1 Il signor Middleton è preoccupato
In una rugiadosa mattina di giugno il proprietario di Laverings guardava fuori dalla finestra della camera da letto. Non da quella ampia che dominava il bel giardino verso sud, i prati, la distesa boscosa delimitata dalle colline, ma da quella laterale che si affacciava su una stradicciola a est. In mano aveva una lettera, il cui contenuto di tanto in tanto gli tornava con rabbia alla mente. Né la dolce aria di giugno né il benefico calore del sole riuscivano a mitigare la pessima impressione causata dalla posta del mattino. Tutto cospirava contro di lui, compreso il fatto che la Casa Bianca, il cui giardino confinava con il suo, era indubbiamente disabitata, cosicché non c’era alcuna scusa per rifiutarla a gente che non desiderava particolarmente avere come inquilini. Amava, è vero, la sorella vedova, la signora Stonor, ma i suoi figliastri, già adulti, gli erano quasi sconosciuti e avrebbero potuto invadere la sua privacy con la disinvoltura tipica dei parenti e causargli molto fastidio. Tutto quello che sapeva dei giovani Stonor era che il figlio era delicato di salute e che la sorella, come ricordò rabbrividendo, non era delicata per niente, e al momento ambedue le condizioni gli sembravano ugualmente ripugnanti. 1
Dando uno strattone stizzoso alla vestaglia color cammello, ritornò vicino al tavolo dove erano stati messi il vassoio con la colazione e le sue lettere. Il caffè versato dieci minuti prima era ormai tiepido e ricoperto da una pellicola tutt’altro che allettante. Era più di quanto una persona normale potesse sopportare. Si diresse a grandi passi verso la porta, l’aprì e urlò il nome della moglie nel corridoio. Nessuno rispose. Sbatté la porta, con il cucchiaio gettò l’orribile pellicola nel piattino, bevve il caffè tiepido e scorse il resto della posta. Affari, lettere d’ufficio, preventivi d’imprenditori edili. Irritato, gettò tutto sul tavolo e ritornò alla finestra, ruminando il proprio risentimento contro la sorella che con il suo sconsiderato progetto di passare l’estate vicino a lui gli aveva completamente e per sempre distrutto la pace dello spirito. In quel momento si udì un suono stridente, seguito da un rumore di zoccoli al passo, misto a un tintinnio di bardature e finimenti, e la voce incoraggiante di un carrettiere. Dall’angolo della stradina arrivò un carretto di un bell’azzurro vivace, con le ruote rosse, trainato da un mostro benevolo con lunghe gambe pelose e un lucido mantello. Il carretto era carico di fieno fresco e l’asse aveva assoluta necessità di olio. Appollaiato di traverso, dietro le zampe posteriori del mostro, c’era un uomo di mezza età, che impartiva monosillabici ordini al cavallo, il quale apertamente li ignorava sapendo da un pezzo cosa avrebbe detto il suo conducente. Su un lato del veicolo era dipinta di sbieco a lettere bianche: j. middleton fattoria laverings
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Alla vista di quell’equipaggio il signor Middleton sentì scendere in sé una dolce sensazione di pace e di benessere. Le aspirazioni dell’animo umano sono innumerevoli. Alcuni vorrebbero dare il nome a una rosa, altri a una montagna, altri ancora a una salsa o a una torta, ma la segreta ambizione di John Middleton, fin dall’infanzia, era stata di possedere un carretto suo, con il suo nome dipinto sopra. Fu preso dalla vaga consapevolezza che sulla terra non c’era niente di più meraviglioso che guardare fuori da una finestra in una mattina d’estate, riscaldati da un buon caffè, confortati dalla previsione della visita della propria sorella e dei suoi figliastri, e vedere un biroccio azzurro con le ruote rosse, carico di fieno fragrante e tirato da un imperturbabile cavallo condotto da Tom Pucken, decorato con il proprio nome. “’Ngiorno, Pucken,” gridò il signor Middleton dalla finestra. Pucken guardò in su mostrando un bel viso astuto e segnato dalle intemperie, si