Si può tornare indietro

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Sospesa tra le braccia di un giovane e biondo militare fuori dal finestrino del treno a rubargli l’ultimo bacio, quella brunetta era una delle tante ragazze in lacrime per la partenza delle truppe alleate che, in quel convulso ottobre del 1954, a scaglioni lasciavano la città. Quello scatto in bianco e nero apparso sui giornali di mezzo mondo sembrava narrare centinaia di storie tutte uguali, storie fatte di dolore e d’amore, illusioni, promesse e speranze, e divenne il cameo incapsulato nella cornice della partenza degli angloamericani da Trieste. L’entusiasmo per la loro partenza era scoppiato in città come un fuoco d’artificio, smorzato appena, e per un solo giorno, da un dignitoso ed elegante manipolo di dimostranti, che avevano sollevato cartelli di protesta per il perduto impiego alle dipendenze degli Alleati. E il 26 ottobre, data ufficiale e attesissima dell’annessione all’Italia, sotto la pioggia notturna la gente, lasciandosi alle spalle dolore e umiliazione, correva eccitata lungo il viale Miramare incontro alle truppe italiane che arrivavano dal posto di blocco di Duino. L’esaltazione durò tutto il giorno. A sera, nella piazza gremita di gente incurante della piog1


gia, il sindaco pronunciò il suo discorso per l’annessione di Trieste all’Italia. Nei giorni che seguirono, il tempo migliorò: l’autunno si presentava più clemente dopo il terribile inverno e le fortissime mareggiate di agosto, quando il golfo pareva impazzito e la violenza delle onde aveva rotto muri e argini. Il cielo era limpido e la bora taceva. Solo le foglie tra le alture rocciose rosseggiavano qua e là tra ritrosi muretti a secco, e gli ippocastani, giù in città, denudati dalle bianche candeline delle loro infiorescenze, cominciavano a spogliarsi, mentre gli inutili frutti maturavano dentro i ricci dagli aculei ancora teneri. Il selciato, lungo viale xx Settembre, dai trafori dei rami fatti più leggeri si illuminava di laghetti di sole sui passi veloci della gente, scricchiolanti di foglie secche, tra festoni di bandiere che attraversavano strade e decoravano portici. Già da alcuni mesi la città, tutta in fermento, si preparava per essere restituita all’Italia, mentre a Londra si perfezionavano gli accordi e a Roma e a Duino alti ufficiali si apprestavano a suggellarli: non più ostaggio di una lunga guerra silente, Trieste, come una sposa trepida d’insensata speranza, si era addobbata di miriadi di bandierine verdebiancorosse, e tutto brillava come al luna park per l’arrivo delle truppe italiane. Ma intanto lì a due passi, sul Carso soffuso di rosso, Crevatini e Cerei, con le loro casette di pietra ferite dal confine, divise in due da una striscia di vernice, erano ormai perdute, cedute a un’altra dittatura: i contadini, dalle giacchette lise, lasciavano i campi scortati da uomini in divisa al di qua della linea, dove donne dal cappottino leggero, con i tacchi affondati nella ghiaia, scrutavano il profilarsi lontano di una sagoma, un volto caro, il proprio uomo, un figlio da riabbracciare, che arrivasse a piedi dall’Istria. Era iniziato così il mesto viavai 2


da terre divenute straniere, mentre dal bussolotto della Storia venivano estratti ancora una volta i numeri della sorte a catalogare gli uomini e le loro merci. Il 4 novembre, il giorno della parata delle forze armate, anche il cielo decise di partecipare alla cerimonia e prodigò una luce che forse solo l’anima in festa per la fine della guerra aveva percepito così splendente. Nelle prime ore di quella luminosa mattina d’autunno i triestini raggianti si preparavano ad avviarsi in piazza dell’Unità d’Italia, l’antica piazza Grande, incuranti o forse inconsapevoli dei deludenti, infami accordi sui confini che la matita dei potenti aveva segnato sulla vecchia carta geografica. Angusti spazi: alle spalle una coroncina di alture e, di fronte, un’esile striscia di verde lungo il mare, la costiera, glorioso ingresso dell’antico porto d’Europa, che al pellegrino che l’avesse percorsa per entrare nella città asburgica avrebbe riempito l’anima di bellezza e di malinconia. L’aria fresca e limpida era il preludio di uno splendido giorno e dal colle di San Giusto, giù per via del Monte, la gente cominciava a scendere sempre più numerosa oltrepassando la sinagoga e il vecchio cimitero degli ebrei. Rapidamente occhi impazienti sogguardavano il mare in fondo, oltre i prati scoscesi, una distesa chiarissima a tratti rigata da rami neri spalancati verso il cielo, appena velata di foschia per la distanza e per l’ora mattutina. Gongolanti, le navi ormeggiate aspettavano. Allo stesso modo, ininterrottamente, anche dall’alto delle campagne disseminate di ville, da via Rossetti, da via Giulia, dai cortili segreti di via di Romagna con i pergolati d’uva sui tavoli di pietra, dai quartieri muti intorno alla Risiera, dall’altura di Servola e, dal lato opposto, dalle casette con i 3


