Morpurgo © Bernice Rubens 1962 © 2013 astoria srl via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano Prima edizione: gennaio 2013 ISBN 978-88-96919-48-4 Progetto grafico: zevilhéritier

www.astoriaedizioni.it


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