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Anno LXXXVII 2 gennaio 2024
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
01
MONDO MIGROS
Pagina 7 ●
SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Crisi climatica: in che cosa sbagliano gli esperti divulgatori della comunicazione scientifica?
C’è un libro perfetto per fare esplodere la creatività in casa soprattutto nei giorni uggiosi
Le sfide che la neo presidente della Confederazione è chiamata ad affrontare
Una grande esposizione allestita a Palazzo Reale a Milano celebra l’arte di Goya
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Pagine 12-13
Amanda Ronzoni
Mongolia, terra di aquile e cavalieri
Amanda Ronzoni
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La «non persona» dell’anno Carlo Silini
Il personaggio dell’anno appena trascorso tutto può essere fuorché umano. Fra i propri organi interni, gli esseri della nostra specie che hanno maggiormente segnato il 2023 devono aver dimenticato da qualche parte il cuore, forse l’hanno spento, o si è atrofizzato. Una gara che ci ha ipnotizzato per qualche giorno è stata quella tra Prigožin, il macellaio inviato dalla Russia per seminare torture e scompiglio in Ucraina coi suoi squadroni della morte e il suo mandante Putin, che dopo aver assistito al tentativo di rivolta dell’ex sodale, l’ha fatto esplodere in cielo regalandogli la gloria annientatrice delle stelle cadenti. Due astri del male, insomma. Il disprezzo per le vite umane, del resto, è connaturato a qualsiasi guerra. Nel caso specifico, in 22 mesi, secondo il ministro della Difesa russo Serghei Shoigu, le forze ucraine avrebbero perso almeno 383’000 soldati. Mentre lo Stato maggiore di Kiev sostiene che nel frat-
tempo i militari russi morti in battaglia sono oltre 348’300. Fatta la tara delle propagande e contropropagande, sono centinaia di migliaia le fosse scavate su un fronte e su quello opposto. E non se ne vede la fine. Analoghe disumane crudeltà continuano nella Striscia di Gaza con l’orrore splatter degli attacchi di Hamas lo scorso 7 ottobre e la replica a tambur battente di Israele, che non sembra voler distinguere tra il sacrosanto diritto di difendersi e di liberare i propri concittadini nelle mani del nemico e il sistematico attacco-assedio dei civili palestinesi, scalzi, affamati e infreddoliti tra le macerie del mondo che gli è crollato addosso, ostaggi a loro volta sia dei terroristi che se ne servono come scudi umani, sia dei soldati con la stella di Davide che stanno «terribilizzando» ogni centimetro quadrato della loro terra in briciole. Anche qui, l’algida contabilità delle vittime dice che dal 7 ottobre
sono morti oltre 19mila palestinesi e circa 1500 israeliani. Per ora. Sono «solo» due guerre, tra molte altre quasi neglette (chi ricorda, ad esempio, l’offensiva azera nel Nagorno-Karabakh in settembre o il golpe in Niger in luglio?). Potremmo continuare l’elenco dei potenti disumani che sembrano gestire il mondo e i suoi abitanti non come esseri dotati dei loro stessi diritti e doveri, ma come topi in cantina o formiche rosse sulla tovaglia del picnic: creature fastidiose, senza nomi, senza volti, senza alcun peso e valore nel mercato invisibile della dignità. Si capisce quindi come mai, al di là del giudizio artistico che se ne vorrà dare, il «Time» abbia incoronato come persona dell’anno la popstar trentaquattrenne Taylor Swift, «per aver portato gioia in una società che ne ha disperatamente bisogno». Inizialmente la scelta non ci aveva convinto, avremmo preferito icone meno scontate del successo (col rischio die-
tro l’angolo di scivolate alla Ferragni alle prese col Pandoro), ma per queste cose ci sono i Nobel per la pace, quindi ben venga l’elogio della leggerezza peso-piuma che svuota la testa dai cattivi pensieri. Anche se noi preferiremmo declinarla con le parole del grande Totò, che ci sono state riproposte da un caro collega nel migliore augurio ricevuto nei giorni scorsi: «Ridiamo valore ai salari, ridiamo un futuro ai giovani, ridiamo onestà alla politica, ridiamo valore alla cultura. Sì, ridiamo». Tuttavia, non possiamo archiviare questa riflessione d’inizio anno, senza chiudere il cerchio che abbiamo idealmente aperto con la tesi di partenza. La vera persona dell’anno 2023 non è stata un essere umano, ma l’intelligenza artificiale, che un po’ ci spaventa, ma fino ad oggi sembra aver fatto molto meno danni al consesso planetario della stupidità umana.
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Anno LXXXVII Anno2 LXXXVII gennaio22024 gennaio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ TEMPO LIBERO ●
In o lessato condiverdure Manuale di sopravvivenza contro la noia Una spolverata di neve immaginata Le umido difficoltà di lettura giovani e adulti La dipendenza e le sue derive È una frattaglia e viene Pop! Fai esplodere la tua creatività il nuovo Il bricolage di oggi permette di utilizzare la Secondo lo studio PISAconsumata il 17% dei soprattutto quindicenni in Ticino Restanoèpreoccupanti le attuali tendenze in fatto in Toscana; Allan Bayun spiega si cucinano divertente libro di Élise Francisse, giovane propria fantasia e personalizzare ogni passaggio fatica a comprendere testo,come l’Associazione di consumo di alcol, tabacco, droghe illegali e farmaci iLeggere polmonie in particolare se di vitello o di suinosoluzioni illustratrice che sa colorarepsicoattivi, le giornatesoprattutto uggiose nelacontesto piacere secondo Scrivere ha indagato il dato e cerca giovanilecapacità e preferenze
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C’era una volta… il clima che cambia
Ecologia e comunicazione ◆ Un’eccessiva semplificazione del linguaggio può portare all’errore scientifico Loris Fedele
Canto di un pastore errante
Freepik.com
Come si può raccontare la storia di un clima che cambia, e che lo fa in maniera tale da cambiare anche la nostra vita senza che ce ne accorgiamo? Ma è vero che non ce ne accorgiamo? Magari invece lo vediamo ma accettiamo fatalmente il cambiamento senza reagire per una forma di pigrizia, o perché ci va bene così, oppure perché ci conviene economicamente. Dove ci può portare questa accettazione? Chi ce lo sa spiegare? Se ci parla con toni catastrofisti non ci va di ascoltarlo, se è verboso e «professorale» nell’esposizione dei dati scientifici ci risulta inascoltabile, se poi parla difficile non ci viene voglia di sforzarci per capirlo. Sto riflettendo ad alta voce, cercando di mettermi nei panni di un ascoltatore medio che da decenni si vede investire da una valanga di dati scientifici, presentati per suffragare l’idea che i cambiamenti climatici vanno presi sul serio. Tuttavia, allo stesso tempo, mi rendo conto che – dopo molti anni, almeno trenta, e dopo che la Conferenza dell’ONU su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro del 1992 aveva fatto conoscere al grande pubblico la parola ecologia, la cura per l’ambiente, il pericolo delle catastrofi naturali sempre più frequenti – oggi ancora esistono al riguardo ignoranza, ostracismo, dubbio o, peggio, indifferenza. Allora mi chiedo: in cosa hanno sbagliato i divulgatori nel comunicare la scienza, le sue conquiste, le sue possibilità e le soluzioni (quando ce n’erano)? Perché non si sono fatti ascol◆ convinto Reportage La Mongolia di scrivere suoitafuturo inscienza bilicoin tra passato epico e unscorciatoie presente turbolento ne della modoun tradizionale, tare? Perché hanno soltanto to.tenta no a prendere mentali. L’e- Il problema nella comunicazione è Ha citato a esempio lailrealtà una piccola minoranza della popola- liana, che conosce bene, dove secondo con i festival della scienza, le confe- sempio scelto da Scapozza è la cadu- che un messaggio scientifico corredaAmanda Ronzoni, testo e foto zione mondiale? lui raramente i dibattiti televisivi sono renze, i laboratori aperti, abbiamo ta massi dal Chüebodenhorn in alta to con molti dati non è ben leggibile George Marshall, britannico, svolti in modo leale. Alcuni suoi col- buoni riscontri, tanta gente viene a Val Bedretto, sopra la capanna Pian- e gradevole. vederci e siamo contenti. scrittore e attivista per il clima di fa- leghi non vogliono più parteciparvi. secco, avvenuta nel settembre scorso. Qual è quindi il modo miglioIn realtà quella partecipazione nei La notizia diceva che la caduta massi re per far passare al grande pubblico ma mondiale, in un suo libro del 2014 «Andremo lo saluteremo e se Bisognerà sperimentare faceva riferimento. Gli sciamani usa- numeri costituisce una di esigua storie antiche al chiaro luna. minoCi re- era dovuta al caldo (isoterma di zero il messaggio del pericolo associato ai affermò cheda «ildio, riscaldamento globale dimostra ospitale storia resteremo con ablui, nuovi vano musica e melodie per entrare in ranza di uno chi dovrebbe ascoltare, un’oe noi gradi da giorni oltre i 4700 metri) e cambiamenti climatici? Continuare a gala così dei suoi capolavori, èsila più importante che non linguaggi: altrimenti a cavalloTelmo e ver- connessione con gli spiriti e mediare i continuiamo a parlare sempre agli al conseguente scioglimento del per- presentare fatti, modelli e numeri non pera la cui grandezza sta nel risuonare biamo mai risaliremo saputo raccontare». per esempio si potrebbe remo via». (Proverbio mongolo) stessi, a chi universali già è interessato e perfet- mafrost e del ghiaccio che fin qui li coinvolge un pubblico più ampio, l’edi elementi che accomunaPievani, filosofo della scienza, profes- loro favori per la comunità. tentare un’ibridazione musica mongola ha il comuniritmo di Dai monti dorati (gli Altaj), dai tamente convinto di ciò che stiamo tratteneva. Una semplificazione di sperienza ci dice che non sta succeno gli uomini nonostante incolmabisoreLauniversitario e brillante espressione scientifica una galoppata attraverso le tra deserti, dalle steppe infinite, i canti dicendo. dice: «Noi La predili distanzePievani di spazio e tempo. vita linguaggio che porta all’errore scien- dendo e non succederà. Quindi bisocatore scientifico,furiosa mi è apparso altretnarrazione teatrale praterie spazzate dalascoltato vento. Nei delle innumerevoli genti che abita- chiamo ai convertiti». Bello, gratifi- tifico. Il ghiaccio non è la colla delle gnerà sperimentare nuovi linguaggi: errante del pastore diventa il paradigtanto realista. L’ho in canuna e ti di queste genti, le voci sonotenutasi per noi vano questi luoghi, in perenne movi- cante, mavita non ci fa avanzare nelessere sen- montagne, che se si scioglie per il ri- per esempio si potrebbe ibridare l’ema della travagliata di ogni recente conferenza/dibattito scienziati in difficoltà stridenti e ipnotiche co- Gli mento, senza sono muri messi né confini, giun- sibilizzare la gentedalla e farle capire umano, sovrastato Natura ma-i scaldamento climatico le fa crollare, e spressione scientifica con la narraalla Supsidadiascoltare, Mendrisio, dove, insiechi ètramite bravo aracconto sostenerealle falsità, con problemi il khöömii (canto di gola) in sa da gevano orecchie incombenti. Bisogna gnifica e terribile. Un’eco che si ragam- il permafrost non si scioglie, ma piut- zione teatrale. Lo si sta già facendo. me asolo Cristian Scapozza (professore da capire per ilche pubesserlo: eco di applicata rapaci, o ediresponsaanimali linguaggi lontane difacili chi aveva stabilito la giungere quelli per cheilsimondo, informano so- tosto si ritira. plifica vagando non imgeomorfologia Ferruccio Cainero, scrittore, attore e a dare lo in fuga steppe, nitriti di caval- blico, domus senza e le sueessere mura chiamato fossero la misura tramite televisioneoe longitudine, il web, dove porta a chela latitudine bile del nelle Centro competenze cambiaCos’è il permafrost? La definizio- regista teatrale, friulano ma quasi di Lopotere scienziato invece de- la li che, per i mongoli, del vivere e del (dominus). correttezza scientifica spesso di- ne dice che è semplicemente un ter- casa nostra, ha ripreso i contenuti di ovunque si trovi un uomofache condumento climatico della sono stessai migliori Supsi) e spiegazioni. argomentare, spiegare cose fetto. amici il fluire delle acque, ve sempre Leopardi, che con la mente compì È benei non ce al pascolo suoi parlare animali.di massimi reno la cui temperatura rimane al di Collasso. Come le società scelgono di mocon la dell’uomo, moderazione della divulgatrice hanno complessità difficili da dil’impeto del vento e il ruggirehadel cie- che viaggi straordinari senza muoversi da sistemi appoggiarci fatti concreNellama prefazione allaaStoria segreta sotto di zero gradi per almeno un an- rire o vivere, un libro del 2005 del prescientifica Clara Caverzasio, sosteperne il largo che quindi lo in che tempesta. casa sua, sente pubblico, parlare attraverso gli ti, piccoli, vicino alla gente, con no. Questo terreno può essere del- stigioso scienziato statunitense Jared deianche Mongoli (a cura di Sergej Kozin), nuto la storia della comunicazione gerire annoia. gioco non è equo e a volte un scritti del Ilbarone russo Meyendorff, linguaggio tutti«L’Asia possono capi- la roccia, un detrito, un suolo, quindi M. Diamond, per allestire un gustoFosco Marainiche scrive: centradei cambiamenti climatici è la storia si addirittura colonnello scorretto. dello Stato Maggiore di re condividere. le èe un oceano di terra le cui onde, nei non necessariamente deve contene- so spettacolo intitolato C’ero clima io di un fallimento. secoli vasta terra è stata LaPerché voce della natura dellauna popolazione di pastoAltra ragione del di fallimento: lin- secoli, l’Imperatore tutte le ilRusGiocando il ruolo dello scienziasono stati popoli». E così anco- re abbiamo fallito? Una delle S.M. del questa ghiaccio. Ma visto che domicono- terzo dove con narrazioneviva allegra e spinata da lo imperi nomadi edei ancora oggi rizia dedito alpreoccupanti nomadismo. verità Quee lesuo modalità finora perà to, sie, che nel Voyagescelte D’Orenbourg Cristian Scapozzaè un ha puzzle voluto fare ra oggi la Mongolia im- sciamo ragioni per Pievani è che lo scienziato guaggio scioglimento ghiacciai ritosae sia si svelano uno di quegli angoli i blocchi di appartamenti cemen- sto è vero soprattutto regioni passare scientifico. Boukhara faitilenmessaggio 1820 à travers les step- un esempiodidigenti, casa usanze, nostra, parlando pegnativo lingue e siamo eLail Mongolia divulgatoreè scientifico hanno ne- far portati ad accettare in la sempliscientifiche relative ai nelle cambiamenti di mondo cui la Natura parlasiancostile sovietico, doveva- periferiche to armato,giornalistica: e remote, parlar facile e farsi pes qui s’étendent à l’Est de la mer d’capiAral dell’impatto del cambiamento cli- ficazione religioni. mici moltoinagguerriti, quando par- Ovviamente le che temperatuclimatici nella storia. che hanno rapra di conclimate la suachange. voce. EPerché da tempi imme- re nosisegnare l’avanzata del progresso per lungo tempoessere delle zone è ladelà chiave di tutto. Jaxartès Ma non(Viagbasta. matico negli ambienti freddi di alta re et au de l’ancienne la i negazioriscaldano, il ghiaccio si scioglie,e presentato Altri mezzi potrebbero tromorabili ha trovato pronte della modernizzazione del Paese sono franche chi come i Kazaki,dii Tuva, scegliereailBukhara giusto campo e il montagna e di come, per farsi capire la gio da Orenburg effettuato nisti in questo campoorecchie hanno dietro di Bisogna roccia cade. Equazione scientifivati in per futuro dai giovani oggi, Confini cemento ad degli ascoltarla. Hooh Tenger Grande giusto quanto discorretta, più fuori luogo si possa ve- gli Tsaatan, si spostavano le loro Anchecheinsiquesto nel 1820interlocutore. attraverso le steppe esten- dal grandedipubblico, i media possano camente sé interessi precisi da (il difendere, che però è facilsempre più consapevoli deicon rischi leBlu) era il padre celeste a cui an-e caso dere, specie piccoli centri. Nonse-è tende (gersottovalutazione o yurta) incuranti deiverità conriferisce della situazione dono Pievani a est del Lago d’Aral e oltre l’antica commettere errori e dare informazio- mente eCielo quindi mettono ostacoli economici capitanei dalla gente perché gati a una della Laimprecise. parola «confini» sempre andata che Temüjin,affermazioni passato alladi storia un Paese per sedentari. fini nazionali, gli animali però dell’usanza è molto simile al- ni Jaxartès) che racconta dei paData laè complessità del gue sostengono partecome che italiana, lo schema mentale causa-effetto scientifica sui seguendo cambiamenti climaticie stretta alle scientifico popolazionii media mongole. Per al quale Činggis Qan (per noi Gengis Khan), la Ancora oggi si calcola circa un presentata adattandosidagli alle scienziati. condizioni meteoronostra. Quando fa comunicaziostori di quelle terresilontane di cantare messaggio tendogenerano l’inquinamento del dibattiil nostro cervelloche è abituato.
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Anno LXXXVII 2 gennaio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino 5
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Valentino, Francesco e la gente di Ayomé
Solidarietà ◆ Vent’anni di iniziative e impegno che, grazie anche a letti dismessi dagli ospedali ticinesi, stanno cambiando la vita e la sanità nella regione del Plateaux in Togo Matilde Casasopra
È già passato un anno da quando ad Ayomé – villaggio di 1500 abitanti nel Plateaux del Togo – è stato inaugurato, laddove era già operativo l’ospedale Notre Dame d’Ayomé, l’edificio nel quale si trovano: pronto soccorso, radiologia, tre sale operatorie e una sala risveglio dotata di sette letti. Se ve ne parliamo oggi è perché tutto questo, in 20 anni di lavoro assiduo e silenzioso, si è reso possibile grazie all’incontro di due persone che, per nascita e distanze, avrebbero potuto non incontrarsi mai. Uno è un prete, l’altro un medico specialista in chirurgia ortopedica e traumatologia dell’apparato locomotore. Il primo si chiama Valentino ed è nato proprio ad Ayomé. L’altro si chiama Francesco. Lui infanzia e adolescenza le ha trascorse tra Mendrisio e Riva San Vitale. Valentino Tafou in Ticino arriva nel 1992, ha 23 anni ed è uno dei primi studenti della Facoltà di teologia. Terminati gli studi e ordinato sacerdote nel 1998 viene inviato come parroco in Valle Verzasca dove resta per un anno. «Mi sono accorto solo alla fine di quell’anno, quando fui trasferito a Morbio Inferiore, che la gente mi aveva accettato e mi voleva bene. Prima non l’avevo proprio capito». È nel Mendrisiotto – dove resta per sei anni – che per lui le cose cambiano. È qui che comincia a pensare di poter fare qualcosa per la sua gente, quella di Ayomé, gente che vive ai piedi delle montagne. Il primo pensiero è per l’acqua del fiume al quale gli abitanti del suo villaggio (ma anche quelli dei villaggi confinanti di Edifou e Todji) si approvvigionano. Motivo? Il fiume, a monte, ha come fruitrici centinaia di scimmie che, oltre ad abbeverarvisi, con quelle acque si lavano e lì espletano i loro bisogni col risultato che l’acqua giunge al villaggio ricca di germi e batteri permettendo alla malaria di essere una «malattia di casa». È il 2001 quando don Valentino – che dal 2006 è viceparroco a Viganello – fonda l’Associazione Aiuto Ayomé Africa (AAAA) e, sempre nel 2001, c’è la prima realizzazione: il depuratore. Grazie a ciò la diffusione della malaria retrocede, ma… le malattie infettive non mancano. C’è necessità di medicinali. La notizia giunge a Francesco Marbach che nel frattempo, per ragioni di studio, dal Mendrisiotto si è trasferito al CHUV di Losanna. Tramite conoscenti comuni fa giungere a don Valentino ciò che può essere utile per un dispensario. Il piccolo prete togolese non crede ai suoi occhi e vuole ringraziare di persona il giovane medico che dopo quel primo incontro – è il 2003-2004 – diventa punto di riferimento irrinunciabile per una svolta epocale nel villaggio di
Il villaggio di Ayomé nella regione degli Altopiani del Togo dove è operativo l’ospedale Notre Dame d’Ayomé. (Gallery fotografica su www.azione.ch)
il primo ciclo di interventi. Tra le persone operate c’era anche un uomo che nella sala risveglio è rimasto immobile, con gli occhi fissi sul soffitto, rigido come una pietra. Inutile dire che mi sono spaventato. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, ma soprattutto se quell’uomo fosse impietrito per il dolore o la paura. Lui nero, sotto il lenzuolo bianco, nonostante il passare del tempo non dava segni di ripresa. Poi uno dei nostri infermieri, percependo la mia inquietudine, mi ha avvicinato spiegandomi che per quell’uomo stare sdraiato su un letto era un’esperienza nuova. Fino a quel giorno, per tutta la sua vita, aveva sempre dormito per terra e, da quel letto, la terra era lontana». Più facile, a questo punto, anche per noi capire perché, per i doganieri, accettare che dei letti elettrificati e semoventi non fossero più che nuovi, fosse impresa ardua.
Il ponte medico Ayomé. «Non è che sia sempre facile andare d’accordo con don Valentino – sorride il dottor Marbach –. Lui ha una fiducia illimitata nella solidarietà tra persone e nella provvidenza. Io ho grande stima per tutti coloro che ci aiutano, ma… preferisco fare un passo per volta». E… di passi ce ne sono stati molti in questi anni. Un esempio? La costruzione delle scuole – una classe d’asilo e due per le elementari (1.a e 2.a; 3.a, 4.a e 5.a insieme: come negli anni 50 anche in Ticino) – ha ad esempio visto impegnati, in prima linea, i ragazzi del clan rover della sezione scout Tre Pini di Massagno. Un’esperienza indimenticabile che, tra dicembre 2013 e gennaio 2014 è culminata con la costruzione di tre edifici di mattoni dove, anche nella stagione delle piogge, le giovani generazioni del Plateaux possono seguire le lezioni. «Prima, con i tetti di lamiera appoggiati su pareti impagliate, era semplicemente impossibile – ci dice don Valentino –. Un altro risultato che abbiamo raggiunto è che
prima gli stipendi ai docenti li pagavamo noi come Associazione. Adesso li paga lo Stato. Noi, invece, sosteniamo le spese del materiale scolastico come libri, matite e gomme quando lo Stato si dimentica di farlo». «Adesso, però, seppure continuiamo a seguire la scuola – prosegue don Valentino – il grosso dell’impegno lo stiamo mettendo nell’ospedale. L’abbiamo aperto nel 2009 e a inaugurarlo c’era monsignor Grampa. Venti letti e servizi di medicina interna, maternità, pediatria, ecografia, vaccinazioni. Abbiamo, in pratica, allargato il dispensario. Poi, a gennaio di quest’anno, siamo riusciti a inaugurare il blocco nel quale ci sono le tre sale operatorie. È qui che lo scorso mese di novembre il dottor Marbach, la dottoressa Alessandra Cristaudi (chirurga viscerale e caposervizio di chirurgia all’EOC) con il nostro responsabile medico ad Ayomé, hanno operato 34 persone in cinque giorni. Le prime operazioni, però, hanno avuto luogo a fine gennaio». Don Valentino e il dottor Francesco Marbach.
I letti della svolta Come si è arrivati fin qui? Uno dei momenti topici nella realizzazione di questo progetto è stato quello in cui don Valentino scopre che l’Ente ospedaliero cantonale, ogni dieci anni, sostituisce i propri letti con altri nuovi e più performanti. Il dottor Marbach, nel frattempo è tornato in Ticino e lavora al Civico. «E se i letti dismessi li prendessimo noi?», si chiede don Valentino che poi pone la domanda a colui che, oltre ad essere un Capo Servizio dell’unità di traumatologia e ortopedia è anche vicepresidente dell’Associazione Amici di Ayomé. Lui fa i passi necessari e ottiene, gratuitamente, 20 letti che, su container via mare, vengono spediti in Togo. La gioia intercontinentale è grande, ma sfuma alla dogana del porto di Lomé dove le guardie si rifiutano di credere che quei letti che possono alzare i materassi sia dalla parte della testa sia da quella dei piedi con la semplice pressione di un pulsante siano vecchi. «Io – racconta don Valentino – ho pur cercato di spiegare loro come stavano le cose, che in Europa questi letti erano stati usati, ma ne erano arrivati di nuovi più adatti a prestare le cure. Ci ha provato anche il dottore e le signore che ci accompagnavano. Niente. O si paga la dogana o i letti non escono dal porto. Così… abbiamo pagato». Una spesa imprevista, ma… irrinunciabile. È il dottor Marbach – che ad Ayomé è ormai considerato alla stregua di un capo villaggio – che ci aiuta a capire, attraverso un’esperienza diretta, il perché dell’ostinazione dei doganieri. «A gennaio, dopo aver inaugurato le sale operatorie, ho svolto
Fine della storia? Adesso si passa alla semplice gestione? «No, assolutamente – ci dice con fermezza il dottor Marbach –. Accanto alla gestione dell’ospedale dove, attualmente, tra personale amministrativo, medico, paramedico e d’appoggio, sono impiegate 36 persone alle quali l’Associazione garantisce lo stipendio (6900 fr. al mese pari a 82’800 fr. all’anno), il progetto va avanti. Il prossimo step, dal punto di vista realizzativo, prevede di mettere in funzione il reparto di oftalmologia. Lei non ha un’idea di quante persone abbiano seri problemi di vista. Poi, proprio perché non vogliamo portare il pesce, ma permettere di imparare a pescare, dal 2024 realizzeremo un ponte medico. Per due-tre volte all’anno un’équipe formata da due chirurghi raggiungerà l’ospedale di Ayomé per eseguire, per una settimana, gli interventi più complessi. In pratica quello che abbiamo fatto con la dottor Cristaudi a novembre e che ripeteremo a febbraio, vedrà impegnati altri medici attivi in Ticino. Si sono già annunciati una decina di colleghi e questo ci dà morale anche perché non si tratta di una passeggiata, ma di una vera missione». E don Valentino? Don Valentino è tornato dal Togo la prima settimana di dicembre. La parrocchia di Viganello è la più grande del Cantone e ci sono i servizi religiosi dell’Avvento, del Natale e dell’Epifania da garantire. Poi c’è l’Associazione Amici Ayomé Africa da mandare avanti insieme al presidente, Michele Faul e a quel migliaio di persone che da anni, senza rumore, ma con impegno, da tutto il Ticino garantiscono alla gente della regione del Plateaux una vita migliore.