toccò l’ormai logoro cappello, urlò al cavallo alcune istruzioni obsolete e fu immediatamente trascinato verso il cancello che conduceva alla fattoria. Il signor Middleton, rallegrato dallo spettacolo, si tolse la vestaglia, terminò di vestirsi e andò in cerca della moglie. Ma non si diresse, come ci si poteva aspettare, verso le scale. Spinto da un ardente desiderio di assicurarsi ogni comodità, John Middleton aveva disposto la casa in modo inconsueto. Per almeno quattrocento anni il podere di Laverings era appartenuto alla stessa famiglia: a volte ereditato da un figlio, a volte dato in dote a una figlia, aveva spesso cambiato nome, ma mai, per così dire, discendenza. Allo stesso modo il fabbricato era stato cambiato, alcune parti abbattute e ricostruite, altre aggiunte, di tanto in tanto incendiato, 3
ma aveva mantenuto lo spirito e il nome del costruttore originale. Quando l’ultimo proprietario, rovinato dalla costruzione della Casa Bianca e da un folle tentativo di entrare a far parte della piccola nobiltà invece di rimanere attaccato alla terra, aveva deciso di vendere la proprietà e di andare a raggiungere un cugino che commerciava motori in Canada, la maggior parte del podere era stata comprata dai vicini, ma la casa, con pochi superstiti acri di terreno attorno, era rimasta abbandonata. Un bel giorno John Middleton, promettente architetto, passando per caso a Laverings, l’aveva vista e l’aveva immediatamente riconosciuta come sua, però non poteva permettersi di comprarla. Per quanto dotato di un semplice ottimismo che non gli faceva mai dubitare di riuscire a ottenere, prima o poi, tutto ciò che desiderava – ottimismo che fino a quel momento non l’aveva mai tradito –, una non comune generosità d’animo e una vecchia madre da mantenere gli rendevano alquanto difficile risparmiare denaro. E così per dieci anni Laverings era rimasta vuota e desolata. Al termine di quel periodo un certo sir Ogilvy Hibberd aveva improvvisamente manifestato l’intenzione d’acquistarla, ma i proprietari dei dintorni, che per varie e complicate ragioni non lo gradivano come vicino, avevano immediatamente formato un comitato, presieduto da lord Bond di Staple Park, e avevano considerato i mezzi per frustrare le intenzioni dell’odiato sir Ogilvy. Lord Bond, che aveva più denaro di quanto ne potesse spendere, nonché una imperiosissima moglie, era stato spinto a comprare Laverings, assieme alla Casa Bianca e a quattro vasti campi, mentre il deluso sir Ogilvy Hibberd dovette accontentarsi dei Cedri sulla collina di Muswell, che era diventato disponibile in seguito alla morte dell’onorevole signora C. 4
Augustus Fortescue (Fifi), unica figlia ed erede di Bunyan, primo barone di Alberfylde. Sin dal momento dell’acquisto, lord Bond aveva sentito che a Laverings ci voleva un uomo sensato. Cosa intendesse per un uomo sensato, nessuno lo sapeva, e nemmeno lui, tranne forse un forte pregiudizio contro chiunque venisse da Cambridge, ma un fortuito incontro con John Middleton gli chiarì le idee. Middleton parlò con lord Bond per un’ora e un quarto senza mai interrompersi, e lord Bond lo invitò a rimanere con lui a Staple Park per il fine settimana. La domenica pomeriggio lo condusse a Laverings per vedere quali riparazioni stesse facendo alla casa, e quella sera, un po’ frastornato, concluse con il signor Middleton un lungo contratto d’affitto per la casa a una cifra irrisoria, promettendo di fare tutti i cambiamenti che il nuovo inquilino desiderava. Il signor Middleton decise subito di tenere per sé tutto il lato orientale della casa, usando come biblioteca la cucina che una vecchia scala di servizio metteva in diretta comunicazione con una camera da letto, un bagno e uno spogliatoio che intendeva usare come studio. Sua madre si trasferì malvolentieri in campagna, volle un semicupio nella propria stanza da letto, vi languì per qualche mese e poi morì. Lui la pianse sinceramente, le dedicò la più grande e costosa corona di fiori che Skeynes avesse mai visto e poi se ne dimenticò, se si eccettua qualche raro momento di sentimentalismo. Per dieci anni visse solo e felice a Laverings, andando in città dal martedì al venerdì tutte le settimane, lavorando accanitamente il lunedì e il sabato mattina e trascorrendo piacevolmente il fine settimana con qualche amico. Durante questo periodo aveva assunto l’aspetto di un tranquillo gentiluomo di campagna, aumentato la piccola mandria di 5