tetti rossi addossate alla collina di Barcola, per le strade dominate dalle ali del Faro, da ogni parte si andava formando una folla che avanzava tra sventolio di bandiere e vociare festante. Aveva, questa fiumana di gente, convogliato anche tutti quelli che da San Giacomo, sia per il ricordo ancora vivo dei bombardamenti, sia per un istintivo tenersi lontani da un assembramento senza agevole via d’uscita, avevano aggirato, lungo la stretta discesa di via della Madonnina, il tunnel della Galleria Sandrinelli, rallentando così l’arrivo in piazza Goldoni. Anche quelli che venivano da San Giusto, e che si erano lasciati alle spalle la strada serpeggiante tra il verde, scendevano per la bellissima scalinata che si sdoppiava proprio sulla gobba della Galleria e si snodava lungo i suoi fianchi. Dall’alto si vedevano le strade fitte di teste. E mentre il grido dei gabbiani che sfioravano le onde, giù in fondo, si faceva stridulo, gruppi sempre più fitti e vocianti si riversavano lungo le Rive all’altezza di piazza Venezia, giù dal passeggio Sant’Andrea, da via del Lazzaretto Vecchio, serrati i negozi di cordame per le navi e i magazzini neri di carbone, e libere per quella giornata, dopo tanto lavorare, le cucitrici di bandiere, innocenti prigioniere di tristi laboratori. Sul mare le acque calme riflettevano le barche e le navi della Marina che, in bella mostra, si pavoneggiavano di fronte alla piazza sfolgorante, mentre l’Amerigo Vespucci, superba, crepitante di stendardi e bandierine tricolori fino alla punta dell’albero maestro, le dominava tutte, al chiarore riflesso di un mattino sciabordante di bagliori. Il tramviere Italo Vanicore, un uomo di mezz’età calvo e tarchiato, insieme alla grassissima moglie Olga e alla famiglia di un suo collega, vecchio amico, si trovava in mezzo 4


alla folla che proveniva da largo della Barriera Vecchia, ma Olga, sfinita, insisteva per tornare indietro, protestando a voce alta, petulante. “Cossa me frega a mi de l’alzabandiera, se go de morir soffocada! I me ’copa,” gridava isterica, “i me ’copa!” “Ma no sta’ zigàr! No sta’ bazilàr! Non gridare, non agitarti! Te pol spetar in lateria, e mi te ciogo al ritorno!” intervenne rassegnato Italo e a spintoni la aiutò a farsi largo tra la folla e l’accompagnò in una piccola latteria là di fronte, che l’anziana padrona teneva sempre aperta, anche nelle deserte giornate festive. E la lasciò. Finalmente sollevato dal peso della moglie, uscì per raggiungere la famigliola con cui erano diretti in piazza, ma quando si immerse di nuovo nella calca per riprendere il cammino, Italo Vanicore non ritrovò il suo amico, che, con la moglie e il figlio, era stato portato in avanti ormai un bel pezzo, come da una marea. Olga, con il fiatone che sommuoveva le enormi mammelle sotto la seta fiorata dell’abito della festa, entrata nella piccola latteria di via Carducci di fronte a piazza Goldoni, lenta e inevitabile come una catastrofe geologica si adagiò sull’unica seggiola della botteguccia calda di krapfen e caffè, e sospirò rumorosamente di piacere. “I xe fora dei copi!” disse commiserante e scrollò la testa, guardando al di là della vetrina tutta quella gente impazzita. Poi, rivolta alla vecchia lattaia, aggiunse, aprendo esageratamente bocca e vocali: “Soto Tito o soto l’Austria o soto i taliani, che no i ga più gnanche el re, xe indiferente: xe tuti compagni!”. Forse a quell’affermazione, dettata da assoluto disinteresse e innata apatia, era sottesa in parte una verità universale, o forse un significante universale – tutti compagni –, tuttavia la frase suonò irridente e grossolana in quel piccolo 5