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azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00–11.00 / 14.00–16.00 registro.soci@migrosticino.ch
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 2 gennaio 2024
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azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
Tutti in forma con gli agrumi
Attualità ◆ Fate il pieno di vitalità e vitamine concedendovi una scorpacciata di agrumi. Alla Migros ora l’assortimento è particolarmente ampio
Le bionde sono le più amate della famiglia delle arance. Dolcissime, profumate, succose e con pochi semi, sono perfette per preparare rinfrescanti spremute.
Le Tarocco si caratterizzano per il loro sapore agro-dolce e la polpa dal colore semisanguigno. Si gustano volentieri da sole, spremute oppure anche accostate a pietanze salate.
Le arance sanguigne hanno una bella polpa dalla tonalità rossa e sono particolarmente aromatiche. Sono una delizia gustate al naturale o trasformate in marmellate.
Rispetto ai mandarini, le clementine sono povere o prive di semi e risultano più dolci rispetto ai cugini. Rifrescanti e succose, sono molto apprezzate anche dai bambini. Sono ottenibili anche in qualità Demeter.
Succosi, aromatici e zuccherini, i mandarini Tacle sono il risultato di un incrocio tra clementina e arancia semisanguigna. Facili da sbucciare, sono squisiti gustati da soli.
Buoni, sani e seducenti con il loro bel colore che ricorda il sole: gli agrumi sono una vera fonte di vitalità in tutti i sensi. Questi preziosi frutti contengono molte sostanze nutritive essenziali per mantenere in salute il nostro organismo. In primis naturalmente la vitamina C, che ci aiuta a sostenere il sistema immunitario e a lottare
contro la stanchezza e i malanni della stagione invernale. Un pompelmo, tre mandarini o un’arancia al giorno contribuiscono a coprire il fabbisogno giornaliero di questa importante sostanza. La vitamina C è importante anche per il benessere di ossa, denti e gengive e per l’assimilazione del ferro.
Ecco alcune varietà attualmente in vendita nei reparti frutta Migros. Diverse varietà sono ottenibili anche in qualità biologica. Arance bionde Le bionde sono le più amate della famiglia delle arance. Dolcissime, profumate, succose e con pochi semi, sono perfette per preparare rinfrescanti spremute.
Più dolci delle varietà gialle, i pompelmi rosa o rossi sono molto succosi e si distinguono per il tipico gusto acidulo. Danno ottime spremute ma si accostano bene anche a piatti salati.
I pomeli hanno una forma a pera e si distinguono per il sapore che ricorda il pompelmo e l’arancia. La buccia è spessa. Si sposano particolarmente bene con la carne e il pesce.
La ricetta Torta agli agrumi
Per 1 tortiera di ca. 26 cm Ø • 4 uova • 100 g di zucchero • 1 bustina di zucchero vanigliato • 3 arance e 1 limone • 1 cucchiaio d’amido di mais • 2 dl di panna intera • 1 pasta frolla rotonda già spianata di 320 g • 500 g di agrumi, ad es. arance, pompelmi, mandarini • zucchero a velo o polvere d’oro alimentare Come procedere
1. Sbatti le uova a spuma con lo zucchero e lo zucchero vanigliato in una scodella. Grattugia la scorza delle arance e del limone direttamente nella crema, spremi gli agrumi e unisci il succo. Incorpora l’amido e la panna. 2. Scalda il forno statico a 180 °C. Accomoda la pasta con la carta da forno nella tortiera. Ripiega verso l’interno la pasta del bordo in eccedenza. Ritaglia la carta che fuoriesce. Bucherella il fondo della pasta con una forchetta. Ritaglia un secondo disco di carta da forno della stessa grandezza della tortiera e accomodalo sulla pasta. Appesantisci con legumi secchi. Cuoci in bianco al centro del forno per ca. 15 minuti. Sforna e togli la carta con i legumi. Versa la crema agli agrumi sulla pasta e inforna ancora per ca. 30 minuti, finché la crema si sarà indurita. Sforna e lascia raffreddare. 3. Per la guarnitura, pela gli agrumi a vivo con un coltello affilato, tagliali a fette e disponili sulla torta. Spolverizza a piacimento con zucchero a velo oppure con polvere d’oro alimentare.
Arrivano la Befana e i Re Magi
Attualità ◆ Due usanze popolari che si celebrano all’Epifania dove non possono mancare i tradizionali dolci Fra qualche giorno si celebra una delle feste più attese dai bambini, la Befana, che cade il 6 gennaio in occasione dell’Epifania, ricorrenza che sancisce la fine delle festività natalizie. Tradizione vuole che la notte precedente una brutta vecchietta dal naso bitorzoluto voli su una scopa di casa in casa, lasciando dolci doni e piccoli pensieri ai bambini che sono stati bravi e carbone a quelli più monelli. La sera del giorno prima i piccoli golosoni appendono una calza al caminetto o alla porta di casa, sperando che la Befana la riempi di buone cose. Con la nostra calza della Befana nessuno resterà deluso. Contiene infatti irresistibili dolciumi che piaceranno a tutti, buoni e birichini, come caramelle gommose al gusto di frutta, carbone dolce e marshmallow, il morbido prodotto a base di zucchero molto diffuso negli Stati Uniti.
La torta dei re magi
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Per molti il 6 gennaio è tradizione anche gustare una fetta di torta dei re magi. Questo soffice dolce di pasta lievitata viene preparato nelle panetterie Migros solo in occasione dell’Epifania, utilizzando ingredienti di elevata qualità. La particolarità di questa usanza è il fatto che, chi nella propria fetta trova la statuetta del re magio, potrà regnare per un giorno, indossando la coroncina acclusa alla confezione. A seconda della filiale, la torta dei re magi è disponibile nelle varianti classica, con uva sultanina; senza uvetta, oppure nella golosa varietà con gocce di cioccolato.
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Anno LXXXVII 2 gennaio 2024
Settimanale di informazione e cultura
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
Quando leggere è difficile per giovani e adulti Formazione di base ◆ In Ticino il 17% delle ragazze e dei ragazzi quindicenni fatica a comprendere un testo Ne parliamo con Cecilia Bianchi responsabile dell’Associazione Leggere e Scrivere della Svizzera italiana Valentina Grignoli
Anche chi nasce e cresce in Ticino, pur essendo di madrelingua italiana, può avere problemi di lettura. Un recente approfondimento dei dati PISA 2018 evidenzia infatti come il 12 % dei ragazzi quindicenni ticinesi che parla italiano abbia grosse difficoltà nella lettura. Per studio PISA – Programme for International Student Assesment, s’intende quell’indagine indetta dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, che va a sondare il livello di conoscenze e capacità dei ragazzi su scala internazionale per confrontare i sistemi di insegnamento. Tornando ai dati e al campione studiato, ovvero i quindicenni scolarizzati in Ticino, compresi giovani con statuto migratorio o che parlano un’altra lingua, il totale di allievi con difficoltà sale al 17 %. In altre parole: in una classe di 24 allievi, quattro di loro non raggiungono il livello minimo di competenze in lettura richieste alla fine della scuola obbligatoria. È un’informazione che lascia perplessi. A richiedere l’approfondimento dei dati PISA è stata l’Associazione Leggere e Scrivere della Svizzera italiana, un’Associazione che contribuisce a dare una risposta ai problemi legati alla mancanza di competenze di base. Incuriosita dal dato ha contattato il Centro Competenze Innovazione e Ricerca sui Sistemi Educativi (CIRSE) del DFA-SUPSI. Una maniera per cercare di dare un volto alle cifre insomma, e capire dove fosse necessario agire. I ragazzi sono gli adulti di domani, e sappiamo che una volta fuori dal circuito scolastico, riconoscere le lacune nella lettura e nella scrittura è difficile. Di conseguenza lo è ancora di più chiedere aiuto, in una società che va sempre più veloce, pretende sempre di più e lascia indietro chi non sta al passo. Abbiamo incontrato Cecilia Bianchi, responsabile di Leggere e Scrivere della Svizzera italiana, per capire il problema più da vicino. Come ente riconosciuto di pubblica utilità, apartitico e aconfessionale, l’Associazione promuove attività di sensibilizzazione e offre corsi per adulti. Si batte contro l’esclusione sociale e per il diritto di tutti alla formazione di base. Quali sono i dati dell’indagine PISA che vi hanno invogliato a saperne di più? Il nostro interesse è nato da una ne-
L’Associazione Leggere e Scrivere si focalizza sull’offerta, gratuita e non vincolante, di corsi di lettura, scrittura, calcolo, uso del computer e tablet. (Ruben Ung)
cessità di sensibilizzazione. Uno dei nostri scopi è infatti sensibilizzare le persone a proposito dell’esistenza di adulti con lacune nelle competenze di base. La nostra necessità è anche capire chi siano queste persone, e convincerle a seguire dei corsi. Spesso sono restie, si vergognano o addirittura non vedono il problema. Ma come raggiungerle? Che scuola hanno frequentato, che professione fanno? Le statistiche a livello nazionale sono d’aiuto ma volevamo approfondire. Nella nostra ricerca abbiamo scoperto così lo studio PISA e i dati che ne conseguono. Certo, è effettuato su un campione di quindicenni, ma come
dici sono gli adulti di domani, per cui ci aiutano a capire che tipo di profilo potrebbero avere le persone con lacune nelle competenze di base. Non tutte certo, ma una parte.
seguito le scuole obbligatorie fanno ancora fatica. Ma, ci tengo a sottolinearlo, non è soltanto colpa della scuola. O della famiglia.
Quali sono i dati che saltano all’occhio? Soprattutto che anche ragazzi di madrelingua italiana nati e cresciuti in Ticino hanno difficoltà di lettura. Non sono tantissimi ma ci sono. Il dato non ci ha sorpresi perché sappiamo che esistono molti adulti ticinesi che faticano a leggere ma non l’avevamo mai visto nero su bianco riferito alla nostra realtà. Pur avendo
Dove nascono le difficoltà di lettura negli adulti? Spesso si tratta di esperienze capitate, di vissuti importanti. Come l’interruzione di una formazione o una difficoltà esistenziale. Quando ai nostri corsi chiediamo come mai vogliono reimparare a leggere e scrivere, i nostri allievi ci raccontano la loro vita, come sono arrivati a queste lacune. Spesso, per esempio, hanno avuto un lavoro per il quale
zionale, con dati simili alla Finlandia e al Canada. (Dati rimasti pressoché invariati durante l’indagine PISA 2022). Il campione ticinese comprende 2500 quindicenni (quarta media o inizio superiori). Anche tra gli svizzeri che a casa parlano l’italiano vi sono allievi con difficoltà nella lettura: il 12% di questi ragazzi non ha le competenze fondamentali per affrontare le sfide quotidiane. L’approfondimento ha mostrato come questi quindicenni siano soprattutto maschi (72%), spesso con una condizione socioeconomica sfavorevole, che la metà di loro frequenta le scuole professionali, e che
hanno ripetuto una o più classi (25%). Una caratteristica comune degli allievi in difficoltà, di madrelingua italiana e senza statuto migratorio, è la presenza di pochi libri in casa e la scarsa abitudine alla lettura. La metà di loro non legge mai libri di narrativa. Il 69% legge solo se obbligato. La metà di loro ha inoltre dichiarato di avere bisogno di rileggere un testo più volte per comprenderlo. Il 70% non si ritiene un buon lettore e il 37% dichiara di non leggere correntemente. E purtroppo, se si fatica a leggere si leggerà poco, ma meno lo si fa e meno si sarà in grado di farlo in futuro.
I dati dell’indagine All’indagine PISA 2018 hanno partecipato 79 Paesi, ossia 600mila quindicenni. Vi sono 6 livelli di valutazione delle competenze: il livello soglia è il livello 2. Chi lo supera è in grado di utilizzare sufficientemente la competenza della lettura per partecipare in maniera attiva alla vita sociale. Altrimenti si fa molta fatica a comprendere il significato di frasi o di passaggi indipendenti, non si riesce a confrontare le affermazioni e a creare connessioni interne ed esterne al testo. I ragazzi sotto il livello 2 in Ticino sono il 17%, in Svizzera il 24%. Siamo ben posizionati nel confronto nazionale e interna-
non era necessario scrivere o leggere, e magari lo hanno fatto per 40 anni. Oppure è morto il coniuge, ed era lui che si occupava di tutto in casa, e una volta soli non riescono più a essere in grado di capire o scrivere un testo. Sono costretti a chiedere costantemente aiuto a qualcuno. Se esiste una buona rete sociale, tra famiglia e amici, non ci sono troppi problemi. Ma se la persona si ritrova sola, rischia fortemente l’esclusione sociale o di indebitarsi, perché ha paura di aprire la posta e pagare le fatture. E quello che facciamo noi è lottare contro questa esclusione. Non è facile chiedere aiuto… No, non sempre. C’è la vergogna, quando ci si rende conto. Ma lo stesso fatto di accorgersene non è evidente. A volte veniamo contattati dal marito che chiede per la moglie, ma capiamo che anche lui è in difficoltà. Quindi anche per noi aiutare diventa difficile, senza un rapporto con le persone. Dobbiamo trovarci al momento giusto con le persone giuste. Inoltre, se c’è un’apertura da parte loro è facile, altrimenti involontariamente si rischia di cadere facilmente nell’offesa. Cosa proponete come Associazione? Noi lavoriamo su due assi strategici. Lavoriamo direttamente con l’individuo che ha difficoltà offrendo corsi di lettura e scrittura, per recuperare le competenze che ha imparato a scuola e poi ha dimenticato. Il secondo asse strategico è la sensibilizzazione. E per questo si deve lavorare sulla società attraverso la politica, l’opinione pubblica, le autorità comunali. Concretamente? Per esempio, oggi molte pratiche si possono sbrigare online sui siti dei Comuni, evitando di recarsi allo sportello. Tuttavia, una persona su quattro ha difficoltà con il computer. L’Associazione chiede quindi ai Comuni di tenere presente questo dato e di offrire sempre come alternativa la possibilità di chiamare lo sportello per farsi aiutare a sbrigare la pratica. Informazioni Per i corsi di lettura e scrittura il numero verde è 0800 47 47 47, oppure www.meglio-adesso.ch. www.leggere-scrivere.ch
Una sosta al Buffet Bellavista
Concorso ◆ Con il trenino del Monte Generoso sabato 13 gennaio trascorrerete un’indimenticabile serata all’insegna della raclette
Nel corso di tutto l’inverno il Buffet Bellavista, situato a 1200 metri lungo la linea che porta in vetta al Monte Generoso, offrirà una serie di serate all’insegna della buona cucina regionale. Il ristorante, da poco ristrutturato, grazie a un’atmosfera intima e curata saprà incantare gli ospiti. «Azione» estrarrà a sorte settimanalmente due ticket che permetteranno di scoprire la bellezza del Monte Generoso. Il prossimo appuntamento, dedicato alla raclette, è previsto il 13 gennaio 2024.
Dove e quando Serata raclette, sabato 13 gennaio 2024, Buffet Bellavista. Orari: Partenza da Capolago ore 19.00, discesa da Bellavista ore 21.30. Prezzi: Trenino e menù a 3 portate, bevande escluse: adulti CHF 60.–; ragazzi 6-15 anni CHF 40.–; bambini 0-5 anni treno gratuito. Info e prenotazioni www.montegeneroso.ch
Concorso «Azione» mette in palio due ticket per il 13 gennaio 2024 che includono ciascuno il biglietto andata e ritorno a bordo del trenino a cremagliera e la cena di tre portate. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «Raclette»), indicando i propri dati entro lunedì 8 gennaio 2024. Buona fortuna! Per info: www.montegeneroso.ch
Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 2 gennaio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino
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SOCIETÀ
Quando possiamo parlare di «dipendenza»?
Salute ◆ Monitoraggio e consapevolezza delle conseguenze da uso di sostanze nel nostro territorio. Parla Alberto Moriggia
La fondazione Dipendenze Svizzera, il cui intento è prevenire e ridurre in modo efficace i problemi legati alle varie forme di dipendenza, descrive le attuali tendenze in fatto di consumo di alcol, tabacco, droghe illegali e farmaci psicoattivi, riservando all’uso di sostanze un’accurata panoramica che tiene conto del contesto giovanile. La carrellata di sostanze, il cui uso (e abuso?) è favorito da un accesso facilitato ai giovani, inizia dall’alcol: «I test di acquisto nel commercio al dettaglio e nella ristorazione hanno dimostrato che i giovani hanno potuto ottenere illegalmente bevande alcoliche nel 33,5% dei casi; addirittura nel 93,8% nell’acquisto online». Per quanto attiene all’uso del tabacco: «L’uso delle sigarette elettroniche puff bar (monouso, ndr) si sta diffondendo tra gli adolescenti e i giovani adulti senza una parallela diminuzione del consumo di sigarette tradizionali. Questo potrebbe generare un nuovo gruppo di dipendenti dalla nicotina».
Aumentano i problemi legati al consumo di cocaina, anche da crack, e possibili nuovi tipi di dipendenza da nicotina Dipendenze Svizzera lamenta che l’analisi del consumo illegale di droghe in Svizzera manchi di dati aggiornati: «Ma negli ultimi anni è aumentata la domanda di trattamenti per problemi di cocaina, mentre è diminuita quella per l’eroina. Per quanto riguarda la canapa, le tendenze sono ancora poco chiare». Resta da definire il concetto di dipendenza che l’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp) così descrive: «Malattia caratterizzata da un comportamento compulsivo che persiste anche dopo l’insorgenza di gravi conseguenze negative sul piano sociale e della salute per la persona affetta e il suo contesto socio famigliare». Ne parliamo col dottor Alberto Moriggia, direttore sanitario di Ingrado e medico accreditato all’Epatocentro Ticino, che si sofferma sul concetto di dipendenza: «Mi è successo di accompagnare a casa un ragazzino minorenne che si allena nella
palestra da me frequentata. Chiacchierando mi ha chiesto cos’è, secondo me, una dipendenza». Moriggia rilancia e il ragazzo risponde: «Non tutti quelli che conosco hanno una dipendenza, anche se fumano o bevono; perché “dipendenza” è “quando ti rovini”». Ciò permette di riflettere sul termine stesso che non rispecchia in modo efficace la problematica, spiega Moriggia: «È una parola inadeguata, perché dipendenza in italiano ha un significato che non troviamo in altre lingue». Egli fa notare che «in inglese si dice dependence o, meglio ancora, addiction. In tedesco Abhängigkeit o Sucht. Mentre in italiano non esiste il termine addiction, che però risulterebbe il più appropriato». Allo stesso modo per quanto attiene alle sostanze: «Suchtmedizin, addiction medicine, medecine de l’addiction… quindi, in italiano è appropriato parlare di “disturbo da uso di…”». Pare una lezione sintattica ed etimologica della lingua italiana, ma la terminologia è essenziale perché «ha risvolti terapeutici molto importanti. Dipendenza denota una situazione di passività (dipendo da questa cosa, non ce la faccio a stare senza). Addiction è qualcosa di attivo: è una mia tendenza (un’affezione?)». Comunque, si parla di una malattia del comportamento: «Una voglia spasmodica, spesso difficilmente controllabile, a consumare una sostanza o ad assumere un comportamento». Ad esempio: «Addiction forte per alcol, sigaretta, oppioidi, cannabis, ma pure cellulare, sesso, gioco d’azzardo (dipendenza da comportamento)». Le parole sono importanti, e addiction dà la cifra della ricaduta: «Non possiamo incappare nell’errore di pensare che una persona rimanga dipendente per sempre, che non guarisca mai, perché ciò preclude a priori l’idea di cura. Perciò, è corretto dire che si tratta di patologie croniche: se ne può guarire perché la malattia può andare in remissione, un concetto sostanzialmente diverso da quello di patologia acuta». Così come nelle dipendenze da comportamento, anche per definire il disturbo da uso di sostanze sono undici i criteri diagnostici riportati dal DMS-5 (Manuale Diagnostico
Needpix.com
Maria Grazia Buletti
e Statistico dei Disturbi Mentali), in parte sopra riassunti dal dottor Moriggia al quale chiediamo quale sia la tendenza che possiamo osservare nei giovani: «È l’alcol la sostanza in assoluto più consumata, quella che dà più problemi a livello mondiale. Seguono gli stimolanti: cocaina, anfetamina, meta-anfetamina, nicotina, senza dimenticare i tranquillanti (principalmente le benzodiazepine), i farmaci sia prescritti che assunti liberamente. La cannabis è un tema a sé, che può creare dipendenza ma in modo diverso dalle altre». Questa la fotografia del nostro territorio da parte dell’antenna Ingrado: «L’alcol è sempre presente e non saprei dire se la pandemia abbia davvero avuto un ruolo nella sua recrudescenza. Sicuramente la situazione non è migliorata: l’abuso e la dipendenza da alcol è una costante di lunghissima data che difficilmente è scalfita da qualsivoglia evento». Egli osserva che sul territorio se ne consuma parecchio: «Esiste una mentalità soggiacente difficile da mutare». Sulle sostanze illegali: «Si nota un’esplosione di cocaina consumata in diversi modi. Rispetto all’uso per inalazione, che già non è il massimo, il consumo
di crack è molto più pericoloso (ndr: cocaina trattata per essere fumata)». Sebbene da noi l’aumento del consumo di crack non abbia ancora carattere estremo, Moriggia individua in chi ha sempre consumato diverse sostanze («compresa l’eroina») coloro i quali vanno in questa pericolosa direzione: «È più facile accedere al consumo di crack; ad esempio, un ragazzino può impiegare molto tempo prima di iniettarsi eroina, ma per fumare crack ci vuole poco, l’accesso è molto più semplificato, però la dipendenza è molto più forte e disgregante!». Il medico mette all’erta: «Non è come fumare cannabis, ma ha molte più affinità col consumo di eroina e i consumatori sono problematici». Per i suoi effetti immediati: «Il crack aumenta repentinamente i livelli di dopamina, producendo piacere, sensazione di grandiosità, euforia, benessere». Ma l’aumento repentino dell’ormone del benessere è il problema principale: «Il rapido effetto che sfuma produce una voragine che obbliga a consumarne ancora e ancora, scatenando la voglia di ripetere l’esperienza e aumentando sempre più il bisogno della sostanza». Le conseguenze sono presto im-
maginabili: «Oltre a quelle già evidenziate, con gli anni aumentano gli effetti collaterali sul sistema cardiocircolatorio (cocaina), così come i problemi polmonari, per non dimenticare il contesto psicosociale e famigliare fortemente intaccati dal disturbo da uso di sostanze e dalle loro conseguenze». Discorso a sé per la cannabis, e Ingrado si occupa pure di mediazione fra le famiglie e i giovani che ne fanno uso: «Cerchiamo di ricreare e favorire un dialogo per valutare se il consumo sia problematico o meno». Si torna al concetto di dipendenza, e sul fatto che non tutti i consumi sono problematici. Così si chiude il cerchio sull’aneddoto iniziale che ci fa chiedere se il ragazzino della palestra avesse ragione: «Non tutti i consumi sono considerati problematici: esiste il consumo, ed esiste il consumo problematico. Ci sono sostanze con cui è più facile scivolare nel consumo problematico (se parliamo di eroina, forse basta una volta)». Allora, non sempre si può parlare di dipendenza, perché «dipendenza è quando ti rovini», diceva il ragazzino. E siccome potrebbe bastare anche una sola volta, è di certo meglio nemmeno provarci.