mucche e acquistato il carretto azzurro con le ruote rosse con il quale abbiamo già fatto conoscenza. Quando incontrò la sua futura moglie, un’orfana sulla trentina, John Middleton era vicino ai cinquanta, e tutti giudicarono la coppia ben assortita. Il matrimonio fu celebrato solennemente a Londra; i Bond diedero un sontuoso ricevimento nella loro casa di Grosvenor Place e la sposa ringraziò Dio dal profondo del cuore per averla liberata per sempre dai suoi parenti. Il signore e la signora Middleton non ebbero figli ma, come Catherine spesso diceva, una volta vinta la delusione iniziale, la vita era assai piacevole egualmente. Così il signor Middleton passò direttamente dalla sua camera alla scaletta di servizio e scese nella biblioteca, un’ampia stanza dal soffitto basso, assolata e con una portafinestra che dava sul giardino. I libri ricoprivano le pareti, c’era una seggiola comodissima, poche altre assai meno comode, tre grandi tavoli carichi di libri e giornali e un pianoforte che nessuno suonava mai. Il signor Middleton guardò il tavolo su cui si stava accumulando materiale per un articolo per la rivista della Reale Associazione degli Architetti Britannici, posò su un altro tavolo la posta e ruggì nuovamente il nome della moglie. Questa volta il suo appello ebbe maggior successo, poiché la signora Middleton, che stava lavorando nel giardino, lo udì e attraversò il prato. Il marito le andò incontro sulla terrazza lastricata e la baciò con affetto sulla testa. Non che Catherine fosse bassa, ma la corporatura massiccia del signor Middleton, sormontato da una testa leonina leggermente calva, facava sembrare tutti gli altri fragili e insignificanti. “Come stai questa mattina, caro?” disse la signora Middleton. “Hai un’ottima cera, però mi sembri un po’ strano.” 6
“Non riesco a veder niente di strano in me,” le rispose il marito. “È perché non puoi vederti, Jack,” ribatté lei. “Stai molto bene e mi piaci così come sei.” La signora Middleton non aveva esagerato dicendo che l’aspetto del marito era strano, poiché da quando aveva comprato il carretto, John Middleton si era sentito in tutto e per tutto un gentiluomo di campagna e, dopo una violenta lotta con il sarto, aveva ordinato una serie di abiti adeguati. Quella mattina aveva indossato una camicia azzurra, una specie di giacca da caccia a larghi scacchi, con tasche che sarebbero andate bene per un cacciatore di frodo, calzoni alla zuava color arancio scuro, ghette di tela e scarponi chiodati. Era vero che nessun gentiluomo campagnolo, sia nella vita reale sia sul palcoscenico, si era mai vestito in modo così stravagante, ma assumere un aspetto leggermente eccentrico dava al signor Middleton un piacere così puro che la moglie non aveva il coraggio di fargli notare i segni che i suoi scarponi chiodati lasciavano sul pavimento di legno della biblioteca. “Sono contento che tu mi sopporti così come sono,” incominciò il marito, un po’ sospettoso, “poiché alla mia età è molto improbabile che io possa cambiare. Se fossi stato più giovane quando mi hai sposato, Catherine, più adatto a te come età, avresti potuto rimodellare la mia vita, plasmarmi a tuo piacere. Ma tu hai avuto pietà di un povero vecchio, la tua giovane vita si è attorcigliata alle rozze radici di un albero colpito dalla tempesta, e non posso cambiare il mio modo di vivere. Non posso cambiare i miei punti deboli.” “Mi piace il tuo modo di ripetere le cose due volte,” rispose la signora Middleton, “e non voglio che tu cambi i tuoi punti deboli. Perché mi hai chiamata?” 7
