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L’arte come specchio per conoscere sé stessi

Gian Maria Tosatti ha fatto molto parlare di sé. Per la prima volta quest’anno, alla Biennale di Venezia, l’Italia ha scelto di farsi rappresentare da un solo artista, come avviene già da tempo per le altre nazioni. Le invidie, le discussioni, le critiche non sono mancate. Nei mesi scorsi è stato ospite dell’associazione «Nel –Fare arte nel nostro tempo» al LAC di Lugano, dove ad ascoltarlo c’era un pubblico numeroso. Tosatti (Roma, 1980) è oggi un artista, ma anche un giornalista e uno scrittore, oltre che neo-designato direttore della prossima Quadriennale di Roma. Pur essendosi formato nel campo del teatro – che tuttora continua a determinare il suo approccio – intraprende una carriera nelle arti visive a seguito del trasferimento a New York, dove rimane per dieci anni. Torna in Italia, stabilendosi a Napoli: qui perfeziona la sua pratica, sempre più intrecciata con il territorio: Sette stagioni dello spirito è un progetto durato quattro anni con il quale persegue la sua idea di arte fuori dagli spazi a essa convenzionalmente destinati, coinvolgendo comunità di quartieri disagiati e occupando spazi dismessi. Storia della Notte e Destino delle Comete è il titolo dell’installazione che ha presentato a Venezia. All’entrata si passa uno per volta, così da percorrere gli spazi in solitaria: il silenzio deve essere totalizzante mentre si attraversa la successione di ambienti industriali dismessi, che sembrano essere stati da poco abbandonati. Il tema portante è il fallimento della società industriale, vista tramite la ricostruzione, secca e iperrealista di spazi di lavoro vuoti, lasciati in disuso. Ad aumentare la suggestione vale il sapere che arredi e macchinari sono stati comprati da fabbriche fallite durante la pandemia, che l’artista ha studiato e fotografato in preparazione dell’intervento. Un’arte quindi che si avvale di installazioni che sono congegni esperienziali, fortemente influenzati dal teatro, e vogliono essere motore di risveglio per recuperare la perduta armonia ambientale e sociale.

Di questo e altri progetti Gian Maria Tosatti ci racconta in questa intervista.

Mi interessa approfondire la sua professionalità così diversificata, dalla performance al giornalismo, dalla curatela alla gestione culturale. In che modo questo influenza la sua pratica artistica?

La tradizione degli artisti italiani, dall’Umanesimo, al Rinascimento, fino al Novecento è fatta di figure capaci di incrociare le discipline mettendole in dialettica tra loro. Penso a Leonardo, ma anche a Bernini e Michelangelo, fino a Pasolini o Giovanni Testori. Mi pare che tutto questo sia niente di più che una sorta di DNA che attraversa tutta la parabola della storia dell’arte e che, per nessuna ragione, avrebbe ragione di interrompersi nella generazione alla quale appartengo.

Vorrei sapere qualcosa in più in merito ai progetti che l’hanno portata a dedicarsi per lungo tempo a intere città (Roma, New York, Napoli) come spazio artistico. Ne ho letto la descrizione a posteriori, ma mi piacerebbe sapere quale concetto sottende a questo genere di interventi.

In realtà cerco semplicemente di realizzare dei ritratti molto fedeli nel mio lavoro. È un modo per far rispecchiare chi guarda, aiutandolo a vedersi, a conoscersi. Ritrarre una città è quasi come ritrarre ognuno dei suoi abitanti. Questo richiede un grande sforzo di conoscenza e precisione. Per questo mi trasferisco a vivere in un luogo per diversi mesi prima di iniziare a lavorare. Devo raccogliere tutte le informazioni, osservare, cogliere le sfumature. E poi il ritratto si può cominciare a tracciare.

Al Padiglione Italia sono stata colpita dal fatto che al visitatore non fosse fornita quasi nessuna chiave di lettura. Perché avete fatto questa scelta?

Perché l’arte è uno specchio. Ognuno la attiva in modo diverso. Ognuno la usa per conoscere sé stesso. Se l’artista forza un’interpretazione taglia fuori il senso ultimo dell’opera, che è, appunto quello di aiutarci a fare una confessione a noi stessi, a dirci qualcosa che da molto tempo volevamo ammettere e non ci riuscivamo. L’opera della Biennale così ha potuto dire tante cose, come un oracolo, a ognuno che è andato da lei con la sua domanda celata nel cuore.

Per l’organizzazione della Quadriennale di Roma state facendo un enorme sforzo dedicato più in generale al sistema dell’arte. Qual è l’obiettivo di questa operazione?

L’obiettivo è semplicemente quello di dare allo Stato una istituzione in grado di poter essere funzionale agli importantissimi scopi che costituiscono la mission statutaria di Quadriennale, ossia la ricerca costante e aggiornata sull’arte italiana e la promozione internazionale

Qui a lato, l’installazione ambientale site specific «Il mio cuore è vuoto come uno specchio» – Episodio di Odessa, 2020. (Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli) In basso, Gian Maria Tosatti. (Maddalena Tartaro) dei nostri artisti. Abbiamo fatto una piccola rivoluzione nel nostro ente. Ma senza stravolgerlo. Lavorando affinché evolvesse nel solco della sua funzione. Ma un nostro obiettivo è anche quello di costituire un esempio virtuoso per l’intero sistema. Abbiamo, infatti, deciso di non essere l’ennesima struttura culturale che cerca di fare tutto, di doppiare ciò che anche altri fanno. Noi facciamo delle cose molto precise. E con questo speriamo che anche le altre strutture vengano incoraggiate a fare delle scelte, preferendo un lavoro di networking e di collaborazione organica all’autarchia culturale. Diciamo che – per usare una metafora particolarmente attuale –preferiamo il concetto di smart grid (basato sulla fiducia nell’altro e nella cooperazione) a quello di autonomia energetica.

Ci anticipa qualcosa della mostra NOw/here che aprirà il 22 febbraio all’Hangar Bicocca, la prima grande mostra dopo la Biennale? Posso dire ancora poco di una mostra che è forse la scommessa più difficile e delicata della mia carriera. Sarà una mostra in cui cercherò di fare, con gentilezza e con fermezza, una opposizione al modo in cui tutto sta scivolando verso la catastrofe. Credo molto in questo progetto. E spero che i cittadini di Lugano possano venirlo a visitare non una sola volta, ma in tutto il corso della sua evoluzione.

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