L’inverno demografico e la primavera silenziosa Parole verdi 10 ◆ Con questo articolo continua le serie dedicata al nostro rapporto con l’ecologia e la crisi climatica Francesca Rigotti
Nel 1962 Rachel Carson, una zoologa e biologa americana ritenuta ai nostri giorni la capostipite dell’ambientalismo negli Stati Uniti, pubblicò la sua opera più nota, Primavera silenziosa (Silent Spring). Secondo l’autrice l’uso indiscriminato del pesticida e insetticida DDT, da non molto immesso sul mercato, sterminava anche tante specie di insetti utili, quali api e cavallette, nonché di uccelli, di cui non si udivano più le voci. Il pesticida generava inoltre effetti devastanti sull’uomo oltre che sull’ambiente, nonché massicci danni ecologici. Accusata di complottismo e addirittura di comunismo (erano gli anni della guerra fredda) da parte dell’industria chimica e di politici conservatori, Carson venne inoltre considerata responsabile delle milioni di morti per malaria causate dal dila-
gare delle zanzare anofeli eventualmente non più contrastate dal DDT. La sua posizione incontrò fortunatamente anche grandi consensi e la sostanza pesticida venne abolita negli Stati Uniti nel 1972 e pochi anni dopo in Europa. Il nome di Carson è oggi conosciuto e onorato e la sua opera apprezzata e ammirata. Noi qui dunque useremo il suo nome e il suo caso per presentare alcune contraddizioni (aporie si chiamano in filosofia) del pensiero ecologista di difficile soluzione. Morire di cancro (DDT) o di malaria (senza DDT)? Fare l’albero di Natale vero, con la conseguente strage di milioni di abeti e pini innocenti, oppure sceglierlo di plastica, incrementando uso e abuso di materiali inquinanti, smaltire i quali è un grosso problema? Fare figli
per contribuire al ricambio generazionale, o non farli per evitare la sovrappopolazione del pianeta e l’imporsi dell’impatto dell’uomo sugli ecosistemi? Il non voler infierire sulla natura è una soltanto, e non la più frequentata, delle ragioni delle persone in età riproduttiva per decidere di non riprodursi. Certo è, rimanendo ora sull’a-
spetto del calo delle nascite (un bene o un male dal punto di vista ecologico?) che i Paesi nei quali viviamo assistono anch’essi alle loro particolari primavere silenziose: si sentono sempre meno voci di bambini per le strade, ai giardinetti, nelle vie delle città, nelle scuole, sulle piste da sci, anche perché i pochi che ci sono stanno in casa chini su smartphone e tablet… I nostri sono diventati paesi di vecchi, se non per vecchi, né ci sarà più un bambino a prendere per mano un vecchio, come cantava Francesco Guccini nel 1971, precorrendo di decenni La strada dello scrittore Cormac McCarthy. È un bene per l’ambiente, da una parte, che diminuisca il numero di quei feroci predatori che sono gli umani, specie nociva e aggressiva che ha distrutto e inquinato la terra
in maniera forse irreversibile? È sempre un bene, d’altra parte, «crescere e moltiplicarsi»? Alcune correnti cristiane alto e tardomedievali vennero dichiarate eretiche e brutalmente sterminate dalla Chiesa per aver osato predicare la non riproduzione: gli encratiti, sostenitori della castità perfetta, e soprattutto i catari, che rifiutavano il matrimonio e la procreazione di corpi carnali e materiali, prigioni dell’anima. Temo di dover affermare che la decrescita demografica complessiva sarebbe un bene per il pianeta, soprattutto se equamente distribuita. E forse all’inverno demografico e alla primavera silenziosa potrebbero, in tal caso, far seguito stagioni più omogenee per tutti, risonanti di voci di uccelli e di bambini.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 2 gennaio 2024
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TEMPO LIBERO ●
In umido o lessato con verdure È una frattaglia e viene consumata soprattutto in Toscana; Allan Bay spiega come si cucinano i polmoni in particolare se di vitello o di suino
Manuale di sopravvivenza contro la noia Pop! Fai esplodere la tua creatività è il nuovo divertente libro di Élise Francisse, giovane illustratrice che sa colorare le giornate uggiose
Una spolverata di neve immaginata Il bricolage di oggi permette di utilizzare la propria fantasia e personalizzare ogni passaggio a piacere secondo capacità e preferenze
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Canto di un pastore errante
Reportage ◆ La Mongolia tenta di scrivere il suo futuro in bilico tra un passato epico e un presente turbolento Amanda Ronzoni, testo e foto
«Andremo da dio, lo saluteremo e se si dimostra ospitale resteremo con lui, altrimenti risaliremo a cavallo e verremo via». (Proverbio mongolo) La musica mongola ha il ritmo di una galoppata furiosa attraverso le praterie spazzate dal vento. Nei canti di queste genti, le voci sono per noi stridenti da ascoltare, e ipnotiche come solo il khöömii (canto di gola) sa esserlo: eco di rapaci, o di animali in fuga nelle steppe, nitriti di cavalli che, per i mongoli, sono i migliori amici dell’uomo, il fluire delle acque, l’impeto del vento e il ruggire del cielo in tempesta.
La voce della natura La Mongolia è uno di quegli angoli di mondo in cui la Natura parla ancora con la sua voce. E da tempi immemorabili ha trovato orecchie pronte ad ascoltarla. Hooh Tenger (il Grande Cielo Blu) era il padre celeste a cui anche Temüjin, passato alla storia come Činggis Qan (per noi Gengis Khan),
faceva riferimento. Gli sciamani usavano musica e melodie per entrare in connessione con gli spiriti e mediare i loro favori per la comunità. Dai monti dorati (gli Altaj), dai deserti, dalle steppe infinite, i canti delle innumerevoli genti che abitavano questi luoghi, in perenne movimento, senza muri né confini, giungevano tramite racconto alle orecchie lontane di chi aveva stabilito che la domus e le sue mura fossero la misura del vivere e del potere (dominus). Leopardi, che con la mente compì viaggi straordinari senza muoversi da casa sua, ne sente parlare attraverso gli scritti del barone russo Meyendorff, colonnello dello Stato Maggiore di S.M. l’Imperatore di tutte le Russie, che nel suo Voyage D’Orenbourg à Boukhara fait en 1820 à travers les steppes qui s’étendent à l’Est de la mer d’Aral et au delà de l’ancienne Jaxartès (Viaggio da Orenburg a Bukhara effettuato nel 1820 attraverso le steppe che si estendono a est del Lago d’Aral e oltre l’antica Jaxartès) racconta dell’usanza dei pastori di quelle terre lontane di cantare
storie antiche al chiaro di luna. Ci regala così uno dei suoi capolavori, un’opera la cui grandezza sta nel risuonare di elementi universali che accomunano gli uomini nonostante incolmabili distanze di spazio e tempo. La vita errante del pastore diventa il paradigma della vita travagliata di ogni essere umano, sovrastato dalla Natura magnifica e terribile. Un’eco che si amplifica vagando per il mondo, non importa a che latitudine o longitudine, ovunque si trovi un uomo che conduce al pascolo i suoi animali. Nella prefazione alla Storia segreta dei Mongoli (a cura di Sergej Kozin), Fosco Maraini scrive: «L’Asia centrale è un oceano di terra le cui onde, nei secoli, sono stati popoli». E così ancora oggi la Mongolia è un puzzle impegnativo di genti, usanze, lingue e religioni.
Confini di cemento La parola «confini» è sempre andata stretta alle popolazioni mongole. Per
secoli questa vasta terra è stata dominata da imperi nomadi e ancora oggi i blocchi di appartamenti in cemento armato, stile sovietico, che dovevano segnare l’avanzata del progresso e della modernizzazione del Paese sono quanto di più fuori luogo si possa vedere, specie nei piccoli centri. Non è un Paese per sedentari. Ancora oggi si calcola che circa un
terzo della popolazione viva di pastorizia e sia dedito al nomadismo. Questo è vero soprattutto nelle regioni periferiche e remote, che hanno rappresentato per lungo tempo delle zone franche per chi come i Kazaki, i Tuva, gli Tsaatan, si spostavano con le loro tende (ger o yurta) incuranti dei confini nazionali, seguendo gli animali e adattandosi alle condizioni meteoro-
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logiche, prima di restare intrappolati dalle politiche interne di Cina e Russia che hanno imposto regole ferree sulla circolazione di uomini e beni.
Province come tribù Delle 21 provincie (aimag, «tribù») che compongono la Mongolia, il Bayan-Ôlgij è quella più occidentale, incuneata tra la Russia a nord e la Cina a sud. Sfiora per poco, meno di 40 km, il Kazakistan, tenuto a debita distanza da acrobazie di geopolitica. A partire dalla metà del XIX secolo, vi confluirono moltissime famiglie di nomadi kazaki che dovettero scegliere tra la sedentarizzazione nei territori controllati dalle due superpotenze, oppure di migrare in Mongolia per continuare a vivere di pastorizia e attività tradizionali. Oggi l’88 per cento della popolazione della provincia è di origine kazaka e quindi la regione è a prevalenza musulmana.
Paese vasto, dagli orizzonti infiniti, eppure vaso di coccio tra due vasi di ferro (Russia e Cina), la Mongolia sta affrontando sfide economiche e incertezze climatiche L’aimag di Bayan-Ôlgij è circondato da montagne imponenti, dove nei millenni i capi dei popoli che si spostavano tra Oriente e Occidente venivano sepolti nei mirabili kurgan, tumuli di pietre che, imitando le cime dei monti, si avvicinano al Cielo. Il paesaggio naturale, qui maestoso e incombente, reca poche tracce dei passaggi umani e della loro velleità di memoria. Ci sono luoghi in cui si ha l’impressione di poter sentire respirare l’Universo. Questo è uno di quelli.
Aspre condizioni Le condizioni climatiche sono aspre: freddo intenso d’inverno, soprattutto in prossimità dei rilievi, e caldo afoso d’estate. Gli allevatori, con i loro animali, si spostano ciclicamente dai pascoli estivi a quelli invernali. Yak, pecore dal vello pregiato, cavalli, cammelli, uomini e cani. Cercano acqua e erba fresca, riparo dal caldo, dal freddo e da eventi estremi che qui hanno un nome preciso: zud. Ce ne sono di diversi tipi, tra cui il khar (nero) zud, determinato da mancanza di neve con successiva scarsità di acqua e cibo, e lo tsagaan (bianco) zud, portato da nevicate abbondanti e gelo che mettono parimenti a repentaglio la vita di bestie e uomini. Sono fenomeni abituali e ciclici, ma ultimamente il loro impatto sui nomadi è più alto a causa dell’inasprimento dei cambiamenti climatici da un lato e da un allevamento più intensivo rispetto agli standard tradizionali (aumento nella richiesta di carne e lana) dall’altro.
Cavalieri con l’aquila al braccio Si dice che alcuni pastori kazaki cominciarono a praticare la caccia con le aquile per sopperire ai periodi di magra con il bestiame, integrando i proventi familiari con la vendita delle pelli degli animali catturati grazie all’alleanza con questi nobili rapaci. Quando le famiglie tornavano dai pascoli alle dimore invernali, con la prima neve, gli uomini si preparavano per la caccia. Oggi si calcola che siano
meno di un centinaio i Burkitshi (cacciatori con le aquile) che mantengono viva questa tradizione. Eppure esiste un Festival delle aquile che sta riscuotendo sempre più attenzione, sia localmente sia all’estero. L’evento ufficiale si tiene annualmente a Ôlgij, capoluogo dell’aimag, a inizio ottobre. Ci sono poi eventi minori e locali, sia all’apertura che alla chiusura del periodo della caccia. Nato probabilmente come celebrazione di questa pratica, che qualcuno, man-
co a dirlo, fa risalire ai tempi di Gengis Khan, si inquadra nell’amore tipico dei popoli della steppa per i ritrovi «sportivi» che hanno come protagonisti abilità equestri, lotta, tiro con l’arco, passione che si coagula nell’annuale festa del Naadam. Anche nella Storia segreta dei Mongoli si fa menzione di questi momenti di svago, che sancivano periodi di pace, alleanza tra clan e tribù, affatto dissimili dai nostri giochi panellenistici. I cavalieri arrivano fin dalla mat-
Mitico Gengis Khan Gengis Khan (ritenuto da molti il più grande comandante della storia; nel XIII secolo conquistò quasi tutta l’Asia e l’Europa orientale) – la cui memoria è stata orgogliosamente ristabilita dopo anni di oscurantismo sovietico – ha raggiunto il massimo livello di fama per l’epoca odierna, trasformandosi in una sorta di influencer post mortem, brand nazionale per eccellenza. È testimonial di una birra, di una vodka, dà il nome a hotel di lusso e anche al nuovo aeroporto di Ulan Bator.
Noto come uno dei flagelli che hanno tempestato la regione, colpevole di massacri e violenze con le sue schiere di guerrieri a cavallo, è stato in parte riabilitato dalla storiografia recente e ci viene presentato come il riunificatore di clan in perenne lotta, il creatore di uno dei sistemi di comunicazione (le stazioni di posta a cavallo) più avanzato ed efficiente dell’epoca, il garante di una seppur breve pax mongolica che garantì scambi commerciali e culturali tra Oriente e Occidente come nessuno prima di lui.
tina presto, solenni, con le aquile al braccio, bardati con le loro pellicce migliori. I cavalli hanno finiture ricercate e sembrano consapevoli dell’importanza del loro ruolo. Nonostante paragonati a razze di altre latitudini possano sembrare rozzi e primitivi, si muovono in totale armonia con il territorio circostante e questo conferisce loro una grazia innata. Cavaliere e cavallo sono una cosa sola. C’è un senso di compiaciuta vanteria tra i Burkitshi che si aggirano agghindati e si concedono agli obiettivi dei turisti e dei locali con generosità. Lo spettacolo è intenso e richiama le principali abilità di un cacciatore che deve dimostrare il suo rapporto stretto con l’aquila, di cui è tenuto a prendersi amorevole cura e con cui sviluppa un legame speciale, così come con il cavallo. I tre diventano un’unica figura mitologica. I turisti partecipano con entusiasmo, almeno fino a quando il freddo non li vince e le schede delle macchine fotografiche non sono piene. Fino all’ultimo restano i locali, entusiasti, che inneggiano ai vincitori. Nell’ultima edizione, 2023, ha vinto (di nuovo) una ragazza di quattordici anni, anche questo, un segno dei tempi che cambiano.
Da tradizione a prodotto turistico Siamo di fronte a una tradizione morente che per sopravvivere si sta modificando, trasformandosi in un prodotto culturale turistico. Il riconoscimento internazionale, ma anche locale, dei cacciatori che si sottopongono alla due giorni di eventi e gare ha presa soprattutto sui giovani che guardano sempre più a questa pratica come a una attività in grado di dar loro fama e denaro, esattamente come se si trattasse di performance sportiva. L’ironia è che gli stessi cacciatori distinguono tra veri e fake, ma senza giudicare. I puristi dicono che l’evento abbia perso di autenticità, ma nel 2024 forse è bene anche chiedersi che senso abbia pensare alle tradizioni e alle culture come entità immutabili. Soprattutto in tempi in cui il turismo, come voce dell’economia, può fare molto per le comunità locali. Chissà cosa penserebbe di tutto questo Gengis Khan e cosa cantano oggi i pastori al chiaro di luna. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
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Un buon picchiante o ris e corada?
Gastronomia ◆ Sono diverse le ricette che hanno come ingrediente principale il polmone, quale frattaglia appetitosa
che, poi sminuzzato e trasferito nella casseruola dove si trova il riso, che viene cotto utilizzando il brodo di cottura del polmone. Di altre analoghe ricette si hanno solo notizie scritte perché non le fa più nessuno. Ad ogni modo, per cuocere il polmone bisogna dapprima eliminare trachea e bronchi; dopo la cottura, quando si procede al taglio, si devono o possono togliere anche i bronchioli, che sono le ramificazioni finali (molto piccole) dei bronchi all’interno dei polmoni; questione di eleganza. In genere la trachea e i bronchi li elimina il macellaio, mentre i bronchioli da crudo non si possono eliminare, per farlo bisogna dunque ascoltare i consigli del macellaio che, (se bravo e gentile) vi mostrerà come sono fatti e dove si trovano. Alcuni comunque li lasciano, perché anche se da cotti rimangono duri, non risultano mai esserlo troppo. Ed eliminarli richiede un lavoro certosino: e infatti io non li elimino mai. Se state per avventurarvi in una cena dove vorrete servirlo, ecco due preparazioni basiche. Lessate il polmone con gli odori canonici per 1 ora e mezza, spegnete e fatelo raffreddare nell’acqua di cottura. Scolatelo da tiepido e tagliatelo a pezzi. Stufate cipolline con burro, acqua e poco zucchero, levatele, fatele intiepidire e tagliatele in 4 parti. Mescolatele al polmone e servite, regolando di sale e di pepe e nappando con una salsa allo yogurt o maionese. Se volete cuocerlo in umido, fate invece così. Tagliate il polmone a pezzetti e fatelo rosolare in una casseruola con burro o olio per 5 minuti; poi sfumate con vino bianco o flambate con brandy. Unite polpa pronta di pomodoro, verdure da soffritto e aglio. Cuocete per circa 1 ora, bagnando con poca acqua quando necessario. Regolate di sale e di pepe.
Come si fa?
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La volta scorsa, parlando di frattaglie, ho scritto: «Il polmone gode erroneamente di cattiva fama. Cotto a pezzi in umido è veramente buono». Un’amica svizzera mi ha chiesto: «Ma davvero si può mangiare il polmone?». È più che certo. Sebbene debba confessare che anche per me è stata una scoperta recente: mi trovavo in Toscana, quando – otto anni fa – un amico di Pistoia mi invitò a cena dicendomi: «Ti faccio il picchiante», che è il nome toscano del polmone (in umido). Io ovviamente accettai l’invito con curiosità, ritrovandomi poi a mangiarlo per la prima volta, di gusto. I polmoni sono due organi pari situati nella cavità toracica, per mezzo dei quali respirano tutti i vertebrati, pesci esclusi. Sono di consistenza spugnosa ed elastica e di colore rosato. Si caratterizzano per la diffusa reticolatura, più o meno abbondante a seconda dell’animale di provenienza: è fitta nei bovini, più rada nei suini. Il mio macellaio di Milano, in ogni caso, macella – nel senso che non si limita a vendere la carne, ma proprio macella e seziona – bovini e suini (che sono tra i più usati). Ogni tanto li compro, ogni tanto altri appassionati li comprano prima di me, ma la più parte delle volte li vende «all’industria»; così dice, anche se io sospetto che diventino cibo per gatti (ignoro eventuali altri possibili utilizzi). I polmoni di agnello e capretto sono invece sempre consumati, perché fanno parte della coratella (nome collettivo che indica l’insieme di cuore, polmoni, fegato e milza), che molti appassionati comprano e che è una meraviglia. Il vero consumo in Italia avviene in Toscana. Una volta anche in Lombardia: nei libri si trovano ad esempio piatti come ris e corada (polmone di vitello): in questo caso, il polmone viene lessato con le verdure canoni-
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Allan Bay
La crostata in genere è arricchita con frutta ma può contenere anche il cioccolato. Vediamo come si fa. Unite in una ciotola 120 g di burro molto freddo tagliato a cubetti, 200 g di farina, 35 g di cacao setacciati, 80 g di zucchero a velo e 2 g di sale. Sabbiate con la punta delle
dita e aggiungete 1 tuorlo e 2 cucchiai di acqua fredda. Impastate velocemente e stendete l’impasto con il mattarello tra due fogli di carta da forno. Rivestite con la sfoglia ottenuta il fondo di una tortiera di cm 20 di diametro, imburrata e infarinata, e poi i bordi avendo cura di superare l’altezza dello stampo di 1 centimetro. Forate il fondo con i rebbi di una forchetta e ricoprite con un foglio di carta da forno. Riempite la tortiera con i pesi appositi o riso crudo o fagioli secchi fino ad arrivare al bordo, e cuocete a 170° per 30’. Sfornate, togliete i pesi e la carta, quindi proseguite la cottura per altri 10’. Poi sfornate
e pennellate il guscio di pasta con l’uovo intero leggermente battuto. Infornate ancora per 5’, poi sfornate e raffreddate completamente a temperatura ambiente. Mescolate in bagnomaria 400 g di cioccolata fondente spezzettata, 250 g di panna fresca, 200 g di latte intero e pochissimo sale avanzato. Quando il cioccolato sarà fuso completamente e ben amalgamato unite 2 tuorli d’uovo. Intiepidite il composto e vuotatelo nel guscio di pasta. Cuocete a 120° per 30’. Raffreddate, tagliate la pasta in eccesso ai bordi e sformate. Tagliate la crostata a fette, se volete accompagnatele con marmellata di arancia.
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Ballando coi gusti
Gli spezzatini piacciono a tutti. Ecco due proposte semplici e, come sempre, ghiotte.
Spezzatino di ossobuco di manzo in umido
Spezzatino di puntine al pomodoro
Ingredienti per 4 persone: 4 ossibuchi di manzo da 200 g l’uno – 400 g di verdure miste spezzettate – 1 mazzetto aromatico composto da rosmarino – alloro – salvia – 1 mazzo di prezzemolo – 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro – vino rosso – brodo di manzo – farina bianca – burro – olio di oliva – sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 800 g di puntine di maiale tagliate a pezzetti – 200 g di verdure da soffritto tritate – 500 g di polpapronta di pomodoro – 2 foglie di alloro – 2 cucchiai di concentrato di pomodoro – vino rosso – basilico – sale e pepe.
Separate gli ossibuchi dagli ossi, tagliateli a bocconi e infarinateli leggermente. Rosolateli con burro e olio per 5 minuti, mescolando, sfumate con ½ bicchiere di vino. Unite le verdure, il mazzetto, 1 bicchiere di brodo bollente e il concentrato stemperato, coprite e cuocete per 2 ore e 30 minuti aggiungendo altro brodo se necessario. Alla fine, eliminate il mazzetto, levate la carne e gli ossi, frullate il fondo, rimettetelo nella casseruola con la carne, fate restringere, profumate con prezzemolo e regolate di sale e di pepe.
Rosolate la carne per 5 minuti in una casseruola, senza aggiungere grassi, sfumate con ½ bicchiere di vino. Unite la polpapronta, il concentrato di pomodoro diluito in poca acqua calda, le verdure, foglie di basilico e l’alloro. Coprite e fate cuocere su fuoco dolce per 3 ore o più, unendo poca acqua bollente se necessario: a cottura terminata, gli ossi della carne devono esseri staccati e il fondo deve essere bello scuro. Regolate di sale e di pepe, spolverate con prezzemolo tritato. Con parte del fondo potete condire una pasta di accompagnamento.
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Quando la creatività è di casa
Tra il ludico e il dilettevole ◆ Pop! Fai esplodere la tua creatività è più di un semplice libro, è una sorta di manuale di sopravvivenza contro la noia e le giornate uggiose
Ci saranno sempre, nelle nostre vite, momenti un po’ vuoti, giornate grigie che non invogliano a uscire all’aria aperta, e altre occasioni in cui la noia ci insidia: e allora perché non contrastare la nostra pigrizia mettendo in moto immaginazione e creatività? In fondo l’essere umano, oltre a essere un animale sociale, è anche un animale creativo, che ha trasformato il proprio ambiente elaborando una cultura in perpetua evoluzione. È proprio a questa idea che si ispira Pop! Fai esplodere la tua creatività di Élise Francisse, giovane illustratrice e creator francese. Più che un libro è, come vedremo, un prezioso contenitore di idee, di spunti per mettere in pratica il proprio estro creativo. A sfogliare questo libro, si ha l’impressione di avere tra le mani un manuale di sopravvivenza per le giornate uggiose. Con il tono complice dell’amica, l’autrice dispensa consigli pratici per rendere la creatività alla portata di tutti, nonché uno strumento di crescita delle proprie risorse e di soddisfazione quotidiana. Tutti noi, in fondo, abbiamo già provato l’ebrezza di creare qualcosa con le nostre mani, quindi perché rinunciare alla possibilità di concedersi momenti di spensieratezza creativa condividendoli? Tra le innumerevoli sfide creative, che l’autrice introduce con stile iro-
nico e profusione di colori, troviamo: ridecorare la propria stanza, scrivere un libro con gli amici, organizzare una grandiosa caccia al tesoro, creare il proprio bullet journal (agenda e diario personale per pianificare il futuro, organizzare il presente e tenere traccia del passato), organizzare uno swap party (un evento in cui i partecipanti si scambiano abiti e altri accessori in buone condizioni), e molto altro ancora. Insomma, ci sono proposte per tutti i gusti, alcune degne dei tempi d’oro della nostra adolescenza. Tutti noi, per dire, abbiamo appeso alle pareti delle nostre camere da letto dei poster, delle fotografie, la copertina di un vinile, il gagliardetto della nostra squadra preferita, qualcosa che ci permettesse di manifestare le nostre passioni, le nostre preferenze, ma anche di esprimere il nostro gusto estetico. Tutto questo l’abbiamo fatto dopo aver a lungo meditato, e calcolato mentalmente le misure: non troppo alto, non troppo basso e soprattutto, bene in vista, o almeno abbastanza da valorizzare la particolarità della nostra scelta. Magari abbiamo anche appeso una prima volta, poi tolto, e riposizionato. Poi ci siamo messi a una certa distanza, e abbiamo valutato attentamente la situazione. Come dei sommelier, abbiamo lasciato decan-
S. Caroni
Sebastiano Caroni
tare il tutto, facendo emergere le sfumature e lasciando che i toni e le consistenze prendessero forma. E, una volta approvata, la nostra scelta ha finito per confondersi con il paesaggio visivo della nostra quotidianità. Non è certo un caso, quindi, se fra le tante proposte creative che si trovano nelle pagine di Pop! Fai esplodere la tua creatività, una in particolare si rifaccia all’idea di impreziosire le pareti della propria camera con un poster personalizzato: «Fuori piove, hai litigato con il/la tuo/tua BFF, il pranzo a scuola faceva piangere i sassi… Cer-
te volte la vita sembra un po’ grigia» confessa Élise Francisse. «Ma invece di raggomitolarti in una coperta della tristezza come se fossi un burrito molle, prova questo antidoto, il postit gigante dell’allegria, la ricetta miracolo contro i momenti no: il poster della gioia». Non ho mai provato la soddisfazione di dare seguito a questa proposta, ma confesso che di recente mi sono trovato in una situazione non del tutto estranea a quella evocata da Élise Francisse. Mi ero procurato un’immagine piuttosto grande di una pop-
star, e mi ero promesso di sistemarla da qualche parte, ma non sapevo dove. Non potevo appenderla in camera come un adolescente, e posizionarla vicino a un poster di una mostra non mi convinceva, il contrasto mi pareva troppo forte. Alla fine ho optato per la soluzione più logica, identificando uno spazio che sembrava fatto apposta per accogliere quell’immagine. Lungo una parete del mio salone c’è un televisore piuttosto grande: dove finisce lo schermo, e prima che inizi la libreria, c’è uno spazio di poco meno di un metro. Quello era lo spazio ideale per accogliere l’immagine di una popstar: a metà strada fra la serietà dell’arte e l’evanescenza dello schermo (v. foto, Britney Spears). La creatività, in fondo, è un’esperienza personale e libera. Ce lo conferma anche Élise Francisse quando afferma: «Puoi applicarla dove e quando vuoi. Non ci sono regole tranne una: è unica per ognuno di noi. Puoi usarla per trasformare il luogo in cui vivi e sentirti bene, rendere felice te e i tuoi cari, realizzare un progetto con gli altri o imparare a conoscerti meglio». Bibliografia Élise Francisse, Pop! Fai esplodere la tua creatività, Edizioni Sonda, 2023. Annuncio pubblicitario
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Un magico paesaggio innevato
Crea con noi ◆ Per realizzare il piccolo villaggio invernale si usa la tecnica del collage e si recupera la carta dei regali di Natale Giovanna Grimaldi Leoni
In questo tutorial utilizzeremo materiali e tecniche diverse per creare un suggestivo paesaggio innevato. Per realizzare le casette con la tecnica del collage potete utilizzare la carta recuperata dai regali delle feste. La nuvola aggiunge un elemento tattile e di movimento all’insieme, mentre il tocco finale con la pittura, spruzzata per simulare la neve che scende su questo villaggio si rivelerà un esercizio molto divertente. Un progetto creativo che permetterà a tutti di utilizzare la propria fantasia e di personalizzare ogni passaggio a
Aggiungete dettagli con un pennarello o le tempere. Disegnate una grande nuvola nel cielo con la matita, prestando attenzione a lasciare almeno 1cm dal bordo del foglio. Ritagliate un rettangolo doppio dalla mappetta di plastica, leggermente più grande della nuvola. Per farlo utilizzate l’angolo della mappetta in modo che due lati risultino chiusi. Con il nastro adesivo sigillate un terzo lato, inserite le palline di polistirolo e, se desiderate, qualche fiocco di neve fustellato. Chiudete l’ultimo lato con il nastro. Ritagliate la nuvola dal cartoncino nero e rimuovetela. Fissate sul retro la busta di plastica preparata in precedenza, per aggiungere un effetto tattile e di movimento al vostro collage. Utilizzate le fustelle per ritagliare alcuni fiocchi di neve e aggiungeteli al vostro collage. Arricchite con dettagli personalizzati, come piccoli alberi creati con rametti o altri elementi a piacere, come le palline di polistirolo utilizzate in precedenza. Trasferite il collage su un foglio di giornale per proteggere il tavolo. Diluite la tempera bianca con acqua in modo che risulti piuttosto liquida. Immergetevi un pennello e picchiettatelo sopra il foglio a distanza di circa 15 cm, in modo da ottenere spruzzi simili alla neve. Lasciate asciugare. Il vostro paesaggio innevato è pronto per essere in-
piacere a seconda delle proprie capacità e preferenze. Procedimento Dai vari tipi di carta che avete selezionato, ricavate diverse casette. Per farlo, tagliate rettangoli di forme e dimensioni varie, a cui aggiungere o ritagliare porte e finestre. Aggiungete tetti a punta o arrotondati. Componete sulla base di cartoncino nero il vostro villaggio, alternando e sovrapponendo leggermente le casette. Quando siete soddisfatti, fissate il tutto con il bastoncino di colla o la colla vinilica.