L’espressione solenne del signor Middleton svanì in un attimo e divenne informe come l’acqua. “Ti ho chiamata perché ho bisogno di te,” disse, diventando improvvisamente un bambino affranto, “ti ho chiamata due volte e tu non sei venuta.” “E poi mi hai chiamata la terza volta ed eccomi qua,” disse la moglie, il cui amore per il marito non le impediva di non nutrire alcuna illusione su di lui. “Cosa posso fare per te?” “Si tratta di mia sorella Lilian,” disse il signor Middleton, che la corroborante mancanza di comprensione da parte della moglie aveva fatto riprendere. “Ho ricevuto una sua lettera questa mattina. Ce l’ho qui nella tasca. No, non c’è. Vedi, Catherine? La mia memoria non è più quella di un tempo. È sul tavolo della biblioteca.” E rientrò in casa, seguito dalla moglie. “Siediti, Catherine,” le disse, prendendo posto nell’unica sedia comoda, “te la leggo.” Quando ebbe finito, la moglie gli chiese la lettera, poiché è molto più facile capire ciò che si legge con i propri occhi. Piuttosto offeso, lui gliela porse con una studiata cortesia che Catherine ignorò. “Che bella notizia,” esclamò lei rendendogli la lettera. “La Casa Bianca è pronta, non c’è che da preparare i letti e sarà piacevolissimo avere Lilian e i bambini. Inoltre, visto che dice che porterà la sua cameriera, non ci sarà alcun problema.” “Bambini…” disse il signor Middleton. “Già, Denis ha venticinque anni e Daphne ventuno, potrebbero quasi essere miei figli. E quasi tuoi nipoti, suppongo. Intendo dire che, se tu avessi avuto un figlio a sedici anni e lui avesse fatto un figlio a sedici, questo ci porterebbe a 8
trentadue, e tu ne hai sessantadue, quindi Denis potrebbe averne trenta, il che ci lascia un sacco di anni.” “Non so proprio perché Lilian abbia sposato un colonnello in pensione che non ha fatto altro che morire e lasciarla con due figliastri già adulti,” borbottò il signor Middleton, deciso ad avere un motivo per lamentarsi. “Probabilmente non lo sa neppure lei,” gli rispose Catherine placidamente. “Di solito nessuno lo sa. L’amore fa fare alla gente cose strane. Guarda noi. Non ci potevano essere due persone meno adatte a vivere assieme, eppure ci siamo sposati. E io ti amo, Jack.” Il signor Middleton guardò la moglie; l’espressione del suo viso da corrucciata e indispettita si sciolse in pura tenerezza, uno sguardo che trafiggeva sempre il cuore della moglie, che tuttavia non pensava gli facesse bene saperlo e così gli chiese quando sarebbe arrivata la signora Stonor. Il signor Middleton disse la settimana dopo e che sarebbe stato in uno dei suoi giorni di lavoro, e che se non avesse potuto lavorare fino all’ora di pranzo, tanto valeva che si ritirasse e lasciasse il posto a uno più giovane. Così Catherine gli mise una mano sulla spalla e si avviò verso la Casa Bianca. Appena comprata la proprietà di Laverings, lord Bond aveva trasformato così bene la Casa Bianca da renderla una residenza gradevole. All’inizio era stata affittata alla vedova di un generale in pensione, ma alla sua morte il signor Middleton aveva deciso di tenerla per sé come eventuale alloggio per gli ospiti del fine settimana o per prestarla o affittarla ad amici. In caso di bisogno Sarah Pucken, la moglie del carrettiere, dava una mano e all’occasione si faceva aiutare da una figlia. Prima di sposarsi, Sarah Pucken era 9
