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«Lo racconterò una volta soltanto»
Memoria ◆ Simone Müller ritrae storie e vite di ebrei sopravvissuti all’Olocausto oggi di casa in Svizzera
Natascha Fioretti
Martha Tausz-Seckl, classe 1920, ebrea austriaca sopravvissuta all’Olocausto, prese l’ultimo treno da Vienna prima della Notte dei cristalli del 9 novembre 1938. Né lei, né i suoi genitori quella notte potevano immaginare che non si sarebbero mai più rivisti. Una storia che a Simone Müller, che ha incontrato Martha qualche anno fa a nord di Londra, è rimasta ben impressa e l’ha ispirata a tal punto da farne un libro che raccoglie quindici intensi e delicati ritratti di ebrei sopravvissuti al nazismo e alla Seconda guerra mondiale che oggi vivono in Svizzera. Sono l’ultima generazione rimasta, quelli che allora erano dei bambini o dei ragazzini, coloro che si pensava avrebbero dimenticato ma non è così.
«Bergen-Belsen è la mia casa», racconta Katharina Hardy, nata a Budapest nel 1928 dove a sei anni inizia a suonare il violino, a undici viene espulsa dalla rinomata Accademia Franz-Liszt e in seguito deportata prima nel campo di concentramento di Ravensbrück e poi di Bergen-Belsen. Quando i soldati inglesi arrivano a liberarla ha sedici anni e pesa 29 chili. Nell’agosto del 1945 torna a Budapest e ritrova il suo violino. Vuole riprendersi quanto le è stato rubato. Torna al ginnasio e, instancabile, suona il suo violino, «volevo assolutamente tornare all’Accademia Franz-Liszt». Ci riesce e sarà per lei il trampolino di una carriera musicale che la porta, tra gli altri, a suonare al Musikkollegium di Winterthur, nell’orchestra della Zürcher Tonhalle e dell’Opernhaus. Suona e lega con i famosi musicisti ungheresi Sandor Veress e Tibor Varga. «Se sono sopravvissuta ai campi di concentramento è anche grazie alla disciplina», una disciplina ferrea che l’ha sempre accompagnata nel suo approccio alla musica. A salvarla, oltre alla disciplina, è anche la forza di carattere, come lei stessa racconta: «Quando tornai a Budapest ero un’altra persona con un’anima incredibile. Avevo visto un mondo al contrario in cui la morte era la normalità e la vita l’eccezionalità. Da lì in avanti ho affrontato l’esistenza partendo da basi diverse. Non c’era un Dio, non c’era nulla. Solo il lavoro e il pensiero di andare avanti. Con tutta la durezza possibile. E quella durezza l’ho conservata».
La musica ha salvato anche Mark Varshavsky, nato a Charkiw nel 1933, oggi di casa a Basilea. Inizia a suonare il violoncello a sette anni, qualche mese dopo irrompe la guerra, la Wehrmacht tedesca invade l’Unione Sovietica il 22 giugno del 1941. Per fortuna in ottobre viene evacuata insieme ad altre centomila persone, tra cui la madre Rosalia Chainowskaja e il fratello, appena due settimane prima dell’arrivo dei tedeschi a Charkiw. Le donne e gli uomini ebrei rimasti indietro verranno sterminati nel dicembre seguente sul terreno di una fabbrica di trattori: trecento uomini al giorno fucilati, donne e bambini ammazzati nei camion a gas. Dopo la guerra, Mark Varshavsky intraprende la sua carriera musicale come violoncellista e si esibirà negli anni sui più grandi palcoscenici internazionali davanti a un pubblico che ignora la sua storia, non sa nulla del suo viaggio stipato sui vagoni bestiame verso il Kazakistan per scappare dai tedeschi a soli otto anni. Certo, quell’esperienza ha forgiato il suo modo di suonare, «la sofferenza si rispecchia nella musica» racconta.