Giochi e passatempi Cruciverba
Lo sapevi che Mozart come animale da compagnia… Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 4, 3, 3, 4, 3, 6)
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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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VERTICALI 1. Una Giovanna maratoneta olimpica italiana 2. Vita animale e vegetale di un habitat 4. Le iniziali dell’imitatrice Aureli 5. Un numero 6. Raggiunge anche i piccoli bronchi 8. Relativo alla morale 11. Le iniziali dell’attrice Mastronardi 14. Creò il personaggio Sandokan (Iniz.)
Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi
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corniciato e creare un piccolo angolo invernale nella vostra casa.
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(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
Sudoku
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• Cartoncino nero (almeno 120gr) della misura desiderata • Ritagli di carta di vario tipo: da pacco, giornale, da regalo, cartoncini… • Bastoncino di colla o colla vinilica • Forbici o taglierino • Una mappetta di plastica trasparente • Palline di polistirolo • Fustelle con fiocchi di neve • Nastro adesivo • Tempera bianca e pennello
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
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ORIZZONTALI 1. Le iniziali del politico Bonino 3. Raggi radioattivi 7. Pietose, misericordiose 9. Le custodivano le Vestali 10. Lettera dell’alfabeto greco 12. Canta «Terra promessa» (Iniz.) 13. Valutazioni di beni 15. Le iniziali dello scultore Canova 16. Nome femminile 22. Dove in francese 24. Famoso 25. In crisi fanno coristi 27. Un avverbio 29. Sporchissimi 31. La festa più amata 34. Mascate è la sua capitale 35. Raganelle arboree 36. Dei ganci sinistri… 37. Progenitore
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17. Un terzo di undici 18. Lo era Sartre 19. Regola, precetto 20. Un animale nella fattoria 21. Particelle atomiche 23. Contrapposta all’altra 26. Il dei tali… 28. La fanno i tifosi 30. Abbreviazione di titolo onorifico 32. Pronome personale 33. Le iniziali della cantante Marrone
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Soluzione della settimana precedente BENVENUTO 2024! – Messaggio della redazione: «FELICE ANNO A TUTTI I NOSTRI LETTORI”
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 2 gennaio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO / RUBRICHE
Viaggiatori d’Occidente
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di Claudio Visentin
Un gatto come mascotte per il turismo 2024 ◆
Scrivere sul primo numero del 2024 spinge a tentare un bilancio dell’anno trascorso, gettando al tempo stesso uno sguardo verso il futuro. E dunque quali nuove tendenze sono emerse nel campo dei viaggi e del turismo? La pandemia è interamente alle nostre spalle. In primo piano è invece la questione climatica ed è bene che sia così, perché l’impatto del turismo sull’ambiente è molto maggiore di quanto percepito. In particolare nell’anno passato si è discusso di estati troppo calde e della conseguente fuga dalle spiagge in luglio e agosto, così come della difficile sopravvivenza degli sport invernali (al di là di episodiche, abbondanti nevicate). Nella prospettiva di un turismo più sostenibile, un forte ritorno d’interesse per i treni ha favorito quelli notturni a grande percorrenza, che potrebbero sostituire molti voli aerei, riducendo radicalmente le emissioni. Per esem-
pio, dopo una pausa di nove anni, il treno notturno tra Parigi e Berlino è tornato a correre sulle rotaie, rafforzando i legami tra due capitali storiche dell’Europa e proponendo così una nuova idea di viaggio. Resta l’incognita dei prezzi, ma un convinto supporto pubblico potrebbe allinearli a quelli delle compagnie aeree low cost. Si discute poi di Overtourism, ovvero dell’ultima versione del turismo di massa. Non si tratta solo di numeri crescenti, anche se i turisti sono quasi tornati ai livelli pre-pandemia (nel 2019 si registrarono un miliardo e mezzo di viaggiatori in tutto il mondo; fonte: World Tourism Organization, agenzia delle Nazioni Unite). È soprattutto un nuovo modello turistico dipendente dalle nuove tecnologie. Dell’intelligenza artificiale si parla molto, ma per ora senza ricadute immediate. Semmai Instagram, con la sua incessante ricerca di sfondi spetta-
Passeggiate svizzere
colari per i selfie, ha ristretto le scelte dei turisti, ingolfando le destinazioni più famose. E nel 2023 anche TikTok è diventato sempre più importante, grazie a un algoritmo aggressivo e virale. Anche a causa di Airbnb che ha rivoluzionato da tempo il mercato mettendo in competizione turisti e residenti, nel 2023 alcune delle città più visitate al mondo (Amsterdam, Barcellona, Venezia) hanno cercato di scoraggiare nuovi arrivi mentre altre (New York, Firenze) hanno posto forti restrizioni agli affitti brevi. Per il resto, la pratica del turismo è sempre più considerata un diritto universale e l’accessibilità per tutti, a cominciare dai disabili, è data quasi per scontata (anche se non ovunque è realtà). Cresce poi rapidamente il numero di chi viaggia da solo, per necessità o (più spesso) per scelta; molti sono donne o giovani. E così per la prima volta da tempo immemorabi-
le si mette in discussione il paradigma della stanza doppia come unità di calcolo dei costi; sulle grandi navi da crociera e negli alberghi si sperimentano nuove soluzioni architettoniche incentrate sulla stanza singola. Questo e molto altro è successo nel 2023, eppure per parte mia, quando tra qualche tempo ripenserò a quest’anno, credo che ricorderò soprattutto la storia di Gacek, un gatto di strada bianco e nero di Stettino, città polacca. Gacek ha vissuto per circa sette anni in via Kaszubska e i negozianti locali si erano ormai abituati alla sua presenza; lo nutrivano regolarmente e gli avevano anche costruito una piccola casa di legno dove ripararsi dalle intemperie. Negli ultimi mesi, nonostante le numerose attrazioni della città polacca (il castello, il Museo nazionale, un grande parco), Gacek era diventato la prima attrazione turistica di Stettino su Google
Maps, con oltre quattromila recensioni. Inoltre conta centinaia di migliaia di visualizzazioni su YouTube e un profilo Instagram con oltre quarantamila follower. I commenti sono adoranti: «Val la pena di viaggiare tre ore per essere ignorati da lui in persona», ha scritto un turista. «Talentuoso, brillante, straordinario, assolutamente unico» gli fa eco un altro. Una certa enfasi è parte del gioco: «Un’esperienza che ti cambia la vita!». Al momento però Gacek sconta il prezzo della sua fama: troppe richieste di selfie e soprattutto troppe offerte di cibi succulenti, con conseguente rapido aumento di peso. A causa di ciò, per qualche tempo Gacek se ne starà tranquillo in una nuova famiglia, con un’alimentazione controllata, anche se già in passato è fuggito da un tentativo di adozione per tornare alla vita di strada. Che ne dite, scegliamo Gacek come mascotte per il turismo 2024?
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di Oliver Scharpf
Le vetrate di Bissière a Cornol ◆
A Natale cielo a pecorelle a Cornol. La Cornoline, ruscello quasi invisibile, segregato a fianco della strada, si sente lo stesso, appena sceso dal bus, scorrere vivace e deciso. C’ero già stato da queste parti, una primavera tempo fa, fermandomi a pranzo al Lion d’or, in viaggio per cercare una roccia sacra antropomorfa nei boschi di Bourrignon. Il Lion d’or, posto sincero e cordiale d’altri tempi, famoso in tutto il Giura per la carpa fritta, a un minuto neanche dalla chiesa, è chiuso da un paio di anni. Tra l’altro, tra il 1760 e il 1824, prima del Lion d’or lì c’era una manifattura di ceramica: di tanto in tanto, nella Cornoline, si pescano ancora frammenti di maioliche stannifere floreali fatte d’argilla oxfordiana dei dintorni. Con la coda dell’occhio colgo, appena entrato nella chiesa sorta nel 1787 e rinnovata nel 1957 da Jeanne Bueche, incrociata sul nostro cammi-
no a fine novembre per le vetrate di Léger, il primo sprazzo delle vetrate di Bissière (519 m) a Cornol. Paesino di millediciotto anime a sette chilometri da Porrentruy e sei dal confine con l’Alsazia del sud, una regione di nome Sundgau. Le prime due vetrate di Roger Bissière (1886-1964), pittore delicato nato a Villeréal, villaggio del sud-ovest della Francia, dipartimento Lot-et-Garonne, sono intralciate dal soppalco della cantoria. Dove salgo le scale di legno per riuscire a vederle ma sono troppo vicine. Se non altro, si nota la grande gamma di colori usati, dal blu mare al marrone foglia, rosso vino, sangue, turchese o cos’altro. E si legge, oltre al nome dell’artista e l’anno, 1957, il nome dei mastri vetrai, Aubert & Pitteloud, gli stessi di Léger. Stessa tecnica: beton colato, lastre di vetro spesse cinque centimetri circa. A
Sport in Azione
partire dalla settima fila dei banchi, s’inizia a contemplare sul serio le vetrate di Bissière: bellissime, assomigliano un po’ ai tappeti berberi. La modulazione dei pezzettini di vetro multicolori è ascensionale. Le lastre di vetro a forma di quadratini irregolari, triangoli, triangoli che formano croci decussate, schegge, rari rombi, un solo cerchio, molti simili a mattoni messi in piedi, sono composti come costruzioni traballanti. C’è anche un’aria di Klee. Purtroppo oggi la luce non è il massimo, la giornata con cielo azzurro velato solo a tratti, è troppo chiara, per questa chiesa. Solo le varie gradazioni di blu, blu elettrico, ciano, celeste, pervinca, rendono comunque. Il color lavanda si perde. Peccato pure per la musichetta filonatalizia con flauto di pan deprimente. Eppure, sulle condizioni avverse, vince l’incanto limpido di Bissière. Ispirato, sostene-
va, dalla musica di Edith Piaf. «Ho voluto fare delle immagini colorate dove ciascuno può aggrapparsi ai propri sogni» diceva. «Un mosaico di colori mutevoli, di piccole forme geometriche sbagliate, appena abbozzate, che s’inscrivono in una costruzione sciolta, leggera, tutta di vibrazioni appena percettibili», ho trovato scritto dal pastore Michel Noverraz tra le pagine di Vitraux du Jura (1968) a cura di Jean-Paul Pellaton. Catturo ora il «verde reseda» citato da Max Huggler, direttore del Kunstmuseum di Berna dal 1944 al 1965, nel suo testo Moderne Kirchenkunst im Jura, «Werk», n. 11, 1963. Testa oblunga particolare immortalata in un’incisione di Kirchner, Max Huggler riteneva queste vetrate le più belle d’Europa. Maestro di Manessier – le cui vetrate a Les Bréseux sono opera seminale e a bocca aperta sono rimasto nella cattedrale di Friborgo – all’A-
cadémie Ranson di Parigi, Bissière, durante tutta la seconda guerra mondiale smette di dipingere e diventa contadino in un posto chiamato Boissiérette, nel Lot, dove rimarrà fino alla morte. La musica cambia, un gospel più sopportabile, trovo un panda nel presepe. Sprofondo nelle due vetrate del coro di St. Vincent, alte settantacinque centimetri in più rispetto alle altre otto, trafitte ora, nel pomeriggio di Natale, da un’altra luce, più invernale-lenitiva. Il passaggio forse di un gregge di nuvole. Torno tra i banchi, mi siedo, acchiappo un verde vischio che mi porta con la mente sugli alberi, tra i rami, nei boschi. Qui vicino c’è un boschetto, detto La Montoie, noto per i fuochi fatui e infestato dai foulta, folletti tipici dell’Ajoe dispettosissimi: se non si riforniscono di panna fresca a colazione, conducono il bestiame in un baratro.
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di Giancarlo Dionisio
Dall’intelligenza artificiale alla mungitura ◆
Una volta si giocavano Coppa e Campionato nazionali. Poi si sono aggiunte le Coppe Europee alle quali accedevano poche elette: Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe, Coppa delle Fiere, e le defunte Mitropa Cup e Coppa Intertoto. Il Sistema-Calcio non si arrende, è vorace, guarda avanti. Ecco quindi sbucare dal cilindro magico una Champions League e un’Europa League che offrono spazio a molti più club. Non sazio, il Grande Burattinaio inventa anche la Conference League. Si moltiplicano le squadre coinvolte, così come i singoli eventi che, sette giorni su sette, tengono col fiato sospeso eserciti di tifosi. Sia presenti allo stadio, a volte con lunghe e costose trasferte, sia davanti al teleschermo, anche in questo caso versando fior di quattrini alle varie piattaforme che detengono i diritti di diffusione. Se ci spostiamo sul piano delle squadre nazionali prendiamo atto di due aspetti
che confermano la tendenza: ai Campionati Mondiali ed Europei il numero delle partecipanti cresce di edizione in edizione. E per placare l’appetito degli insaziabili, dal 2018 l’Uefa ha dato il via alla Nations League. Per ovviare a eventuali crisi d’astinenza sono sorte le Supercoppe: quella Europea, in cui si affrontano le vincitrici della Champions e dell’Europa League, e quelle nazionali. Il rischio overdose è palese. Ciò nonostante, in Italia, la Supercoppa cambierà formula, ma non per snellire il calendario. Invece di due, saranno quattro squadre a giocarsela, secondo la formula dell’eliminazione diretta. Nella fattispecie Napoli, Inter, Lazio e Fiorentina. La nuova strategia comporterà il rinvio di una serie di partite di campionato che verrebbero recuperate in marzo, dato che il calendario è iper-compresso, e le quattro finaliste sono tuttora impegnate anche nelle Coppe Euro-
pee. Perché stupirsi e lamentarsi? Mi fa specie, oltre alla moltiplicazione degli eventi, che queste sfide tra squadre italiane si giocheranno a Gedda e a Riad, in Arabia Saudita. Gli arabi, dopo aver iniziato il «saccheggio» dei vari campionati, ingolosendo giovani e vecchie glorie col profumo dei petrodollari, ora puntano anche al monopolio degli eventi. Vada per la discussa e discutibile Coppa del Mondo che si è tenuta lo scorso anno in Qatar. Vada che l’Arabia Saudita abbia ingaggiato un testimonial stellare come Cristiano Ronaldo per conquistarsi il diritto di ospitare il Mondiale del 2034. Ma c’è un limite a tutto. Assistiamo a una sorta di nemesi storica. Da saccheggiati a predatori. Tuttavia, mi chiedo: della Supercoppa Italiana che cosa se ne fanno? E alla Lega italiana di Serie A che cosa viene in tasca? Non si sa. In compenso è stato annunciato che il Paese ospitante metterà in gioco 23
milioni di euro in premi, sette dei quali per la squadra vincitrice. Per l’impatto che avrà l’evento sulla sorte del pianeta, sarebbe una notizia da dieci righe da incuneare fra le «brevi». Ma la tendenza preoccupa. Ve la immaginate la Coppa Svizzera che lascia il Wankdorf e fa le valigie per spostarsi a Dubai o Abu Dabi? Il nostro, per ora, è un calcio poco sexy, ma qualora riuscisse a indossare un tubino nero con lustrini e paillettes, facciamoci trovare pronti a difenderlo. L’accostamento fra i due concetti del titolo è semplice. «Intelligenza artificiale» (e realtà ad essa connesse) è stata espressione dell’anno in vari Paesi, «mungitura» è senza dubbio la parola mondiale del decennio, almeno per quanto riguarda il mondo del pallone. Se un tifoso sceglie di investire gli ultimi spiccioli per andare a vedere l’Inter a Riad, è affar suo. Vorrei solo gridare il mio personalissimo «basta» a
questo ennesimo assalto alle fragili finanze dei meno favoriti. E questo anche se, a quanto si racconta, le partite di Gedda e Riad, saranno verosimilmente trasmesse «in chiaro» da Mediaset. Forse sarà l’ennesima caramella drogata, che ci indurrà a sottometterci, inermi e beati, a ulteriori ruberie. A rendere meno drammatico lo scenario, negli scorsi giorni è giunta la notizia che Uefa e Fifa hanno perso la loro battaglia contro A22 Sports Management, promotrice della SuperLega, che, con ogni probabilità, si farà. Sessantaquattro squadre europee si affronteranno in tre categorie stabilite secondo criteri meritocratici. Tutte le partite saranno trasmesse gratuitamente. Cose da non credere. L’iter sarà lungo. Per cui ipotizziamo che scorreranno fiumi di birra fra i fans. Ma prima di ciò, ne sono convinto, toccherà ai fiumi di inchiostro, fra cui il nostro.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 2 gennaio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino 19
ATTUALITÀ ●
Le lotte di Dick Marty Si è spento giovedì a Fescoggia a 78 anni anni l’ex magistrato e politico ticinese di lungo corso
Riconoscere l’altro e i suoi diritti La pace e la sicurezza in Israele-Palestina non si otterranno dalla rioccupazione di Gaza, ma con la cessazione delle prevaricazioni
Atene reclama le sue opere a Londra In esame un sistema di prestiti che permetta ai marmi del Partenone di passare parte del loro tempo in Grecia, in cambio di altri tesori
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La fondue moitié-moitié di Viola Amherd
Personaggi ◆ La neo presidente della Confederazione dovrà trovare molti compromessi di fronte alle sfide che l’attendono Roberto Porta
A Viola Amherd non manca di certo lo humor. Lo si è capito anche ascoltando il discorso che ha tenuto davanti alle Camere federali nel giorno della sua elezione a presidente della Confederazione per questo 2024. «La fondue moitié-moitié è la prova che la Svizzera è capace di compromessi», aveva affermato con un sorriso la neo-eletta. Arte casearia a parte, nell’anno appena iniziato la Consigliera federale vallesana sarà chiamata a confrontarsi con diverse sfide di peso e a trovare i compromessi di cui la Svizzera ha urgentemente bisogno. E lo dovrà fare cercando di mettersi alle spalle le critiche che l’hanno accerchiata negli ultimi dodici mesi, per lei tra i più complicati da quando è entrata in Consiglio federale, ormai quattro anni fa. Rimproveri che a suon di schede si sono palesati anche nell’elezione alla presidenza, lo scorso 13 dicembre. Esponente del Centro, Viola Amherd ha ricevuto 158 voti, un bottino piuttosto mediocre, tra i più magri degli ultimi vent’anni.
Viola Amherd, a lato poco dopo la sua elezione a presidente della Confederazione, ha attraversato i quattro anni di governo affrontando con fermezza e pacatezza le tante polemiche e ottenendo qualche successo, per esempio sui caccia. (Keystone)
La Consigliera federale vallesana ha avuto non poche difficoltà nella scelta dei propri collaboratori diretti, poi è scoppiato il «caso Ruag» Per gli appassionati della statistica ricordiamo che nel 2011 Micheline Calmy Rey ottenne soltanto 106 voti, uno dei risultati più bassi nella storia del nostro Paese. Ma queste sono vicende di oltre dieci anni fa, torniamo ai nostri tempi e a Viola Amherd. E per farlo val la pena di ricordare quanto capitato l’8 dicembre di un anno fa. Quel giorno il Consiglio federale si era riunito per accogliere due nuovi ministri, Elisabeth Baume-Schneider e Albert Rösti. Molti si aspettavano di vedere Viola Amherd lasciare il Dipartimento della Difesa per passare a quello, rimasto libero, dell’Ambiente e dei Trasporti. E invece la ministra vallesana decise di rimanere nel suo DDPS (che sta per Dipartimento federale della Difesa, della Protezione della Popolazione e dello Sport) che guida da quando è entrata in governo e che viene considerato il dipartimento meno prestigioso del nostro esecutivo. Lei però non la vede così, anche perché nel frattempo è riuscita a convincere i suoi colleghi di governo a rafforzare la struttura del suo Dipartimento, con la creazione di un Segretariato di Stato per la politica di sicurezza (Sepos) e con il trasferimento del Centro nazionale per la cybersicurezza. Il DDPS ha così le carte in regola per poter assumere un ruolo sempre più importante viste le tante crisi di questi ultimi anni, a comin-
ciare dall’invasione russa dell’Ucraina e dalla guerra tra Israele e Hamas. Creato il nuovo Segretariato di Stato, si trattava di forgiarne la struttura e di trovare un suo capo. E qui per Viola Amherd sono iniziati i problemi. La prima persona scelta dalla ministra vallesana è stato l’ambasciatore in Turchia Jean-Daniel Ruch, che però lo scorso ottobre ha dovuto gettare la spugna, a quanto pare per pratiche sessuali a pagamento non proprio in sintonia con la sua carica e che lo rendono ricattabile. Uno smacco per Amherd, che un mese prima aveva presentato il nuovo responsabile del Sepos davanti alla stampa. Stessa sorte per il secondo nome emerso in fase di candidatura, quello dell’ambasciatore Thomas Greminger, uno dei diplomatici più navigati del nostro Paese con all’attivo varie esperienze sugli scacchieri più delicati della geopolitica mondiale. Ma anche lui ha dovuto rinunciare a causa di alcuni favori professionali concessi in passato a una sua amante russa. Passi falsi emersi durante la procedura di selezione e che hanno nuovamente messo in imbarazzo la ministra della difesa. Viola Amherd si è poi salvata all’ul-
timo minuto, lo scorso 22 dicembre è riuscita finalmente a presentare il nuovo responsabile del Sepos, nella persona di Markus Mäder. Nominato dall’insieme del governo, questo alto funzionario del suo Dipartimento ha avuto pochi giorni per prepararsi al suo nuovo incarico, visto che è entrato in carica il primo gennaio di quest’anno, giorno in cui il nuovo Segretariato di Stato ha aperto ufficialmente i battenti. Un parto travagliato che ha gettato ombre sull’operato di Viola Amherd, perlomeno per quanto riguarda la scelta dei suoi collaboratori diretti. E così è stato anche per il «caso Ruag», con in estate le improvvise dimissioni della sua neodirettrice, Brigitte Beck, che ha pagato per alcune sue dichiarazioni in contrasto con la neutralità elvetica e per la gestione non proprio limpida di quasi 100 carri armati Leopard 1, stazionati in un deposito in Friuli. Blindati che, nel contesto della guerra in Ucraina, la signora Beck avrebbe tentato di vendere alla Germania, nonostante il parere negativo della Segreteria di Stato per l’economia. Attiva nel settore degli armamenti, la Ruag è una società anonima ma di comple-
ta proprietà della Confederazione, da qui le critiche anche a carico di Viola Amherd, che sul caso ha voluto aprire un’inchiesta esterna, anche per poter ristabilire la fiducia tra il governo e i vertici della stessa Ruag.
