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C’è chi indaga i vulcani sognando Marte
Ore 10.56 PM EDT del 20 luglio 1969. Neil Armstrong è il primo uomo a mettere piede sulla Luna. Evento noto in tutto il pianeta. Quello che in molti non sanno è che prima di arrivare a quel fatidico passo, i piloti delle missioni Apollo fecero diversi corsi di addestramento in luoghi particolari sulla Terra, come l’Islanda e le Hawaii, dove poter testare attrezzature e procedure in ambienti del tutto simili a quelli che ci si aspettava avrebbero incontrato sul nostro pianeta satellite.
Sono ancora molte le cose che non conosciamo del nostro pianeta, luoghi e creature che oggi sono oggetto di studi multidisciplinari.
Ecco perché gli astronauti «vanno a scuola» nei tunnel di lava
«Ho trascorso una decina di giorni esplorando le regioni vulcaniche attive dell’Islanda, un luogo così desolato e arido che mi sentivo come se fossi già sulla Luna. Eravamo lì d’estate e sembrava che il sole non tramontasse mai» dirà Alfred Worden, membro della spedizione Apollo 15.
E oggi la storia si ripete, in vista del ritorno sulla Luna e di future missioni su Marte.
Un team multidisciplinare e internazionale di ricercatori, speleologi, geochimici, geologi e microbiologi sta conducendo una serie di spedizioni in alcune delle aree vulcaniche più incontaminate del pianeta per indagare, in particolare, uno degli ambienti primigeni della vita sulla Terra: i tunnel di lava. Studiando le dinamiche in atto in aree isolate come Selvagen (Madeira), ma anche nelle più note Islanda e Lanzarote, i ricercatori preparano il terreno alla ricerca spaziale. Le immagini provenienti dai rover che stanno scandagliando Marte e le osservazioni della più vicina Luna, infatti, ci raccontano scenari incredibilmente simili a quelli che troviamo appunto in aree vulcaniche sul nostro pianeta.
È il caso del progetto TUBOLAN (link Video Vigea https://youtu.be/uyEJgrwKAgk), guidato dalla geomicrobiologa Ana Zélia Miller (dell’Istituto di Risorse Naturali e Agrobiologia di Siviglia – IRNAS –appartenente al Consejo Superior de Investigaciones Científicas – CSIC), che insieme a Jesús Martínez Frías (ricercatore dell’Istituto di Geoscienze all’International Geoscience Education Organisation, CSIC-UCM di Madrid) e Francesco Sauro (geologo, ricercatore, speleologo e professore all’Università di Bologna) sta studiando i microrganismi che abitano le grotte vulcaniche delle Isole Canarie, al fine di traslare e applicare le conoscenze acquisite alle spedizioni spaziali.
Questi batteri vivono in condizioni estreme, senza luce e con scarso apporto di materia organica: classificati come microrganismi chemiolitoautotrofi, sostanzialmente «mangiatori di pietre», sono in grado di utilizzare e trasformare minerali per svilupparsi e crescere.
I tunnel di lava si formano nel corso delle eruzioni, quando le colate laviche creano delle lunghe gallerie sotterranee in cui il magna continua a scorrere allo stato liquido mentre la lava di superficie si raffredda. Al termine dell’eruzione, la lava non scorre più e restano lunghe gallerie vuote, che si diramano dal cratere centrale anche per diversi chilometri. È il caso, a Lanzarote, del Tubo di Lava della Corona, nove chilometri, uno dei più grandi al mondo, che in alcuni punti raggiunge l’altezza di cinquanta metri.
Questo stesso fenomeno si è verificato anche sulla Luna e su Marte, le cui superfici risultano attraversate da innumerevoli tubi di lava: ne sono stati rilevati più di trecento sulla prima e oltre mille sul pianeta rosso. Rispetto alla Terra però, Luna e Marte sono state interessate da un’attività vulcanica più intensa, e poiché entrambi i pianeti sono caratterizzati da una minor gravità e da un’atmosfera più sottile (nulla nel caso della prima), si sono formate grotte con dimensioni ben maggiori.
Senza una zona di protezione come quella garantita dall’atmosfera terrestre, le radiazioni ultraviolette e l’impatto con micrometeoriti rendono la vita sulla superficie lunare e marziana praticamente impossibile. Agli ipotetici abitanti di Luna e Marte, ammesso che ce ne siano e qualunque forma abbiano, non resterebbe che un unico ambiente protetto dove proliferare: queste grotte di ordine vulcanico. Se la vita su altri pianeti c’è, è facilmente ipotizzabile che si trovi presso questi ambienti sotterranei.
Non è un caso dunque che i futuri astronauti o i membri delle missioni spaziali vengano inviati ad «allenarsi», testando le attrezzature e imparando a condurre campionamenti e ricerche, proprio a Lanzarote, dove sono stati attivati per loro dall’European Supervisory Authorities (ESA) corsi specifici di geologia planetaria (PANGAEA) e attività sul campo come il progetto Pangaea-X (https:// bit.ly/3XrMfvq).