spazio malinconico; la donna invece ne avvertì orgogliosamente una personale saggezza e se ne compiacque, benché le sue fossero parole mutuate da comaresco ciangottare tra i tendoni del mercato di Ponterosso. Nel frattempo, dopo aver lasciato via Carducci, attraverso i portici verso piazza Goldoni, suo marito Italo, confuso nella moltitudine, si immetteva lentamente in corso Italia. Non si sarebbe creduto che la città ne potesse contenere tanta, di gente: tanta umanità le notti nascondevano dunque dentro alle case? Ma forse anche in quella mattina di esuberante comunione alcune stanze nascondevano uomini schivi e solitari nella penombra degli scuri accostati, stanze attraversate da passi stanchi, quadri di paesaggi montani innevati, testimoni di giorni protetti. Malinconica e misteriosa appartenenza, mentre fuori infuriava la vita dissennata. La folla, come un mantello scuro, aveva ormai ricoperto piazza dell’Unità. Erano talmente fitte tutte quelle teste fino alle Rive, addirittura fino alla bitta dei venti, lì alla fine del Molo, che se fosse arrivato anche solo un refolo di bora le avrebbe soffiate tutte dentro il mare come chicchi di sabbia. Ma la bora taceva, il mare era calmo e il cielo sereno. Nessuno però riusciva a vedere niente. Neppure i più alti. Forse solo i bambini sulle spalle dei padri avrebbero ricordato come un sogno l’agitarsi delle penne sulle teste dei bersaglieri in corsa e il rollio dei carri armati. Stavano tutti in punta di piedi. Alberta Allegretto, detta Berta, la sorella minore di Olga, quella notte aveva dormito con le due figlie a casa di un suo fratello che abitava in via Sara Davis, a un tiro di schioppo dalla stazione, per poter percorrere, la mattina dopo, la via più agevole verso piazza dell’Unità. Giunsero da viale 6


Miramare, lei, le figlie, il fratello Bruno, sua moglie con la loro bambina e, senza mai lasciare le Rive, arrivarono in piazza Grande in anticipo sulla folla. Berta indossava per l’occasione un bel paio di orecchini dalla foggia antica e il suo abito migliore. Per questo, nonostante l’aria frizzantina, aveva sbottonato il soprabito chiaro e lo teneva scostato dal corpo snello. Con aria preoccupata continuava a guardarsi intorno, perché temeva di incontrare sua sorella Olga, ma soprattutto di trovarsi davanti, all’improvviso, Italo Vanicore, il cognato. I xe un tormento! I xe due crodighe! si disse furibonda. Ma, poiché l’epiteto triestino crodiga – la cui carica offensiva risiedeva soprattutto nell’aggressività del suono – fu solo pensato, non le fu sufficiente a scaricare tutta la rabbia, e cercò di pensare ad altro. Si fermarono ai margini della strada, di fronte al mare. Intanto da ogni parte, da Cavana, dalle poste, dal teatro, continuava ad affluire gente. Berta si sentiva premere alle spalle e ai lati e stringeva forte la mano della figlia maggiore, Rosina, mentre la più piccola, Lea, veniva issata sulle spalle dello zio. Italo si ritrovò sul lato della piazza vicino al Palazzo delle Generali, ma la vista gli fu del tutto impedita dalla folla fitta che gli stava davanti. Aspettavano tutti l’alzabandiera, l’unico spettacolo cui ai triestini quel giorno sarebbe stato concesso di assistere.

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Estratto da Ada Murolo, Si può tornare indietro © Ada Murolo, 2016 Published by arrangement with Meucci Agency – Milano © 2016 astoria srl corso C. Colombo 11 – 20144 Milano Prima edizione: maggio 2016 ISBN 978-88-98713-41-7 Progetto grafico: zevilhéritier

www.astoriaedizioni.it


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