La patata bollente della Nato Politicamente il tema più scottante con cui è confrontata la ministra vallesana è però un altro: quello della collaborazione del nostro esercito con la Nato. Già dal 1996, la Svizzera partecipa al cosiddetto «Partenariato per la Pace» dell’Alleanza atlantica, ma la signora Amherd vorrebbe ulteriormente intensificare questa cooperazione militare, nel rispetto della nostra neutralità. Da destra ma anche in parte da sinistra piovono però le critiche, per un’apertura considerata eccessiva. Un tema che riemergerà di certo anche nel corso del 2024. Anno in cui la ministra della difesa potrà comunque contare su un aumento sostanziale dei fondi a disposizione dell’esercito, che gradualmente passeranno dai 5 miliardi di oggi ai 10 previsti entro il 2035. Una notizia di cer-
to positiva per Viola Amherd che ora dovrà dar prova di riuscire a gestire questa manna miliardaria insieme ai vertici delle nostre forze armate, lei prima donna in Svizzera a dirigere politicamente questo settore, da sempre in mani maschili. La ministra della difesa dovrà anche tenere sotto controllo i tempi di consegna dei 36 nuovi aerei da combattimento di fabbricazione statunitense, gli F-35. Le tante guerre in corso rischiano di ritardare il loro arrivo nel nostro Paese, previsto tra il 2027 e il 2030. In questi quattro anni di governo quello dei nuovi caccia è stato di certo il maggiore successo di questa ministra, che finora si è mossa con pacatezza ma anche con fermezza, imponendo la sua linea e cercando anche di accrescere la presenza femminile all’interno dell’esercito. Lo ha fatto in fondo richiamandosi al compromesso e, tornando al suo discorso di investitura, anche alla fondue. «Nel caquelon ognuno ci mette la sua forchetta». Un altro modo per dire che la sua presidenza sarà segnata dalla costante ricerca di soluzioni condivise, in un anno che a detta di Viola Amherd sarà «di certo impegnativo».
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ATTUALITÀ
«Non per un uomo, ma per la giustizia»
In memoriam ◆ Un ricordo del coraggio dell’ex procuratore e politico ticinese Dick Marty: guardava sempre la realtà in faccia
Era nato il 7 gennaio 1945, alle 3.15 del mattino. «Sai? Anche nel 2024 il mio compleanno cadrà, come allora, di domenica, ma… non so se riuscirò a festeggiarlo». Lo diceva sorridendo e, accennando all’orario, precisava che, per solo poco più di tre ore aveva scampato il pericolo di essere ricordato come «l’uomo della Befana». Dick Marty se n’è andato il 28 dicembre del 2023. Dimesso dalle cure palliative dell’Ospedale Italiano il 23 dicembre, era tornato a casa per Natale. «Qui sono davvero bravissimi. Sanno, come me, che non ci sono più cure possibili e cercano di fare in modo che gli ultimi giorni della vita siano almeno sereni. Il problema è che non riesco a capire se posso tornare a casa perché sto meglio o perché ormai sono alla fine». Dick Marty guardava la realtà – e la vita – in faccia. Senza veli, senza ipocrisie, alla costante ricerca della verità e della giustizia. Il resto era meno importante, compresi il consenso e l’approvazione altrui. Al punto che, a pochi giorni dalla presentazione al LAC di Lugano del suo libro testamento Verità irriverenti, ebbe a dire: «Ma chi vuoi che venga a sentire un vecchio brontolone che si racconta? Ci saranno una cinquantina di persone». I presenti – oltre 500 quella sera al LAC – sanno che ci fu un’invasione pacifica per un abbraccio corale a quest’uomo ormai smangiucchiato dal cancro al pancreas, che, con voce
ferma, aveva riaffermato i suoi valori, il suo essere liberale e libero: da preconcetti, da manovre e compromessi. Un’etica nata e cresciuta con lui: dagli anni del Max Planck Institut (19721975) a quelli da procuratore pubblico sopracenerino (1975-1989), dal sequestro dei 100 kg di eroina a Bellinzona al suo essere magistrato prestato alla politica: come consigliere di Stato (1989-1995) prima, come consigliere agli Stati (1995-2011) poi. In un susseguirsi di incarichi, impegni, inchieste: dalle carceri segrete della CIA (2006-2007) ai diritti umani violati in Cecenia (2010) al traffico di organi in Kosovo (2010). Riassumerne la vita in poche righe è impossibile. Nel suo sito (https://www.dickmarty.ch/ ) leggiamo, entrando: «Appartengo ad una generazione che guarda con diffidenza i cosiddetti “social” e dunque, lo ammetto, li ignoro. Mi è sembrato tuttavia non del tutto inutile lasciare una traccia di scritti e avvenimenti avvenuti durante la mia lunga carriera professionale, essenzialmente svolta all’interno delle istituzioni». Tra gli elementi aggiunti recentemente: un’intervista del 23 dicembre a Republik e il video del suo intervento a Strasburgo, lo scorso 1. dicembre, quando fu insignito del Premio Pro Merito del Consiglio d’Europa. Il video l’ha realizzato Malika, sua nipote – «la mia Angela Davis» - che con la
Keystone
Matilde Casasopra
figlia Francesca l’aveva accompagnato nei luoghi dove era stato protagonista e dove ha voluto essere presente con le tre generazioni della sua famiglia. Nel suo sito, non c’è tutto quel che è stato e ha vissuto Dick Marty. Non c’è, ad esempio, uno degli ultimi incontri che l’hanno emozionato nel profondo. Lo scorso maggio era salito in Valle Onsernone. È lì che incrocia un uomo che rallenta, si ferma e infine… lo abbraccia. «Come sono contento di rivederla». Lui lo guarda, ma… non capisce chi sia. «Ci conosciamo?». E lo sconosciuto si manifesta. Lui è quel ragazzo che, molti anni fa, per pochi grammi di erba, il giovane procura-
tore aveva deciso di arrestare. «Ero finito alle pretoriali. Ci ho trovato persone gentilissime e, in quei giorni di privazione della libertà, ho pensato a molte cose. Penso che sia cominciato lì il mio cambiamento di binario. Grazie». La domanda è d’obbligo visto che Dick Marty, nel 2010, si era dichiarato a favore della legalizzazione di tutte le droghe. «Era necessario l’arresto?». Risposta: «Forse no, ma… meglio l’arresto che le botte del padre». Dick Marty, era così: la giustizia al primo posto, ma sempre unita al rispetto dell’altro, dell’uomo. Il caso di Youssef Nada, finito nelle «liste nere dell’Onu», e per otto anni restato, senza processo, prigioniero in casa
sua, è un’altra pagina che racconta il suo modo di essere. Avevamo incontrato i protagonisti della vicenda nel settembre 2009. Il senatore Marty ha dato voce al prigioniero Nada e agli altri 299 cittadini che, dopo l’11 settembre 2001, sono finiti sulla «Black List» delle Nazioni Unite. «Non lo faccio per un uomo – ci aveva detto, a Campione d’Italia, nell’aprile 2006 – lo faccio per il diritto, per la giustizia, affinché sia giusta e uguale per tutti». Una battaglia condotta sia a livello svizzero sia europeo che ha portato l’assemblea del Consiglio d’Europa ad accettare, con 108 voti favorevoli e 3 astenuti, il 24 gennaio del 2008, la risoluzione che invitava il Consiglio di sicurezza dell’Onu e il Consiglio dell’Unione europea «a rispettare le regole del diritto nell’ambito di persone o organizzazioni inserite nelle liste nere perché sospettate d’attività terroristiche». Quando ha saputo che l’ingegner Nada era stato tolto dalla «Black List» si era commosso: «Non pensavo che questo anziano signore potesse veder realizzato il proprio legittimo sogno: essere riabilitato, riconosciuto nella sua innocenza ed estraneità all’accusa di finanziatore di Al Qaida». Adesso Dick Marty, quest’uomo che sapeva commuoversi, ma anche indignarsi, ironico, ma mai beffardo, se n’è andato. Riusciremo a fare in modo che la sua eredità non vada perduta? Annuncio pubblicitario
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Invertire la rotta della disumanizzazione dell’altro Paragoni storici ◆ Il caso della giornalista Masha Gessen e il ruolo degli intellettuali nel conflitto israelo-palestinese Sarah Parenzo
Nel 2023 la fondazione politica tedesca Heinrich Böll ha assegnato il premio Hannah Arendt a Masha Gessen, giornalista e scrittrice russa di origini ebraiche. Nata a Mosca nel 1967, Gessen è emigrata negli Stati Uniti dove tra le altre cose è nota per il suo attivismo per i diritti lgbt e per la sua ferma opposizione alla politica di Putin, soprattutto in seguito all’invasione dell’Ucraina. Il 9 dicembre scorso, tuttavia, con un lungo articolo apparso sulla celebre testata «New Yorker» sotto il titolo All’ombra dell’Olocausto, Gessen ha sfidato un tabù europeo mettendo in relazione le politiche della memoria con quanto avviene a Gaza e in Israele. Ciò che più sembra aver scatenato imbarazzo e malumore in Germania è la sua assimilazione di Gaza ai ghetti dell’Europa occupata dai tedeschi durante la Seconda Guerra mondiale. In particolare, la definizione di Gaza come un ghetto in attesa di essere liquidato ha messo in discussione l’assegnazione del premio che, alla fine, le è stato consegnato a porte chiuse e con un giorno di ritardo rispetto alla cerimonia pubblica inizialmente prevista.
La scrittrice ha ricevuto il premio Hannah Arendt fra le polemiche per un imbarazzante paragone storico La vicenda, che richiama inevitabilmente quella della scrittrice palestinese Adania Shibli che avrebbe dovuto ricevere il premio alla Fiera del Libro di Francoforte lo scorso ottobre, non stupisce. Da tempo le istituzioni tedesche silenziano intellettuali palestinesi ed ebrei critici verso le politiche di Israele, soprattutto se sostenitori del movimento Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni). Fino al 7 ottobre a uno sguardo indulgente questa politica poteva anche sembrare un eccesso di zelo della Germania impegnata, con la rigidità che la contraddistingue, nella riabilitazione del proprio imbarazzante passato. Tuttavia, alla luce della gravità del conflitto in corso, nonché della tragedia che si consuma a Gaza da settimane, favorire la politica di Israele senza se e senza ma, collaborando anche alla caccia alle streghe della coalizione di Netanyahu, assume i contorni di una responsabilità che va ben oltre l’ironico paradosso insito nel fatto che Hanna Arendt, alla quale è intitolato il premio, non l’avrebbe probabilmente mai vinto a causa della sua aspra critica verso il giovane stato ebraico. Benché nel discorso pronunciato in occasione del ritiro del premio, Gessen abbia ribadito le proprie posizioni facendo leva sull’opportunità di imparare dai paragoni offertici dalla storia, opterei per sospendere il giudizio sulla forma per concentrarci sui contenuti. Se è possibile infatti continuare a interrogarsi sul fatto se l’utilizzo della terminologia della Shoah nella comunicazione inerente al conflitto israelo-palestinese sia appropriato, l’urgenza impone di concentrarci sulla ricerca della verità e sul messaggio che si desidera far pervenire. Una delle maggiori sfide che gli israeliani, e gli ebrei in generale, si trovano ad affrontare in questo delicato frangente è la necessità di disintossicarsi dalla dipendenza dalle
Una madre palestinese abbracciata da un parente dopo avere appreso della morte del figlio all’ospedale di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza. (Keystone)
distorsioni che, sottoforma di bugie od omissioni, si insinuano nelle coscienze determinando inevitabilmente emozioni e condotte. Sotto shock per gli orrendi massacri perpetrati da Hamas il 7 ottobre, in angoscia per il destino di ostaggi e soldati, tra funerali ed elogi funebri gli israeliani sono diventati bersaglio della loro stessa propaganda informativa che, inizialmente destinata al resto del mondo, finisce per ritorcersi contro di loro. Mentre la retorica dei portavoce dell’esercito e le conferenze stampa del gabinetto inneggiano alle prodezze militari, cammuffando gli errori per indorare la pillola alle famiglie delle vittime del 7 ottobre, alle madri che piangono figli che tornano da Gaza nelle bare o ai parenti logorati degli ostaggi il cui ritorno sembra ormai una chimera, i media trasmettono ogni ora di ogni giorno video e interviste che ripropongono senza sosta le storie delle vittime, la crudeltà dei massacri, le torture subite da-
gli ostaggi, le vite troncate dei soldati bambini. Il fatto stesso che i canali televisivi non trasmettano nemmeno un’intervista ai civili di Gaza rende gli israeliani indifferenti, insensibili, apparentemente gli unici ignari delle proporzioni della catastrofe in corso a Gaza e della quale il mondo intero è spettatore inerme. Così, la censura plasma la mente e il cuore dei civili feriti, impauriti, stanchi, aggressivi e desiderosi di vendetta e la società è realmente in ginocchio, logorata e incastrata nella narrativa di eterna e odiata vittima. Mentre i politici della destra estremista incitano alla vendetta, alla pulizia etnica e al genocidio, quelli che si auto definiscono «liberali» avallano misure che violano espressamente la libertà di espressione e di manifestazione, rimuovono dai loro posti di lavoro palestinesi con passaporto israeliano e concedono l’immunità a chi uccide indiscriminatamente. In un simile contesto non sembra esserci posto per una pre-
Lacrime disperate al funerale di un soldato israeliano nel cimitero militare di Gerusalemme. (Keystone)
sa di responsabilità e, proseguendo a ignorare gli effetti devastanti dell’occupazione, nella migliore delle ipotesi si proietta ogni male su Netanyahu e il suo governo, benché la sua politica nei confronti di palestinesi non sia poi così diversa da quella dei predecessori, né si intravedono successori con intenti migliori.
La propaganda bellica israeliana concede spazi solo agli orribili attacchi subiti il 7 ottobre e non dà voce ad alcuna sofferenza palestinese Di fronte alla morte di migliaia di persone, inclusi donne, vecchi e bambini innocenti, la pazienza del mondo e di Biden si vanno esaurendo. In questo scenario, dove persino gli psicoanalisti subiscono il fascino delle divise militari, il ruolo degli intellettuali è indispensabile nel loro tentativo di invertire la rotta della disumanizzazione dell’altro, una deriva che il professor Yeshayahu Leibowitz aveva predetto con lungimiranza già nel 1967 all’indomani della Guerra dei Sei Giorni. L’istanza degli intellettuali come Gessen, emigrante cosmopolita e immune alla seduzione dell’odio, è quella di acconsentire di vedere l’altro, il «nemico», nella sua umanità, esponendosi con onestà al dolore dei suoi traumi e mettendo coraggiosamente in discussione le proprie verità, poiché la pace e la sicurezza in Israele-Palestina non verranno dalla rioccupazione di Gaza, bensì da un cambiamento radicale che deve avere come premessa la concessione indiscriminata dei diritti fondamentali. Quello che le istituzioni tedesche ed europee non sembrano afferrare è
che farsi onesti garanti della sopravvivenza di Israele significa immaginare un futuro di pace e coesistenza per tutti i suoi abitanti. Tale prospettiva richiede un cambiamento di coscienze che non può che passare attraverso la narrazione di quella verità critica che gli intellettuali cercano coraggiosamente di affermare, talvolta mettendo a repentaglio la propria vita. Supportarli, invece di osteggiarli, è un atto di amore verso Israele, anche se la resistenza emotiva al loro messaggio impedisce di comprenderlo come tale. Interpretare il conflitto in un’ottica globale condita di islamofobia e dalla minaccia di espansione del conflitto con l’ingresso di attori come l’Iran non è risolutivo per i due popoli che convivono l’uno a fianco dell’altro. Al contrario rischia di perpetuare le ingiustizie radicate. «La guerra proseguirà alcuni mesi», hanno annunciato la scorsa settimana i vertici israeliani. E dopo? Ci sarà ancora posto per l’umanità? Cosa avranno vinto gli israeliani mentre i consensi di Hamas non fanno che salire tra i palestinesi, insieme all’antisemitismo e alla disapprovazione del mondo intero, e mentre la Cisgiordania è una pentola a pressione sul punto di esplodere? Il popolo ebraico è resiliente e possiede delle doti straordinarie, come dimostrano le manifestazioni che proseguono ininterrottamente anche sotto la pioggia, la generosità e le infinite iniziative di solidarietà e volontariato di questi mesi. Si tratta davvero di energie rare e preziose, ma che tuttavia vanno sradicate dall’autoreferenzialità e incanalate con pazienza verso il riconoscimento dell’altro e dei suoi diritti, e la cessazione della prevaricazione. È un lungo lavoro che può partire dalle scuole, magari cominciando proprio da quelle europee.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 2 gennaio 2024
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
I marmi della discordia
Indiane dorate
Cristina Marconi
Francesca Marino
Opere nella sezione marmi del Partenone al British Museum di Londra. (Keystone)
Una «Gioconda» a metà, col famoso enigmatico sorriso diviso in due. Non si può dire che non sia stata efficace l’immagine utilizzata dal premier greco Kyriakos Mitsotakis per descrivere il fatto che le opere del Partenone siano in parte al British Museum e in parte ad Atene, anzi. Quando l’ha utilizzata nel corso di una visita ufficiale a Londra, il suo omologo britannico Rishi Sunak ha avuto una reazione così stizzita e poco diplomatica da cancellare un incontro bilaterale con molti argomenti importanti all’ordine del giorno, facendoci una figura non esattamente eccelsa e portando la questione dei famosi marmi di Elgin – dal nome dell’ambasciatore britannico presso l’impero ottomano che li comprò a inizio Ottocento e li rivendette nel 1816 al British Museum – sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Inevitabilmente è alla Grecia che è andata la simpatia di tutti e anche dei britannici, che alla questione non sono così legati come pensa Sunak, convinto che il suo elettorato conservatore ci tenga a non vedere la celeberrima processione di dei e dee, guerrieri e centauri incamminarsi verso il meraviglioso museo archeologico di Atene. La ciliegina sulla torta l’ha messa re Carlo, a cui è imposta la neutralità in materia politica ma che ha voluto comunque lanciare un messaggio chiaro indossando su un palcoscenico internazionale, come l’ultimo summit sul clima a Dubai, una bella cravatta di seta con la bandiera greca.
Perdere la testa «Il Governo ha definito molto chiaramente la sua posizione, secondo cui gli Elgin Marbles devono rimanere parte della collezione permanente del British Museum», hanno fatto sapere da Downing Street, dove a Mitsotakis era stata data l’alternativa di un incontro con il vicepremier Oliver Dowden. Oltre alla dichiarazione sulla Gioconda, a non andare giù a Sunak sarebbe stata la scelta del conservatore Mitsotakis di vedere il leader laburista Keir Starmer, in testa nei sondaggi per le elezioni dell’anno prossimo e molto più morbido sul dossier. Sebbene «non lo consideri
una priorità», qualora si trovasse un accordo tra Atene e il British Museum un suo Governo «non metterebbe i bastoni tra le ruote», ha fatto sapere, prima di attaccare l’inquilino di Downing Street per la scelta di irritare il Governo di un Paese amico, membro della Nato e fondamentale su molte questioni importanti. «You lost your marbles», gli ha detto Starmer, facendo una battuta facile: in inglese vuol dire che hai perso la testa.
Un sistema di prestiti Sunak si mostra inflessibile per principio su tutto quello che potrebbe essere visto come un cedimento alla cultura woke (eccessivamente politically correct), in particolare per quanto riguarda una certa idea della gloria britannica. Per lui «chiunque osi dire che la storia britannica non è perfetta non è in qualche modo patriottico», come Ed Vaizey, ex ministro. In realtà l’opinione pubblica è da tempo piuttosto favorevole a una soluzione che riporti i marmi di Elgin ad Atene. Soluzione alla quale sta lavorando l’ex cancelliere conservatore George Osborne, diventato presidente del board del British Museum e deciso a preservare la reputazione del museo come luogo illuminato e capace di ragionare in termini globali e a superare l’imbarazzo della scoperta, l’estate scorsa, dei sistematici furti avvenuti nell’arco di una ventina di anni: duemila oggetti preziosi svaniti nel nulla o ricomparsi su eBay. Dovendosela vedere con un atto del 1963 del Parlamento che impedisce al museo di riconsegnare le sculture in modo permanente (un comitato Unesco ne ha chiesto la modifica nel 2021), l’idea allo studio di Osborne, che si è incontrato più volte con Mitsotakis, è un sistema di prestiti che permetta «a una porzione dei marmi di passare parte del loro tempo ad Atene», in cambio di altri tesori, come per esempio i preziosi affreschi di Santorini del 1700 a.C., o un sistema di rotazione di una parte dei fregi contenuti in una sala speciale del Museum, di cui rappresentano una delle attrazioni principali, in modo che ce ne siano sempre una porzione importante ad Atene, dove attualmente sono sostituite da copie di gesso. Tutto
questo per impedire che al termine di un ciclo di prestito decennale si materializzi l’ipotesi tanto temuta della mancata restituzione. L’altra ipotesi molto temuta è che un accordo sulle statue, per non parlare della piena restituzione chiesta dalla Grecia da due secoli a questa parte, porti a un effetto domino di richieste simili e allo svuotamento di fatto dei musei britannici, British Museum e Victoria&Albert in primis, la cui identità da world museums, musei globali, li rende ideali per accogliere meraviglie di tutto il mondo. Il rischio è minimo, secondo il V&A, che sostiene di aver ricevuto nove richieste di restituzione su 2,7 milioni di oggetti conservati. Inoltre il British Museum, nella sua sede di Bloomsbury, non riesce a esporre tutto e ottomila artefatti sono conservati nei magazzini: fare spazio non sarebbe un danno.
Storia avventurosa Già Lord Byron si lamentava della «parete sfigurata» dalle «mani britanniche», che hanno sì salvato i marmi in un momento di instabilità politica per la Grecia ma che hanno di fatto sottratto un simbolo per il Paese. La storia dell’acquisizione dei marmi, avvenuta tra il 1801 e il 1804, è controversa, avventurosa e parla di un mondo diverso, in cui torti e ragioni sono spesso difficili da stabilire secondo la logica del presente. Tutto passò attraverso il pittore italiano Giovanni Battista Lusieri, incaricato da Thomas Bruce, conte di Elgin e ambasciatore presso il sultanato di Costantinopoli, di fare dei disegni e dei calchi delle sculture del Partenone e che finì col chiedere «12 seghe» per tagliare le sculture. «Sono stato costretto a essere un po’ barbarico», confessò. Quando il primo carico di statue fece naufragio al largo dell’isola di Kythira (Citera), Lord Elgin incaricò i migliori sommozzatori dell’epoca, ossia i pescatori di spugne, di andare a ripescare i tesori: ci vollero tre anni, la spesa lo rovinò e neanche l’acquisto da parte del British Museum, nel 1816, lo ripagò. Aveva speso 74mila sterline, circa 5,5 milioni di oggi, ne guadagnò la metà, finì in bancarotta.
Fili di seta ◆ Per molte donne i gioielli costituivano una vera e propria rete di sicurezza
Secondo stime recenti, le donne indiane detengono l’11% delle riserve auree totali del mondo. Si tratta di circa 18mila tonnellate d’oro, per un valore stimato che oscilla tra i 600 e gli 800 miliardi di dollari: quattro volte le riserve di Fort Knox. La notizia, assieme all’abituale comunicazione dell’aumento dei prezzi dell’oro, arriva a deliziarci come ogni anno all’apertura della stagione delle feste in India. E a spaventare tutte le famiglie che hanno una figlia da sposare, gli uomini con un bambino in arrivo e i neo sposi obbligati a fare doni di una certa consistenza alla loro consorte. Perché in India non si celebra Diwali (la festa delle luci, come Natale per noi), matrimonio, nascita o festa famigliare senza che da qualche parte riluccichi un gioiello. Tradotto: in questo immenso Paese il volume degli scambi di pietre preziose e gioielli sarà pari, a fine stagione, al Pil di un piccolo Stato africano. La stagione delle feste coincide difatti con la stagione dei matrimoni, e non esiste matrimonio in India senza che alla sposa venga regalata dai genitori e dai suoceri una quantità di gioielli e pietre preziose che, nei casi più estremi, raggiunge diversi chili di peso. Anche nella famiglia più povera, pure negli slums, nessuno si sognerebbe mai di far sposare una figlia senza un ornamento d’oro. Magari piccolo, leggero, magari ricavato fondendo l’oro della madre, ma nessuna sposa indiana, per quanto povera, si sposa senza un gioiello. Anzi, senza orecchini, bracciali, un «mantika» (pendaglio sulla fronte), un diamante o un bottoncino d’oro al naso, cavigliere, una collana da mettere in vita come cintura e una collana al collo che più pesante e decorata e meglio è. Perché tradizionalmente una sposa incarna Lakshmi, la dea della prosperità, destinata a portare fertilità e abbondanza nella casa del marito. E Lakshmi porta monete d’oro (oltre ai gioielli). Ma soprattutto perché, attraverso i secoli e fino a non molto tempo fa, per le donne che avevano ricevuto pochissima o nessuna istruzione i gioielli costituivano una vera e propria rete di sicurezza. Le donne erano di fatto escluse dalle eredità, dal possesso di terra o di altri beni immobili: l’oro, i gioielli, venivano considerati come l’unico bene su cui le donne potevano vantare possesso esclusivo. Un bene da passare di madre in figlia, a cui ricorrere in caso di bisogno. Gioielli d’oro a 23 o 24 carati, perché l’oro puro ha quotazioni migliori e migliori possibilità di essere rivenduto a un prezzo conveniente. Perché l’oro si può nascondere o cucire negli abiti se, come è succes-
so ai tempi della Partition (la divisione tra India e Pakistan), devi scappare abbandonando tutto ciò che possiedi. Con l’oro puro si bagnavano una volta i fili d’argento adoperati per ricamare i sari di Benares o di Kanchivaram, con l’oro liquefatto si decoravano i braccialetti di vetro di Firozabad: anche quell’oro, per quanto insignificante, poteva essere riutilizzato in caso di bisogno. Si portavano braccialetti e sari all’omino che li fondeva, o li bruciava, per ricavare quei pochi grammi d’oro che potevano però servire a comprare i libri a tuo figlio o da mangiare per la famiglia. Altri tempi, certamente, ma l’atavico attaccamento ai gioielli rimane ancora, almeno tra le donne di una certa generazione. La mia amica Renu ha cominciato a collezionare gioielli da quando sua figlia aveva otto anni, e nel mio piccolo ho contribuito anch’io: quando Gauri si sposerà, finito il suo dottorato in criminologia, si ritroverà con i gioielli della nonna, della mamma, della sua zia preferita e di sua suocera. E speriamo che ne sia felice. Perché un’altra amica aveva invece il cuore spezzato quando sua figlia, dopo il matrimonio, ha tenuto pochi pezzi dei gioielli accumulati dalla madre nel corso degli anni e si è liberata del resto. È andata in una filiale di Muthoot Finance, l’equivalente di un banco dei pegni, e col contante ricevuto ha avviato una start-up. Dice che prima o poi riscatterà i gioielli, ma probabilmente per venderli e investire in un fondo d’investimenti. Il divario generazionale ma, soprattutto, il divario tra centri urbani e piccole città in questo caso diventa evidente. Mentre le spose di provincia, o almeno la maggior parte di loro, preferisce ancora tenere i propri averi, al sicuro intorno al polso, al collo e alle caviglie, donne e ragazze della borghesia urbana comprano i libri di Monika Halan: autrice di libri su fondi d’investimento e su una finanza orientata al femminile che è diventata un vero e proprio guru per molte di loro. Queste ragazze, al contrario delle loro madri, possiedono un conto in banca, una carta di credito e soprattutto gli strumenti culturali per adoperarli. Vogliono investire in borsa e non «tenere i soldi sotto al materasso» o, in questo caso, nel portagioie. Passeranno però ancora molti anni prima di vedere una sposa che non barcolli sotto il peso dei gioielli perché in fondo, diceva la mia amica: «Ho messo da parte un capitale per mia figlia, investito nel bene più sicuro che conosco, l’unico bene non soggetto a inflazione. E non ho intenzione di cambiare». Con buona pace degli economisti e degli investimenti fruttiferi.