stata aiuto cuoca a Staple Park ed era profondamente consapevole della propria posizione. Era motivo di continua tristezza che suo marito appartenesse a una classe inferiore, tuttavia lo nutriva bene e gli permetteva di usare una mezza corona la settimana – del suo stipendio – per spese personali. Le tre figlie maggiori erano a servizio in ottime dimore. Altre due erano ancora in casa e mostravano segni di ribellione, desiderando andare a lavorare da Woolworth’s, ma la madre aveva già trovato un posto come aiuto cuoca presso la signora Palmer a Worsted per Ireen, che tutti a eccezione della signora Middleton chiamavano Irene, e aveva in mente un posto come sesta cameriera per Lou. La più giovane delle Pucken si chiamava in realtà Lucasta, nome impostole da lady Bond, che con una certa irresistibile condiscendenza aveva deciso di fare da madrina alla figlia della sua ex aiuto cuoca, ma era chiaro a tutti nel villaggio che il nome Lucasta non doveva mai essere usato. La signora Middleton percorse il sentiero lastricato, attraversò il cancello, poi la stradina e andò alla Casa Bianca, aprendo la porta principale con le chiavi che si era portata dietro. Sorpresa, sentì delle voci provenienti dalla parte posteriore della casa, andò in cucina e vi trovò la signora Pucken e Lou, che facevano ciò che la signora Pucken chiamava una bella pulizia. Tutto, in cucina, era bagnato. La tavola era stata capovolta e, mentre Lou ne strofinava le gambe, la madre lavava il cassetto. La signora Middleton si fermò sul gradino che conduceva alla cucina e che era stato uno degli errori dell’architetto, e osservando la scena con interesse salutò la signora Pucken. “Scommetto che è sorpresa nel vederci qui, signora,” disse la signora Pucken con la voce di un prestigiatore che ha tirato fuori un coniglio dal cappello. “Lo stavamo pro10
prio dicendo, non è vero Lou?, che la signora Middleton sarebbe stata sorpresa.” “Sì, la mamma stava proprio dicendo che lei sarebbe stata sorpresa nel vederci,” disse Lou, che nessuno sforzo materno riusciva a convincere a dire “signora”, per quanto non volesse essere maleducata. “Sono davvero molto sorpresa,” disse la signora Middleton, pensando che con quell’ammissione avrebbe potuto evitare un’ulteriore ripetizione, e continuò in fretta: “Stavo proprio venendo a chiedervi di pulire la casa, perché la sorella del signor Middleton, la signora Stonor, verrà la prossima settimana con i figliastri”. “Lou, che cosa ti avevo detto?” sbottò la signora Pucken. “Quando la signorina Phipps dell’ufficio postale mi ha informato che c’era una lettera della signora Stonor per Laverings, ho detto a Pucken: ‘Non c’è dubbio, la signora Stonor sta per arrivare’. L’ho fatto mangiare in fretta e sono subito venuta con Lou a lavare la cucina. Per quando aspetta la signora Stonor e i signorini, signora?” La signora Middleton aveva da tempo accettato le investigazioni della signorina Phipps nel sacco della posta e quasi ne ammirava l’infallibile memoria per le differenti calligrafie. La signorina Phipps interpretava il regolamento delle Regie Poste con lodevole larghezza di mente. Tratteneva la corrispondenza in arrivo nel suo ufficio invece di mandarla a Laverings se il signor Middleton telefonava per dire che, andando in città, sarebbe passato lui stesso a prenderla. Più di una volta gli aveva permesso di frugare nel sacco per cercarvi le sue lettere, aprirle e cambiare una parola o una cifra. Se poi da Laverings si voleva telefonare a qualche vicino, sapeva sempre se la persona desiderata era in casa, in visita o a Winter Overcotes per acquisti. In que11
sto caso incaricava il farmacista di trasmettere il messaggio. Poiché aveva sempre usato il suo potere e le sue informazioni unicamente per il bene degli utenti, non c’erano mai stati reclami e, pur sospettando vagamente qualcosa, l’ispettore non era mai potuto intervenire. La signora Middleton comunicò che aspettava gli Stonor per il sabato successivo. “Allora,” disse la signora Pucken sedendosi sui calcagni, “è un bene che io abbia pulito la cucina. Lunedì, io e Lou finiremo il salotto e martedì la sala da pranzo e mercoledì la camera da letto padronale e giovedì…” “Ma le avete riordinate la settimana scorsa, dopo che è stato qui il signor Cameron,” osservò la signora Middleton, che aveva ospitato per il fine settimana alla Casa Bianca il socio del marito e un altro membro della ditta. “Mi