Un secondo progetto, MICROCENO del 2021, sempre coordinato da Ana Miller (questa volta come ricercatrice associata del Laboratorio HERCULES – Herencia Cultural, Estudios y Salvaguardia –, dell’Università di Évora), si è occupato di investigare le cavità presenti nell’arcipelago, sia per quanto riguarda la biologia, la microbiologia, la geologia e l’analogia con ambienti extraterrestri. Si tratta infatti di grotte in rocce vulcaniche in aree protette e quindi completamente incontaminate.
La spedizione ha coinvolto ricercatori di sette nazioni (Portogallo, Spagna, Italia, Olanda, Inghilterra, Russia, Canada), mettendo in campo uno sforzo collettivo caratterizzato da un approccio tecnologico innovativo, grazie a un sistema di mappatura con tecnologie tridimensionali. Sono state individuate nuove cavità: la Furna do Suplo du Dragao (scoperta proprio dal team di ricercatori e speleologi), che si distingue per un grande lago di acqua salmastra nel quale sono state individuate numerose potenziali nuove specie di fauna anchialina, e altre otto cavità minori, solo in parte già conosciute, incluse due grotte sommerse esplorate da un team di spelo-subacquei. A completare il gruppo di lavoro due rappresentanti dell’Agenzia Spaziale Europea e un cosmonauta russo, perché lo sforzo messo in atto dal progetto è proprio quello di creare strumenti e protocolli per allenare i futuri esploratori dello spazio.
Al momento nessuna missione spaziale ha in programma di entrare in una grotta «aliena». Le operazioni dei rover si sono fino a oggi concentrate in aree che per morfologia lasciano presupporre la presenza in passato di acqua liquida, non tanto per mancanza di interesse, quanto perché il livello di tecnologia e attrezzature per affrontare questo tipo di esplorazioni non è ancora ottimale.
Eppure la fantascienza è sempre più reale. Ad oggi il drone Ingenuity, che accompagna il rover Perseverance nell’esplorazione della superficie marziana, potrebbe riservare qualche sorpresa, fino a quando la miniaturizzazione e ottimizzazione di questi dispositivi non ci condurranno «là dove nessun uomo è mai giunto prima», per chiudere con una citazione popolare.
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Lo scandalo delle camminatrici solitarie
Tra il ludico e il dilettevole ◆ Il flâneur, passeggiatore ozioso reso celebre da Baudelaire, evoca una figura d’altri tempi. Ma che ne è del suo corrispettivo femminile, la flaneûse?
In un’ipotetica storia del tempo libero, la passeggiata potrebbe tranquillamente figurare come parte di un capitolo, magari inserita in una riflessione più ampia sul camminare, oppure messa in relazione con l’ozio, con cui condivide alcune caratteristiche pur essendo un’attività che si definisce attraverso il movimento. Poi occorrerebbe aggiungere che ci sono modi diversi di passeggiare, alcuni forse più interessanti di altri. C’è chi, per esempio, fa del passeggio una sorta di hobby, trasformandolo in uno stile di vita. È il caso del flâneur, termine francese reso popolare dal poeta Charles Baudelaire nel XIX secolo e poi rilanciato dal filosofo tedesco Walter Benjamin nel XX secolo. In italiano il termine flâneur non ha un corrispettivo preciso, ma può essere indicato da un ventaglio di termini che va da «passeggiatore» –una traduzione piuttosto neutra –, a «perdigiorno», un termine che rimanda alla sostanziale assenza di vincoli e di quelli che oggi chiameremmo impegni inderogabili. Con Baudelaire è Benjamin il flâneur è inestricabilmente legato alla modernità e il suo habitat naturale è la città, in modo particolare Parigi.
Per condensarlo in un identikit, potremmo dire che il flâneur è una sorta di sfaccendato che bighellona per le vie della città, mimetizzandosi nel tessuto urbano in cui si immerge e di cui assorbe l’atmosfera, mentre esplora le emozioni e gli stati d’animo suscitati dal paesaggio. Così come ogni termine porta dentro la storia che ha attraversato, anche il termine flâneur non fa eccezione. È dunque più che legittimo interrogarsi circa il contesto socio-culturale in cui questa parola è nata e si è sviluppata, e chiedersi come mai il corrispettivo femminile flanêuse non abbia mai veramente preso piede. Ciò non significa, ovviamente, che non sia possibile identificare donne che si siano dedicate al passeggio ozioso ed esplorativo. Di converso, è lecito supporre che accanto alla celebrata e popolare storia del flâneur esista, in modo forse neanche tanto marginale, una storia della flâneuse. A scriverla ci ha pensato Lauren Elkin nel saggio intitolato Flâneuse. Donne che camminano per la città.(v. «Azione» del 7.11.22) Elkin ci racconta di alcune artiste che, attraverso discipline come la letteratura, la fotografia, e il cinema, hanno lasciato una testimonianza del loro vagabondare cittadino.