Kinnari Kurani/Pexels
La disputa ◆ Nuove frizioni tra Londra e Atene per le opere del Partenone conservate al British Museum. Il premier Sunak punta tutto sul patriottismo
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ATTUALITÀ
Il Mercato e la Piazza
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di Angelo Rossi
Il salario minimo non crea problemi ◆
Una delle grandi riforme nel mondo del lavoro svizzero, nel passato decennio, è stata costituita dall’introduzione del salario minimo nei Cantoni di Neuchâtel, del Giura, di Ginevra, di Basilea Città e del Ticino. Il salario minimo è stato introdotto anche nelle città di Winterthur e di Zurigo. Perché grande riforma? Perché da noi, fino ad allora, la negoziazione sulle condizioni di lavoro era esclusivamente di competenza dei lavoratori, assistiti dai sindacati, e dei datori di lavoro. Più volte l’elettorato svizzero si era pronunciato contro un’intromissione dello Stato nella fissazione di orari di lavoro e di salari. Contro il salario minimo da parte dello Stato, poi, si erano schierati molti economisti. A proposito dell’opinione degli economisti, si cita spesso lo sfogo del premio Nobel James M. Buchanan che, nel 1996, reagendo alla pubblicazione dei primi risultati empirici che sfata-
vano la teoria economica stando alla quale il salario minimo non avrebbe fatto che creare problemi, affermò che se si tollerava che l’evidenza empirica contradicesse la teoria in questo modo, allora la teoria economica non avrebbe più avuto nessun contenuto scientifico minimo. Ma quali erano gli inconvenienti che indicavano gli economisti? Il salario minimo viene fissato di regola in termini nominali e quindi si svaluta continuamente per effetto dell’aumento dei prezzi. Di conseguenza occorre continuamente riadattarlo specie in tempi di inflazione. Per esempio nel Canton Ticino, dal primo gennaio 2024, il salario minimo viene rivalutato e varia tra 19,87 franchi e 25 orari. Il calcolo dell’incremento viene fatto in base a una chiave di calcolo che si riferisce alla mediana salariale nazionale. Ma l’adattamento non è automatico. Il Consiglio di Stato deve proporre un decreto e il Parlamento lo deve appro-
Affari Esteri
vare. Il contrasto tra gli interessi dei lavoratori e quelli dei datori di lavoro si riproduce così a livello politico ogni volta che bisogna aumentare il livello minimo dei salari. Comunque l’effetto negativo più importante, indicato dagli economisti, è che l’introduzione di un salario minimo avrebbe fatto aumentare la disoccupazione perché i lavoratori che altrimenti avrebbero ricevuto un salario inferiore al minimo fissato dallo Stato non sarebbero stati assunti o, se già impiegati, avrebbero perso il posto di lavoro. Ed è appunto sulla ricerca di un effetto del genere che, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, si sono concentrati le loro verifiche. Dal momento che anche in diversi Cantoni e località del nostro Paese è stato introdotto un salario minimo era inevitabile che anche da noi, col tempo, si procedesse a una tale verifica. È quanto per primo ha fatto il Dipartimento di economia del Canton Gine-
vra affidando un mandato di studio all’università e alla scuola universitaria professionale locali. Ginevra ha introdotto il salario minimo nel 2020. Nel gennaio 2024 lo porta da 23 a 24 franchi orari. Lo studio dei due istituti universitari non ha rilevato, in generale, nessun effetto negativo, statisticamente significativo, sul livello di occupazione del mercato del lavoro cantonale proveniente dall’introduzione del salario minimo. Né nei rami in cui il salario minimo non è applicato (perché i salari sono superiori al minimo) né in quelli come l’industria alberghiera, il ramo delle pulizie e il settore della bellezza dove i salari invece non sono per niente elevati. A Ginevra solo il tasso di disoccupazione dei giovani lavoratori sembra essere stato influenzato negativamente dall’introduzione del salario minimo. Questo apparentemente perché l’esistenza del salario minimo sembra aver mobilizzato una parte dell’offer-
ta di manodopera giovane che, prima della sua introduzione, tendeva a restare lontana dal mercato del lavoro. I risultati di questa verifica non sono stati accolti positivamente dall’organizzazione dei datori di lavoro ginevrina che sostiene che l’introduzione del salario minimo ha avuto per effetto di spingere la spirale dei salari verso l’alto creando così grosse difficoltà alle aziende che, dal profilo dei costi, si trovano in posizioni marginali. Un altro effetto negativo del minimo salariale, sempre secondo l’organizzazione citata, è che tende a far scomparire le possibilità di occupazione estiva per i molti giovani perché per le aziende il loro impiego diventa troppo costoso. Infine c’è anche chi sostiene che l’introduzione del salario minimo non ha fatto aumentare il tasso di disoccupazione perché la congiuntura economica, nel corso degli ultimi tre anni, è stata particolarmente favorevole a un aumento dell’occupazione.
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di Paola Peduzzi
Se solo gli elettori conservatori lo sapessero ◆
Il Congresso americano ha chiuso i lavori del 2023 senza aver approvato il pacchetto da 105 miliardi che comprende gli aiuti militari all’Ucraina, a Israele e a Taiwan: l’ostruzionismo del Partito repubblicano ha avuto la meglio, e il voto ci sarà all’inizio di gennaio, si spera prima che inizi la grande girandola delle primarie in vista delle presidenziali perché il sostegno a Kiev non è più una questione valoriale e liberale e bipartisan. I repubblicani – è sbagliato parlare soltanto dell’ala trumpiana – hanno deciso che avrebbero dato il loro voto per la difesa dell’Ucraina soltanto se si fosse trovato un compromesso sulla sicurezza del confine sud dell’America, cioè sull’immigrazione e la retorica più anti ucraina ha fatto presto ad attecchire presso un elettorato che di certo conosce meglio i propri confini, e li vuole proteggere, rispetto a quelli remoti dell’Ucraina. Il negoziato non è andato a buon fine,
come era facile prevedere, non soltanto perché il dialogo tra repubblicani e democratici è pressoché nullo ma anche perché il tema dell’immigrazione e del suo contenimento è tra i meno risolvibili degli ultimi decenni: era un baratto squilibrato, e a pagarne le conseguenze è l’Ucraina. C’è un elemento che potrebbe cambiare la percezione che gli elettori conservatori hanno nei confronti della guerra della Russia contro l’Ucraina, ma i loro rappresentanti al Congresso si guardano bene dal dirglielo. Dei 68 miliardi di dollari in armi e assistenza militare a Kiev che chiede l’Amministrazione Biden, il 90 % resterà negli Stati Uniti per pagare i contratti di produzione delle armi e gli stipendi dei lavoratori delle fabbriche in cui vengono prodotte. I fondi per l’Ucraina non sono l’assegno in bianco contro cui si rivolta il Partito repubblicano accusando i Biden di voler aiutare
Kiev per coprire le loro malefatte nel Paese; non sono nemmeno fondi che non ci sono come sostengono quelli che considerano l’America una potenza in declino; sono semmai un motore economico per l’America e per i lavoratori americani: soprattutto per gli Stati a guida repubblicana. L’American Enterprise Institute, centro studi conservatore, ha pubblicato uno studio sui sistemi militari Usa destinati all’Ucraina che hanno ottenuto i fondi approvati dall’invasione russa in Ucraina. Questi dati sono stati incrociati con i voti sui fondi all’Ucraina dei deputati e senatori delle zone interessate dagli investimenti, così da smascherarne la riluttanza ideologica, che è la vera ragione dell’ostruzionismo al Congresso contro la cosiddetta «guerra di Biden». Anche assecondando l’istinto «America first» che guida gran parte del Partito repubblicano, la difesa dell’Ucraina è conve-
niente, scrivono gli esperti, in quanto «sta decimando la minaccia militare russa nei confronti della Nato, sta restaurando una strategia di deterrenza nei confronti della Cina, sta dissuadendo altre potenze dal lanciare guerre d’aggressione e sta migliorando la preparazione militare americana per eventuali altri avversari». La difesa dell’Occidente, obiettivo molto caro alla destra americana, non c’entra, c’entra il beneficio per gli americani e la tutela dell’interesse nazionale. Se produrre Stinger, come non accadeva dal 2005, o rifare le riserve di munizioni producendo sei volte quel che si è prodotto negli ultimi 15 anni non convince i repubblicani che – ennesima contraddizione – denunciano il disarmo dell’industria bellica americana voluta dai democratici pacifisti, le ragioni economiche sono senza appello: gli aiuti militari all’Ucraina rivitalizzano le zone manifatturiere di
gran parte dell’America, creano posti di lavoro con salari dignitosi e aumentano la capacità di difesa statunitense. I repubblicani dovrebbero intestarsi questi investimenti, soprattutto negli Stati che governano, invece screditano Zelensky, dicono che la corruzione endemica dell’Ucraina non può essere riformata e i fondi andranno perduti, puntano su un negoziato che nemmeno Putin vuole. Non fanno che parlare di stanchezza degli alleati di Kiev e dello stallo militare sul campo ucraino, senza considerare che più che la controffensiva delle forze ucraine, a essere fallita è l’offensiva russa che ha conquistato pochi chilometri di terreno con un costo umano molto elevato. Per non parlare del fatto che Mosca deve nascondere le navi della propria gloriosa flotta del Mar Nero di stanza nella penisola occupata, diventate un obiettivo facile dei raid missilistici ucraini.
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Zig-Zag
di Ovidio Biffi
Vecchi e felici? È possibile ◆
La notizia che mi offre lo spunto è di qualche mese fa ma i dati conservano un fondo di interesse: l’aspettativa di vita in Ticino è mediamente di 85,7 anni e la classifica vede gli uomini primi in Europa con 83,4 anni e le donne seconde con 87,9 anni. Per commentare questo primato europeo (non proprio invidiabile, poiché parla anche di una parallela denatalità) faccio ricorso a un interrogativo che ogni tanto si sente nei talk-show televisivi o compare nei sondaggi dei media: gli anni in più che conquistiamo saranno anche più felici o diventeranno solo più difficili? La domanda se l’è posta anche Arthur Brooks, scrittore americano ed editorialista del mensile «The Atlantic», che alla felicità degli anziani ha dedicato un saggio partendo da un’indagine della Harvard Medical School iniziata nel lontanissimo 1938, quando alcuni docenti e studiosi
decisero di coinvolgere i loro studenti in una ricerca alquanto visionaria per quei tempi: li avrebbero seguiti dalla gioventù all’età adulta. Orbene, la ricerca non solo è continuata nel tempo, ma si è allargata a diverse migliaia di ex-studenti a cui gli studiosi chiedevano notizie sui loro stili di vita e sulle loro abitudini, ricavando dai dati pareri e giudizi utilissimi anche per stabilire il loro grado di felicità. In un articolo di presentazione, Brooks ha rivelato che ai suoi studenti laureati, di età media poco oltre i 20 anni, pone regolarmente questa domanda: fra 10 anni pensate di poter essere più o meno felici di oggi? Ebbene, la maggior parte di loro immagina che sarà più felice; ma aumentando le previsioni sino ai prossimi 50 anni, i valori cambiano: la maggioranza dei giovani perde gran parte dell’ottimismo. La mega-ricerca (de-
nominata Harvard Study of Adult Development) conferma anche che, con l’invecchiamento, la popolazione dei partecipanti subisce molte variazioni ma agli estremi presenta conclusioni quasi parallele. Stando ai ricercatori che esaminavano i dati in base alla felicità e alla salute, la maggior parte delle persone in giovane età adulta e della mezza età vede diminuire a poco a poco il suo tasso di felicità per arrivare a toccare il punto più basso intorno ai 50 anni. Poi capita qualcosa di strano. Dapprima, alla metà dei 60 anni, torna a salire tanto che è possibile dividere gli anziani in due gruppi: quelli che diventano molto più felici e quelli che diventano molto più infelici. Secondo Brooks questo accade perché «in questo periodo della vita chi ha pianificato e risparmiato in anticipo si rende conto di avere maggiori probabilità di mantenersi in modo
confortevole. Al contrario, molti di coloro che non l’hanno fatto, devono affrontare il problema di un drastico cambiamento». Qualcosa di simile lo si prova anche con la felicità: ognuno di noi si porta dentro una sorta di «quarto pilastro» pensionistico in cui cerca di accumulare felicità quando è giovane per goderne quando è anziano. In altre parole, proprio come i pianificatori finanziari per aumentare il risparmio, durante la nostra vita operiamo scelte nella speranza di poter avere i nostri ultimi decenni molto più felici. Ma da anziani è ancora possibile aumentare, o perlomeno modificare, il nostro tasso di felicità? Se non una risposta perlomeno un suggerimento ci giunge da Sonja Lyubomirsky, psicologa all’università della California, che sostiene di aver scoperto ben 12 attività «che rendono felici le perso-
ne che le fanno spontaneamente». Se siete in vena di buoni propositi, eccole riassunte: esprimete riconoscenza; evitate ogni forma di ossessività per quanto fanno gli altri; siate cortesi, più del normale; trovate tempo per gli amici; coltivate l’ottimismo; sviluppate strategie per affrontare le difficoltà; imparate a perdonare; appassionatevi a qualche attività ed esplorate nuovi orizzonti; gustatevi le gioie della vita; puntate sempre verso obiettivi importanti; coltivate il senso religioso e la spiritualità. E da ultimo: impegnatevi a mettere in pratica questi obiettivi in modo da fare felici anche quanti vi circondano. Forse è solo un caso, ma quest’ultimo punto risulta fondamentale anche nella mega-ricerca di Harvard: per garantirsi contentezza nell’ultima parte dell’esistenza basta mostrarsi felici di essere vecchi.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 2 gennaio 2024
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CULTURA ●
I sogni di Giulio Granati Intervista al pianista ticinese che ha da poco pubblicato un nuovo album con l’etichetta Altrisuoni
La versione di Ilary Nel docufilm Unica lanciato su Netflix Ilary Blasi racconta la fine del suo matrimonio con Totti
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Chiacchiere kinghiane Una puntata ogni primo martedì del mese: il podcast dedicato a Stephen King cattura l’ascolto
Balla, Dorazio e la luce Due pittori, due generazioni e la medesima fascinazione per i segreti della luce in mostra a Lugano
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L’irrimediabilità della vita umana nell’arte di Goya Mostra ◆ Palazzo Reale a Milano celebra il pittore spagnolo con una grande esposizione a cura di Victor Nieto Alcaide Elio Schenini
«E non c’è rimedio». Questa laconica e rassegnata didascalia che Goya ha posto sotto una brutale scena di fucilazione appartenente alla serie dei Disastri della guerra incisa tra il 1810 e il 1820, riassume probabilmente meglio di ogni altro commento il senso di scoramento che molti hanno provato di fronte alle immagini degli atroci massacri che ci sono giunte lo scorso 7 ottobre da Israele così come a quelle che ci sono arrivate nei giorni immediatamente successivi e che continuano ad arrivarci dalla Striscia di Gaza, senza ovviamente dimenticare, ma forse ci siamo già un po’ assuefatti, quelle che ormai da quasi due anni ci arrivano dall’Ucraina. All’irrimediabilità della violenza prodotta dalla guerra, all’insensata atrocità degli uomini che si massacrano tra di loro, Goya ha dedicato 83 incisioni che si riferiscono alla Guerra d’indipendenza spagnola (1808-1814) ma che nella loro terribile e scarna essenzialità acquistano una dimensione atemporale e una valenza universale, al punto che rimane ancora oggi vero quanto aveva osservato Fred Licht nella sua fondamentale monografia sull’artista del 1979: «Chiunque abbia letto, anche frettolosamente, i giornali degli ultimi cinquant’anni constaterà che le notizie più significative erano state illustrate da Goya più di un secolo e mezzo fa». A porre l’opera di Goya sotto il segno dell’irrimediabile è stato per primo André Malraux, che nel suo Saturno. Il destino, l’arte e Goya del 1950 individua la grandezza dell’artista spagnolo proprio nella sua capacità di dare una risposta all’irrimediabile attraverso la creazione artistica, come del resto avevano fatto in passato i grandi stili dell’arte religiosa, ma, nel suo caso, senza fare ricorso alla trascendenza. Con Goya, il destino dell’uomo si staglia ormai sul nulla («nada» è la parola vergata su una pietra da uno scheletro che riemerge da una tomba nei Disastri) e la vita non è che un flebile bagliore di luce avvolto dall’oscurità che il tempo (Saturno) finirà inesorabilmente per divorare. Il sentimento di irrimediabilità che caratterizza la vita umana si manifesta a Goya in seguito a un evento drammatico: la sordità totale che lo colpisce dopo una grave malattia (alcuni hanno ipotizzato la sifilide) contratta durante un soggiorno a Siviglia, nel 1792. Questa data segna infatti uno spartiacque fondamentale nell’opera dell’artista, tanto che si può affermare che abbiamo due Goya distinti, come racconta bene la mostra in corso a Palazzo Reale a Milano. Da un lato, abbiamo il Goya degli anni giovanili abile colorista, che sulla scia di Mengs e Tiepolo dipinge su committenza ritratti di aristocrati-
Francisco Goya, Annibale vincitore osserva l’Italia dalle Alpi per la prima volta (1771), olio su tela. (Museo Nacional del Prado, Madrid). L’opera appartiene alla prima fase di Goya, quella dell’abile colorista di corte. Dal 1792, dopo l’inizio della sordità, comincia una fase più tenebrosa che esprime l’altra faccia della medaglia dell’Illuminismo.
ci, scene di genere, paesaggi bucolici e quadri religiosi. Un artista ambizioso, protagonista di una rapida e inarrestabile ascesa sociale, tanto da diventare in pochi anni il Pintor del Rey.
«Goya non soltanto ha profondamente subito l’influsso dell’Illuminismo, ma è stato capace di trascenderlo, diventando una delle figure intellettuali più importanti dell’epoca» Dall’altra, troviamo invece il Goya ormai maturo che, approfondendo la lezione di Rembrandt e Velazquez, vira la propria tavolozza sui toni scuri e cupi dei neri e dei marroni e si immerge sempre più nelle visioni del proprio immaginario, dipingendo e soprattutto incidendo, ormai quasi solo per se stesso, scene grottesche e brutali di sabba, fucilazioni, stupri, torture, massacri, impiccagioni, squartamenti, tauromachie. Si potrebbe dire che il silenzio che ha avvolto l’artista a partire dai 46 anni ne ha acuito in qualche modo l’immagi-
nazione visiva e la forza visionaria e lo ha liberato dai vincoli e dalle convenzioni che gli imponevano il suo ruolo di pittore di corte, facendo di lui il primo pittore moderno. Del resto non è un caso se a Goya guarderanno quasi tutti i grandi pittori francesi della seconda metà dell’Ottocento. Ma per spiegare il mistero Goya, perché la sua opera, soprattutto quella degli ultimissimi anni rimane ancora oggi un enigma insoluto, basti pensare alla visionarietà senza precedenti che troviamo nella serie delle Disparates o nelle Pinturas negras realizzate per la Quinta del Sordo (la casa dove abitò dal 1819 al 1824), non è sufficiente chiamare in causa la sordità da cui fu affetto. Un elemento centrale della sua evoluzione artistica è indubbiamente costituito dalla sua progressiva e sempre più convinta adesione alla filosofia dell’Illuminismo. Ma se Goya è indubbiamente il pittore che si affida alla ragione e che con le sue opere denuncia le superstizioni, i soprusi, il fanatismo, l’avidità, la stupidità e la violenza dell’Ancien Regime, egli è però anche consapevole dei limiti stessi della ragione.
Come ha osservato in un suo libro del 2013 un altro dei grandi interpreti dell’artista spagnolo, il linguista Tzvetan Todorov, «Goya non soltanto ha profondamente subito l’influsso dell’Illuminismo, ma è stato capace di trascenderlo, diventando una delle figure intellettuali più importanti dell’epoca». In qualche modo la sua opera, così impregnata di oscurità e di mostruosità è una sorta di precoce e istintiva consapevolezza della «dialettica dell’Illuminismo». Ovvero della tendenza di quest’ultimo a trasformarsi da strumento di liberazione in strumento attraverso il quale si esercita il dominio tecnocratico sulla natura e sull’uomo come hanno evidenziato Adorno e Horkheimer nel loro celebre saggio del 1944. La famosa incisione che inizialmente doveva fare da frontespizio ai Caprichos, ma che poi l’artista ha spostato a pagina 43, ci confronta infatti con un’ambiguità interpretativa irrisolvibile. Da un lato il «sonno della ragione» che genera mostri si riferisce indubbiamente all’assenza stessa della ragione e al prevalere delle pulsioni e degli istinti ma allo stesso tempo,
sembra dirci Goya, anche la ragione può scivolare nel sonno e il suo sogno di dominare il mondo, di illuminarlo attraverso la razionalità in ogni più remoto recesso così da estirparne ogni forma di oscurità può trasformarsi in un incubo mostruoso. Ecco perché, in un mondo che si avvia ad essere perennemente illuminato a giorno da una nuova infaticabile forma di ragione, quella computazionale degli algoritmi, e nel quale la repressione istintuale richiesta da una società globalizzata e ipertecnologica portano a comprimere in una gabbia sempre più esigua la dimensione pulsionale degli individui aumentandone il potenziale deflagrante, forse la lezione di Goya non è ancora del tutto esaurita. E gli episodi di cupa violenza che vediamo scoppiare qua e là nel mondo, come crepe in un involucro troppo teso, sembrano confermarlo. Dove e quando GOYA. La ribellione della ragione, Palazzo Reale, Milano, fino al 3 marzo 2023. Orari: ma-do 10.00-19.30, gio fino alle 22.30. www.palazzorealemilano.it
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CULTURA
Il jazz nei sogni di Giulio Granati
Incontri ◆ Il pianista ticinese ha pubblicato di recente il suo nuovo album Dreams and other Stories con l’etichetta Altrisuoni Alessandro Zanoli
Possiamo considerarlo uno dei padri nobili del nostro panorama musicale, e forse lui riderà della definizione. Giulio Granati è una persona estremamente affabile e piena di senso dello humour, ma è certamente uno dei musicisti che, alle nostre latitudini, si è impegnato con grande energia e costanza per concretizzare il suo pensiero. È attivo da decenni ormai, ma lo smalto è sempre quello. Il suo ultimo disco lo dimostra e anzi dà testimonianza di una ulteriore maturazione, una nuova autorevolezza che, forse, si può raggiungere solo con l’età. Ne abbiamo parlato con lui.