piace quel signor Cameron,” fece la signora Pucken con aria meditabonda, “e Lou desidererebbe avere una sua fotografia, vero Lou?” Lou ridacchiò e raddrizzò la tavola. “Ma non potrei far venire qui i signori Stonor senza aver pulito per bene la casa, signora,” disse Sarah Pucken, improvvisamente professionale. “Vieni Lou. C’è della bella acqua saponata nel secchio e puoi lavare il pavimento del retrocucina. Ricordo la signorina Stonor come se fosse ieri, quella volta che venne a Laverings e la mucca Jersey era ammalata. La signorina stette alzata con lei tutta la notte e Pucken disse che aveva un sacco di buonsenso, proprio al contrario di tante signorine moderne. Il signor Middleton era piuttosto preso da quella mucca, ricorda, signora? Si chiamava Lily Langtry, mi pare.” Ritornando con il pensiero all’ultima visita dei giovani Stonor, tre o quattro anni prima, la signora Middleton 12
pensò che solo “disturbato” potesse descrivere, anche se in modo imperfetto, lo stato d’animo del marito a quel tempo. All’ansia per la sua migliore mucca, alla quale credeva di essere molto attaccato benché non riuscisse mai a distinguerla dalle sue compagne, si univa una profonda avversione per le particolareggiate descrizioni mediche dell’invalido che la figlia della sorella infliggeva a tutti durante i pasti. “Il signorino Stonor faceva spavento,” continuò la signora Pucken rallegrata dai suoi ricordi, “sembrava proprio un cadavere e il dottore veniva due volte al giorno. Spero che stia meglio ora, signora.” Sì, rifletté la signora Middleton, quella parte della visita dei giovani Stonor non era davvero stata un successo. Il povero Denis non aveva colpa di esser tanto delicato da prendere la bronchite quando gli altri sono colpiti da un’insolazione, e non era colpa della sua matrigna se allora era in America e non poteva essere lì a curarlo. Il signor Middleton, però, mentre forniva generosamente denaro per infermiere e medici, non poteva soffrire la presenza di un ammalato nella sua comoda casa. Qualsiasi malattia gli ispirava una specie di primordiale ripugnanza animalesca, eccettuati, ben inteso, i suoi rari raffreddori che considerava addirittura sacri e durante i quali ogni altro argomento di conversazione veniva completamente annullato. Anche le rare indisposizioni di sua moglie lo facevano quasi delirare di paura e di disgusto ed era tacitamente sottinteso che nessuna persona di servizio doveva farsi vedere se aveva la tosse o era pallida. La sfortunata malattia di Denis aveva provocato quasi un mezzo litigio tra il signor Middleton e la sorella, oltre al suo rifiuto di invitare ancora gli Stonor in casa sua. La signora Stonor, che voleva molto bene al fratello, aveva progettato con la cognata di prendere la 13
Casa Bianca, sperando che, alloggiati separatamente, fratello e figliastri andassero d’accordo. Se soltanto Denis stesse bene e Daphne fosse un po’ meno vivace, pensò la signora Middleton, la cosa potrebbe andare. “Sì, sta meglio, signora Pucken,” disse, “e lavora moltissimo. Scrive musica, sa?” “Oh, bene, signora,” rispose la Pucken con aria di compatimento, poiché, come osservò poi con Lou, nessuno scrive musica. Si può suonare il piano o l’ocarina, o accendere la radio, sì, ma “scrivere” musica no. Poi sparì nel retrocucina e la signora Middleton salì al piano di sopra. Le stanze da letto erano immacolate a dispetto della minaccia di pulizia della signora Pucken. Automaticamente, Catherine raddrizzò uno o due quadri, che la signora Pucken avrebbe certamente rispostato nello spolverarli, e guardò fuori dalla finestra. I rossi mattoni di Laverings, illuminati dal sole, facevano un armonioso contrasto con il verde del giardino, la piccola betulla argentea e le aiuole fiorite: attraverso la porta della biblioteca quasi vide il marito in lotta con l’articolo per il giornale della raab. Il cuore le si gonfiò all’improvviso di tenerezza per il grosso, prepotente