Ricostruendo una sorta di genealogia di alcune passeggiatrici illustri che include George Sand, Virginia Woolf, Martha Gellhorn, Jinx Allen, e Agnès Varda, la Elkin dedica ampio spazio anche alla nota artista francese Sophie Calle, nata nel 1953 a Parigi. Negli anni Novanta del secolo scorso, lo scrittore americano Paul Auster ne fu talmente intrigato che si ispirò a lei per creare un personaggio romanzesco: «Maria era un’artista, ma la sua attività non aveva nulla a che vedere con la creazione di oggetti comunemente definiti artistici. Secondo alcuni era una fotografa, secondo altri una concettualista, mentre altri ancora la consideravano una scrittrice, ma nessuna di queste definizioni era esatta, e alla fine non credo che si presti a essere etichettata in alcuna maniera».
«Per diversi giorni l’uomo le scattò delle fotografie mentre faceva i suoi giri, annotando i suoi movimenti in un piccolo taccuino»
Con queste parole Auster introduce Maria Turner, uno dei personaggi centrali del romanzo Leviatano (1992), prendendo spunto come detto da Sophie Calle. La caratterizzazione di Maria Turner, quel suo approccio inclassificabile alla pratica dell’arte, riassume molto bene anche lo stile di
Sophie Calle. La Calle è un’esploratrice sui generis: una a cui piace – proprio come a Maria Turner – rendere fluido, poroso e permeabile il confine fra la vita e l’arte, fra la quotidianità e la finzione.
Racconta Auster che, per una delle sue opere, Maria «assunse un investigatore privato per farsi seguire per la città. Per diversi giorni l’uomo le scattò delle fotografie mentre faceva i suoi giri, annotando i suoi movimenti in un piccolo taccuino, senza tralasciare nulla, neanche gli episodi più banali e transitori». Nella vita reale il rapporto si rovescia, ma il deambulare urbano rimane invariato: se anche nella realtà Sophie si era fatta seguire da un investigatore, allo stesso modo capita anche a lei di seguire degli sconosciuti, e di fotografarli, ricostruendone i movimenti: raccogliendo tracce, frammenti, rubando dettagli delle loro vite. In altri casi ancora, Marie e Sophie fanno la stessa cosa, si confondono, si completano e si arricchiscono. Un giorno, per esempio, trovano un’agenda anonima per strada, e decidono di rintracciare le persone che vi figurano proponendo loro delle interviste personali. Se, come ci avverte Paul Auster, Maria/Sophie non era propriamente una fotografa, e neppure una scrittrice o una concettualista, che cosa era allora? Forse era tutte queste cose, e magari qualcosa in più. Una flâneuse, per esempio: in quanto tale, Calle accumula e mette assieme diverse discipline che si integrano alla perfezione al suo girovagare artistico. E se oggi è sicuramente più facile immaginare una flâneuse che passeggia liberamente per le vie cittadine, la storia ci insegna che non sempre è stato così. Nel 1897, per esempio, la scrittrice ucraina Marie Bashkirtseff annotava, nel suo diario, quanto segue: «desidero ardentemente uscire da sola: andare, venire, sedere su una panchina al Jardin des Tuileries, e soprattutto di andare al Luxembourg, guardare le vetrine decorate dei negozi, entrare in chiese e musei, e passeggiare di sera per le vecchie strade. Ecco cosa invidio». Erano tempi in cui una donna che usciva da sola passeggiando liberamente era mal vista, e suscitava lo scandalo nei benpensanti.
Ciononostante, l’arte della flânerie al femminile non solo è resistita nel tempo, ma si è tramandata lungo una precisa linea genealogica che, idealmente, culmina con Sophie Calle e le sue contemporanee. Ma, a pre- scindere dalle loro evoluzioni e involuzioni nel tempo, le figure femminili che la Elkin ritrae nel suo libro sono comunque unite da «molte corrispondenze; tutte queste donne leggevano libri di altre donne e imparavano l’una dall’altra, e le loro letture si espandevano sempre di più in una rete così fitta da non poter essere catalogata». Per questo, continua l’autrice, «flâneuse non è semplicemente il femminile di flâneur, ma una figura di riferimento, alla quale ispirarsi, una figura indipendente (…). È un individuo determinato, pieno di risorse e profondamente in sintonia con il potenziale creativo della città, e con le possibilità liberatorie di una bella passeggiata». Rivendicando la sua libertà di movimento, conclude la Elkin, «la flâneuse esiste ogniqualvolta deviamo dalla strada che è stata tracciata per noi, partendo alla ricerca di un territorio nostro».
Bibliografia
Paul Auster, Leviatano Guanda, 1995; Lauren Elkin, Flâneuse. Donne che camminano per la città, Einaudi, 2022; Sophie Calle, Doubles-jeux, Axtes Sud (in francese), 1998.