Il nuovo disco arriva dopo un periodo di assenza piuttosto lungo. È successo dopo il disco registrato con il sestetto, in cui suonavano Danilo Moccia, Max Pizio, Silvano Borzacchiello, Stefano Romerio e Ivan Lombardi… Un best of del Ticino… Eh sì, insomma un po’ il gotha del jazz ticinese… Beh, sono entrato in un periodo di crisi. Inizialmente perché mi sono scontrato con una realtà della quale alla mia età mi ero stufato, cioè di discutere sui cachet per musicisti di quel livello. Addirittura una volta un club nella Svizzera francese mi ha detto: «Abbiamo ricevuto il vostro disco, molto bello, vi vorremmo nel nostro club ma potete venire in quattro?». Davanti a queste cose sono rimasto di stucco. Poi l’elemento principale è stato il mio lavoro parallelo. Ho lavorato per anni come pianista entertainer, un impegno che mi aveva prosciugato. Ho passato dieci anni, forse di più, senza più scrivere una nota e senza più sedermi al pianoforte per il piacere di suonare, suonando solo per lavoro. Quando mi sono reso conto di questo ho smesso completamente. Sì, sì, ho smesso completamente e sono rinato. Devo dire che la spinta a riprendere me l’ha data la RSI quando mi ha commissionato un brano. Nel periodo del Covid hanno fatto una trasmissione su musicisti, esecutori e compositori ticinesi e mi hanno proposto di scrivere un pezzo per una pianista classica. Da anni non scrivevo più una nota, ho detto: «Non so se lo farò». E invece quello è stato l’input che mi ha fatto scrivere il Dream 22. I Dream erano una caratteristica dei suoi primi dischi… Una trentina d’anni fa, ai tempi di Across My Universe, una notte ho sognato una melodia. La mattina appena mi sono svegliato ho bevuto il caffè e l’ho scritta e l’ho intitolata A Dream perché era stato un sogno. Questo episodio nel corso di 30 anni
Foto di Franco Cattaneo
Giulio Granati, il suo ultimo disco mi fa venire in mente Dave Brubeck. Il suo suono è diventato assertivo, lapidario, quasi classico. Devo dire che a Brubeck non mi sono mai avvicinato. Però quello che dice è un po’ vero. Io ho una cifra, diciamo stilistica, che è quella per cui sono riconoscibile e questo tra l’altro mi fa piacere perché un giorno ho deciso di smettere di inseguire i musicisti americani, come di solito si fa. E ho attinto dal background classico, cioè dalla tradizione europea, che è sicuramente più ricca di quella americana e poi ha influenzato comunque anche il jazz americano. Ho unito le due cose e ho creato questa mia cifra personale. si è verificato diverse volte. Sono tutte melodie sognate, poi chiaramente elaborate al momento, e li ho semplicemente intitolati Dream numero 1, 2, 3 fino al 27. Ma lei sogna che sta suonando o sogna di sentire la musica? Sogno di sentire la melodia. Mi sveglio con questa melodia in testa e la scrivo. Sono essenzialmente composizioni per piano solo. Quando è nato il progetto con Francesco D’Auria e Antonio Cervellino mi sono detto: «Quasi quasi scrivo un arrangiamento per trio». E lì ho ricominciato a scrivere. È nato il disco Dreams and other Stories. Sono pezzi nuovi e altri presi dal passato: c’è Blue Blues che avevo eseguito in un disco intitolato Music in Time, che è uno dei primi dischi che ho inciso. Il resto sono tutte composizioni nuove e appunto, ci sono i nuovi Dreams, scritti proprio per trio e sono pezzi scritti nota per nota come una composizione classica. Naturalmente, ai musicisti lascio poi la libertà interpretativa. Ecco cosa intendevo: il disco mi sembra brubeckiano, perché ha quello stesso rigore nell’esecuzione, quasi classica. Sì, è vero: il tema è quasi una partitura classica. Avrei potuto intitolarlo Trio numero 1. Le Other Stories sono invece composizioni più di matrice jazzistica, un linguaggio prettamente jazzistico. Cosa chiede ai suoi partner musicisti? Di leggere bene la partitura o di aggiungere qualcosa ai suoi brani? Per prima cosa chiedo loro se piace quello che ho scritto. Se è così, partecipano volentieri al progetto. Quando ho realizzato i due dischi in quartetto, la casa discografica mi propose di andare in tournée con Charles Lloyd, che era in giro e avremmo potuto averle per pochi soldi. Io ho rifiutato per due motivi: primo perché una volta fatto il disco, si va in tournée
con chi ci ha suonato. Preferivo avere con me qualcuno che suonasse non solo per il nome o per il prestigio. In quel caso ho preferito il sassofonista Michael Rosen, col quale mi trovavo benissimo, anche sotto il profilo dell’amicizia. Così tutti i miei gruppi sono stati fondati sul rapporto umano. Tutti i musicisti che hanno lavorato con me sono stati coinvolti perché piaceva loro il progetto. Io scrivo le parti, ma poi i pezzi nascono suonando insieme. Sono tutti progetti condivisi. Cosa si aspetta da questo disco? Mi aspetto di continuare a scrivere… se penso a quando avevo iniziato a suonare, ero una macchina da guerra, con la penna in mano. Poi non ho più scritto, addirittura mi capitava di ascoltare i miei dischi e pensare «ma perché non mi vengono più idee?». Adesso invece ho ripreso. Poi sono contento del trio, ci troviamo bene, ci divertiamo, anche quando non suoniamo, per cui mi aspetto di continuare a divertirmi. Anche perché devo confessare che mentre per tutta la vita ho suonato per la gente, adesso suono per me: è una cosa diversa, non ho più la paranoia. Suono per me, per la gioia di suonare con amici. Avrà notato che sul disco non c’è scritto solo Giulio Granati ma i nomi di tutti i musicisti: perché siamo un gruppo, un’entità. Che musica sta ascoltando adesso, di questi tempi? Ascolto generalmente musica classica o musica jazz. Più jazz, devo dire. E io ascolto moltissimo non solo i pianisti, ascolto anche i nuovi trio e sento diverse cose. Alcune sono belle. Sono molte quelle ricchissime di tecnica e virtuosismo, ma che comunicano poche emozioni. Non sono un po’ tutti uguali? Uniformati allo standard Jarret? No, tutti uguali, no. Però c’è da dire che di capiscuola rimangono ancora Bill Evans, e poi se andiamo ancora a
guardare prima i vari Bud Powell eccetera. Lo stesso Jarrett, il trio di Jarrett, se non ci fossero stati prima Bill Evans, Oscar Peterson, cosa avrebbe potuto fare? Comunque lui ci batte tutti. Devo anche dire che una delle mie formazioni preferite è il piccolo combo, non il trio. Tutt’al più quartetto, quintetto. Ecco, quel tipo di suono è la musica che ascolto di più. Le piace la Big band? Ha tentato di percorrere quella strada? No, ma una volta ho scritto un Concerto per Quartetto jazz e Orchestra Sinfonica. Lo scrissi in occasione del 15º anniversario della morte di Miles Davis e si intitola Miles in the Sky. L’abbiamo eseguito a Lugano. Non c’è su disco perché sarebbe stata una produzione di costi elevatissimi. C’è la registrazione fatta alla radio: l’abbiamo eseguito con l’OSI e poi l’ho eseguito anche in Italia con l’Orchestra Italiana a La Spezia. Vai su YouTube: Granati, Miles in the sky… Il titolo è come il disco di Davis, però inteso qui come una jam session celeste: è un incontro immaginario tra Miles Davis e i grandi classici. Le piace Miles? Sì. Quello del periodo elettrico mi piaceva di meno, anche se, insomma, sì, ci sono state delle cose molto belle. Però il Davis che amo di più è quello che arriva fino al punto di non ritorno di Kind of Blue. Riconosco comunque il genio di Miles Davis, la sua capacità di tracciare sempre nuove sonorità. Insomma, tutti i grandi vengono da lui, da Herbie Hancock ai Weather Report, a Wayne Shorter. Io ascolto di tutto: chiaramente prevale quello che ritengo il mio faro, Bill Evans, sicuramente. Devo dire che io ho iniziato col jazz ispirato da Oscar Peterson perché venendo dal classico il pianista che mi impressionava di più era quello con la tecnica più brillante, per cui quando ho cominciato cercavo di imitarlo. Poi ho scoperto Bill Evans, sono stato folgorato.
In seguito Jarrett: sono i pianisti che ascolto più volentieri. Ci parli del suo nuovo gruppo È nuovo fino a un certo punto perché con Franchino D’Auria ci conosciamo da quarant’anni. Con lui ho già fatto altri dischi. Siamo amici da anni. Poi ho conosciuto Antonio Cervellino durante una trasmissione televisiva. Suonava nella Big Band. Siamo diventati amici, quindi è una new entry perché più giovane, della nuova generazione. Ci siamo subito trovati in sintonia sotto il profilo umano. Volevo chiederle la differenza tra il gruppo con cui ha fatto il primo disco e quello di oggi: come è evoluto il ticinese in questi 40 anni? Beh, Across my Universe era il primo disco in trio e devo dire che è anche uno dei dischi che ha avuto maggiori riconoscimenti. Mi ricordo che avevo ricevuto un CD da Los Angeles con un’ora di trasmissione su questo disco, realizzata da una radio americana. La forza di quel disco era forse data dal fatto che eravamo tre musicisti completamente diversi e ne era nata una musica molto particolare, fatta di tre modi di suonare diversi tra loro. E il modo di suonare dei musicisti di oggi? I musicisti si sono evoluti tecnicamente, se pensiamo a quello che si fa oggi con un contrabbasso e non si faceva negli anni 30 o 40; la stessa cosa vale per il piano e per la batteria. La capacità tecnica è aumentata perché c’è più studio, mentre una volta il jazz era una musica spontanea che nasceva da un contesto sociale particolare. Oggi se non studi non suoni. I musicisti di oggi sono tutti tecnicamente molto bravi, dei mostri di bravura, poi tante volte ti viene da dire «sei bravissimo, ma non mi fai sentire un po’ di musica?». Questo capita frequentemente. Comunque i musicisti sono migliorati: per tutti gli strumenti la tecnica è migliorata.
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CULTURA
Ilary Blasi e la sua versione dei fatti
Netflix ◆ Una chiara mossa di marketing della showgirl per dire la sua sul divorzio dall’ottavo Re di Roma Francesco Totti Virginia Antoniucci
A fine novembre Netflix ha lanciato Unica, docufilm diretto da Tommaso Deboni che prometteva di farci sbirciare dietro le quinte della rottura tra Ilary Blasi e l’ex calciatore Francesco Totti. Con un titolo che è una freccia scoccata contro la leggendaria maglietta di Totti «6 unica», Ilary trasforma la sofferenza in un’opportunità di marketing. Se non fosse che, oltre ai pettegolezzi, borse nascoste e rolex rubati, emerge l’ombra di un patriarcato che, senza pietà, colpisce anche la regina dei reality-show.
«Ilary comincia a far carriera quando Totti va in pensione» Il timing di Unica è cronometrato come una bomba ad orologeria pronta a detonare nel momento più opportuno. Strategicamente posizionato il giorno prima della giornata contro la violenza sulle donne, Ilary Blasi si unisce, a modo suo, alla lotta popolare con un chiaro messaggio: non sono unica, sono come tutte voi. Il racconto, dai toni tragicomici, si apre con la fine della storia d’amore tra lei e Totti, apparentemente messa in ginocchio da un caffè che Blasi si è presa con un ragazzo. Che sia un caffè a segnare la rovina della coppia reale italiana potrebbe sorprendere il pubblico, ma non quanto le rivelazioni di Blasi, che con uno studiatissimo look casual fatto di camicia bianca e pantaloni scuri, che ricorda lo stile di Amber Heard in tribunale, rivela i comportamenti ossessivi di Totti: controllo delle chat, richieste di cancellare post sui social, e un’ossessione fatta di rancori e gelosie. Rimaniamo sconcertati, ma forse non più di tanto. Dopotutto, Totti è stato sempre dipinto come «Er Pupone», il cucciolo del calcio, focalizzato solo sulla palla e poco sull’italiano. Il classico «bravo ragazzo» di cui
la stampa va ghiotta, è nella realtà un uomo ricco di privilegi, cresciuto in una città complice che lo ha difeso a spada tratta, elevandolo a ottavo Re di Roma. Persino il tassista che nel docufilm porta in giro Ilary Blasi ammicca alla telecamera, dicendo: «A Totti piacciono i maritozzi con la panna e le donne», come se non avesse la ex moglie a bordo. Totti non è unico, anzi è prevedibilmente comune. Privato della maglia giallorossa che lo ha reso protagonista delle domeniche all’Olimpico per anni, come racconta Ilary, all’improvviso si ritrova nella triste immagine di un ex atleta a fine carriera, sprofondato sul divano a rivedere le repliche dell’addio al campo di gioco. E, come commenta il giornalista Michele Masneri nel docufilm: «Ilary comincia a far carriera quando lui va in pensione», dettaglio che stando alla narrazione di Ilary, Totti sembra non gradire. In questa cornice quel banale caffè per lui assume dimensioni shakespeariane. Un uomo in crisi, che non regna più, non può fare altro che porre una domanda per ripristinare il suo status quo, almeno all’interno del suo matrimonio: per riconquistare la sua fiducia, Ilary deve abbandonare la sua carriera lavorativa. E qui è il momento di premere pausa e prendere fiato. Ilary Blasi, che i media amano ancora etichettare come la «letterina» nonostante siano passati vent’anni e molti altri show e conduzioni televisive importanti, nel docufilm autoprodotto per comunicare al mondo – ora vi dico la mia verità – tra una lacrima e un fazzoletto che non trova nella borsa – diventa la paladina che sceglie sé stessa, la donna di successo che non ha bisogno dei soldi e dei Rolex del marito. Ed è durante un Adho Mukha Sva-
nasana (una posizione yoga) in giardino che Ilary Blasi sceglie di raccontare la scoperta della relazione clandestina tra Totti e Noemi Bocchi. Storia che nel docufilm viene avallata dalle donne di famiglia che la sostengono e non si lasciano scappare una sola parola critica verso l’ex capitano della Roma se non sottoli-
nearne il cambiamento che ne avrebbe fatto una persona diversa. La madre Daniela, la sorella Melory e le amiche Giorgia e Alessia si uniscono in un matriarcato che ascolta, capisce e accompagna Ilary nella sua avventura alla scoperta della verità, finita in fretta con l’investigatore privato assoldato per pedinare il ma-
rito che però si fa scoprire. Momento tragicomico. Intanto però quella congrega femminile, che piange più di lei in un’ora e venti minuti, diventa il baluardo su cui Ilary Blasi costruisce la sua rinascita e la sua emancipazione da Totti e da quell’immaginario che l’ha sempre legata a lui e probabilmente è stato propizio per una carriera televisiva come la sua. Al macero dunque l’immagine di lei sugli spalti dello stadio, avanti invece l’immagine della showgirl che sui tacchi a spillo altissimi conduce L’isola dei famosi. Totti e Ilary. Il campione e la sua ex letterina. Al termine del docufilm, non si può fare a meno di riflettere sulle innumerevoli occasioni in cui per la stampa, la donna sembra ridursi a una sorta di burattino senza nome né professione, destinato a prendere vita solo quando la sua storia si intreccia con quella del marito. Passando di mano in mano, diventa una sorta di appendice di qualcun altro: figlia, ex, moglie, sorella, fidanzata. Nonostante le piazze si riempiano di voci che portano avanti istanze femministe, il persistere di una stampa moralista, che castiga le donne e chiude gli occhi di fronte alle responsabilità e ai tradimenti degli uomini, impedisce la radicale estirpazione del patriarcato. Che Ilary Blasi sia santa o peccatrice è qualcosa che può interessare perversamente solo durante l’attesa dal parrucchiere e forse non è l’icona femminista che ci aspettavamo (probabilmente nemmeno vuole esserlo), ma il suo messaggio, «Ho scelto la mia vita», può essere d’esempio per molto donne. Tenendo però a mente che pur non essendo «unica», Ilary Blasi vanta un conto in banca che la maggior parte delle donne si sognano e che le ha permesso di produrre un docufilm per dire la sua.
Corrado Augias, mattatore instancabile
SmartTV ◆ Dopo 63 anni il giornalista ha lasciato la Rai per un nuovo programma con Alessandro Barbero su LA7
A quasi 89 anni, Corrado Augias (nella foto) rimane una mitologica pietra angolare della cultura in televisione; la pietra di un edificio che sta tra l’assente e il periclitante, nemmeno un cantiere. E non è una bella cosa, per la latitanza di (valido) ricambio che questo eterno accamparsi del Nostro pesantemente indizia; forse il solo Giorgio Zanchini sembra avere le carte in regola per garantire la sopravvivenza della figura di mediatore culturale nell’audiovisivo italofono. Accanto a una produzione letteraria fluviale, Augias ha fatto cultura in Rai per oltre mezzo secolo, prima di sbarcare a LA7; dalla musica, ai libri, alla cronaca, alla rilettura di fatti politici, alla storia, alla religione, all’architettura. Ora ha iniziato una nuova avventura con La Torre di Babele; puntate monografiche su temi diversi, dalla crisi dell’ordine mondiale americano (con Alessandro Barbero quale spirito-guida) alla questione giovanile (con Michele Serra). Augias è, ovviamente, uguale a sé stesso: aplomb da grande saggio, un filo di sorridente arroganza e di serena degnazione, un’aristocratica sprezza-
tura che mette i suoi interlocutori (anche, come spesso avviene, più cogniti di lui) sul banco degli scolari di un maestro benevolo, in una sorta di magica bolla di bon ton e di minuetti argomentativi. In ogni modo, si intuisce una forte costruzione drammaturgica del programma, che ha schemi chiari e strutture precise, in cui l’apparente naturalezza e casualità del colloquio si inserisce senza sforzo; roba da professionisti veri, non c’è che dire. La Torre di Babele conferma pregi e difetti del fare televisione di Augias, e anche le aporie, i vicoli ciechi e i rischi del fare cultura in quest’epoca di celebrazione dell’ignoranza. Approfondire superficialmente, questo l’imperativo se si vuole sopravvivere in TV; ma il busillis è identificare le modalità giuste per fare autentica mediazione culturale, per analizzare senza pedanteria, ma soprattutto per far capire la complessità del reale a petto delle sirene della semplificazione. Augias è un po’ il santo patrono dei falsi modesti; dice di essere «un seduttore consapevole», come ogni divulgatore culturale. Ed ecco che si fa in studio una chiacchiera colta e placida che dà, non
Wikipedia
Marco Züblin
ai protagonisti (che ben conoscono il gioco) ma al pubblico, il senso e l’illusione di elevarsi al di sopra dell’argomentare binario che è ormai la cifra del pensiero contemporaneo. Programmi di questo genere sono potenti generatori di alibi, come se bastasse farsi scivolare addosso un programma, un’urbana soave conversazione e qualche bella formula per riempire il vuoto di informazione, di formazione e di cultura che abita le platee della
TV. Come sempre bisogna attingere a Fiorello, lucido analista: lamentando il passaggio a LA7 di Augias, ha detto che se guardi Augias «ti arriva a casa la laurea», senza bisogno d’altro appunto, per mera e poco faticosa osmosi televisiva. Le conversazioni di Augias seminano spunti che, in altri momenti, avrebbero indotto qualcuno a prendere in mano un libro; soprattutto per merito dei suoi interlocutori, che
nell’ovatta della conversazione pur riescono a offrire spunti di riflessione. Ma questo non avverrà, temo, appunto per il fatto che questi programmi sono ormai diventati il modo principe (o unico) con cui il pubblico presume a torto di acquisire dignità culturale. In questo senso, la funzione di stimolo se ne va a ramengo; certo non per colpa del programma, ma di questa epoca di tremenda brutalità semplificatrice. Intellettuale laico, ateo devoto, uomo di sinistra che fa l’unanimità nell’intero arco costituzionale, affabulatore principe, pifferaio un po’ altero; Corrado Augias resta comunque una figura ineliminabile, di straordinario impatto, stimato anche dalla massa di coloro che ben si guardano dal seguire uno dei suoi programmi. Nel contesto sociopolitico attuale in Italia, un personaggio che vale comunque la pena di tenersi ben stretto, un nucleo di resistenza minima in un panorama dominato da orde vocianti, da una violenza verbale senza freni e senza contenuti, da un generale sospetto nei riguardi della cultura e del pensiero critico.
Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 2 gennaio 2024
CULTURA
Henry Holiday, Dante e Beatrice (1882-1884), Walker Art Gallery, Liverpool. (Wikipedia)
Beatrice e la Carità
Libri ◆ Pirovano tra Dante e l’iconografia della suprema virtù teologale Roberto Falconi
«La Vita nuova è un grandissimo libro. Non bisogna stancarsi di ripeterlo». Così disse Michelangelo Picone durante una lezione del 2008 su modelli e antimodelli della Commedia (il testo si trova nel secondo volume delle Lezioni bellinzonesi, uscite presso Casagrande). Credo che di quell’appassionata dichiarazione, buttata lì come un inciso nel discorso, andrebbe fatto tesoro anche e soprattutto nel mondo della scuola (Picone stava pur sempre parlando in un liceo). Ho infatti l’impressione che il libello dantesco serva più che altro – se va bene, e io sono il primo colpevole – a completare il discorso sullo Stilnovo e a far venire agli studenti l’acquolina in bocca per le cose davvero serie (il poema, appunto). Del resto, per chiudere con gli aneddoti, anche il programma dei miei esami di laurea prevedeva per Dante lo studio di un certo numero di canti della Commedia «e di un’opera minore» (corsivo mio). A ricordarci il valore della Vita nuova, oltre al monumentale commento che ne ha fornito per la NECOD, è l’ultimo lavoro di Donato Pirovano, La nudità di Beatrice. Lo schema seguito (oltre alla capacità di conciliare rigore filologico e limpidezza di dettato) non mi pare dissimile da quello su cui è costruito Amore e colpa. Dante e Francesca (sempre per Donzelli): un’indagine sull’amore che da ereos evolve in agápe o caritas a partire da un centro focale (là Inferno, V; qui il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core) dal quale muovere e al quale tornare attraverso riferimenti ad altre zone dantesche e ad altri testi di varia natura (letterari, medici, filosofici, scritturali). Il sonetto che apre la Vita nuova è noto. Dante chiede agli innamorati di nobile sentimento di interpretare un sogno: mentre dorme, all’improvviso appare davanti ai suoi occhi Amore. Inizialmente, questi sembra lieto: tiene in mano il cuore ardente del poeta e tra le braccia la sua donna addormentata, avvolta in una stoffa preziosa. Subito dopo, però, Amore sveglia la donna, la nutre con quel cuore e se ne va, in lacrime. Nel racconto che precede il sonetto, Dante rivela di averlo composto all’età di diciotto anni, quando Beatrice lo salutò per la prima volta, e quindi almeno dieci anni prima della stesura del libello (ma la questione è filologicamente complessa). Alla sollecitazione di Dante (strutturata, come volevano i coevi manuali di
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epistolografia, in salutatio, petitio, e narratio) «risposero per le rime» almeno tre poeti. Dante da Maiano replica (forse a distanza di anni: altra questione complessa) come farebbe un medico, considerando cioè l’Alighieri malato di amore ereos (e sui rapporti tra poesia amorosa delle origini e medicina restano cruciali gli studi di Natascia Tonelli). Terino da Castelfiorentino (meno probabilmente Cino da Pistoia: ennesima questione complessa), costruisce la propria risposta, ricca di tessere guinizzelliane, sul tradizionale carattere bifronte di amore, fonte di letizia e di dolore. Infine, Guido Cavalcanti legge il brusco cambiamento di atteggiamento di Amore nella visione come conferma della sua natura spietata: lieto nel sogno, crudele nella realtà. E andrà qui almeno marginalmente notato come, in fin dei conti, si torni sempre al nodo dei rapporti con il «primo amico» Guido, la cui opera (risposta a Dante compresa) Pirovano suggerisce di accostare in modo meno monolitico. Nessuno, dice Dante, ha saputo interpretare correttamente un enigma che «ora è manifestissimo a li più semplici», e che Pirovano – grazie al cruciale dettaglio dell’ascesa «verso lo Cielo» di Amore e di Beatrice (assente nella rima estravagante, presente nel racconto vitanovistico) – propone di leggere come transustanziazione della passione; come eternalizzazione di un amore che da ereos si fa agápe e che è possibile comprendere solo nella rielaborazione, attraverso il «libro della memoria», di tutta l’esperienza beatriciana. Dante indica del resto sin dall’inizio che si tratta di un amore salvifico: passione e salvezza si saldano, e non poteva essere altrimenti, nella figura di «colei che dà beatitudine». Se la Vita nuova è costruita su questa linea teleologicamente orientata, mi permetto di aggiungere alle considerazioni di Pirovano, e seguendone la prospettiva, l’opportunità di insistere sui rapporti tra A ciascun’alma presa e gentil core – sonetto incipitario e vera e propria mise en abyme dell’intero libello (come già notato da Furio Brugnolo) – e Oltre la spera che più larga gira, rima di chiusa. Testi liminari che, con i loro punti di contatto, fissano – in modo icastico e circolare – gli estremi del percorso provvisoriamente definitivo di Dante all’interno del libro. L’agens si trova infatti in entrambe le
situazioni nell’impossibilità di comprendere appieno le parole di un ente caratterizzato dal movimento verticale, con la cruciale differenza che a quello di Amore verso il Cielo corrisponde il percorso di ascesa e ritorno del «peregrino spirito», in analogia quindi con l’amore agápe, che da Dio viene e a Dio ritorna. Beatrice diventa pertanto icona della Carità, e proprio nel periodo in cui le rappresentazioni italiane della suprema virtù teologale aggiungono a quella dell’amor proximi, tradizionalmente reso con la cornucopia, la componente dell’amor Dei. Pirovano segue questa evoluzione iconografica, cautamente ipotizzandone la scintilla originaria proprio nel sonetto dantesco, come peraltro già annuncia la seconda parte del titolo del libro: Dante, Giotto, Ambrogio Lorenzetti e l’iconografia della Carità. Assistiti da un ricchissimo e meritorio apparato di immagini, ci si muove tra rappresentazioni che offrono a Cristo un cuore ardente (Cappella degli Scrovegni), da cui può addirittura scaturire un nutrimento igneo (tabernacolo della Madonna di Orsanmichele), e icone dalle nudità coperte solo da un velo leggerissimo (Maestà di Massa Marittima). Insomma, proprio i tratti che caratterizzano la visione di Dante. Ciò che però maggiormente conta è che a una (rettamente orientata) vita nuova deve corrispondere una poesia nuova, che nasce nel momento della negazione del saluto da parte di Beatrice e che alla morte dell’amata, quando tradizionalmente si spengono il sentimento e il canto, sappia resistere. La formalizzazione cioè di quell’amore disinteressato che a Dante – amico vero, «e non de la ventura» – ritornerà nel secondo canto dell’Inferno, quando Beatrice soccorrerà il pellegrino chiedendo l’intervento di Virgilio: «amor mi mosse, che mi fa parlare». Non appare quindi casuale, in questa prospettiva, che Dante chiuda la Vita nuova annunciando un’altra opera, in cui «più degnamente» dire e trattare dell’amata: due verbi tecnici del codice retorico e poetico che torneranno, insieme, proprio nei primissimi versi della Commedia (Battistini). Ma questa è davvero un’altra storia. Bibliografia Donato Pirovano, La nudità di Beatrice. Dante, Giotto, Ambrogio Lorenzetti e l’iconografia della Carità, Roma, Donzelli.