autocrate che tiranneggiava spietatamente i clienti, e che aveva bisogno della sua forza per compensare la propria debolezza. Pochissimi sapevano quanto fosse debole. Forse Lilian: sebbene non ne avesse mai parlato, in un paio di occasioni Catherine aveva intercettato uno sguardo della cognata, che le diceva chiaramente cosa questa pensasse del fratello. Certamente Sarah Pucken, che i ruggiti del tiranno domestico lasciavano assolutamente imperturbabile. Come poi lo giudicasse Alister Cameron, il suo socio giovane, Catherine non ne aveva la minima idea. Da dieci anni lavorava assiduamente e instancabilmente con il signor Middleton sbri14
gando in silenzio la parte più faticosa del lavoro, senza mai lamentarsi. A parte essere scrupolosamente onesto, leggere i classici per piacere personale recensendo con fredda rabbia i libri di critica, e abitare nel Temple, poco si sapeva di Cameron. Che fosse affezionato a Middleton e lo stimasse, questo era certo. Quanto di tale affetto fosse inspirato dallo stesso sentimento protettivo che lei provava, Catherine non sapeva dirlo. Che il marito fosse un brillante architetto e un abilissimo uomo d’affari, non lo metteva in dubbio. Ma che sarebbe avvenuto se la fortuna, che lo aveva assistito in tutta la carriera, gli avesse improvvisamente voltato le spalle? Una volta aveva toccato l’argomento con Cameron e questi aveva osservato che il successo rende particolarmente vulnerabili. “Ma,” aveva aggiunto, “qualsiasi cosa accada, si riprenderà, perché avrà sempre lei al suo fianco, e anche me, per quel poco che posso contare.” Le parole di Cameron avevano molto confortato Catherine, e da quel giorno i due avevano sviluppato un’amicizia galante e distaccata. Piaceva a Catherine, andando in città, far colazione assieme a Cameron, scambiando qualche banale osservazione e condividendo silenzi privi di imbarazzo prima di andare a teatro, a far compere o dal parrucchiere. E con lei, Cameron alle volte usciva dal suo abituale riserbo, esprimendo liberamente opinioni sulle donne laureate o su una critica a Plotino, quasi come se discutesse con lo stesso Middleton. Spesso, nei primi tempi della loro amicizia, aveva speculato sul suo passato sentimentale, immaginando un matrimonio fallito o un amore fatale. Ma un giorno ogni romantica congettura in proposito fu bruscamente troncata: parlando di mariti e di mogli (riferendosi in particolare a lady e lord Bond) Cameron disse che non aveva ancora incontrato nessuna donna che desiderasse sposare, e che 15
sperava non gli sarebbe mai capitato, poiché al solo ricordo delle due zie e della governante che lo avevano allevato gli si ghiacciava il sangue. Dopo di ciò la signora Middleton, con una perversità tutta femminile, si era sentita obbligata a riunire a Laverings le più belle ragazze del vicinato, ma queste avevano subito trattato Cameron, che aveva all’incirca la sua età, come uno zio, gettandogli le braccia al collo con una disinvoltura che certamente non presagiva nessun sentimento serio. La signora Middleton sentì in lontananza l’orologio di Staple Park battere le undici e si alzò. Doveva andare in paese per acquisti, finire il rapporto dell’Associazione Infermiere, di cui era segretaria, e sbrigare almeno una dozzina di faccende domestiche. Alister Cameron sarebbe venuto il sabato, gli Stonor sarebbero arrivati lo stesso giorno e forse lui e Daphne… poi rise di sé e dei suoi tentativi di sciogliere il cuore di pietra di Alister, e si recò al garage a prendere l’automobile.
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Estratto da Angela Thirkell, Prima di pranzo Titolo originale dell’opera Before Lunch Traduzione dall’inglese di Bruna Mora Copyright © The Estate of Angela Thirkell, 1939 © 2016 astoria srl corso C. Colombo 11 – 20144 Milano Prima edizione: luglio 2016 ISBN 978-88-98713-46-2 Progetto grafico: zevilhéritier
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