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Lanciati in contromano sulla via della pace?

Carlo Silini

E così ci crogioliamo nella guerra. Trascinata dagli Stati Uniti, che fin dagli inizi hanno sorretto la controffensiva di Kiev, anche l’Europa entra con i propri panzer nello scenario allucinante del conflitto russo-ucraino. Dato che Washington invia i suoi carri armati Abrams, Berlino ha esaurito l’arsenale di scuse geopolitiche credibili per evitare di mettere in campo i propri Leopard. E visto che, al di là dei petti gonfiati davanti ai signori del mondo a Davos o nelle sedi diplomatiche del pianeta, sullo scacchiere internazionale la Svizzera pesa quanto una libellula, ci crogioleremo nella guerra anche noi, i pacifici elvetici. Da lungi, bien sûr, che di cadaveri di nostri militi nelle steppe dell’Est non ne vogliamo. Ma resta un fatto che, nei giorni scorsi, la Commissione della politica di sicurezza del Consiglio nazionale ha decretato che la riesportazione di armi verso l’Ucraina non è più una chimera impossibile. Con 14 voti a 11 sono state approvate una mozione e un’iniziativa parlamentare che prevedono la modifica dell’articolo 18 della Legge federale sul materiale bellico. Tecnicamente, il Consiglio federale potrà revocare la dichiarazione di non riesportazione firmata dai Paesi che hanno acquistato materiale svizzero. Questo nei casi in cui l’ONU dichiarasse una violazione del divieto dell’uso della forza ai sensi del diritto internazionale. Come sta palesemente capitando in Ucraina, dove non sussiste alcun dubbio su chi sia l’aggressore (la Russia) e chi l’aggredito (l’Ucraina).

Il sostegno militare a distanza anche da parte di Paesi che cercano di star fuori dalle guerre (come la Germania, per cancellare l’imbarazzante passato nazista e guerrafondaio, e la Svizzera per la genetica neutralità), è stato sino ad oggi più che giustificabile, anzi eticamente giusto. Ferma restando l’impavida resistenza degli ucraini, senza l’appoggio in armi, istruzione militare e intelligence della Nato, la campagna russa in Ucraina sarebbe stata poco più di una passeggiata in stivaloni e kalashnikov alla conquista di un territorio destinato a cadere nel giro di poche settimane. Era inaudito lasciare che il rullo compressore russo stritolasse sotto i suoi cingoli un popolo indifeso senza che nessuno intervenisse per fermarlo.

Ma l’attuale muscolare invio di armi pesanti pone in essere qualcosa di diverso. Da qui in avanti dobbiamo porci qualche onesta domanda.

La prima è: fino a quando saremo pronti a sostenere un’escalation di violenza sul terreno, che – va ricordato – è terreno europeo? Magari questa intensificazione del fuoco amico e nemico accelererà la fine del conflitto, stabilendo vincitori e sconfitti tra montagne di macerie e un numero vergognoso di vittime. E Dio voglia che i primi siano migliori dei secondi. Magari, invece, i tempi di guerra si estenderanno ad libitum, finché ci sarà un proiettile da sparare, da una parte e dall’altra, con fasi cruentissime e fasi a bassa intensità, in uno stillicidio di distruzioni e di morti ancora per molti mesi, forse per anni. La seconda è se questo salto di qualità sul piano degli strumenti di lotta non innesti fatalmente altri salti di qualità, seguendo la logica perversa della messa in campo dell’arma più efficace per sconfiggere l’avversario. Lo diciamo sottovoce: l’arma più efficace esiste già da tutte e due le parti e si chiama bomba atomica. Chi ci garantisce che nessuno schiaccerà, prima o poi, il pulsante sbagliato?

Ma la domanda più importante è un’altra: siamo sicuri che la via per chiudere questa pessima deriva della contemporaneità sia l’aumento geometrico della potenza di fuoco sul campo? Non stiamo viaggiando in contromano, «in direzione ostinata e contraria» a quella della via maestra per la pace, che è la risoluzione diplomatica dei conflitti? Davvero non si può più tornare a un tavolo con i protagonisti della crisi e i mediatori (immacolati o torbidi che siano) per trovare uno scambio win-win, tipo ritiro definitivo delle truppe russe in cambio del Donbass? Non sarebbe comunque più conveniente per tutti –russi, ucraini, europei – rispetto alle prospettive aperte da un passo che finirà per costare un numero di vittime inimmaginabile sul posto e conseguenze economiche sempre più sciagurate fuori dai campi di battaglia?

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