Chiacchiere su King Ascolti ◆ Un riuscito podcast sul celebre scrittore Daniele Bernardi
Sono stato un bambino degli anni ’80 e, volente o nolente, Stephen King l’ho respirato. Se si andava a fare la spesa il «re dell’orrore» te lo ritrovavi lì, sempre presente, anche sugli sparuti scaffali di libri nei supermercati: Carrie, L’ombra dello scorpione, Uscita per l’inferno, Pet Sematary, It… erano questi i già famosissimi titoli che svettavano sulle copertine delle edizioni dell’epoca. Eppure, personalmente, King è un autore – credo assolutamente geniale – che ho letto molto poco: una raccolta di racconti e un breve romanzo. Perciò la sua eco mi è arrivata più attraverso l’impatto della sua opera sulla cultura popolare che non da una conoscenza effettiva. Come tantissimi, mi sono rispecchiato nei ragazzini protagonisti di quel meraviglioso classico cinematografico che è la trasposizione del racconto Il corpo: parliamo ovviamente di Stand by Me, il film di Rob Reiner del 1986. Per settimane ho temuto di imbattermi in un palloncino rosso mentre ritornavo da scuola verso casa, tanto il mio paese mi ricordava la violenta desolazione di Derry, la cittadina immaginaria in cui è ambientato It, forse il più grande romanzo dello scrittore portato per la prima volta sugli schermi da Tommy Lee Wallace nel 1990. Per non parlare dei racconti del mio vicino di casa, con cui condividevo la classe alle elementari e che già allora mi raccontava di Misery e de Il gioco di Gerald. E poi Dylan Dog, Le spiacevoli notti di Zio Tibia, Notte Horror e così via. Probabilmente non sono l’unico custode di ricordi come questi, diversamente dai tantissimi altri che, da buoni fans sfegatati, conoscono alla perfezione la monumentale produzione di King in ogni suo dettaglio. Ma per chi, come me, volesse avvicinarsi veramente alle creazioni del grande autore statunitense, Mondadori offre oggi uno strumento figlio dei nostri tempi: Kinghiana, Un podcast su Stephen King scritto e condotto da Jacopo Cirillo e Giulio D’Antona i cui episodi, da maggio scorso, escono ogni
primo martedì del mese e si possono facilmente ascoltare online su diverse piattaforme, a cominciare da Spotify (tra l’altro, si ricorda che è recente anche la pubblicazione di Holly, l’ultimo romanzo di King edito in lingua italiana da Sperling & Kupfer). I due autori, entrambi scrittori e sceneggiatori, sono, naturalmente, due super-esperti in materia e, ad ogni puntata, eleggono a protagonista uno specifico titolo – Stagioni diverse, 22/11/63, Dr. Sleep… – del quale discutono pubblicamente. A volte partecipa anche un ospite esterno, come nel caso di Misery, ad esempio, in cui era presente la scrittrice e sceneggiatrice Paola Barbato. Quindi niente di più che un gruppetto di persone che parla di King come se fosse a casa propria. Oggi, che siamo abituati a proposte la cui fruizione è costantemente stimolata attraverso cambi di registro e variazioni, questo formato potrebbe sembrare poco accattivante: nessun estratto-lettura dai libri, nessun contributo esterno in forma di intervista o altro, nessuna trasposizione in forma di mini-sceneggiato radiofonico, nessuna citazione audio-cinematografica. Solo, lo ripeto, degli appassionati che riflettono su ciò che gli piace – non senza senso dell’umorismo, ovviamente – interrogandosi sul perché gli piace. Ebbene, dopo un primo attimo di perplessità Kinghiana cattura l’ascolto e non lo molla più. E questo proprio in virtù del suo formato elementare, credo. Quante volte, da amanti di una data cosa, ciò che più desideriamo è semplicemente condividere il nostro piacere con qualcuno? La maggior parte immagino. Ecco cosa fa Kinghiana: ci invita alla lettura (o alla rilettura, per chi è già un «kinghiano laureato») attraverso la soddisfazione di una pratica ludica della parola: insomma, grazie a una bella chiacchierata. E, francamente, riuscire in una simile impresa in un’epoca in cui tutto tende al troppo, non è poco. Anzi, direi che è il giusto.
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CULTURA
Incontri di luce tra due pittori
Mostra ◆ Giacomo Balla e Piero Dorazio sono i protagonisti alla Collezione Giancarlo e Danna Olgiati fino al 14 gennaio Alessia Brughera
1912. Giacomo Balla è a Düsseldorf, ospite nella villa in riva al Reno della famiglia Löwenstein, dove è stato invitato per decorare lo studio del padrone di casa. Nei sei mesi in cui vi soggiorna, da luglio a dicembre, l’artista durante le pause di lavoro osserva dalla finestra della sua stanza il variare della luce del sole che accompagna lo scorrere delle giornate e delle stagioni. Sente allora il bisogno di cogliere l’essenza di quei fenomeni luminosi che così tanto affascinano il suo sguardo. È l’inizio di una nuova idea di pittura.
Due artisti, due diverse generazioni e quasi mezzo secolo a dividere le fasi affini delle rispettive carriere Con matite colorate, tempere e acquerelli, Balla disegna su fogli di un semplice block-notes le sue rappresentazioni della luce, come se volesse definirne l’anatomia. Nascono piccole composizioni che esprimono le riflessioni dell’artista attorno alla possibilità di catturare i misteri dell’iride. In questi schizzi, esercizi speculativi dall’audace sintesi formale, Balla delinea le rifrazioni luminose attraverso reticoli a pattern triangolari, recuperando una figura geometrica che bene restituisce l’immagine di espansione della luce nello spazio. D’altra parte Balla, due anni prima, all’apice del successo, aveva entusiasticamente aderito al Futurismo attratto proprio dall’interesse di questa corrente verso la luce e il dinamismo. Aveva inoltre già da parecchio tempo, grazie soprattutto al suo viaggio a Parigi, grande dimestichezza con le leggi dell’ottica e della fisica, che lo avevano portato a utilizzare artifici per rafforzare il fulgore delle tinte e rendere le composizioni più vibranti. Nel taccuino di Düsseldorf, a cui il titolo di Compenetrazioni iridescenti verrà dato solo molto più tardi, l’artista abolisce così ogni referente figurativo approdando a opere che per la loro precocità possono essere a buon diritto considerate sperimentazioni ante-litteram delle ricerche astratto-geometriche. Così tanto precoci che lo stesso Balla, in quel momento, non è ancora pronto a mostrarle, rendendosi conto della loro importanza solo negli anni Cinquanta, quando quegli schizzi nati da una brevissima ma intensa stagione di studi e poi tenuti nascosti per decenni verranno riscoperti da molti giovani pittori. 1960. Piero Dorazio, poco più che trentenne ma con già alle spalle importanti traguardi, prestigiose esposizioni, esperienze internazionali e un’appassionata militanza nelle fila dell’arte astratta (è, tra l’altro, uno dei fondatori del gruppo Forma 1), espone alla XXX Biennale d’Arte di Venezia, in una sala personale, diciassette dipinti di grandi dimen-
A sinistra Piero Dorazio, Troppo segreto, 1961, Olio su tela, 197 x 114 cm, Courtesy Vitart S.A., Lugano (© 2023, ProLitteris, Zurich). A destra Giacomo Balla, Compenetrazione iridescente n.4, 1912-13, Olio e matita su carta intelata, 55 x 76 cm, MART, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Collezione privata. (© 2023, ProLitteris, Zurich)
sioni intitolati Trame luminose. Il pittore si trova nel vivo di un’indagine che lo vedrà impegnato per qualche anno nell’affrontare la complessità del rapporto tra luce, colore e movimento, alla ricerca di un modulo capace di stabilire un equilibrio tra questi tre elementi sulla superficie del quadro. Le sue Trame, subito molto apprezzate da pubblico e critica in quanto affermazione di un linguaggio originale, sono tele costituite da un fitto reticolo di linee che si dispongono in sequenze ordinate, eseguite «con la stessa pennellata che hanno usato Previati o Boccioni», per usare le parole dell’artista stesso. Queste opere si presentano ai nostri occhi come una sorta di tessitura che emerge dall’incrocio di tratti verticali, orizzontali e diagonali dipinti con mano leggera impiegando un registro di tinte primarie e complementari nelle combinazioni dell’iride. Dorazio approfondisce così il suo interesse per i meccanismi della percezione e per le potenzialità spaziali della tela, andando a sviluppare una sua precisa idea di trama che nasce da una materia raffinata stesa strato su strato in una sorprendente gamma di
variazioni. In questi intrecci di luce e colore non si fatica a trovare la forma del triangolo, anche per l’artista romano una figura che conferisce energia e movimento alla composizione. La sperimentazione delle Trame luminose occupa una parentesi temporale piuttosto breve nel percorso di Dorazio: dopo aver raggiunto con questi lavori risultati importanti per la ricerca artistica, infatti, un po’ inspiegabilmente, già nel 1963, il pittore reputa esaurito il loro potenziale. Due pittori, due diverse generazioni e quasi mezzo secolo a dividere le fasi affini delle rispettive carriere. Balla e Dorazio: il primo, grande figura della corrente futurista, il secondo, tra i maggiori esponenti dell’arte astratta. Entrambi condividono, a distanza di decenni, la medesima fascinazione per i segreti della luce e del colore. La comunanza tra i due non è certo casuale. Il giovane Dorazio, classe 1927, frequenta il più anziano maestro, classe 1871, nei primi anni Cinquanta, recandosi spesso nella sua casa in via Oslavia a Roma. È qui che scopre i disegni che Balla aveva realizzato a Düsseldorf, intuendo-
ne subito la vitalità e la modernità. In quel periodo Balla è uscito dalla scena artistica già da tempo (morirà nel 1958) ma la stima che Dorazio ha nei suoi confronti è molto profonda, nutrita com’è dalla consapevolezza del ruolo fondamentale avuto dal Futurismo per il rinnovamento dell’arte in direzione dell’astrattismo. È così che traendo stimolo e suggestione dalle Compenetrazioni iridescenti di Balla, Dorazio realizza le sue Trame luminose, recuperando lo spirito e la pratica che avevano mosso il pittore futurista cinquant’anni prima. Una mostra allestita negli spazi della Collezione Giancarlo e Danna Olgiati a Lugano, curata da Gabriella Belli, ci permette di comprendere la vicinanza tra i due brevi ma importantissimi periodi di sperimentazione dei due grandi pittori italiani. Il 1912 e il 1960 diventano così le date simbolo di un intenso studio sui fenomeni luminosi e sul colore, due punti di riferimento temporali che raccontano quella continuità che dalle ricerche futuriste ha portato alle origini dell’astrazione. Il titolo scelto per la rassegna, Dove la luce, è ispirato a una lirica di
Giuseppe Ungaretti, poeta e scrittore amico di Dorazio, con il quale, tra l’altro, nei primi anni Settanta pubblica un volume illustrato, nonché grande estimatore di Balla, di cui si occupa anche come critico, interessandosi proprio alle sue indagini sull’elemento luminoso. Il dialogo tra le Compenetrazioni di Balla e le Trame di Dorazio è amplificato in mostra dal bell’allestimento progettato dall’architetto Mario Botta, che, se da una parte ha voluto instaurare un continuo rimando visivo tra i lavori dei due pittori, dall’altra ha voluto sottolinearne le differenze, realizzando due contesti espositivi completamente diversi: nicchie bianche per accogliere gli schizzi di piccolo formato di Balla, grandi superfici nere per ospitare i dipinti di Dorazio. Dove e quando Balla ’12 Dorazio ’60. Dove la luce Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, Lugano. Fino al 14 gennaio 2024. Orari: da giovedì a domenica dalle 11.00 alle 18.00. www.collezioneolgiati.ch Annuncio pubblicitario
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Le vitamine nella loro forma più gustosa Vit amine dal cong elatore
a partire da 2 pezzi
20% Tutto l'assortimento di verdure surgelate (prodotti Alnatura esclusi), per es. fagiolini fini, IP-SUISSE, 750 g, 2.65 invece di 3.30
20%
Hit 3.95
Tutte le mele sfuse (prodotti bio e Demeter esclusi), per es. Gala, Svizzera, al kg, 2.85 invece di 3.60
26% 3.60
Clementine Spagna, rete 2 kg
invece di 4.90
Migros Ticino
25% 4.45 invece di 5.95
Insalata invernale Migros Bio in busta da 200 g
20% Cicorino rosso
Tutti i Champignon Migros Bio
Ticino, al kg
Svizzera, 250 g, per es. Champignon marroni, 3.15 invece di 3.95
Offerte valide solo dal 2.1 al 8.1.2024, fino a esaurimento dello stock. 5
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Carne e salumi
Il gusto della carne, al pezzo e a fette In v e ndit a ora al banc one
CONSIGLIO DEGLI ESPERTI Il pollo al forno è non solo buonissimo, ma anche facile da preparare. Massaggia il pollo con sale, pepe e paprica e farciscilo con erbe aromatiche e aglio. Quindi infornalo a 180 gradi per circa 60 minuti fino a completa cottura. Ed ecco servito un pasto per tutta la famiglia, gustoso ed economico.
20% Tutte le fettine di maiale al banco per es. fettine di lonza di maiale IP-SUISSE, per 100 g, 2.60 invece di 3.30
30% 6.60 invece di 9.55
30% 6.95 invece di 9.95
Entrecôte di vitello IP-SUISSE per 100 g, al banco a servizio
Polli interi Optigal Svizzera, 2 pezzi, al kg, in self-service
6
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34% 3.95
30% 1.60
Prosciutto crudo dalla noce Svizzera, per 100 g, in self-service
invece di 6.–
25% 2.95 invece di 3.95
15% 3.80 invece di 4.50
invece di 2.30
Cervelas Migros Bio Svizzera, 2 pezzi, 200 g, in self-service
Spezzatino di vitello IP-SUISSE per 100 g, in self-service
Migros Ticino
23% 1.50 invece di 1.95
25% 4.25 invece di 5.70
Polpettine di bratwurst IP-SUISSE in conf. speciale, per 100 g
conf. da 2
Cervelas M-Classic Svizzera, 2 pezzi, 200 g, in self-service
Filetti di agnello Australia/Nuova Zelanda, per 100 g, in self-service
30% 8.–
Luganighetta Svizzera, 2 x 250 g
invece di 11.50
15% 1.40 invece di 1.65
Polpettone M-Classic prodotto da cuocere al forno, Svizzera, per 100 g, in self-service
Offerte valide solo dal 2.1 al 8.1.2024, fino a esaurimento dello stock. 7
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Pesce e frutti di mare
Per fini palati pescetariani e vegani
20% 8.60
Filetti di platessa M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordorientale, in conf. speciale, 300 g
invece di 10.80
va Contiene un'alt er nati ve gana al tonno
20x conf. da 2
33% Pangasio in leggera panatura al limone Pelican, ASC o nasello del Capo Pelican, MSC surgelati, per es. pangasio in leggera panatura al limone, ASC, 2 x 300 g, 7.95 invece di 11.90
CUMULUS
Novità
6.95
Wrap di sushi Vuna, refrigerato 240 g
Migros Ticino 8
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Pane e prodotti da forno
Croccante e rustico o soffice e dolce?
Sullo sc affale vicino ai dolciumi Il nost ro pane del la se tt croccant e fuori, soff imana: piac ev ol mente umid ic e e l'alv eolatura fitt a eo dentro lo mant ie ne fresco a minut a lu gli dona una fragra ng o e nz inte nsa e aromatica a conf. da 2
20% 4.– invece di 5.–
Magdalenas M-Classic marmorizzate o al limone, 2 x 225 g
Vuoi se nt irc i la frutta , la cr un po ' di tutto o il ciocc olatema, o?
2.80
20% Pane delle Alpi IP-SUISSE 380 g, prodotto confezionato
Tutti i donut Dots per es. Dreamy, 4 pezzi, 285 g, 6.80 invece di 8.50, prodotto confezionato
Offerte valide solo dal 2.1 al 8.1.2024, fino a esaurimento dello stock. 9
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Formaggi e latticini
Cose buone per le serate invernali in compagnia
LO SAPEVI? Questa fondue si prepara in pochi minuti. Pur essendo già pronta, è priva di sostanze stabilizzanti. Per un pasto più leggero, non intingerci solo del pane. Anche dei pezzetti di peperoni, di pera o di mela e dell'uva sono ideali per dare un po' di varietà e leggerezza alla fondue.
conf. da 2
20% Raccard Nature IP-SUISSE in blocco maxi e a fette, in confezioni speciali, per es. blocco maxi, per 100 g, 1.80 invece di 2.25, prodotto confezionato
21% 1.50 invece di 1.90
Le Gruyère dolce AOP per 100 g, prodotto confezionato
a partire da 2 pezzi
20%
20%
Fondue Swiss-Style
Tutte le mozzarelle Alfredo Classico
Moitié-Moitié o Tradition, per es. Moitié-Moitié, 2 x 800 g, 21.– invece di 26.40
per es. mozzarelline, 160 g, 2.– invece di 2.50
Migros Ticino 10
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20% 2.35 invece di 2.95
15% 1.90 invece di 2.25
a partire da 2 pezzi
15%
Canaria Caseificio
Tutti i tipi di crème fraîche (prodotti V-Love esclusi), per es. Valflora al naturale, 200 g, 2.40 invece di 2.80
per 100 g, confezionato
Formaggella Ticinese semi-grassa per 100 g, confezionata
15% 2.40 invece di 2.85
conf. da 2
Parmigiano Reggiano, DOP 700/800 g, per 100 g, confezionato
20% 4.20 invece di 5.30
Mezza panna UHT Valflora, IP-SUISSE 2 x 500 ml
10 0% ingredie nt i naturali
conf. da 12
15%
20%
Yogurt Pur Emmi
15.35
disponibile in diverse varietà, per es. ai lamponi, 150 g, –.90 invece di 1.10
Migros Ticino
invece di 19.20
Latte Drink Valflora UHT, IP-SUISSE 12 x 1 l
Offerte valide solo dal 2.1 al 8.1.2024, fino a esaurimento dello stock. 11
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Scorta
Serviti a 360 gradi
20% 2.80 invece di 3.50
Salsa con pomodori secchi, Migros Bio 420 g
IDEALE CON
25% 1.35 invece di 1.80
Peperoni misti Spagna, sacchetto da 500 g
20% 3.65
Scaloppina plant-based V-Love prodotto surgelato, 4 pezzi, 340 g
invece di 4.60
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a partire da 2 pezzi
30% Tutto l'assortimento Pancho Villa per es. Tortillas flour, 8 pezzi, 326 g, 3.20 invece di 4.55
Pr o d u z i o n e l av o r a z i o n a c c u r a t a , e de lic ata
Ne l re part o frig
conf. da 4
20%
30%
Tutti i tipi di pasta, i sughi per pasta e le conserve di pomodoro, Migros Bio
Pizze Anna's Best
per es. passata di pomodoro, 360 g, 1.40 invece di 1.80
o
conf. da 2
al prosciutto o margherita, per es. al prosciutto, 4 x 400 g, 14.95 invece di 21.60
30% 8.30 invece di 11.90
Sofficini M-Classic surgelati, al formaggio, agli spinaci o ai funghi, 2 x 8 pezzi, 960 g
Pe r il be ne sse re quotidiano
conf. da 2
conf. da 2
a partire da 2 pezzi
20%
20%
20%
Ketchup Heinz
Datteri, noci o mandorle Sun Queen
Tomato Ketchup o Tomato Ketchup 50%, per es. Tomato Ketchup, 2 x 500 ml, 5.60 invece di 7.–
per es. datteri, 2 x 300 g, 5.75 invece di 7.20
Tutto l'assortimento di tisane Klostergarten per es. foglie di ortica bio, 20 bustine, 1.55 invece di 1.90
Offerte valide solo dal 2.1 al 8.1.2024, fino a esaurimento dello stock. 13
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Snack e aperitivi
Aperitivo da Dry January
25% 3.70 invece di 4.95
Chips Burts Sea Salt, Sea Salt & Malt Vinegar o Mature Cheddar & Onion, 150 g
20% 4.20 invece di 5.30
LO SAPEVI? L'idea del «Dry January» è nata nel Regno Unito e in Svizzera l'iniziativa è sostenuta dall'Ufficio federale della sanità pubblica. Tra le persone che a gennaio non bevono alcol, 7 su 10 si sentono più in salute. Oltre il 50% perde peso o ha una pelle più bella. Circa il 70% consuma meno alcol anche dopo sei mesi.
Pom-Bär Original o alla paprica, in conf. speciale, 200 g
Nel re part o frig o conf. da 6
33% 9.95 invece di 14.95
20% Rivella
Tutti gli smoothie trué fruits
rossa, blu o refresh, 6 x 1,5 l
per es. yellow, 250 ml, 2.80 invece di 3.50
a partire da 2 pezzi
25% Tutte le birre analcoliche per es. Non Lager, 330 ml, –.90 invece di 1.20 14
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22.12.2023 15:06:58
Bellezza e cura del corpo
Per sentirti bene col tuo corpo e per la serenità dei bebè
conf. da 3
25% 9.60 invece di 12.90
conf. da 2
Dentifricio anticarie o Sensitive, Elmex per es. anticarie, 3 x 75 ml
20% Prodotti per l'igiene orale Meridol per es. spazzolino morbido, 6.80 invece di 8.60
Per pe lli se nsibili
In of fe rt a anc he prodot ti masc hili
a partire da 2 pezzi
25% Tutto l'assortimento di prodotti per la cura del viso L'Oréal Paris incl. Men (confezioni multiple escluse), per es. siero Revitalift Filler, 30 ml, 19.50 invece di 25.95
conf. da 2
15%
Pr odott o te st ato da or g ani indipe nde nti
conf. da 2
20%
5.20
Succhietti Milette 16+ M
6.95
Succhietti Milette Naturals arancione 6-18 M
Prodotti per la doccia pH Balance
2 pezzi
per es. gel doccia, 2 x 250 ml, 5.60 invece di 7.–
20%
Tutti gli assorbenti e i salvaslip, Always Ultra
Tutto l'assortimento di disinfettanti per le mani
in confezioni multiple o speciali, per es. Normal, 2 x 76 pezzi, 8.75 invece di 10.30
per es. gel per le mani M-Plast, 75 ml, 2.80 invece di 3.50
3 pezzi
Offerte valide solo dal 2.1 al 8.1.2024, fino a esaurimento dello stock. 15
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Abbigliamento e accessori
Offerte a colpo sicuro
conf. da 5
conf. da 5
Hit 17.95
conf. da 2
Hit 6.95
Calze da donna Essentials disponibili in blu o bordeaux, n. 35–38 e 39–42
Hit
12.95 Calze da uomo Essentials disponibili in bordeaux o blu, n. 39–42 e 43–46
Slip midi da donna Essentials disponibili in diversi colori, tg. S–XXL
19.95
Boxer da uomo Essentials disponibili in diversi colori, tg. S–XXL
Pe r traspor tare facil mente la spesa se ttimanale
Cinque paia di calze
conf. da 5
Hit
Hit 49.95 Trolley per la spesa
disponibile in cognac, blu o antracite, taglia unica, il pezzo
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Casalinghi
Pulito, più pulito, pulitissimo
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20% 7.65
conf. da 3
33% Manella
Detergenti Potz
per es. Ultra Sensitive aha!, 3 x 500 ml
in confezioni multiple, per es. Calc, 3 x 1 l, 11.60 invece di 17.40
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Tutto l'assortimento Handymatic Classic (sale rigeneratore escluso), per es. Classic All in 1, 50 pastiglie, 11.60 invece di 14.50
30% Carta igienica o salviettine umide, Soft in confezioni multiple o speciali, per es. Deluxe Ultra, FSC®, 24 rotoli, 17.50 invece di 25.–
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Hit 14.95 Cleverbag Herkules 35 l, 5 x 20 pezzi
Spugne sintetiche Miobrill Soft e Strong, 4 x 3 pezzi
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Panni polivalenti in conf. speciale, 15 pezzi
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Varie
Di tutto un po’ dall’assortimento
30% Tutto l'assortimento di posate Kitchen & Co.
30%
per es. forchetta Forte, al pezzo, 3.45 invece di 4.95
Padelle Pro Kitchen & Co. disponibili in bordeaux o turchese e in diverse misure, per es. a bordo bassoo, Ø 24 cm, al pezzo, 34.95 invece di 49.95
set da 2
conf. da 3
Hit
Hit 8.95
vintage 13.90 Scodelle Kitchen & Co. Ø 18 cm
set da 4
Hit Contenitore salva freschezza con coperchio Kitchen & Co.
12.95 Asciugapiatti Kitchen & Co. 50 x 70 cm
250 x 162 x 10,4 mm
D ur a t a c ombust ion de l la e : 1 0 ore
Acc endino a gas con mot iv i inve rnali
conf. da 6
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Hit 9.95
Profumo per ambienti alla vaniglia Ambiance 2 x 100 ml
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Accendini
Hit 9.75
Candele scaldavivande Maxi bianche, 3 x 12 pezzi
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Prezzi imbattibili del weekend Solo da questo giovedì a domenica
Hit 9.90
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Tulipani disponibili in diversi colori, mazzo da 24, il mazzo
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Avocado Spagna/Cile/Marocco, al pezzo, 1.10 invece di 1.60, offerta valida dal 4.1 al 7.1.2024
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Phalaenopsis, 2 steli disponibile in diversi colori, in vaso, Ø 12 cm, il vaso
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41% 1.95 invece di 3.35
30% Olio di girasole M-Classic 1 litro, 3.80 invece di 5.40, offerta valida dal 4.1 al 7.1.2024
Cordon bleu di maiale IP-SUISSE in conf. speciale, 4 pezzi, per 100 g, offerta valida dal 4.1 al 7.1.2024
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14.12.23 13:41 22.12.2023 15:05:58